San Giovanni in Oleo

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Superata Porta Latina, andando in direzione Centro, si incontra il tempietto di San Giovanni in Oleo, realizzato, secondo la tradizione nel luogo dove Secondo quanto narra lo scrittore romano Tertulliano (155 ca. – 230 ca.) nel De Praescriptione Haereticorum (fine del II secolo), si cercò di martirizzare san Giovanni apostolo, immergendolo, per ordine dell’imperatore Domiziano, in una vasca d’olio bollente, posta all’interno di un tempio dedicato a Diana.

Così racconta la vicenda la Legenda Aurea di Jacopo da Varagine

Quando gli apostoli dopo la Pentecoste si separarono, lui [Giovanni Evangelista] andò in Asia, dove fondò molte chiese. Quando l’imperatore Domiziano venne a conoscenza della sua fama, lo fece venire a Roma e lo fece buttare in un recipiente di olio bollente, immediatamente davanti alla porta Latina: ma Giovanni ne usì illeso, come era rimasto estraneo alla corruzione della carne. L’imperatore, visto che anche così non desisteva dalla predicazione, lo mandò in esilio nell’isola di Patmo, dove nella completa solitudine scrisse l’Apocalisse

Sul luogo in cui secondo un’antica tradizione avvenne tale episodio furono erette in epoca paleocristiana, intorno al V secolo, la basilica di San Giovanni a Porta Latina ed un martiryum di forma circolare conosciuto con il nome di San Giovanni in Oleo cioè “nell’olio” con riferimento al supplizio del santo. Alcuni studiosi, anche mancano evidenze concrete, ritengono come l’edificio originale fosse in realtà un antico mausoleo pagano ristrutturato.

Il tempietto fu probabilmente restaurato intorno al XII secolo, come testimonia l’iscrizione sovrastante il suo ingresso, che ricorda le reliquie che vi erano custodite

Quivi bevve il calice del martirio Giovanni, che fu degno di scegliere i verbo del Signore. Quivi il proconsole lo fustiga con la verga e lo rade con le forbici; quivi l’olio bollente lo corrode invece di offenderlo. E quivi si conservano l’olio, la caldaia, il sangue e i capelli, che furono conservati a te, o inclita Roma!

In ogni caso, a inizio Cinquecento l’edificio doveva essere alquanto malridotto, tanto che fu ricostruito nel 1509 su commissione di Benoît Adam, prelato borgognone sceso in Italia al sguito di Carlo VIII dopo la pace di Blois e nominato Auditore di Rota da Giulio II, come ricordato dal suo motto presente su una delle porte,

“Au plaisir de Dieu”

che tradotto sta per

“A Dio piacendo”

Il progetto del tempietto è stato attribuito da vari studiosi ad Antonio da Sangallo il giovane, Baldassarre Peruzzi o Bramante. Ora, nel 1509 Antonio aveva appena cominciato il suo apprendistato nel cantiere di San Pietro ed era più noto come legnaiolo (faber lignarius) come risulta da diversi documenti e come appaltatore di piccoli lavori edili. Inoltre l’edificio non è in linea con la ricerca architettonica che all’epoca stava portando avanti Peruzzi, impegnato nei lavori della villa Farnesina di Agostino Chigi.

Per cui, pare probabile l’intervento del buon Bramante, il che potrebbe essere confermato da due elementi: da una parte, il tempietto è in linea con la ricerca architettonica che Donato aveva portato avanti a Milano, in cui più volte, ispirato da San Lorenzo, aveva affrontato il tema di edifici sacri a pianta ottagonale, come la sacrestia di Santa Maria presso San Satiro. Dall’altra, nelle sue linee generali, il tempietto riprendeva l’impostazione del sacello milanese di Sant’Aquilino, in un’ottica di recupero dell’architettura paleocristiana.

L’aspetto cinquecentesco del tempietto, dalle fonti iconografiche dell’epoca, consisteva in una chiesa ottagonale coperta a padiglione, con lesene doriche piegate sugli angoli che reggono una trabeazione con tre fasce di architrave e un fregio semplificato, senza metope e triglifi.

Probabilmente il tempietto fu già restaurato alla fine del ’500, alterando il progetto originale, e affrescato proprio nel corso della campagna di restauri apologetici degli anni della Controriforma. Non vi è alcuna menzione contemporanea riguardo agli affreschi, ma nel 1630 dovevano trovarsi in loco da qualche anno, essendo già, a questa data, quasi del tutto scoloriti. Una Visita Apostolica del 1630 testimonia poi lo stato di decadenza in cui l’intero complesso versava, con il tempietto minacciato dall’umidità.

Le cose cambiarono nel 1657, grazie al cardinale il cardinale Francesco Paolucci, nobile forlivese legato all’ambiente oratoriano ed allievo di Cesare Baronio, a cui era stato affidato il titulus della vicina chiesa di San Giovanni a Porta Latina.

Ora, nel 1596 Cesare Baronio, costretto, pena la scomunica, ad accettare il cappello cardinalizio, aveva scelto come suo titolo la chiesa dei SS. Nereo ed Achilleo proprio perché povera, diroccata e disdegnata da tutti nonostante il suo alto valore storico. Subito ne aveva intrapreso il restauro, compiendo così un’opera di rivalutazione della testimonianza del primo Cristianesimo parallela a quella eseguita con la redazione del Martyrologium.

Paolucci decise quindi di imitare il maestro, facendo le cose in grande: per prima cosa, affidò i lavori di restauro di San Giovanni in Oleo a Borromini, che nel mettere mano al progetto, si ispirò alla Torre dei Venti di Atene.

L’architetto barocco si dedicò a modificare la copertura a cupola a padiglione, aggiungendo un tamburo, che decorò con un fregio a stucco con festoni di rose e palme, ispirato alla decorazione che aveva realizzato per il fregio del Battistero Lateranense. Sopra al tamburo poggiò poi una copertura conica terminante con 8 foglie di palma ritorte e gigli, un globo di sei rose (emblema della famiglia del committente ), e una croce. Nel 1967 la cuspide fu sostituita da un calco a tasselli in gesso dall’architetto Paolo Marconi e l’originale fu posto sotto il portico della chiesa di S.Giovanni a Porta Latina, dove tuttora si trova. Infine, per celebrare papa Alessandro VII, pose sopra l’ingresso ingresso che si apre verso porta Latina lo stemma papale e un’iscrizione celebrativa.

Terminato il restauro del Borromini, Paolucci si occupò anche dell’interno, commissionando nel 1661 a Lazzaro Baldi, talentuoso allievo di Pietro da Cortona, un ciclo di affreschi dedicato alle storie di San Giovanni.

Un ulteriore restauro fu poi commissionato alla fine del Seicento da Stefano Augustini, cardinale titolare di S.Giovanni a Porta Latina a un ignoto architetto, che diede al tempietto l’aspetto attuale.

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