Adiacente al tempietto di San Giovanni in Oleo, vi è la chiesa di San Giovanni a Porta Latina, nota, a molti romani, per essere gettonata come sede di matrimoni. Chiesa, tra l’altro, assai antica: secondo la tradizione, fu fondata da Gelasio I, l’ultimo papa di origine africana, colui che abolì i Lupercalia. A quel tempo, San Giovanni doveva avere un aspetto simile a San Vitale a Ravenna o a tante chiese di Costantinopoli, con abside a tre lati preceduta da un avancorpo con i due pastophòria che concludevano le navate laterali.
La tradizione trova conferma nel tipo di muratura (in opera listata a filari irregolari) e nelle tegole del vecchio tetto, di cui una è conservata come leggio, che portano stampigli dell’epoca di Teodorico (495-526); tuttavia, l’intitolazione all’Evangelista non è documentata prima del VII secolo (683), quando nella prima versione del Sacramentarium Gregorianum alla data del 6 maggio è registrata una messa “natale sancti Johannis ante Portam Latinam” insieme a una preghiera indirizzata al beato apostolo Giovanni.
La prima menzione esplicita di una chiesa intitolata all’Apostolo – e probabilmente collegata al Battista per un mero “lapsus calami” ) – è contenuta però nel “Liber Pontificalis”, che nella biografia di Adriano I (772-795) ricorda che il pontefice
“ecclesiam beati Iohannis Baptistae sitam iuxta portam Latinam ruinis praeventam in omnibus noviter renovavit”
ossia, trovandola ridotta assai male, ne finanziò il restauro.
Sempre alla fine dell’VIII secolo la basilica compare nell’Itinerario di Einsiedeln, una sorta di guida per pellegrini, come “S. Johannis”. Al secondo quarto del IX secolo risale invece l’iscrizione incisa sul pozzo antistante la chiesa attuale, nella quale si legge “Ego Stephanus in nomine Pat(ris) et Filii e(t) S(piritus) S(ancti)” e a seguire il versetto di Isaia “Omn(e)s sitie[ntes] [ven]ite ad aquas” dove Stefano fu probabilmente l’ecclesiastico o il nobile romano che finanziò dei lavori nel complesso.
intorno all’870 il Martirologio di Adone di Vienna, anch’esso alla data del 6 maggio, ricorda la festa
“S. Joannis Apostoli quando ante Portam Latinam in ferventis olei dolium missus est”
Come “ecclesiam sancti Johannis ante portam Latinam” l’edificio è ricordato infine: nel documento redatto nel 1119 per l’elezione di Callisto II, firmato anche dall’economo della basilica, di nome Johannes ; nel “Liber Pontificalis”, nella biografia di Lucio II (1144-1145), che con decreto sottopose la chiesa di S. Giovanni alla giurisdizione della Basilica Lateranense. A quel tempo, dovrebbe risalire la ricostruzione medievale della chiesa, che si dovette concludere entro il 1191, anno in cui Celestino III (1191-1198) traslò qui le reliquie dei ss. Gordiano ed Epimaco e riconsacrò la chiesa, come testimoniato da un’iscrizione dedicatoria, un tempo murata in controfacciata e ora collocata sul fronte di un moderno leggio.
Anno Dominicae Incarnationis MCLXXXX[I] Ecclesia Sancti Johannis ante Portam Latinam dedicata est ad honorem Dei et betai Johannis Evangeliste manu domini Celestini III pp., presentibus fere omnibus cardinalibus tam episcopis quam et aliis cardinalibus, de mense madiam die X festivitatis ss. Gordiani et Epimachi, est enim ibi remissio vere penitentibus AXI, dierum de injunctis sibi penitentiis singulis annis
La muratura, analoga a quella della chiesa superiore di S. Clemente, sembra confermare la datazione. Quando sotto Bonifacio VIII (1299-1303) S. Giovanni in Laterano passò con tutte le sue proprietà e ricche rendite al clero secolare, San Giovanni a Porta Latina rimase senza rendite e i canonici, poco propensi a patire la fame, l’abbandonarono.
Nel Catalogo delle chiese di Roma, ora presso la Biblioteca Nazionale di Torino, fatto redarre intorno al secondo decennio del sec.XIV dalla Romana fraternitas in cui era riunita la gran parte del clero romano è segnalata la presenza di quindici fratres paupertatis presso la chiesa di san Giovanni a Porta Latina in Roma.
Il che lascia assai sorpresi: fratres paupertatis sarebbero gli esponenti della corrente spirituali del francescani caratterizzata dall’opinione, storicamente assai discutibile, dell’assoluta povertà di Cristo e degli Apostoli, dalla condanna della ricchezza laica ed ecclesiastica, dalla tensione apocalittica e dai malumori nei confronti della gerarchia della Chiesa dell’epoca, considerata troppo impegnata nella politica e poco nella salvezza delle anime. Spirituali che, come sa bene chi ha letto il Nome della Rosa, furono condannati ufficialmente da papa Giovanni XXII e bruciati a fuoco lento dall’inquisitore Bernardo Gui.
Il fatto che a Roma, benché fossimo ai tempi della Cattività Avignonese, potessero continuare vivere e predicare in santa pace, è probabilmente legato alla protezione della nobiltà romana e del Campidoglio: da una parte, una chiesa povera e aliena dal mettere bocca nelle cose terrene, non poteva che fare loro comodo. Dall’altra, sospetto che all’epoca avrebbero difeso a spada tratta qualsiasi idea bislacca, pur di fare dispetto al Papa.
Piccola divagazione: l’ultima roccaforte del movimento francescano spirituale fu Poli. Nel 1467, Papa Paolo II vi inviò i suoi inquisitori per catturare, essendo accusati di tale eresia, otto uomini e sei donne e condurli a Roma per sottoporli a giudizio. Costoro una volta presi furono condotti presso l’Aracoeli situata accanto al Campidoglio; fu per l’occasione innalzato un palco e qui, i presunti eretici con una mitra di carta sul capo, furono ammoniti da cinque vescovi affinché si convertissero.
Insomma, erano state fatte le cose in grande: dinanzi alla minaccia di finire sul rogo, ottimo argomento per convincere i recalcitranti, i fraticelli cambiarono rapidamente opinione e furono rivestiti con un vestito di tela recante sul petto e sulla schiena una croce bianca; quindi furono condotti in Campidoglio, dove furono oggetto del lancio di uova e verdura marcia.
Paolo II non pensò neanche per un momento di astenersi dal perdonare il barone Stefano Conti, colpevole come i suoi antenati di aver sempre protetto la Setta nel suo feudo, per cui lo fece imprigionare a Castel Sant’Angelo e gli impose di abdicare in favore dei figli. Con la popolazione di Poli invece il pontefice fu assai clemente: gli abitanti da quel momento in poi dovevano sottoporsi ad una penitenza annuale, ossia una processione da percorrersi nel primo giorno di Quaresima, dedicato a S. Rocco, nonché provvedere a organizzare e realizzare un pranzo per 12 poveri del paese. Tale castigo fu revocato solo nel 1886.
Tornando a San Giovanni a Porta Latina, a partire dalla metà del XVI e fino all’inizio del XVIII secolo, la chiesa fu sottoposta a una serie di interventi – che hanno provocato, tra l’altro, il danneggiamento dei dipinti murali medioevali – commissionati da alcuni cardinali titolari: nel 1566 da Alessandro Crivelli (1514-1574); nel 1570 da Giovanni Gerolamo Albani (1504-1591); nel 1656 da Francesco Paolucci (1581-1661); nel 1702 da Sperello Sperelli (1639-1710).
Nei secoli successivi la chiesa subì vari periodi di decadenza e altri interventi di ristrutturazione, fino a quando nel 1905, quando fu affidata alle monache dell’Ordine della Santissima Annunziata, vennero scoperti nel sottotetto sopra al presbiterio alcuni dipinti murali medioevali che diedero l’impulso, tra il 1913 e il 1915, per una complessiva opera di restauro sotto la direzione del sacerdote e archeologo tedesco, Joseph Wilpert.
Nel 1937 la chiesa fu affidata ai Padri Rosminiani,che nel 1940-1941, procedettero a un ulteriore restauro teso al ripristino delle strutture medioevali e alla demolizione di tutte le aggiunte apportate tra il XVII e il XVIII secolo.
Cosa c’è da vedere nella chiesa ? Superato il sagrato, con il pozzo medievale di cui ho accennato in precedenza, ci troviamo davanti la facciata, aperta in alto da tre finestre centinate, è preceduta da un portico, a cinque arcate, costituite da quattro colonne di marmo e granito, tre con capitelli ionici e uno dorico che, secondo la tradizioni, sono state tratte da un fantomatico tempio di Diana, costruito nel luogo dove oggi sorge San Giovanni a Porta Latina.
In realtà, sondaggi archeologici compiuti sotto l’abside della navata destra tra il 1913 e il 1915, brano murario orientato NE-SO con tracce di rivestimento marmoreo sulla faccia est e di un lacerto di pavimentazione a commesso marmoreo (opus sectile) redatto secondo moduli quadrati con motivo complesso e perciò di notevole livello qualitativo, il che farebbe pensare come la chiesa sorgesse sopra un complesso residenziale.
Nel mezzo del portico, vi è una porta marmorea senza sguincio, che ha intorno un ornato cosmatesco, con una cornice a mosaico in porfido rosso e verde; sopra è disegnato a monocromo nero un busto del Redentore tracciato su finto bugnato. Il portico doveva essere totalmente affrescato, ma l’intonaco è in gran parte caduto; ne restano sulla destra alcuni frammenti, uno dei quali sembra rappresentare la folla in ascolto della predica del Battista, il cui stile fa pensare che la mano sia la stessa di chi decorò le pareti della basilica sotterranea di San Clemente.
Sulla sinistra si eleva il campanile romanico del XII secolo, di forma quadrata a cinque ordini: il primo piano presenta una sola monofora tamponata, il secondo una bifora con archi poggianti su pilastro, mentre gli ultimi tre trifore su colonnine e capitelli. La cella campanaria conserva una campana del 1723.
L’interno è a tre navate, divise da due file di cinque colonne di spoglio (due di granito bigio, due di granito, due di cipollino, due scanalate di pavonazzetto, una di granito rosso, una di marmo bigio lumachellato). I capitelli sono tutti ionici: due antichi, del I secolo; gli altri otto sono stati eseguiti per essere adattati alle colonne, probabilmente nel V secolo. Le pareti della navata centrale hanno una fila di monofore a tutto sesto, riaperte dopo il ritrovamento degli affreschi e la demolizione delle strutture e delle decorazioni barocche. La navata centrale, alta m. 10,07 e larga m. 7,5 è coperta, come le navate laterali, da un tetto di legno a capriate moderno; anche il pavimento è moderno, mentre il pavimento della basilica del XII secolo si trova a 48 cm. sotto l’attuale (solo il portico ha conservato il livello primitivo).
Le navate laterali terminano con due ambienti rettangolari, in cui sono state ricavate le absidi; gli ambienti comunicano con il presbiterio mediante arcate. L’abside centrale è semicircolare all’interno, semiesagonale all’esterno; tre grandi finestre si aprono nell’abside. Nel presbiterio, separato da un gradino, è un pavimento in opus alexandrinum a disegno geometrico; il gradino è costituito da un rilievo con girali e testine di rara eleganza, che rappresenta un caso tra i più interessanti nel gruppo non folto delle opere di scultura a Roma tra fine XI e inizio XII. L’altare moderno utilizza come paliotto un frammento di pluteo preromanico con un arbusto centrale da cui si dipartono tralci che formano una serie di volute (IX secolo); esso è analogo a un altro frammento usato sul fronte del leggio di pietra, dove è stata sistemata anche la lastra con l’iscrizione del 1199. Nella predella dell’altare è inserita un’epigrafe che recita: Tit. S. Ioannis ante Portam La[tinam].
Ma la cosa più importante, è il ciclo di affreschi che decora la navata centrale, risalenti al XII rinvenuti durante il restauro del 1940, che ispirato alla decorazione che esisteva all’epoca nelle Basiliche di San Pietro e di San Paolo, è composto da 46 differenti scene del Vecchio e del Nuovo Testamento. Insieme con il salone gotico nel Monastero dei Santi Quattro Coronati, il ciclo di San Giovanni a Porta latina rappresenta uno degli esempi maggiori di pittura medievale a Roma, realizzati precedentemente all’importante periodo del Cavallini.
Al centro dell’arco trionfale è raffigurato il Libro dei Sette Sigilli, indice dei segreti nascosti di Dio, che doveva essere sorretto da una cattedra sormontata da croce gemmata; ai lati, due angeli in atteggiamento riverente e, dietro di essi, i simboli dei quattro Evangelisti. Sui peducci dell’arco sono dipinte due figure santi, identificate con Giovanni Evangelista, a destra, e Giovanni Battista. Il personaggio sulla destra sorregge un volume con l’iscrizione in principio erat Verbum, l’incipit del Vangelo di Giovanni. In alto corre una greca multicolore e prospettica interrotta da riquadri, nei quali si affacciano busti di angeli dalle mani velate. Una ghirlanda avvolta da un nastro chiude verticalmente i lati corti dell’arco. Le pareti laterali del presbiterio ospitano i ventiquattro Vegliardi dell’Apocalisse, genuflessi in direzione dell’abside e disposti su due file di sei.
Tutti reggono corone gemmate sulle mani velate. In basso quattro edicole, estremamente lacunose, inquadravano gli Evangelisti. Di esse rimangono solamente i tituli e i simboli inseriti in timpani. Le iscrizioni consentono l’identificazione di Marco e Matteo a sinistra e di Luca e Giovanni a destra I lati corti sono bordati dallo stesso motivo decorativo dell’arco absidale, mentre il fregio che in alto delimita la decorazione, è costituito da mensoloni abitati da elementi zoomorfi, fitomorfi e da esseri mostruosi. L’iconografia delle pitture dell’arco e del presbiterio è basata sull’Apocalisse (4-5), i cui prototipi figurativi sono da riconoscere da una parte nella pittura romana di V-VI secolo, dall’altra dalla produzione miniata di VI-X secolo.
Lungo le pareti della navata centrale le scene vetero e neotestamentarie si succedono con un andamento anulare che consente una lettura continua dei cicli scena dopo scena, senza ‘percorsi ciechi’ che obblighino a ritornare, passando da un registro all’altro, al punto di partenza. La sequenza delle scene della Genesi ha inizio sulla parete destra con la Creazione del Mondo, e prosegue – dall’abside verso la controfacciata – con le Storie dei Progenitori, di Caino e Abele, di Noè, di Abramo e di Giacobbe, per terminare con il Sogno di Giuseppe. Il ciclo continua sulla controfacciata e, successivamente, sulla parete sinistra fino all’abside.
Il programma neotestamentario segue lo stesso percorso, ma si sviluppa lungo i due registri inferiori delle pareti della navata centrale senza interessare la controfacciata. Comprendeva originariamente 30 scene a partire dall’Annunciazione per concludersi con l’Apparizione sul lago di Tiberiade. Dal momento che il ciclo delle storie veterotestamentarie scorre parallelo a quello delle storie neotestamentarie che occupa i due registri più bassi, vengono a crearsi degli accoppiamenti che, secondo la sensibilità dell’epoca dovevano mostrare la concordanza tra i due testi, con il Nuovo Testamento inteso come realizzazione delle profezie contenute in nuce nell’Antico.
Emblematico è quello tra la scena della Cacciata dal Paradiso e la Crocefissione correlate dal titulus che corre al di sotto dell’episodio veterotestamentario e al di sopra di quello neotestamentario: «Inmortalem decus per lignum perdidit hoc lignum». Dove la perdita dello splendore del Paradiso, la parola “decus”, splendore, sottintende “coeli”, a causa del legno dell’albero della Conoscenza verrebbe riscattata dal legno salvifico della croce.
Nella controfacciata, che rappresenta una sorta di Alfa e Omega della Storia Sacra dell’Uomo, il registro superiore sono rappresentate Il Lavoro dei Progenitori, Il sacrificio di Caino e Abele, l’Uccisione di Abele, La condanna di Caino, mentre in quello inferiore, separato dalle sovrastanti scene bibliche da una larga cornice a fasce ondulate, vi è una versione abbreviata del Giudizio con Cristo Giudice tra gli angeli. Ai lati del Salvatore, assiso entro un clipeo, stanno gli arcangeli con globo e cartigli, sui quali gli storici dell’arte leggono versi rivolti ai beati e ai dannati, rispettivamente “Venite benedicti fratres” e “Ite maledicti”. Due angeli per parte chiudono il registro. In basso, sotto i piedi del Cristo, è posto un altare con gli Strumenti della Passione.
Infine, nel catino absidale si trova un affresco realizzato nel 1715 da Antonio Rapreti sulla base di cartoni preparatori lasciati dal cavalier d’Arpino. L’affresco – che raffigura San Giovanni trascinato in giudizio dinanzi all’imperatore Domiziano – è stato riportato alla luce soltanto nel 2007 giacché era stato ricoperto per proteggerlo dai bombardamenti durante la seconda guerra mondiale e se ne era persa la memoria.