L’alto Arrigo

EnricoVII

Chiunque abbia frequentato le Superiori, anche per sentito dire durante le spiegazioni dedicate alla Divina Commedia, ha una vaga di idea di chi sia l’imperatore Enrico VII, dato che Dante, suo grande fan, lo cita a destra e manca. Però, i professori di italiano spesso trascurano di evidenziare qualche piccolo, interessante dettaglio su tale figura.

Il principale è che Enrico fosse di lingua e cultura francese: di conseguenza, parlava il tedesco piuttosto male, tanto da preferire, nella sua corte, l’uso dei volgari italiani. Essendo un vassallo di Filippo il Bello, non era inizialmente sgradito al papato avignonese, cosa che lo spinse a scendere in Italia, nella speranza di essere accettato anche dai guelfi.

In più il suo livello culturale era di parecchie spanne superiore a quello dei suoi contemporanei: cosa che, in alcuni suoi atteggiamenti, lo rende quasi un principe proto-rinascimentale. Ad esempio, fu un grande protettore di eruditi e letterati, convinto che ciò portasse lustro al sua stirpe, il cui prestigio nobiliare era alquanto ridotto e soprattutto, in linea con quanto fatto da Federico II di Svevia, utilizzò l’arte come strumento di propaganda politica e di costruzione della sua immagine.

Il culmine di tale strategia di costruzione del consenso avvenne in occasione della morte della moglie Margherita di Brabante, avvenuta a Genova fra 13 e 14 dicembre 1311, all’età di trentasei anni e causata da un’epidemia di peste.Le Cronache la descrivevano:

“piccola, minuta, con un viso tondetto quasi infantile, illuminato da due occhi come gemme”

Famose erano state anche le sue capacità diplomatiche e la Iustitia Imperialis che l’avevano connotata, tanto da aver indotto persino Dante si era rivolto a lei, per esprimere il sostengo all’impresa del marito

Per prima cosa, l’imperatore fece diffondere una serie di libelli, in cui la figura della donna, certo notevole, veniva esaltata sopra ogni misura, definendola buona come una Santa, umile ancella dei poveri in Cristo, misericordiosa per istinto.

E tanto ebbe successo, che una settimana dopo la sua morte, già veniva attribuito il primo miracolo e i suoi resti cominciarono a essere oggetto di un’intensa devozione popolare. La fama della sua santità si diffuse impetuosamente; voci di altre opere miracolose si propagarono, finché, nel 1313, ella fu dichiarata beata.

Inizialmente, Enrico aveva deposto le spoglie, racchiuse entro un sarcofago di piombo, nella chiesa genovese di Sa Francesco di Castelletto, vicino all’altare maggiore. Da Mussato si apprende che il sarcofago era privo di murature e di lapidi e come fosse una sistemazione provvisoria: Enrico, ricondotti all’ovile a forza di randellate i suoi inquieti sudditi italiani, sarebbe tornato in Germania e la moglie avrebbe avuto una più acconcia sepoltura.

Ma visto il successo della propaganda imperiale, decise di cogliere la palla al balzo; avrebbe fatto realizzare una tomba monumentale alla moglie, per mostrare nel concreto la grandezza della casata dei Lussemburgo e come la loro iniziativa, alla faccia degli intrighi papali e dell’opposizione guelfa, godesse della protezione divina.

margherita

Per questo, commissionò il mausoleo al più grande scultore vivente dell’epoca: Giovanni Pisano, figlio di Nicola. Benché Giovanni non fosse proprio giovanissimo, andava per i sessantacinque anni, non si tirò indietro sia per il prestigio della commissione, sia perché, diciamola tutta, un cliente che pagava sull’unghia 80 fiorini d’oro era difficile da trovare. In più, diciamola tutta, probabilmente voleva dimostrare a tutti come fosse tanto abile quanto l’amico rivale Arnolfo di Cambio, nel concepire e realizzare monumenti funebri.

Per vincere questa sfida postuma, Arnolfo era morto nel 1302, Giovanni concepì un monumento per l’epoca, era alto più di 10 metri, in marmo apuano, talmente visionario, che come concezione, sarà eguagliato solo nel Barocco, dal Bernini.

Giovanni concepì quindi un complesso di figure ascendenti verso l’alto, alla cui base situò le statue della Prudenza, della Fortezza, della Giustizia e della Temperanza, le quattro virtù cardinali, scolpite a tutto tondo e a grandezza naturale. Un cartiglio ne avrebbe contrassegnata l’identità. Per la Giustizia, pensò alla frase: «dilexisti iustitiam odisti iniquitatem», che lo slogan adottato da Enrico per giustificare la sua politica italiana.

Avrebbero poi sormontato le Virtù cinque statue di Dolenti, ciascuna ritratta in una posa differente: due in piedi, due in procinto di inginocchiarsi, una già in ginocchio. Dolenti che avrebbero avuto il compito di reggere il sarcofago contenente la salma di Margherita, su cui ne avrebbe collocato l’effigie,in cui l’imperatrici colta nell’atto di abbandonarsi al sonno eterno – decumbens – attorniata da amorini che l’avrebbero sostenuta nell’adagiarsi.

Ma il pezzo forte del monumento, sarebbe stata la sua ghimberga, ossia per chi poco bazzica il gotico, un frontone altissimo, appuntito, spesso fiancheggiato da due pinnacoli. Giovanni vi rappresentò l’elevatio animae, la salita in Paradiso dell’imperatrice, composta da tre figure svettanti verso l’alto.

L’anima – simbolicamente da lui resa quale giovane e bellissima donna, velata e col soggolo secondo la moda dell’aristocrazia femminile tedesca, cinta della stola maiestatis, allusiva alla sua immortalità e del suo ruolo politico sulla Terra – era aiutata da due angeli apteri ad ascendere in Cielo. Con un gesto dirompente nella tradizione iconografica medievale della Dormitio Virginis veniva adattata a un defunto laico.

E questo si concretizzò in una tensione verso l’Assoluto, che si articolava in un gioco di luci ed ombre e in un’armonica danza di tensioni contrapposte, che simboleggiava lo sforzo dell’anima, aiutata dagli angeli, a trascendere il peso della materia.

Sforzo che avrà esito positivo: come Bernini nell’estasi di Santa Teresa, Giovanni simboleggiò la bellezza spirituale con la sensualità terrena. Trasfigurò Margherita, idealizzandone il volto in un ovale perfetto. Con le labbra morbide e la bocca dischiusa, ne immortalò l’espressione di stupore, mentre risvegliatasi alla vita eterna, rivolgeva al Cielo che la stava per accogliere uno sguardo quasi incredulo e un sorriso grato e fiducioso.

Purtroppo, abbiamo un’idea assai vaga del monumento scolpito da Giovanni, per una serie di sfighe che gli si sono accanite contro nei secoli. Originariamente collocato nella cappella principale del coro di San Francesco in Castelletto, nel XVII secolo fu trasferito nel transetto della chiesa, riducendone la consistenza. Ma la dispersione del gruppo avvenne nel 1804, quando il presidente del Magistrato delle finanze decretò la vendita di tutte le sculture di marmo che si trovavano nelle cappelle della chiesa, che fu demolita.

Per una settantina d’anni, si persero le tracce delle statue, nel disinteresse generale, finché nel 1874 lo scultore Santo Varni ritrovò proprio la ghimberga nella villa Brignole Sale di Voltri; da quel momento in poi, cominciò una sorta di caccia al tesoro, che sta durando, con alterni risultati, sino ad oggi. Ad esempio, nel 1960, nel giardino di una villa genovese, fu ritrovata la statua della Giustizia, mentre frammenti delle altre virtù riemersero nel 1967 (testa della Temperanza) e nel 1981 (testa della Fortezza). A questi si aggiungono una statuetta rappresentante la Madonna, priva della testa e della figura del Bambino, ritrovata sempre negli anni Sessanta e due figurette di personaggi Dolenti, una delle quali nel Museo di Sant’Agostino e un’altra in una collezione privata ligure.

Cosa pensasse Enrico, del monumento dedicato alla moglie, è impossibile a dirsi, dato che morì poco prima che Giovanni cominciasse i lavori. Secondo quanto racconta Tommaso Montauri, l’imperatore spirò il 24 agosto 1313 a ora nona nella chiesa di San Pietro a Buonconvento. La leggenda racconta come Enrico fosse stato ucciso da un’ostia avvelenata datagli da un frate di nome Bernardino da Montepulciano. La realtà, però, è ancora più assurda!

Enrico VII aveva contratto l’antrace, una infezione acuta che crea piaghe di colore scuro e che all’epoca per curarla si usavano impacchi all’arsenico e proprio questa cura, provocò la sua morte. Dato il caldo estivo, era impossibile riportare il cadavere dell’Imperatore in Germania, senza che si decomponesse. Per cui, il suo seguito decise di asportare le viscere di Enrico, che vennero sepolte nella chiesa di Sant’Antonio a Buonconvento: poi imbottì il corpo con paglia, per dargli volume, e con erbe aromatiche, per coprire i cattivi odori, e lo imbellettò, in modo che sembrasse ancora vivo. Fatto questo, cominciò il viaggio verso Nord.

Ahimè, il fetore divenne presto insopportabile; per cui, per risolvere il problema, fu fatta una sosta a Suvereto, dove fu tagliata la testa al cadavere e il corpo venne bollito per separare la carne dalle ossa, che a loro volta, furono messe sotto sale e spedite a Pisa, dove questa vicenda pulp ebbe fine.

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I toscani, ghibellini, decisero di onorare Enrico con una tomba monumentale: essendo Giovanni impegnato a Genova per la tomba di Margherita, affidarono l’incarico al suo allievo Tino da Camaino. Se Giovanni incentrò il mausoleo dell’imperatrice sulla dialettica tra Umano e Divino, da una parte lo slancio dell’Essere verso l’Assoluto, dall’altra il carisma divino che legittimava l’autorità imperiale.

Tino, invece, si concentrò sulla Maiestas, l’autorità, che in senso tomistico, nasceva dalla Legge e dal rispetto dell’Ordine razionale del Mondo, in cui la corte terrestre era specchio, per quanto imperfetto, di quella divina.

I patti tra Tino, che ricopriva l’incarico di capomaestro del Duomo e la committenza furono redatti il 12 febbraio 1315, ma è verosimile che i lavori fossero già cominiciati nel 1313. Tino ritirò costantemente la retribuzione settimanale dovuta, con la quale era lui stesso a pagare i propri collaboratori; non si presentò, però, al ritiro dell’ultimo pagamento. Il monumento, evidentemente ultimato, fu comunque messo in opera in tempi rapidi, entro il luglio del 1315, assieme alla decorazione pittorica parietale che lo accompagnava.

Come mai Tino, anche troppo attento alla puntualità della sua retribuzione, era scomparso nel nulla? Il motivo fu lo scoppio della guerra tra pisani e lega guelfa, di cui faceva parte anche la città di Siena, in cui l’artista era nato. Da buon patriota, Tino si arruolò nell’esercito senese, ma mal gliene incolse. Le truppe guelfe ricevettero una sanguinosa batosta nella battaglia di Montecatini del 29 agosto 1315. Di conseguenza, i pisani, a fronte di tale tradimento, lo licenziarono in tronco. In più, per evitare il ripetersi in futuro di tali fatti incresciosi, il Consiglio degli anziani del Comune di Pisa decise che nel futuro nessun guelfo avrebbe potuto ricoprire l’incarico di capomastro del Duomo

Ora, la tomba di Enrico è ancora più misteriosa, nel suo aspetto originale, di quella della moglie:la tomba rimase nell’abside del duomo fino al 1494, quando fu smontata e una parte di essa fu ricomposta alla parete est del transetto destro. Fu danneggiata nell’incendio del 1595, e le parti furono riutilizzate in altri luoghi della piazza del Duomo, compreso il Camposanto monumentale, finché Peleo Bacci le riposizionò, nel 1921, nella collocazione quattrocentesca, nella quale tuttora si trovano, lavorando molto di fantasia.

La maggiora parte degli storici dell’arte ipotizza come la tomba fosse molto simile al monumento funebre dei conti Della Gherardesca, scolpito da Lupo di Francesco, altro allievo di Giovanni Pisano. Si trattava quindi di un un grande monumento a parete, molto aggettante, suddiviso in più livelli al di sopra di un altare dedicato a san Bartolomeo, a cui era dedicato il giorno della morte di Enrico. Un livello era occupato dalla cassa col gisant, accompagnato dagli Angeli col cartiglio e dagli Accoliti, un secondo (più in alto) ospitava la scena dell’imperatore in trono accompagnato dagli altri personaggi

Tomba che tra l’altro, fu ispezionata nell’Ottobre 2014. Oltre a scoprire come Enrico, per l’epoca era quasi un gigante, era alto un metro e ottanta, furono ritrovate le sue insegne regali: corona, scettro e globo. Questi coincidono perfettamente con quanto rappresentato nel Codex Balduineus, un codice miniato che descrive l’impresa italiana di Enrico, commissionato dopo il 1330 da suo fratello Baldovino, Arcivescovo di Treviri.

Insegne che erano accompagnate un drappo rettangolare lungo oltre tre metri e largo 120 cm, realizzato con bande di seta alte circa 10 cm alternate nei colori nocciola rosato, dal rosso originale, e azzurro. Le bande azzurre risultano operate in oro e argento con coppie di leoni affrontati, simbolo della sovranità, mentre una complessa decorazione monocroma tono su tono è presente nelle fasce rosate. All’inizio della pezza, su di una fascia rosso violaceo listata in giallo, appaiono delle tracce di iscrizioni non ancora interpretate. Elemento caratteristico, e che rende unico il manufatto, è la presenza sui lati lunghi delle cimase e sui lati corti, di due bande a piccoli scacchi: di fatto potrebbe essere lo stendardo imperiale.

Tino_di_camaino,_statue_dal_monumento_funebre_di_arrigo_VII_di_lussemburgo,_1313,_01

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