Parilia

Parilia

I Parilia erano la seconda della feste arcaiche, legate al mondo rurale, che, dopo i Fordicidia, veniva celebrate a Roma in Aprile. In particolare, la sua data coincideva con il dies Natalis dell’Urbe. Nonostante l’ovvia derivazione da parĕre “partorire” già nota agli antichi, il nome di questa festa romana deriva da Pales dea della pastorizia, detta anche diva Palatua, che aveva un flamine (fl. Palatualis) e un’offerta sacrificale (Palatuar) proprî.

La dea Pales si trova concepita anche sotto forma maschile: probabilmente i due formavano una coppia, in analogia a parecchie delle divinità dei prisci latini, come sembra potersi dedurre dalla festa dei due Pali (Palibus II) che si trova registrata al 7 luglio nel Calendario anziate precesareo.

La festa aveva due forme rituali leggermente dissimili, una urbana (che si svolgeva a Roma) ed una rurale. Ovidio ci dà una descrizione di entrambe in sequenza, cominciando dal rituale della festa in Roma. Nel rito urbano si eseguiva una lustrazione sull’ara di Vesta colla partecipazione della vestale più anziana che vi bruciava profumi e poi vi mescolava cenere di vitello (sacrificato nelle precedenti Fordicidia), sangue di cavallo (il cavallo di destra della biga vincitrice della festa dell’equus October dell’anno precedente) e steli di fave.

Nella versione rurale descritta di seguito il pastore spruzzava d’acqua il gregge, scopava l’ovile e lo ornava di fronde. Bruciava poi fronde d’olivo, zolfo, erbe sabine e fronde di lauro stillante d’acqua con fiaccole. Offriva poi latte, miglio e pizze di miglio a Pale. Doveva quindi recitare quattro volte una preghiera in cui si domandava venia al nume per l’infrazione di interdetti operata dal pastore stesso o dal suo gregge e se ne chiedeva l’intervento per placare le divinità offese per avere:

«violato luoghi sacri come alberi, erba di tombe, boschi interdetti;
tagliato fronde di boschi sacri;
essersi rifugiato col gregge in templi per sfuggire il maltempo;
aver turbato laghi e fonti cogli zoccoli degli animali.
Visto esseri divini (Fauno, Diana, ninfe ed ogni altro nume dei luoghi selvaggi anche ignoto) obbligandolo con ciò a fuggire.»

La preghiera doveva esser recitata rivolti ad Oriente. Poi il pastore doveva lavarsi le mani, bere latte e sapa (bevanda preparata dalla bollitura del vino) ed infine saltare tre volte tra le stoppie incendiate.

Di fatto, tutti questi riti erano riconducibili a un’arcaica forma di lustratio, il rito con cui si purificava dalla sua colpa chiunque compiva un’azione che turbava l’ordine primigenio, lo stato antecedente alla civiltà, in cui l’Uomo viveva in armonia con la Natura. Ora, per la strana mentalità dei prisci latini, il nascere, l’intraprendere una nuova impresa, il costruire una casa erano tutte attività che rientravano in tale tipologia di violazione, soggette quindi a una pubblica espiazione.

Con l’evoluzione della vita urbana e la sostituzione progressiva del concetto di nefas, tutto ciò che non era lecito compiere, in quanto vietato dai Numi, con quello dell’iniustum, violazione della legge positiva umana, il rito di espiazione si trasformò in uno di buon augurio.

Ad esempio, si eseguiva una lustratio in occasione della nascita di un bambino: in quel giorno, detto dies lustricus, tutti coloro che avevano toccato la madre si lavavano solennemente le mani e si imponeva il nome al neonato. Per cui, le Parilia erano le lustratio delle nuove greggi.

Tornando alla mentalità arcaica, era ovvio, che la trasformazione di un gruppo di villaggi distribuiti in un territorio sparso in un centro urbano unitario, doveva essere percepita come somma violazione dell’ordine naturale, da espiare con grandi cerimonie da ripetere ciclicamente. Per cui, i Parilia, da rituale dei pastori, divenne per estensione un rito civico.

Successivamente, quando tra i clan dominanti dei latini e dei sabini di raggiunse una sorta di compromesso, basata sulla condivisione del potere, la cerimonia divenne una metafora dell’unità raggiunta: da una parte il rito comprendeva elementi derivati sia dalla Fordicidia, la cenere di vitello, che era la festa tribale dei sabini, sia dall’October Equus, il suo equivalente presso i latini.

L’October Equus, per chi non lo un sacrificio animale in onore di Marte, che si celebrava il 15 ottobre, in coincidenza con la fine della stagione agricola e delle attività militari. Il tutto cominciava con una corsa di bighe, che si svolgeva a Campo Marzio.

Al termine della gara, il cavallo di destra della biga della squadra vincente era trafitto mediante una lancia, il flamine marziale, e quindi sacrificato. La testa (caput) e la coda (cauda) del cavallo erano tagliate ed asportate e utilizzate separatamente nelle due fasi successive delle cerimonie: due quartieri mettevano in scena una lotta per il diritto a mostrare la testa, mentre la cauda da poco tagliata era portata alla Regia per alimentare il fuoco sacro di Roma.

Un rito antichissimo, di ascendenza indoeuropea, in cui da una parte si celebrava Marmar, Marte, che all’epoca era il dio sommo dei Latini, il garante dei confini, delle leggi e del fluire delle cose, dalla creazione alla distruzione, ossia per usare un termine indiano, del Dharma. Dall’altra invece, assicura la protezione del Dio al rex e alla sua gens.

Questa trasformazione della lustratio in una celebrazione dell’unità cittadina, provocò la differenziazione tra i Parilia urbani e quelli rurali, ulteriormente accentuata nell’epoca etrusca, quando la riscrittura in chiave tirrenica delle origini della città, fece parzialmente perdere il senso originario di quelle festività.

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