Sono stato per la seconda volta nei sepolcri de’ Scipioni che si vanno sempre più scoprendo. Sono situati sotto una casetta da vignaiolo accanto l’antica via Appia fuori di Porta Capena dove, secondo anche osserva Cicerone nelle Tuscolane, vi erano i sepolcri de’ Metelli, de’ Servilî, e de’ Scipioni. La casetta è fabbricata sul tufo il quale è scavato in grotte sotterranee, e dentro sono collocate le urne. Le prime di esse ritrovate sono di una cattiva tenera pietra detta peperino, e le lettere non erano tampoco incise, ma scritte con un color rosso, conservato fino a nostri tempi dalla benignità della fortuna. Le altre urne che ora si vanno scoprendo hanno qualche ornato di buono stile e le lettere incise. Il senator Quirini veneziano portò via un cranio de’ Scipioni, Monsieur Dutens ha rubato un dente d’oro che porta in scatoletta avvolto nel bombace: io ho trafugato l’osso sacro di non so qual Scipione, perché i scavatori hanno confuso le preziose loro reliquie ormai disperse a forza di rubberie antiquarie; ma il nome, e la gloria rimane perpetuamente non soggetta a queste usurpazioni.
E’ una lettera che Alessandro Verri, intellettuale e scrittore milanese, scrive al fratello Pietro, fondatore de Il Caffè, il principale periodico dell’illuminismo italiano, la cui fantasia fu colpita dalla notizia del ritrovamento del Sepolcro degli Scipioni nel 1780.
In verità, la tomba era già stata ritrovata nel 1614, ma agli studiosi dell’epoca non avevano dato importanza alla notizia, che era caduta rapidamente nel dimenticatoio. Quell’anno, invece, due fratelli, i sacerdoti Sassi, proprietari della vigna soprastante, allargando la cantina della loro casa trovarono un ingresso al sepolcro. Tutto quello che era iscritto o figurato fu portato nei Musei Vaticani, ma il sepolcro, in quegli anni, divenne meta abituale per molti studiosi e visitatori che compivano il “grand tour” di Roma.
Alessandro, che all’epoca si dedicava al teatro, era scenografo e attore per diletto e fu tra i primi traduttori di William Shakespeare in italiano, fu talmente ispirato da scrivere il suo romanzo Le notti romane al Sepolcro De’ Scipioni, oggi al massimo citato come nota a margine in qualche manuale scolastico, ma all’epoca il bestseller del preromanticismo italiano, come testimoniano le decine di edizioni, le traduzioni, le imitazioni. Verri immagina di incontrare gli spettri degli antichi Romani, guidati da Cicerone, e di intrattenersi con loro sulla grandezza e la decadenza delle civiltà, le leggi e le istituzioni, la religione. In un secondo momento, abbandonato il sublime scenario notturno delle rovine sull’Appia, sarà il protagonista a condurre i fantasmi romani nella città nuova, quella “seconda” Roma cristiana che ha il suo centro in San Pietro.
Progressivamente abbandonato a se stesso, il Sepolcro degli Scipioni fu prima acquisito dal Comune di Roma, poi, tra il 1926 e il 1929, al fine di supportare la propaganda del Fascismo fu oggetto di un’ampia campagna di scavi, restauri e sistemazioni per aprire l’area al pubblico, compresa la realizzazione di un Parco (Parco degli Scipioni) nell’area retrostante, verso la via Latina.
Tornando alla sua storia antica, i membri della gens Cornelia, di cui gli Scipioni costituivano soltanto uno dei molteplici rami, avevano ricoperto importanti incarichi pubblici sin dagli inizi del V secolo a. C. La costruzione, nei primi decenni del III secolo a.C., di un sepolcro monumentale che contenesse le spoglie dell’illustre famiglia senatoria, si deve al capostipite della famiglia degli Scipioni, Lucio Cornelio Scipione Barbato, console del 298 a.C., il cui sarcofago, elegantemente decorato e iscritto, si trovava di fronte all’ingresso, sul fondo del monumento.
La scelta di collocare l’edificio funerario a poca distanza dalla via Appia, alla base di una collinetta che risaliva verso il tracciato della via Latina, non fu certamente casuale e indicò un preciso orientamento politico. La via Appia era stata infatti inaugurata nel 312 a.C. con lo scopo di agevolare e di sostenere l’espansione del dominio di Roma nell’Italia meridionale. Il suo costruttore, il censore Appio Claudio Cieco, era un convinto sostenitore della politica imperialistica romana, oltre a essere stato il primo importante uomo politico a dimostrare una netta inclinazione per il mondo greco. Appare dunque conseguente che la famiglia degli Scipioni, una delle più aperte alla cultura ellenizzante, abbia voluto costruire il suo monumento funerario in prossimità della nuova strada consolare, simbolo di quell’idea politica di espansione verso il mondo magnogreco sostenuta da un’importane fazione di famiglie nobili nello scenario politico di Roma in età medio-repubblicana.
Grazie a numerose citazioni antiche, e soprattutto a testimonianze di Cicerone, sappiamo che fu in uso fino all’inizio del I secolo a.C. e il corpo principale fu praticamente completo entro la prima metà del II secolo a.C. Si sa anche che custodiva i resti di un estraneo alla famiglia: il poeta Ennio, di cui Cicerone ci dice esistesse anche una statua di marmo. Invece nessuno degli Scipioni a noi più familiari, l’Africano, l’Asiatico e l’Ispanico fu sepolto qui, ma secondo Livio e Seneca furono inumati nella loro villa di Liternum.
Le iscrizioni sui sarcofagi permettono di datare l’uso dell’ipogeo fino al 150 a.C. circa, quando la struttura era completa e venne affiancata da un’altra stanza, di forma sempre quadrangolare ma non in asse con la prima, dove furono sepolti pochi altri membri della famiglia, non oltre comunque il II secolo a.C. Risale a quell’epoca la creazione di una solenne facciata “rupestre”. La decorazione viene attribuita all’iniziativa di Scipione l’Emiliano, ed è un fondamentale esempio di ellenizzazione della cultura romana nel corso del II secolo a.C. A quell’epoca il sepolcro divenne una sorta di museo familiare, che perpetuava e diffondeva le imprese dei suoi componenti. L’ultimo utilizzo conosciuto del sepolcro si ebbe in epoca claudio-neroniana, quando vi furono inumati la figlia e il nipote di Cornelio Lentulo Getulico, determinata dai motivi ideologici legati alla discendenza dagli Scipioni.
Il sepolcro fu parzialmente circondato da altri mausolei e tombe, tra i quali spicca un grande colombario sotterraneo a pianta rettangolare. L’ambiente era sostenuto da due grandi pilastri a base circolare, dei quali solo uno è perfettamente conservato. Sia sui pilastri che sulle pareti erano disposte cinque file sovrapposte di nicchie semicircolari, destinati a raccogliere i resti dei defunti dopo l’incinerazione in una o due olle di terrecotte per nicchia, per un totale di circa 470 defunti. Le pareti erano coperte da intonaci e i profili delle nicchie erano decorati da cornici di stucco spesso tuttora ben conservate. Al di sotto di ogni nicchia sono ancora presenti pannelli dipinti a colori vivaci (azzurro, giallo o rosso), dove dovevano trovarsi dipinti i nomi dei defunti.
Progressivamente, però si perse la memoria e la consapevolezza dell’importanza del sepolcro, tanto che, nel III secolo d.C. vi fu costruita sopra un’insula, conservato per un’altezza di tre piani e rimasto in vista fino ad oggi, riutilizzato come casale. A fianco di esso è un edificio sepolcrale di epoca tarda, nel quale si apre anche l’ingresso ad una piccola catacomba. Nel Medioevo, poi, nell’area sorse una “calcara”, ossia un vano tondeggiante scavato nel tufo e parzialmente anche negli ambienti del sepolcro, destinato alla produzione della calce mediante cottura di marmi e travertini.
Tornando al monumento, questo diviso in due corpi distinti: il principale, scavato in un banco di tufo a pianta grosso modo quadrata, e una galleria comunicante di epoca posteriore, costruita in mattoni, con ingresso indipendente. La regolarità dell’impianto fa ritenere che lo scavo sia avvenuto appositamente per la tomba, non sembra plausibile il riciclo di un’antica cava di tufo.
Il corpo centrale, questo è diviso da quattro grandi pilastri che sostengono il soffitto dell’ipogeo; sono presenti quattro gallerie lungo i lati e due centrali che si incrociano perpendicolarmente, dando all’insieme un aspetto vagamente “a griglia”.
Della facciata, rivolta verso nord-est, ci resta solo una piccola parte sulla destra, con scarsi resti di pitture. Era composta da un alto podio con severe cornici a cuscino, nel quale si aprivano tre archi in conci di tufo dell’Aniene: uno conduceva all’ingresso dell’ipogeo, uno alla nuova stanza, mentre il terzo era cieco ed aveva una funzione puramente ornamentale. Questo basamento doveva essere interamente ricoperto di affreschi, di cui rimangono solo piccole parti nelle quali sono stati individuati tre strati: i due più antichi (dalla metà del II secolo a.C. circa) presentano scene storiche, con immagini di alcuno soldati, mentre l’ultimo, più recente, ha una semplice decorazione in rosso a onde stilizzate (I secolo d.C.).
Più spettacolare era la parte superiore della facciata, dove esisteva un alto prospetto tripartito, con sei semicolonne e tre nicchie, entro le quali, secondo la testimonianza di Livio, erano state collocate le statue dell’Africano, dell’Asiatico e del poeta Ennio. L’attribuzione all’epoca dell’Emiliano confermerebbe questa struttura come uno dei primissimi esempi di edificio in stile ellenistico a Roma.
I sarcofagi erano circa trenta, collocati lungo le pareti, un numero che approssimativamente corrisponde abbastanza bene al numero di Scipioni vissuti tra l’inizio del III e la metà del II secolo a.C.
Sono di due tipi: monolitici, cioè scavati in un unico blocco di tufo, e costruiti, cioè composti da lastre accostate. Quello di Barbato era in fondo al corridoio centrale, in asse con l’ingresso principale. Gli altri sarcofagi dovettero essere aggiunti via via in seguito, talvolta addossati, talvolta in nicchie scavate nelle pareti. Nella seconda camera le tombe sono più grandi e arrivano a sembra piccole tombe “a camera”. Il più antico è, come accennato, quello di Lucio Cornelio Scipione Barbato, detto così probabilmente per la sua folta barba, che fu Fu eletto console per l’anno successivo nel 299 a.C. con Gneo Fulvio Massimo Centumalo. Mentre a Lucio Cornelio toccò in sorte la campagna contro gli Etruschi, a Gneo Fulvio toccò quella contro i Sanniti, ai quali era stata dichiarata guerra, quando non accettarono di ritirarsi dal territorio dei Lucani. L’esercito romano sconfisse quello etrusco a Volterra, dove si svolse una violentissima battaglia, il cui esito fu chiaro solo il giorno seguente al combattimento, quando i romani si accorsero che gli Etruschi, avevano abbandonato i propri accampamenti. Sulla via del ritorno, i romani saccheggiarono le campagne dei Falisci.
Il suo sepolcro, in peperino, databile al 280 a.C. fu probabilmente scolpito da un artista proveniente dalla Magna Grecia ed era l’unico ad avere un’elaborata decorazione d’ispirazione architettonica. È infatti concepito a forma di altare, con una cassa sensibilmente rastremata, con modanature in basso e, nella parte superiore, con un fregio dorico con dentelli, triglifi e metope decorate da rosette una diversa dall’altra. Il coperchio termina con due cuscini ai lati (“pulvini”) che assomigliano di lato alle volute dell’ordine ionico. Inoltre sul fianco superiore si trova scolpito un oggetto cilindrico, terminante alle due estremità con foglie di acanto.
Il coperchio presenta sulla fronte un’iscrizione dipinta con il patronimico del defunto
([L(UCIOS) CORNELI]O(S) CN(EI) F(ILIOS) SCIPIO).
Accato a questa, vi è una più lunga e più tarda, incisa nella pietra, in versi saturni. Per aggiungere quest’ultima ne venne cancellata una più antica, lunga unariga e mezzo. La nuova iscrizione era un estratto della laudatio funebris, così traducibile in italiano
Lucio Cornelio Scipione Barbato, figlio di Gneo, uomo forte e sapiente, il cui aspetto fu in tutto pari al valore, fu console, censore, edile presso di voi. Prese Taurasia Cisauna nel Sannio, assoggettò tutta la Lucania e ne portò via ostaggi
La menzione della forma del defunto, virtutei parisuma, ricorda la motivazione che portò i Romani a erigere nel comitium, durante le guerre sannitiche, le statue di Pitagora e di Alcibiade su indicazione dell’oracolo di Delfi, confermando i collegamenti tra l’ambiente romano e il mondo della Magna Grecia e della Sicilia greca.
È discussa la cronologia relativa delle tre iscrizioni (quella erasa sulla cassa, l'”elogium” ancora leggibile sulla cassa ed il patronimico dipinto sul coperchio). Secondo il Wölfflin, si dovrebbe riconoscere una triplice successione: l’iscrizione dipinta sarebbe quella originaria (databile al 270 a.C. ca.) a cui se ne sarebbe aggiunta una contenente i soli dati onomastici e le cariche (incisa sulla cassa intorno al 200 a.C.), erasa per far posto all’elogio (intorno al 190). Del tutto differente la ricostruzione proposta da Coarelli, secondo il quale la più antica iscrizione (270 a.C. ca.) sarebbe quella scalpellata, trascritta sul coperchio intorno al 190 a.C. per far posto all’elogio: questo intervento potrebbe essere stato commissionato da Scipione l’Africano.
Il sarcofago del figlio di Barbato, Lucio Cornelio Scipione, console nel 259 a.C., si trova nel corridoio centrale a sinistra della tomba paterna ed è la seconda in ordine di antichità. Come console nel 259 a.C., egli guidò la flotta romana nella conquista della città di Aleria e quindi della Corsica durante la prima guerra punica, ma fallì nel tentativo di occupare successivamente Olbia in Sardegna. I Fasti Triumphales registrano che gli fu tributato un trionfo, ma altre due iscrizioni relative alla sua carriera, tra cui il suo elogio funebre, non ne fanno menzione. L’anno seguente fu eletto censore con Gaio Duilio. Successivamente dedicò un tempio alle Tempestates, presso Porta Capena. Il fratello, Gneo Cornelio Scipione Asina, fu soprannominato così, almeno a dare retta a Macrobio, dall’acquisto di terreno o dal matrimonio di una delle sue figlie, quando dovette portare nel Foro romano un asino carico di oro.
Anche in questo caso le epitaffi sono doppie: una dipinta sul coperchio che riporta il nome e le cariche principali del defunto; una scolpita sulla cassa, come nel caso di Scipione Barbato, che riporta, in versi saturni, una parte dell’orazione funebre. Questa seconda iscrizione risale probabilmente a subito dopo la morte dell’interessato (circa 230 a.C.) ed è verosimilmente più antica della seconda iscrizione del Barbato.
Iscrizione che è una sintesi della sua carriera
A Roma moltissimi riconoscono che lui solo è stato tra i buoni cittadini il migliore, Lucio Scipione. Figlio di Barbato, fu console, censore ed edile presso di voi. Prese la Corsica e la città di Aleria, consacrò alle Tempeste un tempio, a buon diritto.
L’iscrizione a Publio Cornelio Scipione, figlio di Publio e Flamine Diale è la terza più antica, collocata nell’ultimo tratto del corridoio di sinistra. Si è ipotizzato che fosse il figlio dei Scipione l’Africano, che morì giovane, come riporta Cicerone, ma l’attribuzione non è unanimemente accettata, per le poche testimonianze a disposizione. L’iscrizione, riporta come il defunto avesse ricoperto la carica di Flamine Diale e come la sua vita fu breve. Il Flamine Diale, per chi non lo sapesse, era il sacerdote dell’antica Roma preposto al culto di Giove Capitolino, di origine antichissima, dato che doveva rispettare uno sproposito di strani tabù, tipo che poteva portare solo anelli spezzati, doveva evitare di passare sotto tralci di vite legati e non non poteva nominare né toccare capre, carne cruda, fave, edera.
Il Flamine Diale era l’unico tra i sacerdoti che poteva presenziare nel Senato con il diritto alla sedia curule, doveva portare sempre un copricapo di cuoio bianco dalla strana foggia, l’apex o albogalerus, alla cui sommità era fissato un ramoscello di ulivo dalla cui base si dipartiva in filo di lana. In più, ogni volta che pronunciava il nome di Giove, doveva alzare le mani al cielo…
I resti del sarcofago di Lucio Cornelio Scipione, figlio dell’Asiatico, composto da lastre di tufo, si trova a sinistra dell’ingresso principale. L’iscrizione ricorda il defunto, che fu questore nel 167 a.C. e tribuno militare; ricorda anche come suo padre vinse il re Antioco. A dire il vero, a vincere la battaglia fu lo zio Scipione l’Africano, che fungeva da consulente del padre; mal gliene incolse ad entrambi, visto che furono coinvolti in una tangentopoli dell’epoca, accusati da Catone il Censore di essersi fregato gran parte dell’indennità di guerra pagata dai Seleucidi.
I resti di un sarcofago in lastre di tufo, incassato in una rientranza della parete a sinistra del sarcofago di Scipione Barbato, è stato identificato, grazie all’iscrizione, con quello di Cornelio Scipione Asiageno Comato, ossia capellone, figlio del precedente Lucio. Sempre secondo l’iscrizione morì a 16 anni, verosimilmente attorno al 150 a.C. Il soprannome di Asiageno conferma la genealogia di discendenza dall’Asiatico.
La posizione del sepolcro, in una cavità scavata piuttosto in profondità a partire da un piccolo spazio residuo, dimostra come verso la metà del II secolo il luogo di sepoltura fosse già quasi al completo, rendendo necessari i primi ampliamenti.
Dietro al sarcofago di Scipione Barbato, collocato allargandone la nicchia, si trova il sarcofago di Paulla Cornelia, la moglie di Gneo Cornelio Scipione Ispallo, cugino dell’Africano e console assai sfigato nel 176 a.C., dato che durante la sua carica fu colpito da paralisi e morì a Cuma, figlio di Gneo Cornelio Scipione Calvo, soprannome che è abbastanza chiaro, che morì durante la Seconda Guerra Punica in Spagna, assieme al fratello, combattendo contro i cartaginesi. Così lo ricorda Livio
Secondo alcuni, Gneo Scipione restò ucciso sull’altura al primo assalto, secondo altri riparò con pochi in una torre vicina all’accampamento; questa fu circondata con fuochi e così fu presa dopo che ne furono arse le porte contro le quali nessun assalto era valso. E tutti quelli che vi erano furono uccisi col comandante. Così nell’ottavo anno della sua permanenza in Spagna, ventinove giorni dopo il fratello, Gneo Scipione morì.
Ispallo, era fratello di Publio Cornelio Scipione Nasica, chiamato così per il nasone degno di Cyrano di Bergerac, che fu il fondatore della città di Aquileia. Plinio il vecchio lo ricorda nei suoi scritti quando nel 204 a.C. il Senato lo designa quale cittadino più virtuoso e adatto ad accogliere ad Ostia la statua di Cibele fatta giungere dal santuario di Pessinunte per trarne favori nella seconda guerra punica e introducendo così ufficialmente a Roma il primo culto straniero.
Il successivo sarcofago, per antichità, è quello del primo dei figli dell’Ispallo, Lucio Cornelio Scipione, situato davanti al sarcofago del Flamina Diale. È composto in pietra gabina, che aveva la fama di essere ignifuga. L’iscrizione (in copia) è particolarmente lunga e riporta alcune qualità del defunto, oltre alla notazione della breve età: specifica infatti che visse venti anni e che non fece in tempo ad avere cariche.
Gneo Cornelio Scipione Ispano era il secondo figlio dell’Ispallo e, verosimilmente, di Paulla Cornelia. Il suo sarcofago, posto nell’ala nuova, è in tufo dell’Aniene. L’iscrizione è l’unica pervenutaci completa e riporta le cariche del defunto (pretore, edile curule, questore e tribuno militare per due volte, decemviro per i giudizi sulle controversie e decemviro per l’effettuazione delle cose sacre); inoltre vi viene celebrata la stirpe degli Scipioni. L’iscrizione è in distici elegiaci, un metro introdotto a Roma dalla Grecia nel II secolo a.C. dal poeta Ennio. L’ultima iscrizione ritrovata si trova nell’ala “nuova” ed è incompleta; vi si legge quasi solo il nome Scipionem. Il sarcofago è in tufo dell’Aniene.
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“Oh, Rome! my Country! City of the Soul!
The orphans of the heart must turn to thee,
Lone Mother of dead Empires! and control
In their shut breasts their petty misery.
What are our woes and sufferance? Come and see
The cypress—hear the owl—and plod your way
O’er steps of broken thrones and temples—Ye!
Whose agonies are evils of a day—
A world is at our feet as fragile as our clay.
The Niobe of nations! there she stands,
Childless and crownless, in her voiceless woe;
An empty urn within her withered hands,
Whose holy dust was scattered long ago;
The Scipios’ tomb contains no ashes now;
The very sepulchres lie tenantless
Of their heroic dwellers: dost thou flow,
Old Tiber! through a marble wilderness?
Rise, with thy yellow waves, and mantle her distress.”