Le domus di Mediolanum

domus

La coesistenza tra diversi popoli e culture nella Mediolanum romana, di cui ho parlato la settimana scorsa, si è evidenziata anche nello sviluppo dell’edilizia privata. Ai tempi della fondazione del municipium, a differenza delle città dell’Italia e della Magna Grecia, anche a causa anche della predominanza dell’elemento celtico e della carenza di pietra, i materiali di costruzioni più usati erano la paglia e il legno.

Con lo sviluppo economico della città, le cose cambiarono progressivamente: da una parte la presenza di liberti e di immigrati provenienti dal Mediterraneo Orientale, portò alla necessità di realizzare una sorta di edilizia intensiva, con le insule, equivalenti ai nostri condomini. Ovviamente, non essendoci i problemi di sovrappopolazione che affliggevano la Roma dell’epoca, in cui fu addirittura realizzato una sorta di grattacielo, l’insula Felicles (citata anche dall’apologeta Tertulliano), che attirava l’attenzione di tutti, per la sua maestosità, a fianco del Pantheon e della Colonna Aurelia, questi edifici a Mediolanum era di altezza contenuta.

Considerando come termine di paragone i resti trovati in altre città delle Gallie, le insule di Mediolanum erano caseggiati di 70 m x 80 m che avevano un’altezza massima, consentita dal piano regolatore di Augusto, di 33 m, corrispondenti a 5-6 piani fuori terra.

Dall’altra, la nascita di una borghesia di imprenditori, portò alla anche alla costruzione di una serie di domus, meno ricche e grandi rispetto a quelle del resto d’Italia, erano paragonabili alle nostre villette a due piani, ma con specifiche peculiarità, legate alla condizioni ambientali. Pur essendo fornite di atrio, dotato al centro di una vasca e/o di un pozzo per la raccolta dell’acqua piovana, il peristilio, il giardino associato alla casa, non risultava essere molto diffuso.

In compenso, era diffusissimo il riscaldamento centralizzato, realizzato tramite il sistema ad ipocausto, costituito da un forno associato al praefurnium, un canale che convogliava il calore al di sotto del pavimento dell’ambiente da riscaldare, che, a sua volta, era tenuto sollevato da terra da una serie di pilastrini in laterizi, quadrati o circolari (pilae). L’aria calda poteva essere convogliata anche nell’alzato attraverso un’intercapedine tra parete e muro, in cui venivano inseriti dei tubuli.

I muri, per la carenza di pietra, erano costruiti con filari alternati di ciottoli di fiume e laterizi legati da malta, oppure secondo la tecnica “a sacco”: il nucleo interno in conglomerato di ciottoli e malta era rivestito da un paramento esterno a filari di laterizi e/o ciottoli. In più a causa del terreno paludoso, era utilizzata una particolare tecnica per realizzare le fondazioni, con un sistema di bonifica detto “trincea a strati”, formato appunto da strati pressati ed alternati di limo, ghiaia con frammenti di intonaco, malta e frammenti laterizi, allo scopo di consolidare il terreno e tenere lontana l’umidità.

Quale sono, per quello le principali domus più o meno visitabili di Milano, oltre quella da poco inaugurata sotto il Policlinico ? Comincio da quella che visitai in occasione delle giornate di Primavera del FAI, quando feci da guida volontaria (sì, è un manicomio, per l’italica incapacità di comprendere il concetto di fila e tempi contingentati)

Tra il 2002 e il 2003 è stato portato alla luce una domus al di sotto di Palazzo Carmagnola, in via Broletto 7, dove è il Piccolo, luogo che pare pulluli di fantasmi, in un’area che anticamente era in prossimità delle mura.

L’abitazione, orientata secondo il tracciato del cardo massimo (nordest/sud-ovest), venne costruita in età augustea ed era dotata di almeno cinque ambienti con pavimentazioni e pareti decorate: di un vano si sono conservate le tracce del pavimento realizzato creando uno strato di calce e scaglie di pietra bianche, lisciato e abbellito da tessere nere disposte a formare un disegno geometrico. Successivi interventi e diverse modiche indicano che la casa venne utilizzata sino all’età tardoantica.

Dalle vetrate nel cortile di Palazzo Carmagnola sono visibili i vani musealizzati nei sotterranei. Si può osservare la presenza di un ambiente più grande, riferibile al I secolo d.C., con il pavimento in tessere bianche e nere, di cui accennavo prima. Ad esso si affianca un secondo vano, verso sud, riscaldato a ipocausto, di cui si conservano ancora le pilae.

Ad esso era collegato il praefurnium, tramite un archetto, poi crollato, che lasciava spazio al condotto per l’aria calda: si possono osservare le tracce nere della combustione. Il riscaldamento si estendeva anche alle pareti dell’ambiente tramite tubuli. Nel secondo vano si trova una canaletta di scarico relativa all’ipocausto, realizzata con frammenti di mattoni sesquipedali.

Una seconda domus è visibile all’interno del Civico Museo Archeologico: essendo via Magenta una delle principali strade commerciali della Mediolanum romana, le dimore borghesi tendevano a concentrarsi in quell’area.

Nella domus del Museo, sono stati riconosciuti tre diversi momenti di realizzazione, a partire dalla metà del I secolo d.C.: gli ambienti della domus più antica erano di dimensioni ridotte, con lati lunghi tra i 2 e i 4 metri. Poco è rimasto della decorazione pavimentale del vano settentrionale, costituita da uno strato di malta lisciata rosa (colore dovuto all’abbondanza di elementi fittili nella matrice di malta).

Sono stati ritrovati inoltre alcuni frammenti di pittura policroma con tracce di disegni geometrici e vegetali che, insieme ai reperti ceramici, inquadrano l’uso di tali ambienti ad età flavia. Alla fine del I secolo d.C. l’abitazione fu profondamente ristrutturata. L’ambiente musealizzato nei giardini del Museo si distingue per le maggiori dimensioni (di almeno 4 x 5 metri) e per la decorazione del pavimento bianco, ottenuto con l’uso di scaglie di calcare bianco mescolate a calce e abbellito da un reticolo di tessere nere. Oltre al pavimento, al momento dello scavo venne trovata ancora in situ la decorazione parietale, uno dei rarissimi esempi per Milano.

L’ultimo periodo di vita dell’abitazione è noto attraverso i resti di due ambienti risalenti agli inizi del III secolo d.C. Resti dei pavimenti e delle decorazioni parietali sono stati recuperati negli strati di distruzione: si tratta di frammenti di cementizio rosso decorato da crocette bicrome (bianche e nere) e da lacerti di intonaci colorati, lastrine marmoree e stucchi dipinti.

Nell’area di via Morigi, poi sono stati rintracciati muri e pavimenti di case di età romana: facevano parte di un quartiere abitativo di alto livello, poi sostituito dal palazzo imperiale. Uno degli ambienti ritrovati era riscaldato col sistema ad ipocausto, con pilae di sostegno (via Morigi 13). Un altro vano, ritrovato in via Morigi 2A nel 1949 e nel 1954, conserva un raffinato pavimento costituito da uno strato di calce e scaglie di pietra pressati (cementizio), decorato in superficie da inserti di pietre colorate, inquadrati lungo i bordi da una cornice a tessere bianche e nere. Nell’allestimento del mosaico è stata ricomposta anche la preparazione, in cui si riconosce il vespaio con ciottoli di fiume. Il vano e la domus a cui apparteneva erano orientati secondo l’andamento di una strada secondaria di età romana. L’edificio può essere datato al I secolo a.C-inizio I secolo d.C.

Negli anni Settanta in via Olmetto-vicolo San Fermo furono portati in luce alcuni ambienti di una ricca domus, decorati da pavimentazioni, alcune delle quali sono oggi musealizzate in un vano sotterraneo accessibile da via Amedei 4, sotto Palazzo Majnoni d’Intignano. È stata riconosciuta una casa risalente alla fine del I secolo a.C. o agli inizi di quello successivo, con vani decorati da mosaici in bianco e nero, di cui due frammenti sono esposti nel vano sotterraneo: uno di essi ha un prezioso bordo che rappresenta le mura e le torri di una città. Nello stesso quartiere sono stati messi in evidenza diversi ambienti riferibili a questo periodo e che potrebbero appartenere ad un unico edificio o ad un’unica insula.

Per circa tre secoli gli ambienti furono mantenuti in uso, fino a quando nel IV secolo d.C. venne costruita una nuova e grande domus. Di un ampio ambiente (24 x 6 metri), si conserva parte di un mosaico, ricollocato nel sotterraneo moderno rispettando l’orientamento originale. Attigua vi è un’autorimessa che, tra l’altro, venne interessata da un incendio nel 2002, lasciando fortunatamente incolume il mosaico.

Il mosaico costituisce uno dei rari esempi di soggetto figurato ritrovato a Milano. La decorazione musiva permette di comprendere come fosse distribuito internamente lo spazio, suddiviso in tre settori o pannelli.

Il primo rappresenta due cerbiatti, uno in piedi e l’altro accovacciato, affrontati e separati da ciuffi d’erba; gli animali sono racchiusi in un elegante riquadro e di certo vi si trovavano, intorno, altri elementi. Il secondo presenta una decorazione geometrica interrotta al centro da una scena con amorini alati raffigurati mentre pescano in un mare pieno di pesci. L’ultimo invece consiste in un grande tappeto musivo in cui prevalgono motivi geometrici; vi si individuano una serie di otto ottagoni e quadrati, che contengono elementi ad intreccio, Nodi di Salomone, ma anche un fiore a quattro petali ed una ulteriore gamma di soggetti dalla possibile valenza simbolica, oltre che meramente decorativa; tra ottagoni e quadrati si interpongono croci intrecciate.

L’ambiente è stato interpretato in due modi distinti: l’ipotesi tradizionale è che si tratti di una sala da banchetti. Negli ultimi anni, vista l’utilizzo di simboli cristiani e la somiglianza della decorazione con quella della prima basilica patriarcale di Aquileia, ha fatto sospettare che si tratti di una sorta di ambiente privato per lo svolgimento delle assemblee liturgiche cristiane.

A questi mosaici, si affiancano, altri lacerti di mosaico provenienti da scavi della stessa zona: quello proveniente da via Amedei 8 è realizzato interamente a tessere bianche disposte a filari rettilinei. Due mosaici da piazza Borromeo appartengono a due strutture differenti: il primo a tessere bianche e nere abbelliva il vano di una domus di I secolo d.C., obliterata tra ne III e inizio IV secolo d.C. dalpalazzo imperiale. A quest’ultimo è invece da riferire il secondo mosaico a motivo geometrico policromo

Infine, nella prima metà del I secolo d.C. non lontana cinta muraria venne edificata una domus i cui resti sono musealizzati sotto Piazza Duomo in prossimità dell’ingresso sotterraneo del Museo del Novecento. In base a quanto portato in luce durante gli scavi del 2008-09, gli ambienti erano disposti attorno ad un cortile con vasca interrata, rivestita da malta idraulica per renderla impermeabile. Un particolare accorgimento è da notare nella tecnica delle fondazioni dotate di un nucleo (composto da frammenti di mattoni e ciottoli legati da malta) e di un paramento a corsi regolari di ciottoli, alternati a rare file di laterizi.

L’alzato era invece interamente in mattoni. La casa subì diversi rifacimenti tra II e III secolo d.C., dei quali sono testimonianza nuove murature, pavimentazioni e resti di intonaci. In età tetrarchica venne tamponata una soglia che metteva in comunicazione due vani: la tamponatura presenta una tecnica tipica a partire da questo periodo, con filari di laterizi disposti normalmente di costa, alternati a filari a spina di pesce. Si venne così a creare un ambiente isolato, riscaldato col sistema di suspensurae a “T” (cioè con pilastrini circolari e quadrangolari), ben conservato in situ.

Della decorazione del pavimento soprastante rimangono alcune impronte nella malta di allettamento: si tratta di una composizione geometrica in opus sectile con quadrati alternati a rombi. Alle pareti si sviluppava invece una pittura con zoccolo a imitazione del marmo giallo, chiamato appunto “giallo antico”

Santa Maria in Tempulo

Santa-Maria-Tempulo

Qualche mio amico e conoscente, negli ultimi anni, si è sposato civilmente nella chiesa sconsacrata di Santa Maria in Tempulo, alle pendici del Celio, attratto dalla bellezza del luogo e dal fatto che, rispetto al Campidoglio, offre un minimo in più di riservatezza.

Tuttavia, molti di loro ignorano la lunga e affascinante storia di questo luogo, a cominciare dall’indirizzo. Via Valle delle Camene è una strada che ripercorre l’antico tracciato iniziale della via Appia e il suo nome ricorda quattro dee arcaiche dell’Antica Roma: Egeria, Carmenta, Antevorta e Postvorta.

Egeria, l’amante e consigliera del rex, ricordiamo le tante leggende che la legano a Numa Pompilio, il cui nome richiama ager (la terra da coltivare) e agger (il terrapieno di difesa), era forse la personificazione arcaica della Città e simbolo della concordia, probabilmente sempre auspicata e poco messa in pratica, tra le gens latine e sabine e del buonsenso ed equità nel governare.

Antevorta (=che guarda avanti) e Postvorta (=che guarda indietro) erano in origine le dee della preveggenza e della memoria, trasformate, in tempi molto antichi, nelle protettrici del parto,invocate perché il feto si presentasse nella giusta posizione (con la testa in avanti), e fosse salvato se si presentasse al contrario

Carmenta, l’ultima delle Camene, da cui si faceva derivare il termine “carmen”, (=canto, racconto epico, poesia), rilevò il ruolo oracolare di Antevorta e Postvorta, per poi trasformarsi progressivamente, nell’equivalente romano delle Muse greche, come mostra l’incipit della traduzione romana dell’Odissea, scritta da Livio Andronico

Virum mihi, Camena, insece versutum

ossia il nostro

Cantami, o Musa, di quell’uom dal multiforme ingegno

Le Camene erano venerate anche come l’inventrici dell’alfabeto latino. Il loro sacello, in cui era proibito indossare abiti ed oggetti di pelle, era proprio accanto alla nostra Santa Maria in Tempulo. Iconograficamente erano rappresentate con una corona di fave ai capelli e con un’arpa a simboleggiare le capacità profetiche. Al culto di Carmenta era preposto il flamine carmentale ed in suo onore, l’11 gennaio, si festeggiavano i Carmentalia con offerte di latte e acqua; in tale occasione, le Vestali venivano ad attingere l’acqua per i loro riti da una fonte sacra, posta al centro dell’Area Apollinis, un’ampia piazza porticata.

A questa festa, successivamente, si aggiunse il 15 gennaio come secondo giorno di festa voluto dalle matrone romane per onorare la dea che le aveva favorite nella loro battaglia contro il Senato che aveva proibito loro l’uso delle carrozze. Per non essere costrette a casa o ad estenuanti camminate, le donne si coalizzarono negando ai propri mariti il piacere dei sensi finché le agitazioni e le proteste costrinsero il Senato a tornare sulle sue decisioni.

Nel II secolo a.C. il loro sacello, colpito da un fulmine e quindi reso nefas, fu inizialmente ricoverato nel tempio di Onore e Virtù, poco distante, fu trasportato all’interno dell’adiacente complesso del tempio di Ercole delle Muse (Aedes Herculis Musarum), costruito nel 187 a.C. da M.Fulvio Nobiliore dopo il suo trionfo sugli Etoli, ed ornato con opere d’arte (come le statue di Ercole e delle Muse) prese come bottino di guerra nella città di Ambracia. Il Tempio di Ercole era circolare, con un pronao tetrastilo. Sorgeva su un alto podio esteso sia a nord del tempio, dove formava un’esedra, che a sud dove inquadrava una tholos dedicata proprio alle Camene.

L’area, nella Tarda Antichità, fu progressivamente abbandonata, finché, alla fine del VI secolo, quando una comunità religiosa basiliana di lingua greca, di probabile provenienza palermitana, secondo la tradizione Panormos era la città di origine della madre di papa Gregorio I, si installò tra i resti dell’Area Apollinis, costruendo un primo oratorio dedicato a sant’Agata.

Il primitivo oratorio svolgeva probabilmente funzione di diaconia: trovandosi infatti giusto a ridosso della via Appia, ben si prestava all’accoglienza dei pellegrini provenienti da sud e dall’Oriente. Nell’ 846 l’oratorio fu coinvolto nel saccheggio dei saraceni, ma ciò non fermò la fortuna del monastero: nel 905 papa Sergio III emanò una bolla in cui conferma al conferma al Monasterium Tempuli delle proprietà sulla via Laurentina, a patto che le monache recitassero cento volte al giorno il Kyrie Eleison e il Kristi Eleison.

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Nel frattempo, la chiesa divenne uno dei primi santuari mariani di Roma per un’icona bizantina che rappresentava la Madonna, donata da un monaco in fuga da Costantinopoli, a causa delle disputa iconoclastica. Icona che all’epoca fu considerata un’icona miracolosa perché si diceva impallidisse nei giorni della Passione, ma soprattutto perché acheropita, ovvero non dipinta da mani umane ma calco del corpo di Maria quando ancora in vita si appoggiò ad una colonna della chiesa eretta in suo onore a Lydda.

In realtà, ha probabilmente un ruolo importantissimo nella Storia dell’Arte: il soggetto, la Vergine Haghiosoritissa, ossia la Madonna Orante, rappresentata mentre prega con le mani giunte o con le braccia alzate, lo stile e le caratteristiche del supporto e dei colori ha portato in anni recenti diversi bizantinisti a identificarla con l’icona conservata sull’altare maggiore della basilica costantinopolitana della Theotokos Chalkoprateia, fatta erigere da Teodosio II, il più importante santuario mariano della città assieme a quello delle Blacherne, che sorgeva nell’antico quartiere giudaico dei lavoratori del rame, a pochi passi dalla Santa Sofia – una vicinanza tale che permetteva ad entrambe di essere servite dallo stesso clero.

Sappiamo dalle fonti storiche dell’epoca, che, per salvarla dalla furia del basileus Leone III Isaurico, fu portata di nascosto a Roma; con il tempo se ne erano però perse le tracce. Secondo una leggenda del secolo XI, sempre papa Sergio III tentò di portarla in Laterano, in cambio della tenuta su via Laurentina, ma l’icona miracolosamente sarebbe tornata da sola nel Monastero.

Nel 977 è documentata per la prima volta la denominazione di monasterium Sanctae Mariae qui vocatur Tempuli, mentre bisogna attendere sino al 1155 perché compaia ufficialmente anche una ecclesia S. Mariae in Tempuli; il titolo di chiesa pubblica, in sostituzione di oratorio (che comunemente indica una chiesa privata), è sintomo di un rinnovamento non solo edilizio ma anche del ruolo svolto dall’insediamento religioso nella zona. Tale rinnovamento si data tra il 1035 e il 1155, sulla base dei documenti e delle murature. Nel campanile, di cui sopravvivono soltanto due lati inglobati nella muratura dell’edificio, mostra resti di muratura stilata a falsa cortina, che si data alla fine dell’XI secolo. Il monastero in questo periodo risulta avere molte proprietà; tra XI e XII secolo dobbiamo collocare il suo periodo di massimo splendore.

Come raccontato la scorsa settimana, le cose cambiarono con l’arrivo di San Domenico a Roma, tanto che il 25 aprile del 1221 Onorio III con una bolla soppresse definitivamente la comunità di Santa Maria in Tempulo, affinché le sue monache si trasferissero a San Sisto Vecchio, dove rimasero per 356 anni, sino al trasferimento a via Magnanapoli. Nel 1931, le monache si trasferirono a Monte Mario, portando con loro l’icona, conservata nell’Oratorio del Rosario, in via Alberto Cadlolo, 51.

Con l’allontanamento delle monache dal monastero di Santa Maria in Tempulo termina la fase religiosa di questo complesso che subì l’ultimo colpo di grazia nel giugno del 1312, quando le truppe dell’imperatore Enrico VII di Lussemburgo lo saccheggiarono: non a caso, nel Catalogo di Torino del 1320 la chiesa di Santa Maria in Tempulo è infatti ricordata come distrutta e senza più occupanti.

Nella seconda metà del sec. XVI, Filippo Buocompagni, cardinale di San Sisto, progetta di elevare sulle rovine di Santa Maria in Tempulo una grande chiesa sui cui muri dovevano essere dipinti i miracoli attribuiti all’icona della Madonna; ma tale progetto non andò in porto; intorno al 1570, un privato rilevò i resti della chiesa, trasformandola in una villa suburbana tanto che, nella pianta del Tempesta del 1593 sul sito del monastero compare una costruzione con logge nascosta tra gli alberi.

Le cose cambiarono ulteriormente a fine secolo: tra il 1581 e il 1586 Ciriaco Mattei aveva deciso di rinnovare la vigna sul Celio venuta in dote alla moglie, servendosi di Giacomo del Duca, allievo del Michelangelo, e di altri architetti. Il progetto comportò la costruzione di un edificio e la sistemazione di un parco dotato di ricchissimi arredi, secondo il gusto dell’epoca. E fu probabilmente proprio all’inizio del Seicento, nel quadro dei lavori promossi dai Mattei, che la chiesa (o, per meglio dire, l’abitazione sorta sui suoi ruderi) fu annessa nelle loro proprietà e trasformata in un ninfeo, che, però, fu presto abbandonato.

Negli appunti del Nolli del 1739, propedeutici alla stesura della sua pianta, l’edificio appare descritto come un malmesso fienile: solo nel 1927 lo Hülsen vi riconobbe quanto rimaneva dell’antico e glorioso monastero. Fu forse questo il motivo per cui nel 1935 (quando iniziarono i lavori per l’apertura della Passeggiata Archeologica) l’edificio si salvò, invece di essere demolito come altre preesistenze medievali della zona. Anzi, in tale occasione l’edificio fu consolidato con contrafforti sui lati sul fronte nord‐ovest; furono inoltre chiuse le aperture del fienile, furono eretti due muri interni con arcata ogivale e fu aperto un lucernario sul tetto.

In seguito a tale restauro, fu data in uso gratuito per uso artistico; ospitò infatti lo studio degli scultori Michele La Spina, Francesco Sansone e Ugo Quaglieri fino al 1985. Dopo una decina d’anni di abbandono, fu fatte restaurare dal sindaco Francesco Rutelli, diventando così una delle sedi di celebrazione dei matrimoni civili.

Bramante, Peruzzi e il Duomo di Carpi

Carpi

Come accennato la settimana scorsa, abbiamo un’indicazione di massima sulle idee che Bramante aveva elaborato per soddisfare le manie di grandezza di Leone X, grazie al Duomo di Carpi, progettato da Peruzzi nel convulso periodo tra l’inverno del 1514 e la primavera del 1515, ossia tra la morte di Giulio II e quella di Donato. Duomo che, nonostante le alterne vicende di cui stato soggetto, mantiene ancora all’interno l’impostazione spaziale concepita dall’architetto senese.

Peruzzi, ispirato dal dibattito che si era sviluppato tra Bramante, Giuliano da Sangallo e Fra Giocondo, concepì un edificio che a prima vista potrebbe apparire come una una basilica a tre navate con croce latina inscritta e crociera voltata a cupola, ma che, a uno sguardo più attento, risulta essere scomposto in due sezione distinte, ma tra loro correlate: il presbiterio, concepito come uno spazio centralizzato con una cupola principale e quattro ambienti minori sulle diagonali, il famigerato quincunx, e la zona basilicale, con tre navate divise da binati di pilastri e con due file esterne di cappelle laterali. Ossia, una versione ridotta del famigerato quarto progetto bramantesco, dato che l’architetto senese, a differenza di Donato, aveva stringenti vincoli di costi e di tempi realizzativi e non poteva lasciare ai posti eventuali patate bollenti.

Tuttavia, nell’osservare l’edificio del Peruzzi, possiamo intuire come Bramante avesse intenzione, nella sua San Pietro, di far dialogare questi due elementi distinti, dando così all’osservatore l’illusione di rapportarsi con uno spazio unico.

Il presbiterio, a prima vista, apparirebbe come un’entità autonoma e autoreferente, grazie al vano quadrato su cui si imposta la cupola, che pur essendo all’incrocio tra la navata ed il transetto, ha il lato maggiore della loro identica larghezza; tuttavia, grazie allo smusso dei quattro piloni che reggono il tamburo, questo si espande in tutto lo spazio, diventando il centro irradiante della basilica.

I due bracci laterali del transetto e la cappella maggiore, inoltre, terminano con tre absidi, a sottolineare la presenza di un impianto centralizzato, ma il braccio della cappella maggiore è più lungo di una campata, sia per poter assorbire la larghezza del vano adiacente dei due ottagoni delle sagrestie, imitando quanto proposto da Giuliano di Sangallo per San Pietro, sia come retaggio dell’annosa vicenda della Cappella Julia.

L’interconnessione tra i due spazi è poi affidata all’ordine architettonico e al sistema delle coperture. Da una parte, infatti, un unico ordine di lesene avvolge, proporziona e unifica visivamente tutte le pareti interne del Duomo. Dall’altra, il sistema di copertura intende sottolineare come gli spazi fluiscano con coerenza l’uno nell’altro, in un sistema però fortemente gerarchizzato.

Lo spazio delle volte a botte della navata centrale e del transetto si espande improvvisamente nel loro punto di intersezione, generando il tamburo e la cupola: al contrario, sui due lati della navata centrale, la grande volta, ispirandosi alle riflessioni di fra Giocondo, in una sorta di modello frattale, genera un sistema di archi, volte a vela e controvolte a botte, che si conclude nelle cappelle laterali, agendo “in diminuendo” dal centro della navata maggiore alla periferia.

Rispetto al quarto progetto di Bramante, però Peruzzi introduce significative varianti, ispirate dalle precedenti proposte di Donato, quelle rifiutate da Giulio II, a cominciare dal sistema di sostegno della cupola, basato su su sostegni disposti radialmente, come nel secondo e terzo progetto, dove viene sperimentato (e verificato in pianta e con piccoli studi prospettici) sotto forma di colonne libere, disposte di volta in volta a tholos o semplicemente addossate ai pilastri angolari.

Questa soluzione, naturalmente, mantiene il suo significato anche variando la forma del sostegno, tanto da venire ripresa sotto forma di semicolonna nel progetto di Giulio Romano per San Giovanni dei Fiorentini e in quello elaborato nel 1520 circa da Antonio da Sangallo il Giovane per la chiesa di San Marco a Firenze.

La corona di colonne a sostegno del tamburo, che a Bramante serviva per rendere la crociera predominante rispetto alle navate e a isolare la Cappella Julia, nelle mani di Peruzzi, aiuta ad accentuare la gerarchia spaziale dell’edificio, imitando una soluzione sperimentata più volte da Brunelleschi nel Quattrocento. Soluzione meditata più volte da Peruzzi, come nel progetto ideale per una cupola ellittica per il Duomo di Siena

Nel progetto per Carpi, però, l’adozione di lesene giganti a sostegno della cupola non è comprensibile se non alla luce della particolare conformazione dei pilastri angolari cui sono addossate. La curvatura convessa dei pilastri riprende, sovvertendolo, il tema dei pilastri smussati adottati da Bramante per la cupola di San Pietro.

Si tratta di una soluzione spaziale al problema del vano cupolato che viene immediatamente ripresa da Raffaello in Sant’Eligio agli Orefici e da Antonio da Sangallo il Giovane nel progetto per Sant’Egidio in Cellere. Peruzzi, in questo caso, riflette su due esempi antichi di organismi a spazi convessi, ossia Oratorio della Croce in Laterano e la sala maggiore della Piazza d’Oro in Villa Adriana.

A Carpi, Peruzzi sperimenta come tutti questi elementi, utilizzati come parte di un’unica strategia progettuale, possano concorrere alla creazione di uno spazio assolutamente inedito nell’architettura del Rinascimento. Infatti, l’ordine gigante di supporto alla cupola la isola, esaltandola, rispetto al resto dello spazio della chiesa; questo stesso spazio, compresso dai pilastri convessi, appare come introiettato verso il centro della cupola, creando una tensione dinamica tra due spinte contrapposte.

In entrambi i modelli antichi utilizzati da Peruzzi per i pilastri convessi, inoltre, lo spazio mistilineo centrale genera spazi ausiliari disposti sulle diagonali: esagonali nel caso dell’Oratorio, circolari nel caso di Villa Adriana. L’uso da parte di Bramante di spazi centrici accessori (cappelle, sagrestie, campanili) situati concentricamente sulle diagonali del quincunx era già stata sperimentata nel Santuario di Loreto (dove dagli anni Sessanta del Quattrocento lavorano, tra gli altri, Giuliano da Maiano e Giuliano da Sangallo) e nel Duomo di Pavia (anni Novanta del Quattrocento).

Il tema degli ambienti secondari disposti radialmente è di origine antica, affrontato ad esempio nelle Terme di Diocleziano, era stato indagato da Francesco di Giorgio e successivamente dallo stesso Leonardo, ed aveva trovato la più approfondita sperimentazione nei progetti bramanteschi per San Pietro. Nel passaggio però da uno schema prevalentemente centralizzato ad uno misto, Bramante semplicemente
elimina due dei quattro ambienti periferici.

Il tema diventa di scottante attualità proprio nel 1515,quando, con la morte di Bramante, il dibattito sulla prosecuzione del cantiere vede Giuliano da Sangallo opporre alla soluzione adottata da Raffaello, dove i due ambienti sono spostati verso gli spigoli dell’edificio, due varianti del quarto progetto, in cui le due sagrestie centriche sono risolte come ambienti parzialmente estradossati rispetto al corpo dell’edificio.

Nel progetto per Carpi, Peruzzi risolve il problema in modo interlocutorio: la sopravvivenza e la posizione delle due sagrestie è il risultato di un adattamento di un impianto centrico ad uno basilicale; eliminando due dei quattro ambienti virtualmente irradianti dal centro della crociera, i due superstiti impongono l’allungamento di una campata del braccio del coro cui sono addossati, una soluzione che a San Pietro, nell’ipotesi del mantenimento del vecchio coro di Rossellino non avrebbe potuto essere adottata. Gli ambienti delle sagrestie di Carpi, d’altronde, mantengono una loro autonomia spaziale, sottolineata dalla loro facies antichizzante, con il richiamo a spazi centralizzati a doppio livello come, per esempio, il Mausoleo di Sant’Elena sulla via Labicana.

Se il quarto progetto Bramante rimane il modello di base per il Duomo di Carpi, le varianti sono significativamente basate proprio sul riuso dell’antico. La riduzione delle cappelle laterali a semplici nicchie rettangolari e la mancata adozione dei deambulatori nelle absidi riconduce tutto il fianco laterale della chiesa ad una planimetria molto vicina a quella della basilica di Massenzio

Tale soluzione, che combina la coerenza complessiva dell’impianto con una monumentale semplicità e un esplicito richiamo al modello antico; per questo, avrà una grande influenza sull’architettura successiva, particolarmente negli impianti chiesastici raffigurati da Serlio nel Terzo Libro e nell’opera di Andrea Palladio che, con la chiesa di San Giorgio Maggiore a Venezia ne farà un modello tipologico per l’architettura ecclesiastica della Controriforma.

Anche la soluzione adottata per la facciata, ricostruibile in modo attendibile grazie alla veduta di Nasi e alla testimonianza pittorica di Ludovico Carracci risente del dibattito su San Pietro. Il tema del doppio campanile, che fin dal “piano di pergamena” evidenzia la sua derivazione dal modello tardo antico di San Lorenzo Maggiore a Milano, rimarrà una costante dei progetti bramanteschi per San Pietro come un sistema di inquadramento visivo della cupola a grande distanza.

Nel disegno U5A, associato da Frommel ad una idea bramantesca risalente al 1506, i campanili delimitano un portico di accesso alla chiesa secondo un sistema che era già stato proposto per il santuario di Loreto, per la piazza di Vigevano e per quella fiorentina della Santissima Annunziata. Il richiamo è quello del foro all’antica, ma la sistemazione medievale di piazza San Marco a Venezia e il quadriportico con la facciata tra due campanili di Sant’Ambrogio a Milano erano due esempi più recenti e ben visibili.

L’adozione, da parte di Peruzzi, di un portico potrebbe anche essere un’implicita critica alla soluzione del pronao in facciata, che Raffaello adotta per San Pietro nel 1515 e Serlio raffigura nel 1540; la sua preferenza a questo sistema di accesso alla chiesa sarebbe anche testimoniata nei progetti per San Pietro nel 1531-34, quando l’architetto senese sarà chiamato a dirigerne il cantiere.

Parilia

Parilia

I Parilia erano la seconda della feste arcaiche, legate al mondo rurale, che, dopo i Fordicidia, veniva celebrate a Roma in Aprile. In particolare, la sua data coincideva con il dies Natalis dell’Urbe. Nonostante l’ovvia derivazione da parĕre “partorire” già nota agli antichi, il nome di questa festa romana deriva da Pales dea della pastorizia, detta anche diva Palatua, che aveva un flamine (fl. Palatualis) e un’offerta sacrificale (Palatuar) proprî.

La dea Pales si trova concepita anche sotto forma maschile: probabilmente i due formavano una coppia, in analogia a parecchie delle divinità dei prisci latini, come sembra potersi dedurre dalla festa dei due Pali (Palibus II) che si trova registrata al 7 luglio nel Calendario anziate precesareo.

La festa aveva due forme rituali leggermente dissimili, una urbana (che si svolgeva a Roma) ed una rurale. Ovidio ci dà una descrizione di entrambe in sequenza, cominciando dal rituale della festa in Roma. Nel rito urbano si eseguiva una lustrazione sull’ara di Vesta colla partecipazione della vestale più anziana che vi bruciava profumi e poi vi mescolava cenere di vitello (sacrificato nelle precedenti Fordicidia), sangue di cavallo (il cavallo di destra della biga vincitrice della festa dell’equus October dell’anno precedente) e steli di fave.

Nella versione rurale descritta di seguito il pastore spruzzava d’acqua il gregge, scopava l’ovile e lo ornava di fronde. Bruciava poi fronde d’olivo, zolfo, erbe sabine e fronde di lauro stillante d’acqua con fiaccole. Offriva poi latte, miglio e pizze di miglio a Pale. Doveva quindi recitare quattro volte una preghiera in cui si domandava venia al nume per l’infrazione di interdetti operata dal pastore stesso o dal suo gregge e se ne chiedeva l’intervento per placare le divinità offese per avere:

«violato luoghi sacri come alberi, erba di tombe, boschi interdetti;
tagliato fronde di boschi sacri;
essersi rifugiato col gregge in templi per sfuggire il maltempo;
aver turbato laghi e fonti cogli zoccoli degli animali.
Visto esseri divini (Fauno, Diana, ninfe ed ogni altro nume dei luoghi selvaggi anche ignoto) obbligandolo con ciò a fuggire.»

La preghiera doveva esser recitata rivolti ad Oriente. Poi il pastore doveva lavarsi le mani, bere latte e sapa (bevanda preparata dalla bollitura del vino) ed infine saltare tre volte tra le stoppie incendiate.

Di fatto, tutti questi riti erano riconducibili a un’arcaica forma di lustratio, il rito con cui si purificava dalla sua colpa chiunque compiva un’azione che turbava l’ordine primigenio, lo stato antecedente alla civiltà, in cui l’Uomo viveva in armonia con la Natura. Ora, per la strana mentalità dei prisci latini, il nascere, l’intraprendere una nuova impresa, il costruire una casa erano tutte attività che rientravano in tale tipologia di violazione, soggette quindi a una pubblica espiazione.

Con l’evoluzione della vita urbana e la sostituzione progressiva del concetto di nefas, tutto ciò che non era lecito compiere, in quanto vietato dai Numi, con quello dell’iniustum, violazione della legge positiva umana, il rito di espiazione si trasformò in uno di buon augurio.

Ad esempio, si eseguiva una lustratio in occasione della nascita di un bambino: in quel giorno, detto dies lustricus, tutti coloro che avevano toccato la madre si lavavano solennemente le mani e si imponeva il nome al neonato. Per cui, le Parilia erano le lustratio delle nuove greggi.

Tornando alla mentalità arcaica, era ovvio, che la trasformazione di un gruppo di villaggi distribuiti in un territorio sparso in un centro urbano unitario, doveva essere percepita come somma violazione dell’ordine naturale, da espiare con grandi cerimonie da ripetere ciclicamente. Per cui, i Parilia, da rituale dei pastori, divenne per estensione un rito civico.

Successivamente, quando tra i clan dominanti dei latini e dei sabini di raggiunse una sorta di compromesso, basata sulla condivisione del potere, la cerimonia divenne una metafora dell’unità raggiunta: da una parte il rito comprendeva elementi derivati sia dalla Fordicidia, la cenere di vitello, che era la festa tribale dei sabini, sia dall’October Equus, il suo equivalente presso i latini.

L’October Equus, per chi non lo un sacrificio animale in onore di Marte, che si celebrava il 15 ottobre, in coincidenza con la fine della stagione agricola e delle attività militari. Il tutto cominciava con una corsa di bighe, che si svolgeva a Campo Marzio.

Al termine della gara, il cavallo di destra della biga della squadra vincente era trafitto mediante una lancia, il flamine marziale, e quindi sacrificato. La testa (caput) e la coda (cauda) del cavallo erano tagliate ed asportate e utilizzate separatamente nelle due fasi successive delle cerimonie: due quartieri mettevano in scena una lotta per il diritto a mostrare la testa, mentre la cauda da poco tagliata era portata alla Regia per alimentare il fuoco sacro di Roma.

Un rito antichissimo, di ascendenza indoeuropea, in cui da una parte si celebrava Marmar, Marte, che all’epoca era il dio sommo dei Latini, il garante dei confini, delle leggi e del fluire delle cose, dalla creazione alla distruzione, ossia per usare un termine indiano, del Dharma. Dall’altra invece, assicura la protezione del Dio al rex e alla sua gens.

Questa trasformazione della lustratio in una celebrazione dell’unità cittadina, provocò la differenziazione tra i Parilia urbani e quelli rurali, ulteriormente accentuata nell’epoca etrusca, quando la riscrittura in chiave tirrenica delle origini della città, fece parzialmente perdere il senso originario di quelle festività.

San Giovanni in Venere (Parte II)

Dopo avere raccontato la complessa storia dell’abbazia di San Giovanni in Venere, vi compio una piccola visita virtuale, tanto in questi giorni ancora non si può fare altro…

Cominciamo dall’esterno. La facciata principale rivolta ad ovest, fu realizzata nel 1225-1230 sotto l’abate Rainaldo, anche se la struttura era stata completata in parte all’epoca di Oderisio II, per quanto riguarda le sculture del portale della Luna. La facciata presenta un coronamento a salienti, concluso da un timpano al di sotto del quale si trova una cornice a gola, sostenuta da un ordine di archetti semicircolari poligonali. Un’altra cornice a gola, che rimanda alle caratteristiche degli edifici cistercensi, e dunque realizzata nella metà del XIII secolo, taglia orizzontalmente il prospetto all’altezza della linea d’imposta della lunetta del portale. Ancora una cornice, eseguita nel periodo di Rainaldo, dà al portale un coronamento trilobato con pinnacoli laterali.

In corrispondenza delle navate laterali si aprono finestre polilobate e in alto, sotto il timpano centrale, c’è una bifora centrale decorata da archetti trilobati, che illuminava la navata maggiore, il che rende la facciata molto simile a quella dell’ordine mendicante dei Domenicani a Teramo. Nella parte bassa a nord-est si trova il dossale della tomba dedicata all’abate Oderisio: il monumento ha 5 cornici digradanti all’interno delle quali è inserito una sorta di dittico marmoreo, contenente un’incisione dell’epigrafe commemorativa, in cui è attestato il nome dell’esecutore Rigerio

Affascinante è il portale principale, detto Porta della Luna, così chiamato perché, durante il solstizio d’estate, è raggiunto dalla luce del sole al tramonto che illumina il presbiterio e la cripta. La Porta del Sole è, invece, rappresentata dalle aperture presenti nelle tre absidi, attraversate dai raggi solari durante il solstizio d’inverno.

In origine la decorazione prevedeva: due ante marmoree, al fianco del portale, decorate con storie del Battista ed episodi dell’Antico Testamento (Daniele nella fossa dei leoni – Profeta Abacuc trasportato per i capelli da un angelo e una lunetta con la rappresentazione di San Romano, San Benedetto, e San Rainaldo. In una fase successiva, la decorazione della lunetta fu sostituita con la Deesis, il Cristo in maestà tra la Vergine e il Battista.

La decorazione originale, nel suo aspetto complessivo ricorda l’opera di mastro Nicolaus, uno dei pochi scultori romanici di cui è rimasto il nome, che all’epoca era una sorta di grande star, sia per la sua capacità di eseguire un mix di diverse spunti culturali, dall’arte classica a quella islamica e bizantina, sia per la sua grande capacità narrativa, in cui episodi della Storia Sacra, della vita di Santi e exempla moraleggianti era reinterpretati secondo l’ottica e l’esperienza dei suoi contemporanei: insomma, ai nostri giorni, sarebbe stato definito postmoderno.

Nicolaus era per i suoi tempi un giramondo, ha lavorato nel sud della Francia e in tutto il Nord Italia, e alquanto vanitoso, dato che aveva l’abitudine di firmare le sue opere: il fatto che non sia presente il suo nome nelle sue sculture di San Giovanni in Venere e che non vi siano prove che si sia spinto in Abruzzo, fa ipotizzare come queste siano opera di qualche suo allievo. E’ certo infatti che Nicolaus guidasse una bottega assai numerosa, che lo supportava nel portare avanti la sua attività imprenditoriale.

Al contempo, la Diesis è successiva di almeno un paio di generazioni, dato che bene o male nella teatralità delle espressioni, quasi preannuncia lo stile gotico. Il prospetto meglio conservato e maggiormente integro dell’esterno della chiesa, per quanto riguarda l’uso dei materiali è quello a nord-est, che presenta nella zona corrispondente alla navata centrale, un apparecchio murario a conci irregolari. L’intervento fu messo in pratica durante il governo del commendatario Latino Orsini, per ricostruire l’abbazia dopo il terremoto del 1456, che aveva danneggiato le navate laterali e il chiostro del monastero. Il tratto sopra le navate laterali presenta un partito decorativo assai interessante: una cornice a gola percorre l’intera parete all’altezza del piano d’imposta degli archi delle finestre. Ai lati delle finestre la cornice sostiene esili colonnine che raggiungono l’elegante coronamento costituito da una serie di mensole decorate che sorreggono archetti pensili, al cui interno sono scolpiti fiori, stelle, croci.

Le aperture sulle pareti della navata centrale sono delle monofore, caratterizzate da semplice arco a strombatura; le decorazioni murarie sono lacunose nel prospetto sud-ovest, forse per il fatto che questa parte fu danneggiata dal terremoto del 1456. Tale terremoto dovette danneggiare anche l’antica torre campanaria rettangolare, di cui resta integra la base, insieme al corpo centrale. La parte superiore con i tre archi per le campane è stata realizzata dopo la seconda guerra mondiale, già prima, come dimostrano delle fotografie storiche, il campanile era stato arrangiato con la decorazione di una sola piccola vela.

A testimoniare la dimensione di frontiera tra diversi mondi di San Giovanni di Venere, vi è l’area absidale, trilobata, in linea con una lunga tradizione del Sud Italia, che parte dagli edifici bizantini della Calabria e della Puglia e raggiunge il culmine con le chiese normanne della Sicilia, come Monreale o la Cattedrale di Palermo.

La configurazione dell’impianto interno, con assenza di transetto sporgente e successione di archi su pilastri, mostra una sua derivazione dall’abbazia romanica di Montecassino, come era stata configurata durante il governo di Desiderio. San Giovanni in Venere è impostata su uno spazio longitudinale molto ampio, dettato dalle esigenze religiose, diviso in tre navate da pilastri, il cui utilizzo al posto delle colonne rispecchia una scelta comune a molte chiese benedettine abruzzesi, come San Clemente a Casauria, rispondono sia a caratteri estetici, mirante a creare un effetto plastico, che ad esigenze di sicurezza, a causa della sismicità dei vari territori della regione, tra cui anche la val di Sangro.

L’abbazia non utilizza i pilastri a sezione orizzontale quadrata, come ad esempio in San Clemente a Casauria, preferendola sezione cruciforme, come fece anche la fabbrica di San Pelino a Corfinio, i pilastri presentano basi modanate con tori, scozie e listelli diversamente articolati.

La stessa suddivisione si ritrova in funzione delle decorazioni dei capitelli, che mostrano varie soluzioni sia di ornato che di raccordo ai pilastri. Alcuni capitelli sono a dentello, tortiglione e listello, elementi tipici benedettini; in San Giovanni sono però resi in maniera più semplificata, rispetto a San Liberatore a Majella. Ciò può essere considerato un elemento a favore dell’impostazione planimetrica voluta da Desiderio per i cenobi benedettini dipendenti da Montecassino. Di interesse anche la presenza di archi a tutto sesto nella navata destra e di archi a sesto acuto nella navata sinistra; questi sono a doppia ghiera, soluzione diffusasi in Abruzzo nella fine del XII secolo, come in San Clemente a Casauria.

Con scopo di conservare omogeneità, la doppia ghiera è stata inserita solo verso la navata interna e non verso la centrale, dove erano previsti archi a tutto sesto. Nella navata centrale al di sopra delle cornici dei pilastri, si notano semicolonne pensili impostate su “culots”, tipico elemento borgognone, che svela l’intervento di maestranze cistercensi; la collocazione però è insolita, poiché negli esempi francesi sono sempre al di sotto delle cornici del primo ordine di semipilastri.

Nella cripta invece, sono riutilizzate parzialmente le colonne del precedente tempio di Venere. Questa, della tipologia a oratorio, si articola in due navate trasversali di cinque campate ciascuna: le tre centrali più piccole in corrispondenza dell’abside centrale, le due laterali più grandi in corrispondenza delle absidi laterali. Le volte sono a crociera mentre gli archi, poggianti su colonne, alcune delle quali di spoglio, sono a tutto sesto e a sesto acuto. Lungo le pareti perimetrali corre uno stretto bancale su cui poggiano delle semicolonne, affiancate da un doppio piedritto verticale, che raccordano le arcate cieche e le volte a crociera.

L’ipotesi di riferire la cripta alla fondazione di Trasmondo II è stata esclusa in quanto la zona presbiteriale della basilica si sovrappone perfettamente alla terminazione triabsidata della cripta, la quale può quindi verosimilmente ritenersi di età oderisiana; il parato murario esterno delle absidi, alla cui altezza corrispondono le arcature della cripta, sembra mostrare, però, tracce di fasi costruttive diverse. Difficilmente, inoltre, sarebbe spiegabile al principio del XI secolo la presenza dell’arco acuto, probabilmente da ricondurre all’intervento cistercense ampiamente riconoscibile nell’alzato della chiesa superiore.
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Gli affreschi, restaurati nel 1969, si trovano nelle absidi: in quella centrale, una Maiestas Domini e i Santi Giovanni Battista e Benedetto si sviluppano intorno al profilo della finestra, mentre più a destra si trova la composizione con la Madonna con il Bambino in trono tra i santi Michele Arcangelo e Nicola. Altri due affreschi occupano le absidi laterali: in quella di sinistra Cristo in trono e i santi Vito e Filippo e in quella destra, Cristo in trono tra i santi Giovanni Battista e Evangelista su un lato
e Pietro e Paolo sull’altro.

La decorazione fu realizzata in circa ottanta anni, dal 1210 al 1290 e mostra tutta la rapida evoluzione della pittura in quel secolo. La Maiestas Domini è senza dubbio il più antico e risente del clima culturale bizantino che porterà negli anni successivi alla cosiddetta Rinascita Paleologa, in cui la tavolozza di colori si arricchisce, le figure perdono la loro ieraticità e si da relativamente più rilievo ai paesaggi e alle architetture.

Nella figura del Cristo tra San Vito e San Filippo si vedono invece influenze del primo cantiere di Assisi, in cui lavorarono Torriti e Cimabue, mentre il Cristo in trono è riconducibile all’esperienza della grande pittura del Cavallini in Centro e Sud Italia

Aula Viridis

Il poeta e viaggiatore arabo-andaluso Ibn Jubayr, quando visitò Palermo, oltre a rimanere impressionato dalla Martorana, racconta come entrato in città dalla Bab al-abna’, la Porta Aedificiorum, i cui resti sono stati rinvenuti negli scavi sotto le Sale del Duca di Montalto del Palazzo dei Normanni, prima di raggiungere la Galka e prendere la Via Tecta, la strada porticata fatta erigere dagli Altavilla, a imitazioni di quelle di Costantinopoli, la sua attenzione fosse attratta da un antico edificio.

Si tratta dell’Aula Viridis, la Sala Verde, forse l’Aula Regia ricordata dal Falcando, uno spazio adibito alla sosta temporanea di viaggiatori. Qui il re riceveva gli ospiti, gli ambasciatori e le alte personalità e sempre qui solevano tenersi i sontuosi banchetti ricordati nelle fonti.

Il poeta di corte di Ruggero II, l’arabo Abd ar-Rahman bin Muhammad al-Butiri, ossia nato a Butera, la definisce mal’ab, ossia un luogo utilizzato per adunanze e spettacoli, risalente ai tempi antichi. Stesso termine che il geografo arabo Idrisi utilizzava associato all’anfiteatro di Termini Imerese o al Teatro di Taormina.

Da queste scarne informazioni, possiamo dedurne due cose: che fosse posta dove è la nostra Villa Bonanno, antistante al Quartiere degli Spagnoli e che fosse un edificio di epoca classica, risalente ai tempi di Panormus.

Che oltre a scopi di rappresentanza, l’Aula Viridis fosse utilizzata anche come sede di assemblee pubbliche, ci è noto dal racconto dell’avventuriero e mercenario catalano Ramon Muntaner, che dopo avere combattuto tra gli almogaveri di Roger de Flor, ritiratosi a vita privata, decise di scrivere una cronaca delle vicende che lo avevano visto testimone

Ricordando un suo soggiorno palermitano del 1283, Ramon così racconta

“Sindachi e Deputati, magnati e cavalieri si radunarono nella gran Sala verde, dov’era stato eretto un soglio per la reina e per altri per gli infanti, pe’ magnati e cavalieri; tutti gli altri indistintamente si assisero per terra, dove erano stati distesi arazzi”

Tuttavia, nonostante la continua frequentazione, sappiamo che prima della metà del XIV sec. la grande sala minacciava rovina. Un documento del 1340 si rivolgeva a Re Pietro II affinchè intervenisse, riparando i guasti dovuti ad un rovinoso crollo che coinvolgeva anche ambienti limitrofi

vicesimo secundo die mensis octobris Intantis VIII indictionis una pars tecti dicte sale viridis quod a diu ruinam inesse veraciter pretendebat cecidit et ectiam due trabes ejusdem sale que erant Juxta trabes que de mandato benignitatis serenissimj regis clare memorie reveretissimi genitoris vestri fuerunt in eodem tecto de bnovo posite sunt propter dictum casum prostrate et (o ad) sale viridis locj Regij famosissimj per orbis climata divultgatj deformationem et suj tanti nominis detrimentum…

Il re aragonese, per tenere buoni i sudditi palermitani, decise di finanziare il restauro, ma poco dopo, un incendio, provocato dagli scontri tra i filocatalani e i latini, ossia gli indipendentisti, danneggio tutto il complesso nel 1348, tanto che uno degli ultimi atti del giovane re Ludovico d’Aragona prima di morire di peste fu l’ordine di riparare sia la Sala Verde, sia la Cappella Palatina. I lavori furono commissionati a tale Ughetto “de mediolano” e l’Universitas palermitana chiese che il denaro per il restauro venisse trovato dalla confisca dei beni dei colpevoli.

Nel Quattrocento, anche per la diminuita importanza delle assemblee popolari nella gestione cittadina, l’interesse per la Sala Verde scemò notevolmente e l’edificio divenne una comoda cava a cielo aperto. Tra il 1445 e il 1456 si datano alcuni documenti conservati nei Registri della Conservatoria del Real Patrimonio, nei quali si stabilivano concessioni in relazione a “… la vindicioni di la petra di la sala viriti di lu palazzu di la dicta chitati…”. Nel 1447 pietre vennero cavate e concesse ai monaci Carmelitani per la costruzione del monastero di S. Antonio e nel 1468 un cospicuo quantitativo di materiale fu usato per il cimitero dell’Ospedale Maggiore.

Nel 1554 il complesso fu definitivamente demolito, per favorire la costruzione dei bastioni, concepiti per difendere Palermo da un eventuale attacco turco. Così Fazello si lamentava di tale decisione

largo, spatioso, e tanto grande, che si potevano far dentro spettacoli e giochi, e già i Re facean quivi le concioni al popolo. Tutto il pavimento era fato di marmo, e ‘l muro, che lo circondava verso mezzogiorno, era al mio tempo tutto intero, e vi si vedea dentro una meravigliosa grandezza di sassi, et una bellissima antichità di Palermo, ma la poca considerazione, e la ignorantaggine dei ministri del Re, sono state cagione della sua rovina, perocché l’hanno rovinato per servirsi di quei sassi nella fabbricadelle nuove muraglie, il che fu l’anno 1549,come se la città di Palermo non havesse dentro e
fuori le cave delle pietre da potersene servire in così fatti bisogni.

La piazza del detto Theatro al mio tempo s’arava, e si zappava et i contadini spesso s’imbattevano in qualche bella lastra di marmo. Ma l’anno 1554 fu tutta quanta insabionata e col cilindro fatta uguale e spianata.

Ma cosa era in origine la Sala Verde? Basandosi sulle testimonianze arabe verrebbe da pensare come fosse una sorta di Odeon o di Teatro dell’antica Panormus. Ipotesi rafforzata dal fatto come tali edifici, in epoca medievale, fossero usati come sedi di assemblea e dalla facilità con cui avvenne il recupero di marmi e pietre, il che farebbe pensare come l’edificio fosse realizzato in muratura e autoportante, come il Teatro Marcello.

Il fatto poi che l’area centrale sia stata colmata con sabbia potrebbe fare pensare che almeno parzialmente esso potesse sfruttare un naturale declivio, cosa che non stupirebbe affatto data la frequenza di tale accorgimento anche nell’edificazione dei teatri romani.

Tuttavia non abbiamo idea di quanto sia affidabile la testimonianza di Fazello poiché lo storico visitava la Sala in un periodo in cui l’ambiente era largamente in rovina, mutilato e lontano, nella forma, dall’aspetto originario perché privo di copertura; ai tempi dei normanni, invece, era dotata di tetto con volte a cassettoni. Inoltre, la pianta dell’edificio era rettangolare, cosa che poco si sposa con un teatro.

Per cui, si è pensato, anche, data la vicinanza a quello che poteva essere l’antico Foro della città. basilica romana, un ampio spazio coperto, un’aula ove si discutevano gli affari pubblici. Ridotta a rudere durante il medioevo, a seguito della costruzione del Palazzo Reale la basilica non venne abbattuta, ma integrata nel circuito murario. Alcuni studiosi, invece, hanno pensato a una sorta di Macellum, mercato coperto, in continuità con la vocazione commerciale della vicina Albergheria, o a una sorta di ginnasio, ipotesi poco probabile, data l’origine fenicia di Palermo.

L’alto Arrigo

EnricoVII

Chiunque abbia frequentato le Superiori, anche per sentito dire durante le spiegazioni dedicate alla Divina Commedia, ha una vaga di idea di chi sia l’imperatore Enrico VII, dato che Dante, suo grande fan, lo cita a destra e manca. Però, i professori di italiano spesso trascurano di evidenziare qualche piccolo, interessante dettaglio su tale figura.

Il principale è che Enrico fosse di lingua e cultura francese: di conseguenza, parlava il tedesco piuttosto male, tanto da preferire, nella sua corte, l’uso dei volgari italiani. Essendo un vassallo di Filippo il Bello, non era inizialmente sgradito al papato avignonese, cosa che lo spinse a scendere in Italia, nella speranza di essere accettato anche dai guelfi.

In più il suo livello culturale era di parecchie spanne superiore a quello dei suoi contemporanei: cosa che, in alcuni suoi atteggiamenti, lo rende quasi un principe proto-rinascimentale. Ad esempio, fu un grande protettore di eruditi e letterati, convinto che ciò portasse lustro al sua stirpe, il cui prestigio nobiliare era alquanto ridotto e soprattutto, in linea con quanto fatto da Federico II di Svevia, utilizzò l’arte come strumento di propaganda politica e di costruzione della sua immagine.

Il culmine di tale strategia di costruzione del consenso avvenne in occasione della morte della moglie Margherita di Brabante, avvenuta a Genova fra 13 e 14 dicembre 1311, all’età di trentasei anni e causata da un’epidemia di peste.Le Cronache la descrivevano:

“piccola, minuta, con un viso tondetto quasi infantile, illuminato da due occhi come gemme”

Famose erano state anche le sue capacità diplomatiche e la Iustitia Imperialis che l’avevano connotata, tanto da aver indotto persino Dante si era rivolto a lei, per esprimere il sostengo all’impresa del marito

Per prima cosa, l’imperatore fece diffondere una serie di libelli, in cui la figura della donna, certo notevole, veniva esaltata sopra ogni misura, definendola buona come una Santa, umile ancella dei poveri in Cristo, misericordiosa per istinto.

E tanto ebbe successo, che una settimana dopo la sua morte, già veniva attribuito il primo miracolo e i suoi resti cominciarono a essere oggetto di un’intensa devozione popolare. La fama della sua santità si diffuse impetuosamente; voci di altre opere miracolose si propagarono, finché, nel 1313, ella fu dichiarata beata.

Inizialmente, Enrico aveva deposto le spoglie, racchiuse entro un sarcofago di piombo, nella chiesa genovese di Sa Francesco di Castelletto, vicino all’altare maggiore. Da Mussato si apprende che il sarcofago era privo di murature e di lapidi e come fosse una sistemazione provvisoria: Enrico, ricondotti all’ovile a forza di randellate i suoi inquieti sudditi italiani, sarebbe tornato in Germania e la moglie avrebbe avuto una più acconcia sepoltura.

Ma visto il successo della propaganda imperiale, decise di cogliere la palla al balzo; avrebbe fatto realizzare una tomba monumentale alla moglie, per mostrare nel concreto la grandezza della casata dei Lussemburgo e come la loro iniziativa, alla faccia degli intrighi papali e dell’opposizione guelfa, godesse della protezione divina.

margherita

Per questo, commissionò il mausoleo al più grande scultore vivente dell’epoca: Giovanni Pisano, figlio di Nicola. Benché Giovanni non fosse proprio giovanissimo, andava per i sessantacinque anni, non si tirò indietro sia per il prestigio della commissione, sia perché, diciamola tutta, un cliente che pagava sull’unghia 80 fiorini d’oro era difficile da trovare. In più, diciamola tutta, probabilmente voleva dimostrare a tutti come fosse tanto abile quanto l’amico rivale Arnolfo di Cambio, nel concepire e realizzare monumenti funebri.

Per vincere questa sfida postuma, Arnolfo era morto nel 1302, Giovanni concepì un monumento per l’epoca, era alto più di 10 metri, in marmo apuano, talmente visionario, che come concezione, sarà eguagliato solo nel Barocco, dal Bernini.

Giovanni concepì quindi un complesso di figure ascendenti verso l’alto, alla cui base situò le statue della Prudenza, della Fortezza, della Giustizia e della Temperanza, le quattro virtù cardinali, scolpite a tutto tondo e a grandezza naturale. Un cartiglio ne avrebbe contrassegnata l’identità. Per la Giustizia, pensò alla frase: «dilexisti iustitiam odisti iniquitatem», che lo slogan adottato da Enrico per giustificare la sua politica italiana.

Avrebbero poi sormontato le Virtù cinque statue di Dolenti, ciascuna ritratta in una posa differente: due in piedi, due in procinto di inginocchiarsi, una già in ginocchio. Dolenti che avrebbero avuto il compito di reggere il sarcofago contenente la salma di Margherita, su cui ne avrebbe collocato l’effigie,in cui l’imperatrici colta nell’atto di abbandonarsi al sonno eterno – decumbens – attorniata da amorini che l’avrebbero sostenuta nell’adagiarsi.

Ma il pezzo forte del monumento, sarebbe stata la sua ghimberga, ossia per chi poco bazzica il gotico, un frontone altissimo, appuntito, spesso fiancheggiato da due pinnacoli. Giovanni vi rappresentò l’elevatio animae, la salita in Paradiso dell’imperatrice, composta da tre figure svettanti verso l’alto.

L’anima – simbolicamente da lui resa quale giovane e bellissima donna, velata e col soggolo secondo la moda dell’aristocrazia femminile tedesca, cinta della stola maiestatis, allusiva alla sua immortalità e del suo ruolo politico sulla Terra – era aiutata da due angeli apteri ad ascendere in Cielo. Con un gesto dirompente nella tradizione iconografica medievale della Dormitio Virginis veniva adattata a un defunto laico.

E questo si concretizzò in una tensione verso l’Assoluto, che si articolava in un gioco di luci ed ombre e in un’armonica danza di tensioni contrapposte, che simboleggiava lo sforzo dell’anima, aiutata dagli angeli, a trascendere il peso della materia.

Sforzo che avrà esito positivo: come Bernini nell’estasi di Santa Teresa, Giovanni simboleggiò la bellezza spirituale con la sensualità terrena. Trasfigurò Margherita, idealizzandone il volto in un ovale perfetto. Con le labbra morbide e la bocca dischiusa, ne immortalò l’espressione di stupore, mentre risvegliatasi alla vita eterna, rivolgeva al Cielo che la stava per accogliere uno sguardo quasi incredulo e un sorriso grato e fiducioso.

Purtroppo, abbiamo un’idea assai vaga del monumento scolpito da Giovanni, per una serie di sfighe che gli si sono accanite contro nei secoli. Originariamente collocato nella cappella principale del coro di San Francesco in Castelletto, nel XVII secolo fu trasferito nel transetto della chiesa, riducendone la consistenza. Ma la dispersione del gruppo avvenne nel 1804, quando il presidente del Magistrato delle finanze decretò la vendita di tutte le sculture di marmo che si trovavano nelle cappelle della chiesa, che fu demolita.

Per una settantina d’anni, si persero le tracce delle statue, nel disinteresse generale, finché nel 1874 lo scultore Santo Varni ritrovò proprio la ghimberga nella villa Brignole Sale di Voltri; da quel momento in poi, cominciò una sorta di caccia al tesoro, che sta durando, con alterni risultati, sino ad oggi. Ad esempio, nel 1960, nel giardino di una villa genovese, fu ritrovata la statua della Giustizia, mentre frammenti delle altre virtù riemersero nel 1967 (testa della Temperanza) e nel 1981 (testa della Fortezza). A questi si aggiungono una statuetta rappresentante la Madonna, priva della testa e della figura del Bambino, ritrovata sempre negli anni Sessanta e due figurette di personaggi Dolenti, una delle quali nel Museo di Sant’Agostino e un’altra in una collezione privata ligure.

Cosa pensasse Enrico, del monumento dedicato alla moglie, è impossibile a dirsi, dato che morì poco prima che Giovanni cominciasse i lavori. Secondo quanto racconta Tommaso Montauri, l’imperatore spirò il 24 agosto 1313 a ora nona nella chiesa di San Pietro a Buonconvento. La leggenda racconta come Enrico fosse stato ucciso da un’ostia avvelenata datagli da un frate di nome Bernardino da Montepulciano. La realtà, però, è ancora più assurda!

Enrico VII aveva contratto l’antrace, una infezione acuta che crea piaghe di colore scuro e che all’epoca per curarla si usavano impacchi all’arsenico e proprio questa cura, provocò la sua morte. Dato il caldo estivo, era impossibile riportare il cadavere dell’Imperatore in Germania, senza che si decomponesse. Per cui, il suo seguito decise di asportare le viscere di Enrico, che vennero sepolte nella chiesa di Sant’Antonio a Buonconvento: poi imbottì il corpo con paglia, per dargli volume, e con erbe aromatiche, per coprire i cattivi odori, e lo imbellettò, in modo che sembrasse ancora vivo. Fatto questo, cominciò il viaggio verso Nord.

Ahimè, il fetore divenne presto insopportabile; per cui, per risolvere il problema, fu fatta una sosta a Suvereto, dove fu tagliata la testa al cadavere e il corpo venne bollito per separare la carne dalle ossa, che a loro volta, furono messe sotto sale e spedite a Pisa, dove questa vicenda pulp ebbe fine.

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I toscani, ghibellini, decisero di onorare Enrico con una tomba monumentale: essendo Giovanni impegnato a Genova per la tomba di Margherita, affidarono l’incarico al suo allievo Tino da Camaino. Se Giovanni incentrò il mausoleo dell’imperatrice sulla dialettica tra Umano e Divino, da una parte lo slancio dell’Essere verso l’Assoluto, dall’altra il carisma divino che legittimava l’autorità imperiale.

Tino, invece, si concentrò sulla Maiestas, l’autorità, che in senso tomistico, nasceva dalla Legge e dal rispetto dell’Ordine razionale del Mondo, in cui la corte terrestre era specchio, per quanto imperfetto, di quella divina.

I patti tra Tino, che ricopriva l’incarico di capomaestro del Duomo e la committenza furono redatti il 12 febbraio 1315, ma è verosimile che i lavori fossero già cominiciati nel 1313. Tino ritirò costantemente la retribuzione settimanale dovuta, con la quale era lui stesso a pagare i propri collaboratori; non si presentò, però, al ritiro dell’ultimo pagamento. Il monumento, evidentemente ultimato, fu comunque messo in opera in tempi rapidi, entro il luglio del 1315, assieme alla decorazione pittorica parietale che lo accompagnava.

Come mai Tino, anche troppo attento alla puntualità della sua retribuzione, era scomparso nel nulla? Il motivo fu lo scoppio della guerra tra pisani e lega guelfa, di cui faceva parte anche la città di Siena, in cui l’artista era nato. Da buon patriota, Tino si arruolò nell’esercito senese, ma mal gliene incolse. Le truppe guelfe ricevettero una sanguinosa batosta nella battaglia di Montecatini del 29 agosto 1315. Di conseguenza, i pisani, a fronte di tale tradimento, lo licenziarono in tronco. In più, per evitare il ripetersi in futuro di tali fatti incresciosi, il Consiglio degli anziani del Comune di Pisa decise che nel futuro nessun guelfo avrebbe potuto ricoprire l’incarico di capomastro del Duomo

Ora, la tomba di Enrico è ancora più misteriosa, nel suo aspetto originale, di quella della moglie:la tomba rimase nell’abside del duomo fino al 1494, quando fu smontata e una parte di essa fu ricomposta alla parete est del transetto destro. Fu danneggiata nell’incendio del 1595, e le parti furono riutilizzate in altri luoghi della piazza del Duomo, compreso il Camposanto monumentale, finché Peleo Bacci le riposizionò, nel 1921, nella collocazione quattrocentesca, nella quale tuttora si trovano, lavorando molto di fantasia.

La maggiora parte degli storici dell’arte ipotizza come la tomba fosse molto simile al monumento funebre dei conti Della Gherardesca, scolpito da Lupo di Francesco, altro allievo di Giovanni Pisano. Si trattava quindi di un un grande monumento a parete, molto aggettante, suddiviso in più livelli al di sopra di un altare dedicato a san Bartolomeo, a cui era dedicato il giorno della morte di Enrico. Un livello era occupato dalla cassa col gisant, accompagnato dagli Angeli col cartiglio e dagli Accoliti, un secondo (più in alto) ospitava la scena dell’imperatore in trono accompagnato dagli altri personaggi

Tomba che tra l’altro, fu ispezionata nell’Ottobre 2014. Oltre a scoprire come Enrico, per l’epoca era quasi un gigante, era alto un metro e ottanta, furono ritrovate le sue insegne regali: corona, scettro e globo. Questi coincidono perfettamente con quanto rappresentato nel Codex Balduineus, un codice miniato che descrive l’impresa italiana di Enrico, commissionato dopo il 1330 da suo fratello Baldovino, Arcivescovo di Treviri.

Insegne che erano accompagnate un drappo rettangolare lungo oltre tre metri e largo 120 cm, realizzato con bande di seta alte circa 10 cm alternate nei colori nocciola rosato, dal rosso originale, e azzurro. Le bande azzurre risultano operate in oro e argento con coppie di leoni affrontati, simbolo della sovranità, mentre una complessa decorazione monocroma tono su tono è presente nelle fasce rosate. All’inizio della pezza, su di una fascia rosso violaceo listata in giallo, appaiono delle tracce di iscrizioni non ancora interpretate. Elemento caratteristico, e che rende unico il manufatto, è la presenza sui lati lunghi delle cimase e sui lati corti, di due bande a piccoli scacchi: di fatto potrebbe essere lo stendardo imperiale.

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Mediolanum tra Celti e Romani

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Può sembrare strano, ma la Mediolanum augustea era tanto multietnica, quanto l’attuale: dalle iscrizioni e dai reperti archeologici, parrebbe come un 10% della sua popolazione fosse costituito da immigrati siriani, greci ed egizi. Una percentuale ben più bassa di quella dell’Urbe, senza dubbio alcuno, ma superiore a quella di tanti altri municipia.

A completare la varietà della popolazione, vi era un 30% di residenti di origine italica e latina, il più famoso dei quali era Tito Flavio Petrone, nonno dell’imperatore Vespasiano, che aveva aperto una sorta di ufficio di collocamento per braccianti agricoli. La maggioranza dei milanesi dell’epoca, invece, era costituita da celti più o meno romanizzati. Questo melting pot ebbe una serie di impatti culturali ed economici sulla città: per prima cosa, la dea celtica Belisma, la dea del fuoco, protettrice dell’oppidum di Medhelan, fu identificata con la romana Vesta.

Per cui, il suo tempio fu uno dei primi ad essere eretto a Mediolanum, a via Formentini a Brera. Edificio, ancora esistente, che ha avuto nel tempo una serie di mutamenti di forma e di destinazioni d’uso. Secondo la tradizione, documentata per la prima volta nel 813, il tempio fu trasformato in una chiesa, dedicata a San Carpoforo, uno dei presunti martiri della Legione Tebana, da santa Marcellina, sorella di sant’Ambrogio.

Consultando una planimetria redatta in occasione della Visita Pastorale del 1610 compiuta dal Cardinal Federico Borromeo di manzoniana memoria, abbiamo un’idea abbastanza chiara del suo aspetto: la facciata era preceduta da un pronao, il campanile era collocato sulla parte destra della facciata, la navata era intersecata da un transetto e si concludeva con un’abside ricurva, l’altare maggiore posto all’intersezione della navata con il transetto era sopraelevato, il ciborio – simile a quello di sant’Ambrogio – era sostenuto da colonne di porfido provenienti dal tempio originario, la cappella della Confraternita del Santissimo Sacramento (visitata da san Carlo e restaurata alla fine del Cinquecento) era collocata sul latro destro del transetto, le cinque cappelle laterali erano tutte poste sul fianco destro della chiesa (la prima, la seconda e la quarta avevano una pianta rettangolare mentre la terza si caratterizzava per una maggiore profondità e la quinta per l’abside poligonale), la volta era costituita da travi di legno, l’illuminazione avveniva grazie a tre finestre, una collocata sopra la porta principale e due sul lato destro.

A seguito della visita, Federico Borromeo decise di finanziare alcuni lavori di restauro, incaricandone l’architetto Angelo Puttini. Architetto che rifece la copertura della chiesa realizzando una volta a botte costolonata, aprì due cappelle sul lato sinistro, rese omogenei i due lati del transetto e vi collocò due altari e ridusse a due le cinque cappelle sul lato sinistro.

Nonostante questo, la chiesa continuò a decadere: tanto che già nel 1760 veniva amministrata da un solo sacerdote. Nel 1754 viene qui battezzato il grande pittore Andrea Appiani, figlio di Antonio e di Marta Liberata, abitanti in zona. Nel 1772 viene soppressa la Confraternita del Rosario, che aveva qui sede; stesso destino toccò alla parrocchia, che nel 1787 divenne chiesa sussidiaria della Parrocchia Santa Maria del Carmine a Brera.

Nel 1864 fu poi sconsacrata e divenuta proprietà del Comune di Milano fu spogliata dei suoi arredi, tanto che le colonne di porfido del tempio di Vesta furono trasportate presso il museo del Castello. All’inizio del 1870, Carlo Tenca, dopo molte insistenze era riuscito a convincere la Municipalità ad istituire l’Archivio Storico Civico; il Comune, non sapendo dove piazzarlo, decise di metterlo nell’ex chiesa di San Carpoforo. Nello stesso luogo, nel 1873, vi nacque la Società Storica Lombarda, presieduta da Cesare Cantù.

Fu poi concessa alla Soprintendenza per i beni artistici e storici della Lombardia che la utilizzò per fini didattici musicali, infine, nel 1993 venne concessa in uso gratuito all’Accademia delle Belle Arti di Brera – che ancora oggi la utilizza – come sede per i corsi di decorazione, restauro ed arte sacra contemporanea. La Sovrintendenza, tra l’altro, ritiene che parte dell’attuale facciata risalga al V secolo, mentre il campanile è per gran parte romanico.

Seconda cosa, portò a un notevole sviluppo economico: a Mediolanum erano probabilmente presenti, come a Roma, il Catabulum, ovvero una sorta di sede delle “Poste Centrali”, e il Tabularium, che invece rivestiva la funzione di archivio di Stato, il Forum Boarium, ovvero il mercato della carne, e il Forum Holitorium, cioè il mercato della verdura e della frutta, che, nonostante le opinioni di alcuni eruditi, non era il nostro Verziere, dato la piazza divenne di tale commercio in epoca tarda. Sino al 1776 il mercato ortofrutticolo di Milano, era infatti situato presso l’attuale piazza Fontana, di fronte all’Arcivescovado.

Con certezza siamo a conoscenza che di fronte alle porte cittadine, soprattutto Porta Giovia e Porta Vercellina, fossero costantemente presenti facchini e trasportatori, che erano riuniti in una corporazione molto potente.

Il commercio era molto attivo, soprattutto quello ambulante. Molti commercianti erano concentrati in alcune strade specifiche, come i librai e i calzolai, che si trovavano perlopiù in una via chiamata Argiletum, visto che condividevano la materia prima per realizzare i propri manufatti: il cuoio. L’Argiletum si trovava probabilmente in corrispondenza della moderna via Santa Margherita, dato che anche nel Medioevo, in quest’ultima, erano concentrati i calzolai e i librai di Milano.

I venditori ambulanti vendevano principalmente libri usati, vino e cibo di strada caldo. Per strada erano anche presenti i garzoni dei salumieri, che vendevano la merce dei loro padroni, con i mercanti di stuoie e tappeti che si posizionavano lungo il ciglio delle strade con il medesimo obiettivo. Le calzature fabbricate a Mediolanum, di foggia celtica, erano apprezzate anche Roma. Per quanto riguarda l’artigianato, a Mediolanum erano diffuse la attività manifatturiere tipiche delle regioni celtiche, ovvero quelle di produzione di bronzi, calzature, armi e stoffe, nonché gli artigiani che realizzavano carrozze e calessi.

Terzo, influenzò usi e costumi: a partire dalle case, di cui parlerò la prossima settimana, all’alimentazione, dove l’olio d’oliva fu sostituito dal burro. Tra l’altro, su tale argomento, Plutarco racconta questa storiella

A dimostrare quanto poco esigente [Giulio Cesare] fosse in tema di cibo, si cita di solito questo episodio: un suo ospite, presso cui mangiava a Milano, Valerio Leone, mise in tavola degli asparagi conditi con mirra, anziché con olio. Cesare li mangiò tranquillamente e rimbrottò i suoi amici che si sentivano offesi. “Bastava, disse, che coloro a cui non piacevano non se ne servissero. Chi si lamenta di una zoticaggine come questa, è uno zotico anche lui

Dato che la mirra poco si usa in cucina, è assai probabile che lo storico greco si sia confuso con il burro. Tornando al melting pot, Nel vestiario erano privilegiati i pantaloni in luogo della tipica tunica romana, e le calzature celtiche il luogo di quelle romane.

Anche le sepolture erano influenzate dai precedenti riti celtici, così come le strade, che erano perlopiù glareate, ovvero con il manto stradale in ciottoli battuti, in luogo del rivestimento in pietra delle classiche strade romane. Tra l’altro, molte famiglie celtiche romanizzate, diventate poi importanti gens di Mediolanum, ebbero ruoli di rilievo nella vita sociale e politica della città: tra esse ci furono la gens Novella e la gens Albucia, che spiccarono particolarmente sulle altre.

San Sisto Vecchio

Assai poco nota, alla maggior parte dei romani, è la chiesa di San Sisto Vecchio, a Piazza Numa Pompilio: eppure, la sua origine è antichissima, dato che la prima citazione che appare nel Liber Pontificalis risale ai tempi di papa Anastasio I, grande amico di San Girolamo e Sant’Agostino, tra il 399 e il 400 d.C.

Nella sua biografia, appare questa frase

fecit autem et basilicam, quae dicitur “Crescentiana” in regione II, via Mamurtini, in urbe Roma

dove la via Mamurtini, l’attuale via Druso, è l’erede del Vicus Mamertinus dell’antica Urbe, dove si apriva il Balneum Mamertini, terme private di proprietà di Marco Petronio Mamertino prefetto del pretorio dal 139 al 143 d.C., mentre il riferimento a Crescenziana è forse legato alla matrona che ne finanziò la costruzione.

La denominazione di titulus Crescentianae compare ancora nel 499 mentre a partire dal 595 assunse il nome San Sisto, in onore del Papa martirizzato dall’impero Valeriano assieme al diacono San Lorenzo. Il contemporaneo San Cipriano cosi racconta la morte di Sisto in una sua lettera

Vi comunico che Sisto ha subito il martirio con quattro diaconi il 6 agosto, mentre si trovava nella zona del cimitero. Le autorità di Roma hanno come norma che quanti vengono denunciati quali cristiani, debbano essere giustiziati e subire la confisca dei beni a beneficio dell’erario imperiale

I resti di Sisto furono traslati nella cripta papale del vicino cimitero di San Callisto. Dietro la sua tomba, in un reliquiario, fu posta la sedia macchiata di sangue sulla quale era stato decapitato; fu Gregorio I, dato il degrado della catacomba, a trasferire le reliquie nella Basilica Crescenziana.

La basilica paleocristiana (sec. IV) era a tre navate divise da arcate poggianti su ventiquattro colonne, di cui sei (di granito bigio con capitelli a foglie d’acqua e pulvini) sono ancora in situ; altre colonne e capitelli sono state riadoperate nel monastero; la chiesa primitiva aveva il pavimento in opus sectile a m. 3,45 sotto l’attuale e misurava m. 47,40 x 17,80. La navata centrale, alta m. 13,25, era illuminata da dodici finestre per parte. L’antica abside, priva di calotta, era coperta a tetto e vi erano praticate tre finestre. La facciata, preceduta da un quadriportico, era costituita da una trifora sormontata da tre finestre ma fu modificata al tempo di Adriano I (772‐795)

La chiesa ebbe importanti donazioni al tempo di Leone III (802‐806) e Gregorio IV (827‐844), ma da quel momento in poi, a causa del progressivo abbandono dell’area, che era all’estrema periferia della Roma dell’Alto Medioevo, cominciò la sua decadenza.

Fu Innocenzo III a intervenire con decisione, per recuperare l’antica chiesa: per prima cosa, avviò una serie di lavori di restauro. L’edificio paleocristiano, parzialmente interrata, fu ricostruito a livello più alto (oltre due metri) ad unica navata e i proporzioni più piccole; dell’antico edificio si conservò soltanto l’abside (che fu decorata con importanti affreschi ancor oggi visibili) e si eresse ex novo il campanile.

Poi, per evitare che il complesso fosse di nuovo abbandonato, vi associò un monastero, che doveva essere universale coenobium sottoposto a rigida clausura di tutte le comunità religiose femminili di Roma. A partire dal sec. XIII, la storia di San Sisto si intreccia con quella del vicino monastero di Santa Maria in Tempulo, di cui parlerò in maniera più approfondita la prossima settimana.

Onorio III nel 1219 tolse la chiesa all’Ordine dei Canonici Regolari di Sempringham e la affidò a San Domenico di Guzman e all’Ordine da lui fondato, i Domenicani, i quali vi rimasero però soltanto due anni, dopodiché si trasferirono nella chiesa di Santa Sabina.

Per non lasciare deserto il monastero, San Domenico decise di usarlo come sede del suo ordine religioso di clausura: il problema però, era la mancanza di monache. Per risolverlo, il santo spagnolo le prese quasi a forza dal vicino Monasterium Tempuli. Le suore tempoline così condussero con loro ingenti ricchezze,la famosa icona di San Maria in Tempulo, proveniente da Costantinopoli e gli usi liturgici greci seguiti dalla comunità fin dalle sue origini, come la recita per cento volte al giorno per tutto l’anno del Kirie elison e del Kristi eleison, tradizione che proseguì fino al 1793. A queste monache, poi si aggiunsero quelle provenienti da Santa Bibiana.

Il monastero, grazie ai miracoli di San Domenico, tra cui la risurrezione di un bambino e una sorta di moltiplicazione dei pani, divenne rapidamente famoso come luogo di culto. In particolare,le monache erano sottoposte ad una stretta clausura, non avevano contatti con il mondo esterno e la loro esistenza era assicurata da quanti vivevano “alle porte del monastero” al loro servizio e da un grande patrimonio, ed era proprio l’entità del patrimonio che condizionava l’accettazione delle fedeli che volevano vivere in clausura. Queste monache non facevano il voto di povertà e quando venivano accettate nella comunità il loro patrimonio o l’eredità andava a confluire nel patrimonio del monastero.

Di conseguenza, da una parte il monastero divenne ricchissimo, dall’altra le sue oblate appartenevano alle famiglie più facoltose dell’aristocrazia romana.Il complesso, nonostante fosse stato restaurato sotto Sisto IV (1471-84), nel 1575, a causa del carattere malsano del luogo, infestato dalla malaria, venne abbandonato anche dalle Suore Domenicane, le quali si trasferirono nella nuova chiesa dei Santi Domenico e Sisto, nel rione Monti: da questo momento in poi San Sisto venne denominata Vecchio per distinguerla dalla chiesa dei Sant Domenico e Sisto, a sua volta detta Sisto Nuovo. Tra il 1725 ed il 1727 il complesso, oramai caduto in rovina, venne ristrutturato per volontà di papa Benedetto XIII dall’architetto Filippo Raguzzini, il famoso architetto rococò, il quale edificò l’attuale facciata ed un nuovo chiostro, in sostituzione di quello medioevale.

Nel 1873 il monastero venne confiscato dallo Stato Italiano ed adibito a deposito di materiale ed a rimessa di carri funebri. Nel 1893 fu una terziaria domenicana, Suor Maria Antonia Lalia, ad ottenere nuovamente i locali della chiesa, ai quali non soltanto riuscì a ridare lustro e decoro ma, grazie alla nuova Congregazione di Suore Domenicane che qui fondò, trasformò nella sede di una scuola privata.

La facciata della chiesa è sovrastata dall’ elegante campanile romanico, uno tra i più interessanti di Roma, tornato nel 1938 al suo antico splendore. Non è molto alto (circa 13 m.) è a tre piani sui quali si aprono armoniose trifore sorrette da colonnine di marmo bianco con capitelli del tipo detto mensoliforme. Alla base del campanile è possibile vedere ancor oggi una meridiana. Possiede una sola campana di modeste proporzioni della fonderia Lucenti risalente al 1817.

Al centro vi è un bel portale, sormontato da un timpano triangolare, agli angoli del quale sono posti due draghi, simboli araldici di Filippo Boncompagni, restauratore della chiesa nel XVI secolo. Il portale, risalente proprio a questo restauro, sostituì l’antico portale quattrocentesco del cardinale Pietro Ferrici, reimpiegato come porta laterale della chiesa, in via delle Terme di Caracalla, sul quale è ben visibile lo stemma del porporato e la seguente iscrizione:

“PETRI T T S SIXTI CARD TIRASONENSIS MCCCCLXXVIII”

ossia

“(Opera) di Pietro del Titolo di S.Sisto cardinale di Tarazona (in Spagna e sede episcopale del cardinale prima della sua nomina cardinalizia) 1478”.

L’interno, anticamente a tre navate, oggi è a navata unica, illuminata da 12 finestre per ognuno dei lati e tutta decorata a stucchi. Un importante ciclo di affreschi è stato individuato nella stretta intercapedine tra l’abside dell’epoca di Innocenzo III e quella creata nel corso degli interventi quattrocenteschi.

Gli affreschi sono divisi in due parti dall’inserimento dell’abside posteriore. Nella parte sinistra dell’abside sono malamente visibili una serie di Santi e un pannello con angeli oranti; segue una Pentecoste e una duplice scena relativa alla Vita di santa Caterina da Siena con accanto un santo martire e due santi giovani. Nella parte destra sono una mezza figura di santo, una Presentazione della Vergine al Tempio, rappresentazioni di quattro santi. Le scene della Vita di santa Caterina e queste ultime rappresentazioni di Santi sono da ascrivere ad un maestro che ha operato tra la fine del sec. XIV e l’inizio del successivo, mentre tutti gli altri affreschi risalgono alla prima metà del sec. XIV: in particolare gli angeli oranti sono stati datati ai primi anni del secolo, mentre agli anni intorno al 1320 dovrebbero risalire i santi e i due pannelli della Presentazione al tempio e della Pentecoste che si collocano nell’ambito della bottega di Pietro Cavallini

Notevole il chiostro, a pianta quadrata, con lati di sei arcate a tutto sesto rette da pilastri.La stessa divisione si ripete anche nel secondo ordine dove le arcate, tamponate, sono occupate da finestre moderne. Le pareti delle gallerie hanno le lunette decorate con “Storie della vita di S.Domenico”, realizzate da Andrea Casale nel Settecento. Il cortile interno è tenuto a giardino e nel centro vi è posto un caratteristico pozzo. Dal chiostro si passa alla alla Sala Capitolare con portale e due finestre a bifora e al Refettorio, un’immensa sala con la volta a botte che misura m. 33,60 di lunghezza nella prima parte e m. 9 nella seconda, che ha la volta a crociera, e m. 8 di lunghezza.

L’area dove un tempo era situato l’orto delle suore Domenicane oggi è occupata dal Semenzaio Comunale, un’istituzione che provvede al rifornimento di alberi, piante e fiori per le “aree verdi” della città. In quest’area, inoltre, si possono osservare due torrette medioevali, prive di merlatura e con ingresso sopraelevato: si tratta delle fortificazioni costruite sulle due mole (a difesa, quindi, delle attrezzature e delle granaglie conservatevi all’interno), qui poste per utilizzare la forza motrice di un fiumicello, oggi scomparso, che qui transitava, ossia l’acqua Mariana.

Bramante, Fra Giocondo e Leone X

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Essendo Bramante un’ottima persona, è assai probabile, che alla notizia della morte di Giulio II non abbia festeggiato, ma sia stato sinceramente dispiaciuto, nonostante tutte le loro discussione. Eppure, a mente fredda, la dipartita del Papa non poteva che semplificargli la vita: da una parte, la questione della Cappella Julia poteva essere finalmente messa da parte, con somma soddisfazione di tutti, tranne che di Michelangelo, dall’altra si poteva sperare sul fatto che il suo successore potesse evitare di mettere bocca sul cantiere.

Cantiere che, detto fra noi, stava finalmente procedendo spedito: febbraio 1513, i pilastri della cupola erano arrivati ai pennacchi, mentre il braccio del coro era giunto all’attacco delle volte e i due primi pilastri della navata centrale spuntavano ormai dalle fondamenta.

Ma era destino che il nostro Bramante non dovesse dormire sogni tranquilli: fu infatti eletto una candidato improbabile, il cardinale Giovanni de’ Medici, non era neppure stato ordinato sacerdote, che assunse il nome di Leone X.

Fu come un cadere alla padella alla brace: Papa Medici era ancora più petulante del predecessore. Il quarto progetto di Bramante, sotto molti aspetti, dato che doveva rispondere alle limitare i tempi di costruzioni e i costi, era relativamente modesto, con braccio del coro isolato, illuminato su ogni lato, corpo longitudinale a tre navate e tre campate, strette cappelle laterali e facciata semplice.

In più avrebbe impattato in maniera limitata su tutto il complesso del Vaticano: non avrebbe coinvolto la Loggia della benedizione di Pio II, i cui lavori erano tra l’altro ancora in corso né l’antico “atrium” e neppure avrebbero costretto a spostare l’antico obelisco

Progetto che, a Leone X, amante del lusso e animato da un ottimismo irriducibile, pareva troppo misero: di conseguenza, impose a Bramante di arricchire il progetto in lunghezza, larghezza e preziosità, in modo da rendere la basilica colossale. Cosa che, ovviamente, ampliò a dismisura le spese; per finanziarle, il Papa dovette ricorrere alla vendita delle indulgenza, che fu una concausa della protesta di Martin Lutero.

In più, Leone X, memore delle continue discussioni tra Bramante e Giulio II, pur confermando il nostro eroe nella carica di primo architetto, gli mise al fianco, come consiglieri, il vecchio architetto della sua famiglia, il solito e irriducibile Giuliano da Sangallo, e ripescato da Venezia, il buon Fra Giocondo, che aveva appena raggiunto la tenera età di ottanta anni.

Che fine aveva fatto, il nostro frate architetto, dopo che il suo progetto era stato cassato da Giulio II? Se ne era andato bel bello a Venezia, dove, con il massimo della faccia tosta, indirizzò una gustosa supplica al governo della Serenissima, definendo le sue condizioni nella trattativa per la sua assunzione. In questa, mise in rilievo con chiara coscienza del proprio valore l’esperienza che possedeva, chiese un compenso consistente che gli consentisse di svolgere bene il suo servizio e gli garantisse quelle comodità che sono indispensabili per l’attività di un anziano; considerava giusto che dagli emolumenti per il suo ingegno dovesse ottenere quanto era necessario per comprare libri e fabbricare strumenti e fece presente che doveva farsi spedire da Parigi dodici casse di libri e di “altri inzegni”, cioè gli strumenti di precisione che progettava e impiegava per i suoi rilievi. Preoccupato della trasmissione delle sue conoscenze si offrì di addestrare degli aiutanti che potessero continuare la sua opera al servizio della Repubblica.

Venezia accettò, però, per togliersi dalle scatole quello che ritenevano un vecchio rincitrullito, lo spedì, assieme a Lattanzio da Bergamo, un militare con pratica di fortificazioni che era stato al servizio di Federico da Montefeltro, a ispezionare le fortezze di Corfù, Cefalonia, Zante, nonché di Napoli (Nauplia) e Malvasia nel Peloponneso. Bartolomeo non solo svolse tale lavoro, ma ne approfittò anche per farsi un giro per la Grecia, a studiare e fare rilievi sugli antichi tempi ellenici.

Nel 1509 in vista della guerra della Serenissima contro la lega di Cambrai, fu inviato a Monselice, Treviso, Legnago e a Padova per predisporre le difese, e per tutta la primavera e l’estate il frate vagò nell’entroterra veneziano dando consulenze, indicazioni, consigli. A Treviso predispose, insieme con il comandante militare Bartolomeo d’Alviano, la costruzione delle mura intorno alla città. Le mura di Padova vennero invece in pochi mesi riadattate per resistere alle nuove artiglierie, con uno sforzo straordinario. Fra Giocondo, presente a Padova tra marzo e aprile, fece abbattere gli inutili merli, costruire terrapieni a ridosso delle mura, mozzare le torri, scavare un fossato improvvisando un nuovo tipo di sistema difensivo che resisterà al terribile assedio di Massimiliano d’Austria e, dopo alcuni mesi, delle truppe spagnole grazie all’uso di terrapieni, più idonei a resistere ai colpi di artiglieria. Tale sistema che rappresentava una delle prime realizzazioni di fortificazione alla moderna, sarà in parte modificato e in parte sostituito nei decenni successivi, quando saranno approntate le fortificazioni definitive.

Finita la guerra, dato che i lavori di fortificazioni di Padova avevano comportato la la distruzione di borghi consistenti tutti intorno alla cinta muraria per un’ampiezza di mezzo miglio per lasciare campo aperto ai tiri delle bocche da fuoco, il governo veneziano fu subissato da richieste di rimborsi. Per cui, licenziò in tronco Fra Giocondo, facendogli “un gran rebufo a via mal fato”.

Fra Giocondo se ne fece una ragione, tornando alla sua vecchia passione dell’editoria: nel 1511 pubblicò a Venezia, per i tipi di Giovanni Tacuino, la prima edizione illustrata del De architectura di Vitruvio, poi ristampata in successive edizioni, tra cui quella fiorentina del 1513. La grande importanza di questa edizione, oltre all’accuratezza filologica e tecnica che solo la competenza di Giocondo, letteraria e tecnica allo stesso tempo, poteva dare, era dovuta all’apparato iconografico che per l’opera vitruvina rappresenta la chiave di lettura essenziale. I 136 disegni, riprodotti in xilografia, riguardano sia aspetti architettonici, sia aspetti tecnici, come le macchine di cantiere, che dimostrano la perizia di fra Giocondo. Oltre a Vitruvio, Giocondo curerà la pubblicazione di varie opere di autori latini come Cesare, Columella, Plinio e altri, in collaborazione con Aldo Manuzio. Nel 1503 pubblicò la traduzione latina del Mundus Novus di Amerigo Vespucci.

Prima però di trasferirsi a Roma, Fra Giocondo ebbe un’ultima delusione da Venezia, in relazione alla questione del Ponte di Rialto, distrutto da un incendio. Ma in questo caso, è meglio lasciare la parola a Vasari

Essendosi, non molti anni dopo che ebbe fatto questa sant’opera fra’ Iocondo, con molto danno de’ Viniziani abruciato il rialto di Vinezia, nel quale luogo sono i raccetti delle più preciose merci e quasi il tesoro di quella città, et essendo ciò avenuto in tempo apunto che quella republica, per lunghe e continue guerre e perdita della maggior parte, anzi di quasi tutto lo stato di terraferma, era ridotta in stato travagliatissimo, stavano i signori del governo in dubbio e sospesi di quello dovessero fare.

Pure, essendo la riedificazione di quel luogo di grandissima importanza, fu risoluto che ad ogni modo si rifacesse: e per farla più onorevole e secondo la grandezza e magnificenza di quella republica, avendo prima conosciuto la virtù di fra’ Iocondo e quanto valesse nell’architettura, gli diedero ordine di fare un disegno di quella fabrica; laonde ne disegnò uno di questa maniera. Voleva occupare tutto lo spazio che è fra il canale delle Beccherie di rialto et il rio del Fondaco delle Farine, pigliando tanto terreno fra l’uno e l’altro rio che facesse quadro perfetto, cioè che tanta fusse la lunghezza delle facciate di questa fabrica quanto di spazio al presente si trova caminando dallo sbucare di questi due rivi nel Canal Grande.

Disegnava poi che li detti due rivi sboccassero dall’altra parte in un canal comune che andasse dall’uno all’altro, talché questa fabrica rimanesse d’ogni intorno cinta dall’acqua, cioè che avesse il Canal Grande da una parte, li due rivi da due, et il rio che s’avea a far di nuovo dalla quarta parte. Voleva poi che fra l’acqua e la fabrica intorno intorno al quadro fusse overo rimanesse una spiaggia o fondamento assai largo che servisse per piazza, e vi si vendessero, secondo che fusseno deputati i luoghi, erbaggi, frutte, pesci, et altre cose che vengono da molti luoghi alla città.

Era di parere appresso che si fabricassero intorno intorno dalla parte di fuori boteghe che riguardassero le dette piazze, le quali boteghe servissero solamente a cose da mangiare d’ogni sorte. In queste quattro facciate aveva il disegno di fra’ Iocondo quattro porte principali, cioè una per facciata posta nel mezzo e dirimpetto a corda all’altra; ma prima che s’entrasse nella piazza di mezzo, entrando dentro da ogni parte, si trovava a man destra et a man sinistra una strada, la quale, girando intorno il quadro, aveva botteghe di qua e di là, con fabriche sopra bellissime e magazzini per servigio di dette botteghe, le quali tutte erano deputate alla drapperia, cioè panni di lana fini, et alla seta: le quali due sono le principali arti di quella città; et insomma in questa entravano tutte le bot[teghe] che sonodette de’ toscani e de’ Setaiuoli.

Da queste strade doppie di bot[teghe] che sboccavano alle quattro porte, si doveva entrare nel mezzo di detta fab[brica], cioè in una grandissima piazza con belle e gran logge intorno intorno per commodo de’ mercanti e servizio de’ popoli infiniti che in quella città, la quale è la dogana d’Italia, anzi d’Europa, per lor mercanzie e traffichi concorrono; sotto le quali logge doveva essere intorno intorno le botteghe de’ banchieri, orefici e gioiellieri, e nel mezzo aveva a essere un bellissimo tempio dedicato a San Matteo, nel quale potessero la mattina i gentiluomini udire i divini uffizii.

Nondimeno dicono alcuni che, quanto a questo tempio, aveva fra’ Iocondo mutato proposito e che voleva farne due, ma sotto le logge, perché non impedissero la piazza. Doveva oltre ciò questo superbissimo edifizio avere tanti altri comodi e bellezze et ornamenti particolari, che chi vede oggi il bellissimo disegno che di quello fece fra’ Iocondo afferma che non si può imaginare né rappresentar da qualsivoglia più felice ingegno o eccellentissimo artefice alcuna cosa né più bella né più magnifica né più ordinata di questa.

Si doveva anche col parere del medesimo, per compimento di quest’opera, fare il ponte di rialto di pietre e carico di botteghe, che sarebbe stato cosa maravigliosa. Ma che quest’opera non avesse effetto, due furono le cagioni: l’una il trovarsi la rep[ublica], per le gravissime spese fatte in quella guerra, esausta di danari; e l’altra perché un gentiluomo, si dice da Ca’ Valereso, grande in quel tempo e di molta autorità, forse per qualche interesse particolar[e], tolse a favorire, come uomo in questo di poco giudizio, un maestro Zamfragnino che, secondo mi vien detto, vive ancora, il quale l’aveva in sue particolari fabriche servito; il quale Zamfragnino (degno e conveniente nome dell’eccellenza del maestro) fece il disegno di quella marmaglia, che fu poi messo in opera, e la quale oggi si vede: della quale stolta elezzione molti che ancor vivono e benissimo se ne ricordano, ancora si dogliono senza fine

In compenso, Leone X lo accolse con tutti gli onori. Fra Giocondo il 2 agosto 1514 scrisse compiaciuto all’amico Aldo Manuzio, il celebre tipografo dell’accoglienza ricevuta a Roma: il Papa gli aveva messo a disposizione una casa vicino a San Pietro con giardini e logge, gli aveva assegnato un lauto stipendio e gli aveva regalato persino una botte di vino bianco e una di vino rosso.

Giuliano2

Tornando a Bramante, oltre a sopportare con la pazienza di Giobbe gli altri due architetti, cosa partorì per Leone X ? Brutto a dirsi, ma le sue piante per Papa Medici, a differenze di quelle per Giulio II, sono andate perdute: tuttavia possiamo ricostruirne le idee di massima, grazie, paradossalmente, ad alcuni studi di Giuliano da Sangallo, l’eterno rivale, e al Duomo di Carpi, progettato da Baldassarre Peruzzi tra l’inverno del 1514 e la primavera del 1515, di cui parlerò la prossima volta.

Giuliano collaborò dal 1° gennaio 1514 col Bramante nel cantiere, e fra i suoi tre progetti superstiti per il corpo longitudinale, l’alternativa sinistra di U 7 A r è quella che si avvicina maggiormente al progetto perduto del Bramante per Leone X. Progetto, quello di Giuliano, che, per la forma pilastri che congiungono i deambulatori con la campata interna dei bracci del transetto, dovrebbe risalire risalire ai primi mesi di quell’anno ed è caratterizzato da un corpo longitudinale esteso 600 piedi (134,04 m), cosa che implicava lo spostamento dell’obelisco; in lunghezza, esso oltrepassa di due campate piene e il pronao il portale del vecchio San Pietro, appositamente segnato nel progetto, giungendo quasi fino alla Loggia della benedizione di Pio II.

Di conseguenza, questa sarebbe stata abbattuta e sostituita nell’ambito del nuovo portico della facciata. In luogo della vecchia torre campanaria, compaiono due campanili leggermente arretrati rispetto alla facciata. Finora non è stato chiarito per quale delle due alternative del corpo longitudinale Bramante abbia optato. L’alternativa di sinistra, a tre navate, si compone meglio con i deambulatori e le loro nicchie di 40 piedi; quella di destra è più vicina al progetto del Bramante per Giulio II e prevede complessivamente sette navate, comunque dotate soltanto di cappelle laterali a nicchia.

Nel quarto progetto, Bramante aveva ipotizzato per i bracci del transetto una struttura simile a quella di U 7 A r, cioè dotata anch’essa di deambulatori a cinque campate, sporgenti semicircolarmente oltre il corpo longitudinale. Nell’alternativa di destra le nicchie sono completamente o parzialmente aperte sui deambulatori, analogamente al corpo longitudinale.

II coro della Cappella Julia rimane, ma viene arricchito su entrambi i lati con sacrestie ottagonali, collegate al braccio del coro per mezzo di vestiboli, secondo l’esempio della sacrestia di Santo Spirito a Firenze, di Giuliano: ciò rappresenta quindi certamente un’aggiunta di quest’ultimo. Anche le torri della facciata, annesse in modo disorganico al corpo longitudinale, e la foresta di colonne del portico in facciata sono farina del sacco di Giuliano.