Oratorio del Rosario di San Domenico

La mia gita virtuale nel complesso di San Domenico a Palermo, termina con uno dei gioielli del rococò europeo, l’Oratorio del Rosario di San Domenico, posto proprio dietro l’abside della chiesa, Via dei Bambinai nel mandamento La Loggia, nei pressi della Vucciria.

Via dei Bambinai prende il nome da due tipologie di artigiani, che vi avevano bottega e le cui entrate erano legate alla dimensione religiosa di Palermo: i crocifissari, che, come dice il nome, realizzavano crocefissi in madreperla e avorio, destinati alle cappelle nobiliari e ai conventi della città e i cosiddetti bambiniddari, che modellavano in cera statuette di Gesù bambino e di altre immagini sacre. Molti esempio della loro arte si possono trovare ad esempio nel convento di Santa Caterina.

Tornando al nostro oratorio, questo fu sede sociale de La Compagnia di Santa Maria del Rosario sotto il titolo dei Sacchi, fondata a Palermo nel 1568 sotto la guida del padre domenicano Mariano Lo Vecchio, che fondò anche l’altra compagnia omonima in Santa Cita, altro committente del Serpotta.

Nel corso degli anni, la Compagnia del Rosario divenne una delle più prestigiose compagnie della città, ed esserne membri, divenne una sorta di status symbol per facoltosi mercanti e celebri artisti, tra cui il Novelli e lo stesso Serpotta.

L’oratorio, venne realizzato a partire dal 1574, su progetto dell’architetto Giuseppe Giacalone, membro della confraternita. con successivi interventi nel 1580, nel 1610-1613, e nel 1627 (realizzazione del presbiterio). Giuseppe, da una parte si attenne all’architettura, che possiamo definire standard, di questo tipo di edifici religiosi, ossia la divisione tra antioratorio e oratorio e la facciata dimessa, che si integrava nel tessuto urbano, quasi a indicare, come nella devotio moderna, la compenetrazione tra dimensione quotidiana ed esperienza religiose.

Dall’altra, una profonda novità, che condizionerà a lungo lo sviluppo futuro dell’Oratorio, dovuta alla particolare posizione dell’aula, parallela a via dei Bambinari. Per cui, a differenza degli altri oratori, il cui sviluppo architettonico era basato su su una direzione longitudinale, Giuseppe dovette, proprio per fare sentire accolti al meglio i confrati, fare convivere due diversi assi compositivi perpendicolare tra loro: quello dell’antioratorio, caratterizzato dalla scala e dalla volta a botte schiacciata del soffitto e quello tradizionale basato sulla scansione antioratorio-oratorio-presbiterio.

Per fare convivere i due assi, Giuseppe concepì nell’antioratorio una doppia simmetria: la prima contrapponeva l’ingresso principale al Crocifisso a reliquiario, l’altra ricreava il motivo del doppio ingresso all’aula, con due finte porte sulla parete di fronte.

L’amore di Giuseppe per la classicità e per la una concezione razionale dello spazio, basata sull’euritmia e nell’equilibrio geometrico delle proporzioni, è messo in evidenza nell’antioratorio, anche dalla sistemazione del Crocifisso, in quanto l’altare è incorniciato da due colonne scanalate che sostengono una trabeazione con timpano triangolare, come in un tempio greco.

Lo spazio dell’antioratorio è quindi regolato con una suddivisione geometrica delle superfici che non può e non vuole ingannare la mente e lo sguardo: la volta a cassettoni è suddivisa da fasce che riprendono il telaio di paraste composite che, a loro volta, suddividono le pareti, con il rigore di una dimostrazione euclidea di un teorema.

Lo stesso approccio, con l’architettura che concretizza nello spazio una griglia geometrica e razionale, articolata in 2 righe e 9 colonne, determinate dalla posizione delle finestre, è presente nell’oratorio vero e proprio: obiettivo di Giuseppe era di generare un’impressione di equilibrio e uniformità, per creare uno spazio intimo da dedicare alla preghiera e alla riflessione. In più, la contrapposizione l’alzato con il suo equilibro tra forme e volumi e il contrasto con il bianco e nero, i colori dell’abito domenicano, dell’originalissima pavimentazione, realizzata in maioliche bianche e nere, tagliate a coda di pavone, portava il confrate, secondo la visione del mondo tomista a riflettere sul contrasto tra Ragione, che mostra l’evidenza delle verità della Fede e conduce alla salvezza, e la Passione, che oscurando il Pensiero, conduce al Peccato.

Approccio che fu apprezzato sia dall’ignoto architetto che, quando la Confraternita comprò il lotto adiacente all’Oratorio, progettò il presbiterio, sia da Vincenzo Marvuglia, il grande architetto neoclassico, altro confrate e autore della versione finale della facciata.

Il primo, per unire il presbiterio all’oratorio, concepì un arco di trionfo classicheggiante, a pieno centro bloccato da un ordine composito di paraste. Queste ultime, che corrono tangenti alla cornice dell’arco, si sdoppiano con una semiparasta che serve a raccordarne l’ampiezza con la base della volta. Poi progettò il presbiterio, ispirandosi a quanto realizzato nell’oratorio di San Lorenzo, un sistema simmetrico, a destra e sinistra, composto da 2 piccoli portali con timpano curvilineo, 2 balconate a serliana e 2 finestre semicircolari che inondano il vano di luce, da entrambi i lati. Infine, per dare l’illusione di uno spazio più ampio, concepì la realizzazione di un’abside in trompe l’oeil.

Marvuglia, invece, si ispirò, una ricerca di simmetria, alla facciata della vicina chiesa di San Domenico, semplificandola e riducendola alle linee essenziali: per cui concepì un prospetto in cui gli elementi di partitura in pietra si stagliano sul fondo intonacato bianco.

Due coppie di paraste composite inquadrano un portale con timpano curvilineo poggiato su altre due paraste dello stesso ordine; al di sopra della trabeazione è un mezzanino con una finestra ad arco che richiama la linea curva del timpano sottostante ed illumina l’interno dell’antioratorio; il tutto è coronato da un ampio timpano triangolare sormontato da un pilastrino con la croce.

Il problema è che questo approccio degli architetti, assai minimalista e vicino alla sensibilità contemporanea, era poco gradito ai confrati, che volendo rimanere alla moda, cercarono in ogni modo di sovrapporvi una decorazione barocca.

Per cui, con l’obiettivo di animare un poco lo spazio che ritenevano monotono, cominciarono a commissionare quadri a destra e manca: non volendo sfigurare nei confronti dell’oratorio di San Domenico, provarono a commissionare una pala d’altare dedicata alla Vergine del Rosario a Caravaggio, ma il pittore, rispose picche. Di conseguenza, si adattarono al suo allievo Mario Minniti, a cui, oltre alla Vergine, commissionarono l’Orazione nell’orto e la Coronazione di spine

Il piano originale della decorazione, però, cambiò a causa dello scoppio della peste di Palermo, causata dal viceré Emanuele Filiberto di Savoia, il Boris Johnson dell’epoca, visto le sue strampalate idee sulle epidemie.

Emanuele Filiberto aveva chiamato, per farsi ritrarre, Antoon van Dyck, il quale a seguito della quarantena e della morte per peste del Savoia, quando si dice la nemesi storica, dovette reinventarsi. Per sua fortuna, durante il suo soggiorno avvennero le complesse vicende del ritrovamento delle reliquie di Santa Rosalia e della relativa esplosione del culto.

Van Dyck ebbe l’idea di inventarsi dal nulla l’iconografia della santa sino ad allora quasi sconosciuta: concepì quindi l’immagine di una ragazza con i lunghi capelli biondi, il saio di tipo francescano che ne ricorda il romitaggio, il teschio che richiama sia la penitenza, ma soprattutto la peste cui l’intercessione di Rosalia aveva messo fine, la corona di rose e il un giglio,fiori che alludono al nome della vergine palermitana, crasi di rosa e lilium.

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Questo lo porto ad avere la ricca commissione de La Compagnia di Santa Maria del Rosario, che gli chiese una nuova pala d’altare, sempre con tema la Vergine del Rosario, in cui doveva apparire anche Rosalia, rispetto alla versione del Minniti: quadro che doveva fungere sia da ex voto, sia da strumento di marketing per attirare nuovi, ricchi iscritti al sodalizio.

Per soddisfare tale richiesta, Van Dick concepì un dipinto diviso in due registri. Nella parte alta, rappresentò la Vergine e il Bambino contornati da un gruppo di angioletti in volo. La Madonna porge a san Domenico un rosario, secondo la tipica iconografia di questo tipo di raffigurazione mariana, fungendo da elemento di congiunzione tra il registro alto e quello basso, ove, oltre allo stesso Domenico di Guzmán, compaiono altri otto santi intercedenti, in adorazione della Vergine e del Bambino.

L’identità dei santi che avrebbero dovuto essere raffigurarti da Van Dyck è indicata dal contratto del 1625: san Domenico, santa Caterina da Siena, san Vincenzo Ferrer – tre santi domenicani – poi cinque sante legate alla città di Palermo ossia santa Cristina, santa Ninfa, santa Oliva, sant’Agata, le quattro vecchie patrone della città, ovviamente, santa Rosalia, la nuova arrivata. Alla destra di santa Rosalia, vi è un bambino nudo fugge via turandosi il naso mentre guarda in direzione di un teschio, a ricordo delle vicende della peste.

Nel comporre la pala d’altare, su esplicita richiesta de La Compagnia di Santa Maria del Rosario, Van Dyck si dovette ispirare a una quadro presente nella cappella in uso alla confraternita nella chiesa di San Domenico, la Madonna del Rosario di Vincenzo degli Azani, in cui erano presenti sia i santi domenicani, sia le sante palermitane.

A questo procedente locale, Van Dick aggiunse suggestioni derivare dal suo maestro Rubens, in particolare da un opera romana, la prima versione della Madonna della Vallicella, che era nella nostra Chiesa Nuova, che il pittore fiammingo aveva riportato ad Anversa per collocarla sulla tomba di sua madre, dopo averla sostituita con una seconda versione

Quasi identico è l’arco trionfale in alto al centro di entrambi i dipinti così come la santa Oliva di Van Dyck, in primo piano sulla destra della pala (riconoscibile grazie al rametto di ulivo che ha in mano), è quanto mai prossima – per posa, fisionomia e solidità della massa – alla santa Domitilla di Rubens.

Il precedente rubensiano è però riletto alla luce della grande tradizione delle sacre conversazioni del rinascimento veneziano, da cui Van Dick riprese lo straordinario colorismo: il san Domenico della tela panormita sembra poi una derivazione dei tipi tizianeschi degli Apostoli dell’Assunta dei Frari così come il gesto della Vergine che consegna il rosario allo stesso Domenico ricorda l’equilibrio compositivo del San Giovanni Elemosinario ancora di Tiziano. Anche la schiera di angioletti che si librano in alto – dei puttini che potrebbero essere traslati in un quadro di tema classico – richiama precedenti tizianeschi.

Ora, la pala di Van Dick cambiò totalmente l’inerzia della decorazione pittorica dell’Oratorio: se all’inizio era concepita in un’ottica tenebrista e caravaggesca, per accentuare il contrasto con le pareti chiare da Giuseppe Giacalone e dare dinamicità alle pareti, dovette riconvertirsi a esplosioni di luci e di colori.

Di conseguenza, il ciclo pittorico comprese opere dallo stile differente. Sulla parete destra, vi sono i dipinti raffiguranti i Misteri dolorosi: l’Orazione nell’orto d’anonimo di scuola napoletana allievo di Francesco Fracanzano, il Cristo alla Colonna o Flagellazione di Matthias Stomer,la Coronazione di spine e la Salita al Calvario di ignoto di scuola fiamminga d’influenza caravaggesca, la Crocifissione della scuola di Antoon van Dyck.

Sulle pareti di sinistra e di fondo invece si ammira il ciclo dei Misteri gaudiosi: di Giovan Andrea de Ferrari l’Assunzione, di Orazio Ferraro la Resurrezione, di Guglielmo Borremans la Visitazione del 1727,l’Annunciazione di Giacomo Lo Verde,la Presentazione al Tempio di ignoto siciliano, la Natività attribuita a Geronimo Gerardi e di Pietro Novelli la Disputa tra i Dottori e la Pentecoste, al quale si deve inoltre l’affresco della volta con l’Incoronazione della Vergine del 1630 circa. Novelli che tra l’altro, influenzato da Van Dyck, in questo affresco modificò profondamente la sua tavolozza, passando dallo stile tenebrista del Ribera a un colorismo neoveneto.

 

Per cui, a inizio Settecento, ai vanitosi confrati, l’oratorio doveva sembrare un guazzabuglio privo di testa e di coda: per cui, per mettere un poco di ordine e aggiornare la decorazione secondo il gusto alla moda, fu chiamato nel 1710 Giacomo Serpotta, che vi lavorò fino al 1717, quando il doratore Michele Rosciano intervenne sugli elementi ornamentali e sugli attributi delle Virtù.

Giacomo dovette accettare la sfida di lavorare in una spazio già fortemente caratterizzato, oltre che dall’impostazione architettonica e dai quadri presenti, anche da una decorazione già esistente, realizzata sotto la direzione di Pietro Novelli, da stuccatori seicenteschi di minore fama, quali Giovan Battista e Nicola Russo, Leonardo Arangio, Gaspare Guercio e Carlo De Amico.

Per prima cosa, chiese una consulenza ai teologi del convento domenicano, per elaborare uno schema narrativo, che esaltasse il significato dei quadri presenti; poi studiò a fondo la pala di Van Dyck, affinché la decorazione in stucco costituisse un contrappunto e un’amplificazione del dipinto.

Infine, sfruttò l’articolazione della parete concepita da Giuseppe Giacalone, creando un ritmo decorativo del tipo a-b-a-b-a-b-a-b-a, con cui si alternano le fasce verticali di medaglione-tela e finestra-statua, basato non solo sulla variazione cromatica, ma anche su quella volumetrica, contrapponendo la linea del gruppo medaglione-tela, a quello tridimensionale della finestra-statua.

Nel primo registro, Serpotta riprese la sequenza dei santi di Van Dick, ponendo tra i quadri presenti dodici nicchie contenenti le allegorie delle Virtù cristiane, ognuna legata alla raffigurazione del Mistero del Rosario della tela posta al suo fianco.

Nella parete di sinistra sono raccontati i “Misteri Gaudiosi” (Charitas, Humilitas, Pax, Puritas, Sapientia), in quella di destra i “Misteri Dolorosi”(Iustitia, Mansuetudo, Patientia, Fortitudo, Obedientia) e nella controparete i “Misteri Gloriosi” (Victoria e Liberalitas). Le quattordici statue allegoriche, nella loro eleganza, richiamano lo sfarzoso abbigliamento della nobiltà palermitana dell’epoca. Sfoggiano pizzi e merletti, silhouettes invidiabili corredati da accessori pretenziosi, copricapi piumati e acconciature fissate da diademi, spille, e movenze da smaliziate ‘modelle’ d’altri tempi. Sono in posa, bloccate come in un’istantanea o da un deciso comando di un abile regista che dirige uno spettacolo, un vero e proprio ‘sacro teatro’ rococò. A titolo di curiosità, sul braccio della Fortezza, poi, troviamo una piccola lucertola,in dialetto “sirpuzza”, che, per assonanza con il suo cognome, veniva utilizzata dall’artista per firmare le sue opere.

Poi, trasformò le cornici in stucco delle tele in una sorta di piedistalli, che ospita putti che giocano in pose precarie e fantasiose, sostenendo drappi, stemmi e cartigli dorati, in cui è citato il salmo biblico di riferimento del quadro sottostante: una composizione che esalta il virtuosismo dell’artista, citando gli angeli del quadro di Van Dick.

A sua volta, a completamento della ricostruzione della griglia architettonica originale, a sua volta integrata e sconfessata, in funzione di un ricercato effetto emotivo, nel secondo registro, tra una finestra e l’altra, Serpotta pose per sovrastare i putti, al posto dei consueti teatrini, grandi ovali contornati da ricchi festoni, nei quali sono raffigurate in altorilievo episodi dell’Apocalisse (tra i quali spicca la plasticità del corpo del diavolo che precipita dopo essere stato cacciato dal Paradiso) e due dell’Antico Testamento, legati ai Misteri del Rosario di cui sono l’anticipazione ideale.

Gli ovali di sinistra, guardando l’altare, rappresentano: Gli eletti adorano l’Onnipotente, l’Adorazione dell’ Agnello, Visione della donna che sconfiggerà la bestia, Il Redentore con la Tiara, La Città Santa. Gli ovali di destra, sempre guardando l’altare, rappresentano: L’angelo porge l’Apocalisse a San Giovanni, Lucifero incatenato dall’angelo, Gli anziani adorano il Redentore, Gli angeli segnano la fronte delle donne, L’Agnello e il libro dei sette Sigilli. Nella controfacciata: La scala di Giacobbe a destra, Abacuc trasportato dall’angelo a sinistra.

Altrettanto impegnativo, fu l’intervento nel presbiterio: per prima cosa Serpotta fece sostituire il vecchio altare con un nuovo, realizzato da Gioacchino Vitagliano su suo disegno, i cui colori, contrastando con la tonalità tra ocra e oro, utilizzata nella parte alta della parete di fondo, accentuava sia la tridimensionalità delle figure in stucco, sia l’effetto illusionistico della finta abside.

Poi accentuò l’effetto illusionistico della pala di Van Dick, vi affiancò la Divina Provvidenza e la Divina Grazia, che riprendono le pose delle sante presenti nel dipinto e putti, che invece citano gli angeli che affiancano la Vergine e il Bambino.

Sopra la cupola sovrastante l’altare, si trovano altri putti alati eseguiti dal Serpotta che sorreggono un drappo; nonché gruppi di dame e cavalieri che si affacciano appoggiati ad una balaustra, quasi ad assistere a uno spettacolo, citando un invenzione del Bernini, altra riprova della suo possibile soggiorno romano nella giovinezza. A quanto pare, Serpotta utilizzò come modelli per questi stucchi i suoi famigliari, tanto che, nella composizione, si può notare lo stesso artista in abito della compagnia del Rosario con il figlio

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