Pietro da Morone, durante il suo breve papato, cercò di radicare il suo ordine religioso dei celestini: questo compito fu delegato al suo braccio destro Roberto da Salle, che, con straordinaria energia, riempì Abruzzo e Molise di questi monasteri.
Tra i principali, vi fu quello di Santo Spirito a Lanciano, che godette di grande importanza, come abbazia benedettina suffragata a San Giovanni in Venere, fino al XVII secolo. Il convento era proprietario di diversi feudi dell’entroterra frentano, arrivavando ad avere possedimenti anche nella vallata dell’Osento e del Trigno; la sua decadenza fu però causata dalla peste del 1656, che spopolò la zona.
Da quel momento il convento andò in un lento declino, fino a che, con le leggi napoleoniche e poi piemontesi nel 1866, il monastero fu requisito e adibito a rimessa e poi a deposito di ceramiche e zona botteghe, solo la chiesa rimase attiva: la struttura venne ridimensionata, e il chiostro abbandonato.
Fino al XX secolo era ancora consacrata ancora come chiesa, fino alla sconsacrazione e all’uso di fabbrica di ceramiche e mattonelle negli anni ’60. Un progetto voluto dall’amministrazione di Lanciano e da associazioni di storici, in accordo con il Comune e la Soprintendenza d’Abruzzo, ha permesso il restauro della chiesa, in stato di precarie condizioni, soprattutto il chiostro dell’ex convento era crollato in più parti, e si giunse alla riapertura nel 2010, sotto la forma di polo museale, ospitando il Museo Civico Archeologico mentre un’altra sala avrebbe accolto varie mostre culturali, la chiesa invece sarebbe stata auditorium pubblico.
Il convento si compone di una chiesa e di un vasto chiostro quadrato, con mura perimetrali e ingresso a due arcate moderne in pietra con copertura in legno del tetto. La chiesa ha facciata gotica con un bel portale tardo duecentesco, di scuola sulmonese angioina, decorato da cornice ogivale e fogliette d’acanto, con lunetta senza affreschi, forse in precedenza ne aveva uno. L’impianto a navata unica è rafforzata ad ambo i lati da tre contrafforti.
Come citato, parte della struttura è adibita a sede del museo civico archeologico, che sino al 2011 era ospitato presso il palazzo Stella nel centro storico, in via Cavour, ora sede della Canadian Renaissance School.
Il percorso in una sola sala, offre una storia, dalle origini sino al tardo periodo romano e all’inizio di quello bizantino, della presenza umana a Lanciano e dintorni. Nell’epoca pelasgica infatti il colle di Lanciano vecchio (il Colle Erminio), non era completamente popolato, ma solo alcune parti del fosso Diocleziano, di Largo San Giovanni e Largo dei Frentani, esistevano insediamenti anche nei dintorni, i villaggi di capanne di località Serre – Marcianese, Cerratine, e anche a San Giovanni in Venere.
Gran parte del materiale rinvenuto consiste in piccole sculture votive, come gli amuleti ritrovati nella cripta della chiesa di San Biagio o in quella di San Francesco d’Assisi, teste di divinità, spade ed elmi, e soprattutto molta ceramica, anche di importazione, visti i commerci di Anxanum con altre civiltà.
Tra le opere figura una preziosa lapide rinvenuta nel ‘500 nella piazza, durante i lavori di costruzione della torre campanaria della Cattedrale, venendo murata sulla facciata, e poi rimossa in seguito ai danneggiamenti dei bombardamenti del 1944. La lapide è coeva di un’altra rinvenuta dallo storico Omobono Bocache nei fondaci del Ponte di Diocleziano, che parla del pretore romano che fece restaurare il sito. La lapide della Toree rriporta invece:
IMP. CAES. AVG. ANXIANO ADSTANTE ORDINE / CVM PARTIBVS AVIONVS IVSTINIANVS RECTOR / NOMINATAM DECVRIONVM QUAM ETIAM COLLEGIA./TORVM OMNIVM PVBLICE INCIDI PRAECEPTI. V.T.
Segue un elenco dei decurioni che amministravano la città, nel I secolo.
I reperti più antichi riguardano vasellame e ceramiche, appartenenti alla popolazione dei Frentani, stanziata inizialmente in piccoli villaggi delle contrade, come Serre e Marcianese, e successivamente arroccatisi sul Colle Erminio di Lanciano Vecchio. In località Gaeta sono state rinvenute tombe di due guerrieri (1965), con corredo interessante: vasellame, ceramiche a figure nere del VI-V secolo a.C., e una collana di pasta vitrea per il corredo femminile. Altre ceramiche più tarde risalgono al IV-III secolo a.C., a testimonianza dei commerci e degli scambi della città con altre realtà locali, dato che Anxanum usava anche il porto di San Vito per i traffici. Tra questi vi è una testa di divinità in terracotta, probabilmente Minerva (II secolo a.C.).
All’età tardo-antica risalgono i reperti rinvenuti negli scavi negli anni 1990-94 in Largo San Giovanni e in Piazza Plebiscito; il ritrovamento di statue, e teste, dimostra che la città, anche nei periodi del tardo Impero (III-IV secolo d.C.), avesse continuato a proliferare economicamente. La testa marmorea di Diocleziano, che avvicina sempre di più alla quasi certezza che il ponte sotto la Cattedrale fu fatto erigere da lui, come riporta anche l’iscrizione rinvenuta da Bocache, oggi è conservata nel Museo Archeologico di Chieti. I reperti continuano sino alle soglie dell’VIII secolo d.C., quando l’area frentana fu conquistata dai Bizantini: di interesse, conservata nel museo, è un’anforetta in ceramica rinvenuta in contrada Sant’Amato nel 1968, catalogata del “tipo Crecchio”, poiché questo comune a poca distanza da Lanciano è ritenuto uno dei centri più importanti di fondazione bizantina, che ospita il Museo dell’Abruzzo Bizantino Altomedievale nel castello ducale. Altri frammenti ceramici e di vasellame del modello africano-mediterraneo, dimostrano che Lanciano anche in quest’epoca continuò ad avere scambi con diverse popolazioni della fascia italico-mediterranea, e non solo con le città confinanti.
Sino a qualche anno fa, il chiostro dell’ex monastero di Santo Spirito era sede di alcuni eventi della Settimana Medievale di Lanciano, con la rievocazione dell’investitura del Mastrogiurato, una sorta di prefetto, nominato dai regnanti angioini per controllare le città del Regno di Napoli, come la Panarda, una cena medievale che si svolgeva con una tavolata enorme in cui veniva servita ogni tipo di pietanza, dalla zuppa di farro ai cosciotti di agnello.
Uno dei luoghi di Palermo che è tanto noto ai suoi abitanti quanto sconosciuto ai turisti è l’Educandato Maria Adelaide, a Corso Calatafimi, proprio davanti il Reale Albergo dei Poveri: il motivo di tale paradosso è alquanto banale. Essendo una scuola, è logisticamente assai complesso visitarlo, senza complicare la vita a studenti e professori.
L’origine del complesso è dovuta alla congregazione di San Francesco di Sales, che pur essendo presente a Palermo dal 1697, non aveva mai trovato una sistemazione stabile, cambiando più volte sede: stanca di questa condizione nomade, nel 1735, la nuova Superiora francese, proveniente da Annecy, prese a censo un terreno di proprietà dei Padri Minimi del monastero della “Vittoria”, posto subito fuori Porta Nuova; il fondo era situato in quello che, all’epoca, era noto come lo stradone di Monreale.
Così le suore, con solenne cerimonia, il 25 agosto del 1735, posero la prima pietra del complesso conventuale. Ora, nella prima metà del Settecento, Palermo si stava espandendo fuori le mura lungo tre direttrici: Bagheria, Piana dei Colli, Monreale. Mentre le direttrici verso est (Bagheria) e verso ovest (Piana dei Colli) si arricchirono con la costruzione di numerosissime ville, quella verso Monreale fu assai meno urbanizzata: per cui, la scelta di un terreno su quella strada permise alle suore di andare al risparmio.
Sempre in ottica di contenimento costi, il progetto fu affidato a Casimiro Agnetta, domenicano, uno dei tanti preti architetti che popolano il Barocco e il Rococò palermitano: Casimiro, allievo degli Amato, aveva lavorato a San Domenico e nel convento del Santissimo Salvatore.
Da quel poco che conosciamo dei suoi lavori, non è mai stato studiato a fondo, Casimiro concepì un linguaggio architettonico orientato, più che al fasto, alla solennità e alla funzionalità: forse è questo il motivi del suo scarso successo commerciale dinanzi a una committenza, che invece aveva priorità opposte.
Casimiro concepì una facciata sobria e severa, a tre ordini di finestre, tanto alte da permettere dall’interno soltanto la vista del cielo, interrotta da un portale con colonne e timpano spezzato che conferisce dignità all’insieme. Un ulteriore elemento architettonico apprezzabile, era il cortile interno delimitato da un porticato ad archi a tutto sesto.
Il convento fu inaugurato nel 1738: le funzioni religiose si svolgevano in una cappella provvisoria, anche se probabilmente Casimiro aveva progettato una sua versione della nostra chiesa di San Francesco di Sales, che non fu realizzata forse per mancanza di fondi. Con il tempo, però, le monache cominciarono a lamentarsi per la scomodità, per cui fu deciso di costruire finalmente la chiesa
Interno chiesa San Francesco di Sales
L’incarico per la chiesa di San Francesco di Sales fu affidato al solito Giuseppe Venanzio Marvuglia, che, nonostante la sua straordinaria abilità nel piagnisteo e nel farsi passare come genio incompreso, era tra gli architetti di maggiore successo della sua epoca e che conosceva bene la zona, avendo lavorato anche al Reale Albergo dei Poveri.
Giuseppe stavolta, forse perché le monache non erano di manica larga, non è che si impegno parecchio nel progetto, limitandosi ad aggiornare quanto concepito una quarantina d’anni prima da Casimiro Agnetta. Ad esempio, la facciata, che ha la stessa altezza dell’Educandato, riprende lo schema compositivo del tardo barocco, con i suoi forti valori plastici e contrasti di luci e ombre.
I due ordini sovrapposti, in basso ionico, in alto corinzio, coronati da un frontone, posto all’ attico, sono arricchiti dalla presenza di 4 nicchie laterali, che con la loro funzione chiaro – scurale modulano armoniosamente il rifrangersi della luce sulle pareti. Forti paraste accoppiate ad una trabeazione incorniciano il portone d’ ingresso che immette in un vestibolo costituito da due colonne libere che, sorreggendo il coro da cui le religiose potevano assistere alle sacre funzioni attraverso una grata, creano tre grandi intercolumni.
L’interno della Chiesa, tripartita in lunghezza, presenta un arioso impianto ad aula unica con quattro cappelle laterali addossate alle pareti e testimonia come Giuseppe si sia limitato moderare il già contenuto barocco di Agnetta, riuscendo comunque a non far perdere grandiosità e monumentalità all’edificio, sostituendo la sua predilezione per le linee rette neoclassiche alle linee curve ipotizzate dal predecessore.
La chiesa, inaugurata nel 1776, sempre per andare al risparmio fu decorata con pale d’altare del buon Gaetano Mercurio, già ai suoi tempi definito
triviale, scorretto disegnatore e fosco coloritore
Gli anni, ahimè, non hanno moderato tale giudizio. Come tutte le chiese palermitane che si rispettino, anche San Francesco di Sales ha la sua buona cripta, in cui venivano seppellite le suore, riscoperta per caso nei lavori di ristrutturazione del 1970, che è di forma rettangolare, ricoperta con volta a botte umettata e si sviluppa sotto l’altare maggiore. Sulla parete sinistra si scorgono ancora le tracce delle nicchie dove venivano deposti i cadaveri. In basso ci sono i ‘”colatoi” destinati alla essiccazione dei cadaveri e al centro vi è la botola che immette nell’ossario.
Due sono le peculiarità di questa cripta: la prima è il suo essere antecedente alla chiesa e quindi, probabilmente, concepita nel progetto originale di Agnetta. Questo è testimoniato da un pannello realizzati mattoni di ceramica, dai colori delicatissimi che riporta un’epigrafe che ricorda che lì sotto giace suor Maddalena Zangarna morta nel 1749.
La seconda riguarda una vicenda romanzesca accaduta ai tempi dell’epidemia del colore del 1837, quando giunsero a Palermo due suore da Friburgo: una divenne la direttrice dell’Educandato, la seconda, suor Maria Maddalena Clotilde Grandjoan, ci lasciò le penne il 3 agosto.
Le religiose non intendendo separarsi dal corpo della consorella, poiché era proibito seppellire cadaveri nelle chiese, di notte fecero scavare una buca nel pavimento della cripta e vi misero la cassa con il corpo della suora.Per non perdere il ricordo di suor Maria Maddalena Clotilde, deposero dentro la fossa la piccola lapide con l’iscrizione, aspettando tempi migliori che non arrivarono. E così sotto una piccola lastra seppellirono il corpo della suora, ma anche il loro segreto.
Tornando alla storia dell’Educandato, nel 1779 Ferdinando III di Borbone decretò che il monastero ospitasse venti fanciulle nobili, ma povere, e che ivi venisse impartita loro una educazione morale e manuale atta a farne delle donne “di buon senso e virtuose”.
L’ anno successivo, su richiesta delle deputazioni (quella del Convitto Real Ferdinando e quella dei Regi Studi) che sovrintendevano amministrativamente e giuridicamente all’educandato, il sovrano stanziò delle somme e delle rendite per ampliare l’edificio e renderlo adatto ad ospitare le “nobili zitelle”. Anche questa volta i lavori vennero affidati al solito Marvuglia che progettò un nuovo edificio a monte della chiesa, anche in questo caso, senza sprecarsi troppo.
Il prospetto riprendeva fedelmente quello dell’ edificio di Agnetta; al centro della nuova ala spicca un nuovo portale con balcone sovrastante. Quando nel 1782 i lavori furono ultimati, almeno in parte, il grande complesso architettonico era costituito da due ali simmetriche poste a valle e a monte della chiesa e l’intero complesso fu intitolato alla Regina Maria Carolina. Così nel 1783, cominciarono le lezioni e neppure a dirlo, le polemiche. Non sopportando più le lamentele e le pretese delle suore, i Borboni, nel 1840 decisero la separazione del monastero che rimase allocato nella parte più antica dell’ edificio, dall’ educandato, che trovò sede nella parte nuova e che fu affidato alle cure di una direttrice laica.
Dopo l’Unità d’Italia, nel 1863, ad opera del Ministro della Pubblica Istruzione Michele Amari, l’ Educandato ebbe un nuovo regolamento e fu amministrato da un consiglio di vigilanza, costituito dal Rettore dell’ Università e da due consiglieri, uno comunale e uno provinciale. Infine, per ribadire il cambio di regime e la damnatio memoriae nei confronti dei Borboni, venne intitolato a Maria Adelaide di Savoia, consorte di Vittorio Emanuele II. In seguito furono ristrutturate anche alcune parti dell’ edificio;
Nel gennaio 1881 la regina Margherita e il re Umberto I, in visita al Maria Adelaide, erano dovuti salire ai piani superiori in fila indiana perché la scalinata era stretta. Allora i responsabili della scuola promisero che nella successiva visita i regnanti avrebbero trovato una scala più consona al loro rango. Così fu: dieci anni dopo, nel 1891, lo stupore della regina fu immenso nel vedere il magnifico scalone sul quale poté inerpicarsi a braccetto di Sua Maestà.
Nel 1888 infine, passato tutto l’ edificio alla proprietà statale, dopo che le ultime quattro monache furono trasferite altrove, vennero avviati lavori di ristrutturazione del vecchio monastero. Ebbe l’ incarico l’ ingegner Decio Bonci che, tra l’altro, al pianterreno ricavò un grande refettorio decorato da piastrelle di maiolica alle pareti e da pitture floreali sul soffitto
Subito dopo, negli anni 1890-97 nell’ala più moderna, ad opera dell’ingegner Greco, furono ricavate sale di rappresentanza e una sala-teatro che venne decorata dal pittore Rocco Lentini, con affreschi a motivi floreali sul soffitto che reca al centro un medaglione con l’immagine della Regina Maria Adelaide. Solo nel 1994, il ginnasio fu aperto agli studenti maschi, mentre lo stesso avvenne nel 2003 per le elementari.
Nell’edificio spiccano due perle: la prima è la straordinaria biblioteca, che si si affaccia su uno dei giardini dell’ edificio da sempre denominato “delle palme” per la presenza di queste piante che abbelliscono le sue aiuole. All’interno di questa biblioteca troviamo circa 6000 volumi, di diversa datazione, che trattano numerosi argomenti. Da temi di cultura a temi di formazione: romanzi, classici di letteratura, enciclopedie, libri di arte, di lavori domestici, libri in lingua straniera, libri di galateo, testi teatrali in lingua originale, spartiti di musica, e inoltre disegni, fotografie, pitture, quaderni scolastici e opuscoli che raccontano lo stile di vita delle educande all’interno dell’ istituto.
Refettorio Liberty
La seconda è il refettorio liberty, con il soffitto e i muri decorati con dei motivi floreali e da nodi d’amore che si ripetono a intervalli regolari, anche nei vetri delle finestre e delle porte. Ma la caratteristica principale di questo refettorio è il Lambrì, piastrelle in maiolica, fatto a Vietri sul Mare, vicino Napoli. E’ rappresentato un tipico paesaggio siciliano: canne da zucchero, pale di fichi d’India e nello sfondo il mare. I colori prevalenti sono il verde, il giallo e il blu, che ritroviamo in molti panorami della nostra isola. Un altro particolare, che richiama lo stile Liberty, è nei sei lampadari in Murano, decorati da Iris e Gigli, fiori presenti in parecchie opere create durante questo stile. Anticamente vi mangiavano le educande, adesso vi pranzano gli studenti del liceo e le convittrici.
Accanto al refettorio antico, collegato da una porta di vetro, si trova la stanza dove vi pranza la preside, ma quando c’erano ancora le suore, qui vi mangiava la suora Badessa. E’ arredata con mobili essenziali: due credenze in stile ligneo, con incisioni decorative e degli specchi applicati, un tavolo molto semplice, rotondo e due pianoforti. In più troviamo un lampadario in ferro battuto, molto semplice e lineare, che non ha niente a che fare con i sei lampadari del refettorio
La località di Pulcherada, dal latino medioevale porto bello era posta sulla riva destra del Po, lungo la strada che collegava Augusta Taurinorum con Industria, è sede di un’antica abbazia: recenti scavi archeologici, oltre a portare alla luce una necropoli longobarda, hanno evidenziato come una comunità monastica esistesse già tra il 500 e il 700 d.C., su di un preesistente insediamento di epoca romana.
Monastero che era senza dubbio fiorente, essendo al centro di una grande azienda agraria (una curtis), cosa che, oltre a trasformarlo nel nucleo centrale del primo centro abitato che si costituì intorno a essa, al cui capo vi era l’abate, ai tempi della decadenza dell’impero Carolingio, lo rese oggetto di attenzioni non desiderate.
Infatti, il primo documento che menziona l’abbazia è il diploma, in data 4 maggio 991, di fondazione del monastero benedettino di Spigno, ad opera di Anselmo I marchese di Saluzzo, e da esso risulterebbe come Pulcherada fosse stata distrutta da “uomini cattivi”, ossia i pirati musulmani che si erano stabiliti in Provenza e in Delfinato.
Tra l’889 e l’890, secondo quanto racconta il solito Liutprando branchi di pirati musulmani sbarcano sulle spiagge oggi francesi di Saint-Tropez e dintorni e si accampano sul Monte dei Mori, attorno a Frassineto (La-Garde-Freinet), che assunse il nome di Jabal al-qilâl, “monte del legno”.
Stanziamento che aveva una duplice funzione da una parte, era una sorte di emporio commerciale, dove i feudatari carolingi compravano beni di lusso, schiavi e assoldavano i mercenari e Al-Andalus comprava materie prime, tra cui il legno.
Dall’altra, fungeva da base per razzie per villaggi e monasteri indifesi: a sentire i cronisti dell’epoca, i saraceni di Frassineto in poco tempo invasero i territori di Arles e Fréjus, distruggendo Ventimiglia e assicurandosi il controllo del litorale fino ad Albenga. Nell’897 presero Apt. L’anno successivo fu il turno de monastero di Saint-Césaire d’Aliscamps: poi devastarono le campagne di Antibes e Nizza, incendiarono l’abbazia di San Ponzio a Cimiez, saccheggiarono quella dell’isola di Lérins. Dopo avere preso il controllo dei principali passi delle Alpi Marittime, invasero il Piemonte nel 907, distruggendo i monasteri della Novalesa e di Oulx.
Una colonna proveniente dal colle di Tenda saccheggiò il monastero di San Dalmazzo di Pedona, nei pressi dell’odierna Cuneo. Un’altra, calando dal colle d’Ardua, assalì Chiusa di Pesio e Bredulo (Mondovì). Anche Acqui fu saccheggiata e un drappello di saraceni si stabilisci persino nei pressi Tortona. Genova fu assaltata una prima volta senza successo nel 931, poi saccheggiata nel 935. Ma in questo stesso anno i musulmani sbarcano anche ad Albenga e a Savona, distrussero le abbazie di San Pietro in Vendersi e Giusvalla, effettuando scorrerie nel territorio di Alba. Nel 936 fu attaccata nuovamente Acqui. L’offensiva non riesce e il capo della spedizione araba, denominato Sagitto dai cronisti subalpini, perse la vita nello scontro.
Stando a una tradizione, tuttavia non suffragata da documenti attendibili, la difesa della città sarebbe stata assicurata gagliardamente da Aleramo, allora solo conte. Nel 937 gli arabi raggiunsero addirittura la Svizzera meridionale e la Rezia. Nel 950 ripresero le scorrerie in Francia e nel 951 fu saccheggiato il territorio di Grenoble. Nel 962 il principe Adalberto d’Ivrea, figlio di re Berengario II e associato al trono d’Italia, si recò addirittura a Frassineto per concordare un’alleanza contro l’imperatore Ottone I, d’intesa niente di meno che con papa Giovanni XII e i bizantini d’Oriente.
Fu nei pressi di Orsières che i frassinetani fecero un passo falso col sequestro di san Maiolo, potente abate di Cluny. L’azione precipitò gli eventi: Jabal al-qilâl venne distrutta nel 972-973 o 983 dalle forze congiunte di liguri e provenzali, organizzate da Guglielmo I di Provenza con l’aiuto del piemontese Arduino il Glabro e col sostegno di Papa Giovanni XIII e dell’imperatore Ottone I di Sassonia.
Quindi è assai probabile che, in quasi un secolo di spedizioni militari, Pulcherada possa essere stata saccheggiata. Il documento del 991 segnala la presenza nella chiesa delle spoglie di san Mauro, un discepolo di san Benedetto impegnato in Gallia nella diffusione della Regola, il cui culto, promosso dal movimento monastico di Cluny, fu legato alla comunicazioni attraverso le Alpi. Fra Quatto e Cinquecento, per la probabile rimozione della reliquia del santo e per il rilancio del culto mariano dovuto al concilio di Trento, la chiesa cominciò ad essere intitolata a Maria: le due intitolazioni, San Mauro e Santa Maria, furono da allora applicate in modo oscillante al complesso monastico e allo specifico altare.
Le prime notizie in merito alla ripresa di Santa Maria di Pulcherada si riconducono all’XI secolo, quando l’abbazia, risulta svincolata dal controllo di Spigno e Susa, mentre nel XIII secolo estendeva il suo dominio su gran parte delle valli di Lanzo e di Stura. L’antico monastero medievale si estendeva sull’area ora occupata dagli attuali palazzo del municipio, giardino parrocchiale e chiesa di Santa Maria. Il monastero comprendeva nel suo recinto giardini, un mulino, un forno e attività artigianali varie.
A causa della posizione di confine tra Marchesato del Monferrato e Ducato di Savoia, i continui scontri armati tra le due casate provocarono un’inarrestabile decadenza e, nel 1474, l’abbazia venne soppressa e trasformata in “commenda”. Un’interessante visita pastorale della chiesa del 1584, redatta da Giovanni dei Conti del Bel Riposo, canonico prevosto della collegiata di Chieri, descrive Santa Maria a tre navate, con due absidi laterali dove trovavano posto due cappelle.
Successivamente la chiesa cadde in stato di forte degrado, tanto che nel 1665 l’Abate Commendatario Petrino Aghemio, canonico della chiesa metropolitana di Torino, modificò radicalmente la forma primitiva della chiesa, rimpicciolendola e cancellando l’impianto basilicale della chiesa abbaziale, sopprimendo le due navate laterali. La navata destra fu distrutta per metà, mentre quella sinistra fu ridotta a corridoio. I due absidi terminali, con le loro finestrelle, furono conservati. Una di queste forma la cosiddetta sacrestia vecchia, mentre l’altra costituisce l’attuale sacrestia. Furono aperte grandi finestre rettangolari e fu costruito il voltone attuale, basso e pesante. Furono inoltre costruite le due attuali cappelle, una dedicata alla Madonna e l’altra a San Carlo. L’antica facciata medievale fu coperta dall’attuale facciata, che di pregevole ha soltanto il portale. Il campanile del XIII secolo, già mancante della cuspide terminale, non subì modifiche. La chiesa rifatta fu consacrata dal vescovo di Alba, Enrico Virgilio Volta nel 1754. Durante il corso del XVIII° secolo furono effettuati diversi altri interventi, i più importanti dei quali sono la costruzione dell’altare maggiore, risalente al 1722, e dell’organo, risalente al 1780. In epoca settecentesca vennero inoltre acquistati molti arredi interni.
Il 20 giugno 1800 il Piemonte fu annesso da Napoleone alla Francia. Ciò comportò la confisca dei beni dell’Abbazia di Pulcherada: le cascine di Pescarito e della Braida e il palazzo abbaziale (l’attuale municipio) furono venduti. Ormai dipendente dall’Abbazia di San Quintino di Spigno, l’abbazia di Pulcherada fu soppressa nel 1803, per decisione di papa Pio VIII.
Gli interventi sulla Chiesa proseguirono poi a partire dal 1813; il prevosto dell’epoca, Bertoldo, sostituì l’altare di legno con uno in mattoni e marmo e aggiunse una balaustra, proveniente dalla Chiesa del Santissimo Sudario di Torino. Per far posto al nuovo altare fu abbassato il pavimento del presbiterio di quasi un metro, distruggendo la vecchia cripta medievale, dove si seppellivano i monaci, che fu riempita di macerie. In quella occasione fu anche realizzata l’attuale sacrestia nuova.
Nel 1845, su disegno dell’arch. Gunzi, vennero intrapresi alcuni radicali interventi all’interno dell’edificio, quali la costruzione del nuovo battistero (Cappella dell’Addolorata) e soprattutto l’intera decorazione della Chiesa con la posa della zoccolatura in marmo. Nel 1920-21 venne realizzata la nuova scalinata di accesso alla Chiesa, ed internamente all’edificio vennero realizzate le decorazioni a motivo geometrico-floreali.
Nel 1927 venne effettuato un primo restauro della facciata, durante il quale vennero poste in luce alcune porzioni della vecchia facciata romanica. Negli anni ‘30 venne realizzata la nuova zoccolatura perimetrale in marmo e vennero incassati nelle murature d’ambito i confessionali, su disegno dell’architetto Mesturini. Dal 1997 in poi, sono cominciati i restauri dell’abbazia.
Ma cosa ammirare a Pulcherada? Sino al 2010, ben poco. L’attuale facciata della chiesa è quella che risulta dopo i restauri del 1927, quando venne demolita quella del 1665. Durante i lavori tornò alla luce l’antica facciata romanica in pietre e mattoni, che presentava due finestre ogivali nelle parti laterali e una rotonda nel centro, con due lesene che si innalzavano per tutta la lunghezza della facciata. La vecchia facciata medievale fu tuttavia nuovamente coperta con una nuova e semplice facciata ad intonaco, che conserva tracce dell’antico nelle lesene e nelle finestre.
Nell’abside si identificano due fasi costruttive: la prima, forse carolingia, nella struttura muraria e nelle ampie finestre arcuate, e la seconda, della fine del secolo X, nelle lesene applicate e nella cornice di fornici a nicchie. Il muro esterno curvilineo dell’abside è diviso in sei campi da lesene, che nella loro parte inferiore, mediante risega, presentano maggior spessore. Sotto la cornice, formata da mattoni tagliati di sbieco, si aprono fornici o nicchie, tre per ogni campo limitato dalle lesene. Caratteristiche sono poi le grandi finestre arcate senza strombatura laterale, con armille di mattoni romani, che conferiscono alla parte inferiore dell’abside l’aspetto di una costruzione di epoca imperiale romana.
L’attuale sacrestia occupa ciò che rimane della navatella laterale sinistra, distrutta nel 1665 a seguito della trasformazione della chiesa voluta dall’abate Aghemio. Nel piccolo abside terminale si notano ancora alcune finestre a strombatura ed i muri perimetrali di grande spessore della chiesa.
Il campanile, alto e possente, è sproporzionato alla facciata della chiesa e alle esigenze di culto. Si ipotizza pertanto che esso sia stato eretto soprattutto con finalità belliche. Osservando la tessitura muraria si nota una fascia in cui il campanile romanico fu innestato sugli antichi ruderi del campanile distrutto dai Saraceni. La vecchia muratura è facilmente individuabile poiché più irregolare e ricca di grosse pietre. Sono particolarmente interessanti le decorazioni in mattoni che ne delimitano i piani ed il cornicione sommitale. L’arco di accesso all’originario monastero sostiene ora, a ridosso del campanile, una parte dell’edificio dell’attuale casa parrocchiale. Ai lati dell’arco, quasi nascosti nell’intonaco, si intravvedono i cardini del portone che un tempo separava il perimetro abbaziale dal centro abitato
Le cose sono cambiate di molto a seguito dei restauri di quell’anno, fu individuato un importante ciclo di affreschi romanici, risalenti al 1100. Nell’abside è raffigurata una grandiosa visione celeste, con il Cristo in trono, circondato da angeli e arcangeli e affiancato dalla Vergine e dal Battista. ell’intradosso, invece, compare l’Offerta di Abele e Caino, mentre nella parte alta del cilindro si stagliano le figure dei Santi Pietro e Paolo e di quattro misteriosi personaggi dotati di aureola, forse gli Evangelisti, che reggono un globo con tre figurette a mezzo busto, personificazione delle anime. Sotto una Crocifissione e frammenti di una Adorazione dei Re Magi sono ciò che rimane di un ciclo cristologico.
Allo stato attuale è presumibile ipotizzare come gli affreschi dell’anno 1100 occupassero l’intero spazio dell’abside, per poi estendersi al resto della navata centrale. Però, quale era il loro tema? Una narrazione delle vicende di San Mauro? Oppure, reinterpretavano in maniera creativa la decorazioni delle grandi basiliche romane?
Una cosa però è certa: a qualità di questi affreschi e l’accertato utilizzo di materiali preziosi (blu di lapislazzuli e lamina di metallo dorato applicata all’aureola in stucco di Cristo) sono indicativi della rilevanza dell’impresa, voluta da un committente ricco e colto.
Uno dei luoghi più misteriosi e controversi della Mediolanum romana è la sua zecca: sappiamo che era adiacente al Foro, grazie al toponimo di via Moneta, ma non abbiamo mai identificato i suoi resti. E’ probabile che questi coincidano con quelli dell’imponente edificio rettangolare (44 x 16,85 metri, tra via Moneta e via Armorari), orientato da NO a SE, i cui muri in ciottoli furono riportati alla luce nel 1908, per i casi della vita,in occasione dei lavori per la costruzione della sede milanese della Banca d’Italia.
In più, è assai controversa la data in cui cominciò ad operare: alcuni studiosi hanno ipotizzato che la zecca cominciasse a operare in epoca repubblicana, in particolare per alcune emissioni di Cecilio Metello, 81 a.C e soprattutto per le coniazioni di Cesare da zecche itineranti, utilizzate per pagare i legionari durante la guerra civile. Tuttavia gli argomenti a favore di questa tesi non hanno mai convinto a fondo i numismatici: dal punto di vista storico, poi, dato che Mediolanum ancora non aveva assunto il ruolo di municipium, risulterebbe difficile da sostenere.
In passato, poi, era sostenuta una sua coniazione ai tempi di Decio, di Treboniano Gallo e di Volusiano, ma negli ultimi decenni, tali monete sono state ricondotte alla produzione della zecca di Roma. Per cui, è assai probabile che l’inizio della sua attività risalga al 256, durante il regno congiunto di Valeriano e Gallieno, quando l’importanza militare di Mediolanum, crebbe esponenzialmente. Gli attrezzi e le maestranze pare provenissero da Colonia e da Roma, con una officina trasferita da ciascuna delle due città.
Le coniazioni, estremamente ridotte ebbero inizio solo nel 259, a quanto pare dopo la cattura di Valeriano nella guerra sassanide. Comunque, nel primo periodo si ebbe una monetazione congiunta di Valeriano e Gallieno, con emissioni a nome di: Valeriano, Gallieno, Salonina e Salonino cesare.
Il numero delle monete coniate crebbe notevolmente sotto il regno di Gallieno, perchè ovviamente, queste servivano a pagare le unità di cavalleria pesante stanziate come riserva mobile a Mediolanum: questa coniazione si articolò in ben otto distinte emissioni, comprendento aurei, quinari d’oro e d’argento, dupondi e assi in bronzo. Della seconda emissione fa parte (261) la famosa “serie delle legioni”, dove erano rappresentate nei loro nomi e simboli. In generale, tutte le monete sono contrassegnate dalla marca delle officine (P(rima), S(ecunda) e T(ertia)) precedute dalla dicitura “M(ediolanum)”. Monete che proprio per lo scopo a cui erano destinate, rappresentavano spesso la cavalleria e termini ad essa corretati (EQUITES)
Le cose cambiarono parzialmente nel 267 d.C. Ad Aureolo, il comandante della cavalleria di Gallieno, era stato affidato il comando della fortezza di Mediolanum, nel tentativo di contrastare un eventuale tentativo di invasione della Gallia da parte di Postumo, l’imperatore secessionista delle Gallie. Data la disponibilità di truppe e di denaro, però Aureolo si ribellò a sua volta a Gallieno, nel tentativo di defenestrarlo. Sembra, inoltre, che abbia offerto la sua alleanza a Postumo, il quale però preferì rimanere neutrale nel conflitto tra lo stesso e Gallieno. Alla notizia che Aureolo stava raccogliendo un grosso esercito per muoversi su Roma, Gallieno tornò in Italia costringendo il suo avversario a rinchiudersi nelle mura di Mediolanum (Milano),dopo averlo sconfitto sul fiume Adda, nella battaglia di Pontirolo (pons Aureoli).
Sempre nel tentativo di ottenere l’aiuto di Postumo, Aureolo cominciò a coniare moneta a nome dell’imperatore delle Gallie. Queste monete, indicate abitualmente come “monetazione di Aureolo”, rappresentano Postumo con le sue consuete titolature. Al rovescio compare per lo più il termine AEQUIT o EQUIT (insieme ad altri), o in qualche caso il segno di officina(P,S,T). L’emissione si estende dal gennaio all’ agosto 268, quando Aureolo si arrese e venne ucciso da Claudio II il Gotico, comprende solo antoniani: monete particolarmente colpite dalla svalutazione.
In origine, ai tempi di Caracalla, questi erano d’argento: poi furono progressivamente svalutati con l’aggiunta di rame e stagno, producendo così una lega di biglione. Alla metà del regno di Gallieno furono introdotti nuovi metodi di lavorazione, così che le monete continuavano ad apparire d’argento. Il tondello era prodotto con un contenuto d’argento molto basso (circa 5-10%) e trattato con acidi in modo tale che il rame veniva tolto dalla superficie della moneta lasciando quindi uno strato superficiale d’argento. Quando i tondelli così prodotti venivano battuti si aveva una moneta con una superficie d’argento così sottile che con l’uso veniva portato via lasciando scoperto il rame sottostante.
L’attività della zecca di Mediolanum continuò con Claudio II il Gotico, dall’agosto 268 al settembre 270. Gli antoniniani milanesi di questo imperatore sono caratteristici: piccolo modulo, notevole spessore, immagini con buon rilievo, di solito nessuna argentatura. La zecca emise anche molti aurei ed alcuni medaglioni aurei; inoltre, rari denari e quinari, e qualche dupondio e asse. Sembra probabile, che nel 269 la zecca abbia sospeso la sua attività: l’imperatore, impegnato nel suo duello mortale contro i goti, si portò dietro tutti i coniatori di Mediolanum, in modo di garantirsi l’opportuna liquidità per pagare i legionari durante quella faticosa campagna.
Per cui, gli operai milanesi aprirono una sorta di succursale a Siscia (oggi Sisak, in Croazia): la monetazione della città della Pannonia, negli anni seguenti, sarà infatti molto simile a quella di Mediolanum. Morto di peste Claudio il Gotico, seguì il breve regno del fratello Quintillo (non si sa se per 17 o 77 giorni), con emissioni milanesi di antoniniani ed aurei. Quintillo iniziò probabilmente a coniare anche la serie DIVO CLAUDIO, che venne poi continuata da Aureliano. Caratteristica della emissione milanese è la dicitura: DIVO CLAUDIO GOTHICO. Le emissioni milanesi di Aureliano, che aprì anche una Q(uarta) officina, furono sei, dalla fine del 270 alla primavera del 274 e seguono le complesse vicende “monetarie” di quell’imperatore.
Prima del 271, probabilmente già dal regno di Claudio il Gotico, i lavoratori della zecca di Roma avevano messo in piedi una truffa ai danni dello stato, sia sottraendo il metallo pregiato destinato alla coniazione sostituendolo con metallo non pregiato che tosando i bordi delle monete per asportare l’argento; la zecca di Roma, sin dall’epoca di Claudio II il Gotico, produceva monete con contenuto di argento pari al 54% di quello delle altre zecche.
In occasione della grande paura pubblica causata dall’invasione degli Alemanni Iutungi, che nel 271 giunsero in Italia sconfiggendo Aureliano a Piacenza e puntando su Roma, e a causa della paura che l’imperatore scoprisse e punisse la truffa, i lavoratori della zecca iniziarono una sommossa, sotto la guida di Felicissimo, occupando il Celio. La rivolta ebbe il sostegno della popolazione e, probabilmente, anche di alcuni senatori, la cui opposizione ad Aureliano derivava dalla volontà dell’imperatore di diminuire il prestigio e il potere del Senato Romano. Dopo uno scontro sanguinoso, passato alla storia come Bellum Monetariorum e che vide la morte di 7.000 soldati, i rivoltosi vennero sconfitti, e Felicissimo fu ucciso.
In un atto collegato a questa rivolta, sia che sia avvenuto prima che dopo la sommossa, Aureliano chiuse la zecca di Roma, che rimase inattiva per tre anni fino al 274, mise a morte diversi senatori come complici della rivolta, togliendo al Senato il diritto di coniare le monete di bronzo e avviare la sua riforma monetaria.
Per prima cosa Aureliano operò sull’aureo, che era passato nel tempo da un peso teorico di 1/40 di libbra (epoca di Cesare) a 1/45 (sotto Nerone, con una svalutazione dell’11%) per raggiungere sotto Caracalla un peso di 1/50 di libbra (6,54 g). Nel corso poi di tutto il III secolo la svalutazione era continuata fino ad Aureliano, che ne riportò il peso a un 1/50 di libbra.
Aureliano, una volta risolto il problema della moneta in oro, affrontò il grave problema del costante svilimento dell’antoniniano, e quindi dell’argento, introducendo una nuova moneta, che aveva un peso medio attorno a 1/84 di libbra (= 3,89 grammi, inizialmente portato a 4,21 grammi) ed un titolo del 4-5% di argento, oggi comunemente chiamato aurelianiano o radiato grande. Questa nuova moneta riportava sul dritto il busto dell’Imperatore con la testa radiata o quello dell’augusta con il crescente lunare, in esergo la sigla “XXI”, che alcuni studiosi moderni hanno interpretato come “vigesima (pars) unius (nummi)”, vale a dire la percentuale di argento contenuta nella moneta (1:20 pari al 5%)
Introdusse, poi, una seconda moneta, che aveva un peso medio attorno a 1/126 di libbra (= 2,60 grammi) ed un titolo del 2,5% di argento. Questa seconda moneta riportava sul dritto il busto dell’Imperatore con la corona d’alloro, sul rovescio la sigla “VSV”, che alcuni studiosi moderni hanno interpretato come “usu(alis)”, vale a dire usus publicus, ovvero il denarius communis, rappresentando probabilmente sia una riesumazione del denario, sia il modo per sostituire l’antoniniano, completamente cancellato dalla riforma.
Parallelamente a questa riforma monetaria, Aureliano aumentò progressivamente il numero delle zecche imperiali, aprendole nelle principali provincie: paradossalmente, a rimetterci da questa riforma fu la zecca di Mediolanum, che fu chiusa e trasferita a Ticinum, la nostra Pavia. Il motivo fu duplice: da una parte, la presenza del fiume, rispetto ai navigli, avrebbe favorito l’introduzione di presse idrauliche, meccanizzando la produzione. Dall’altra, tenere la cassa lontano dai comandanti militari ne avrebbe diminuito la propensione al colpo di stato. In ogni caso, fra Mediolanum e Ticinum i rapporti erano strettissimi, e l’attività della zecca pavese si pone in assoluta continuità rispetto a quella milanese, quanto a tipologie, stile, incisori, titolature.
Ovviamente, la zecca riaprì con Massimiano, che di fatto divise i compiti tra Mediolanum e Aquileia: inizilmente la prima si dedicherà all’oro e all’argento, la seconda al bronzo. Furono così riattivate due delle quattro officine del tempo di Aureliano, e dal 302 fu riaperta anche la T(ertia) con la produzione di folles per tutti i tetrarchi, che appaiono sia “laureati” (nel 294/295) sia “radiati” (nel 299). Tra il 307 ed il 312 la zecca coniò monete per Massenzio, poi dopo la battaglia di Ponte Milvio passò a Costantino I, il quale vi aggiunse una Q(uarta) officina nel 324, ma chiuse definitivamente la zecca di Ticinum e di Mediolanum nel 326/327, lasciando aperte in Italia solo le zecche di Roma ed Aquileia.
La zecca di Milano fu nuovamente riattivata sotto Costanzo II (novembre del 352), quando quest’ultimo scelse Mediolanum come sua capitale imperiale per almeno un quinquennio, dopo aver battuto Magnenzio: la riapertura avvenne per compensare la perdita delle zecche galliche. Le maestranze necessarie giunsero da Aquileia. Le prime emissioni furono coniate nel 353, con sigla in esergo: SMMED (Sacra Moneta Mediolanensis).
Nel 364-365 ancora un sesquisolido d’oro di Valentiniano I e del fratello Valente. Dopo il 382 solidi d’oro per Graziano, Valentiniano II e Teodosio I; nel 387 solidi per Teodosio ed il figlio Arcadio, miliarensi d’argento per Teodosio, silique d’argento per Valentiniano II, Teodosio ed Arcadio. Nel settembre del 387 fino all’agosto del 388 l’usurpatore Magno Massimo ed il figlio Flavio Vittore coniarono solidi, semissi e tremissi in oro, oltre a silique d’argento. Dal 389 al 392 tornarono a battere moneta per Vanetiniano II, Teodosio ed Arcadio, con una breve interruzione nel 393-394 per l’usurpatore Flavio Eugenio, tornando a coniare monete per Teodosio, Arcadio e l’altro figlio Onorio. Dopo il 395 fino al 404 sulla zecca di Mediolanum fu concentrata la produzione di nominali in oro e argento, per tutte le province settentrionali, con emissioni di multipli eccezionali nei due metalli.
E’ utile ricordare che da Graziano in poi alcune attività amministrative vennero trasferite da Treviri a Milano. Inoltra (Codex Theodosianum) dal 380 venne accettato solo l’oro in pagamento di certe ammende. Dallo stesso anno, a Mediolanum fu coniata una grande quantità di argento, ma il peso della siliqua verso la fine del IV secolo scese da 1,97 g. fino a 1,14 g. in media. Può essere utile ricordare che un soldo equivaleva a 60 silique ed a 7200 nummi (una siliqua= 120 nummi). La siliqua valeva 12 follis ridotti della riforma del 350. Nello stesso 350, un pane costava un follis.
Nel 402, gran parte delle attrezzature e del personale fu spostata da Mediolanum a Ravenna, nuova zecca creata da Onorio. Si ebbero successivamente due rare emissioni: un solido dell’usurpatore Giovanni Primicerio nel 423-25 (Victoria Auggg), ed uno di Teodosio II, imperatore d’Oriente, che aveva sconfitto Giovanni facendo espugnare Ravenna. L’ultimo periodo di attività della zecca di Mediolanum va dal 452 al 474 o 475, in modalità comitatense, in cui la coniazione avveniva solo in presenza dell’imperatore in città. Attività che continuò anche sotto Odoacre e Teodorico, per concludersi nel 498.
Lungo il Clivus Scauri sorge uno dei luoghi più affascinanti nell’Antica Roma, le case romane del Celio. La loro storia rispecchia tutta la complessa evoluzione di quell’area urbana: comincia infatti nel 111 d.C. quando, affacciata su un vicolo parallelo all’antica strada romana, fu eretto una sorta di condominio borghese, un ibrido tra una domus e insula, a due piani. L’edificio era caratterizza un portico, da taberne e da un impianto termale privato al livello stradale, mentre le abitazioni era poste al piano superiore.
All’inizio del III secolo, proprio dall’altra parte del vicolo, fu costruita un’insula a pianta trapezoidale, composta da ambienti commerciali al piano terra e appartamenti d’affitto ai piani superiori, le cui dimensioni massime erano di 18 metri quadrati. Le case migliori erano nei piani bassi, con più aria e dotati di facile accesso all’acqua, mentre i piani alti, costruiti in legno, non erano raggiunti da condutture ed erano a rischio incendio. Non stupiamoci troppo delle dimensioni minime, perché nell’antica Roma le attività quotidiane erano svolte soprattutto all’esterno: le case erano utilizzate soprattutto per dormire e preparare i pasti. Anche in questo caso, nel piano terra vi erano almeno tre botteghe, il cui ingresso avveniva attraverso un portico aperto sul Clivus Scauri. Ciascuna bottega era dotata di un soppalco ligneo e di un vano retrobottega. Sul lato interno di questa sala è ancora visibile una delle ampie aperture rettangolari di ingresso alle botteghe, successivamente chiuse per consentire la costruzione della sovrastante basilica. Al di sopra dell’ampia apertura si conserva la finestra che illuminava il loro soppalco.
Tra la fine del III e gli inizi del IV secolo d.C., quando questa porzione del Celio, per iniziativa degli Anici, fu oggetto di un processo che oggi chiameremo di gentrificazione e di riqualificazione, un senatore romano rilevò l’intero isolato, trasformando i due edifici in un’unica abitazione signorile attraverso il collegamento degli ambienti commerciali dell’insula con i retrostanti vani pertinenti al primo piano della domus. Il nuovo progetto abitativo prevedeva probabilmente l’utilizzo dei piani superiori a caseggiato d’affitto e la trasformazione del piano terra nella nuova domus signorile, destinata ad una sola famiglia, secondo un processo edilizio ben testimoniato anche ad Ostia Antica.
Per adattare l’edificio alla nuova funzione furono apportate ulteriori modifiche all’insula, come il taglio della facciata a metà dell’ altezza al secondo piano e la chiusura delle finestre e delle sei arcate a pian terreno. Inoltre, il cortile del condominio fu trasformato in un ninfeo monumentale. Infine il complesso fu decorato con un complesso ciclo di affreschi.
Che ad un certo punto il proprietario della domus si sia convertito al cristianesimo, trasformando il primo piano in un titulus, tra l’altro non documentato dalle fonti, è un’ipotesi assai controversa, legata a un’interpretazione particolare proprio di questa decorazione. Secondo la tradizione, nel IV secolo la domus divenne l’abitazione dei fratelli martiri Giovanni e Paolo, ai quali la basilica superiore è dedicata. Se quanto racconta la loro Passio è vero, possiamo arguire che il proprietario della domus fosse un fervente partigiano di Massenzio, dato che fu sequestrata e incamerata nel demanio imperiale.
Tornando a Giovanni e Paolo, i due erano diaconi della chiesa romana e dignitari della corte del Sessoriano, uno maggiordomo e l’altro primicerio di Costantina, figlia dell’imperatore Costantino, meglio nota come Costanza: sì proprio quella del Mausoleo sulla Nomentana. Costantina, benché sia venerata come una santa, forse non era proprio il datore di lavoro ideale, dato che Ammiano Marcellino così la descrive, a ragione, come
Una sorta di mortale Megera, seduttrice assidua di uomini violenti, desiderosa di sangue umano, per nulla più mite del marito
In ogni caso, Giovanni e Paolo riuscirono a farsi benvolere da Costantina, tanto che lasciò loro in eredità la domus sul Celio: il problema è Giuliano l’Apostata, cognato di Costantina, vi aveva messo gli occhi sopra. Per cui, prima tentò di convincere Giovanni e Paolo a cedergliela con le buone. Poi, tentò di impugnare il testamento, perdendo la cuasa.
Infine, con la scusa che non volevano abiurare e tornare al paganesimo, li fece uccidere per decapitazione in segreto, perché non fossero venerati come martiri. Era il 26 giugno del 362, e furono sepolti nel criptoportico della loro casa. Per non fare divulgare la notizia, furono uccisi anche il presbitero Crispo, il chierico Crispiniano e la vergine Benedetta, che avevano scoperto la loro sepoltura. Anche loro furono sepolti nel sottoscala vicino ai due fratelli martiri.
Successivamente, nel IV secolo, il complesso divenne proprietà della famiglia del senatore Byzas che vi istituì un titulus cristiano (Titulus Byzanti), poi attribuito al figlio Pammachio (Titulus Pammachii).Nei secoli successivi, con la fondazione nel V secolo della basilica superiore, gli ambienti romani vennero in gran parte obliterati, in parte interrati e in parte utilizzati per le strutture di fondazione degli ambienti basilicali.
Il complesso fu il complesso fu scoperto nel 1887 da Padre Germano di San Stanislao, Rettore della basilica dei Santi Giovanni e Paolo. Nuove indagini archeologiche furono condotte tra il 1913 ed il 1914 dal padre passionista Lamberto e nel 1951 gli interventi dell’architetto Adriano Prandi portarono alla riscoperta dell’intero complesso archeologico. Nel 2002 i nuovi interventi di recupero, realizzati dal Fondo Edifici di Culto del Ministero dell’Interno in collaborazione con il Ministero per i Beni e le Attività Culturali, la Soprintendenza Archeologica di Roma, la Soprintendenza per il Polo Museale romano e l’Istituto Centrale del Restauro, hanno aperto il sito al pubblico con il nuovo percorso.
Oggi l’ingresso immette in quello che costituiva il portico di passaggio per accedere alle botteghe poste al piano terra dell’insula e che si affacciava direttamente sul Clivus Scauri. Proprio in uno degli ambienti del portico è tuttora conservato un oratorio medioevale conosciuto come Oratorio del Salvatore, decorato con affreschi a soggetto cristologico risalenti al IX secolo d.C. In particolare si possono osservare: la “Crocifissione di Cristo”, vestito di una tunica blu (colobium) tra le figure di Maria e SanGiovanni, secondo la tradizione iconografica siriaco-palestinese; la “Discesa al limbo”, il “Cristo nel Sepolcro” ed il “Sorteggio della veste”. In passato vi era anche una rappresentazione del Cristo vestito tra gli arcangeli Gabriele e Michele ed i santi Giovanni e Paolo, ma a metà del Novecento l’opera fu distaccata e collocata nell’Antiquarium, dove tuttora si trova. Lo stile pittorico orientale farebbere come l’oratorio fosse in qualche modo collegato al vicino monastero di Sant’Andrea, all’epoca gestito da monaci basiliani.
Tornati nella sala d’ingresso, uno stretto passaggio ad arco, aperto nel muro di fondazione della basilica, immette in una delle botteghe poste al piano terra dell’insula, che si affacciava direttamente sul portico ed era dotata anche di un magazzino.
La successiva Sala dei Geni originariamente era un vano con funzione di magazzino, poi trasformata, nella seconda metà del III secolo d.C., in un elegante ambiente di rappresentanza che si apriva sul cortile interno (poi trasformato in ninfeo): oggi il muro di fondazione della soprastante basilica ne ostruisce la vista. L’intera sala era rivestita, sul pavimento e per i primi due metri di altezza delle pareti, da una lussuosa decorazione in opus sectile marmoreo, asportata al momento dell’abbandono degli ambienti, come si può dedurre dalle impronte delle lastre marmoree ancora ben visibili nella porzione di pavimento originale dietro la protezione in vetro. Nell’angolo a destra del varco di accesso della sala si conservano le tracce dello zoccolo marmoreo parietale. La volta mostra una delicata decorazione di ispirazione naturalistica disposta su due registri: quello inferiore mostra figure di giovani nudi e alati (i geni) unite da ricche ghirlande cariche di frutti e di fiori della stagione estiva. Nel registro superiore si trova invece una scena di vendemmia autunnale nella quale compaiono i piccoli cupidi intenti nelle attività della vendemmia, elementi questi che suggeriscono per la sala una decorazione ispirata all’alternanza delle stagioni. Particolarmente ricca ed accurata è la rappresentazione delle varie tipologie di uccelli.
La sala successiva, che si raggiunge dopo aver superato sulla destra un ambiente di passaggio, è la Stanza dei Finti Marmi, così denominata per la presenza di una vivace decorazione risalente all’inizio del IV secolo d.C. che raffigura un rivestimento marmoreo in opus sectile. Nella parte superiore dell’affresco sono visibili tracce di una raffigurazione a soggetto naturalistico. Il foro di scarico fognario presente in un angolo appartiene alla fase di utilizzo della sala come bottega.
A seguire incontriamo la Sala del Bue Api e Salatrices, così denominata perché conserva sulla volta immagini pagane del dio Api e di due baccanti.Subito dopo incontriamo la cosiddetta Sala dell’Orante che prende il nome da uno dei soggetti qui raffigurati. La decorazione pittorica, risalente all’inizio del IV secolo d.C., conserva nella parte inferiore un alto zoccolo imitante un opus sectile a finto alabastro e da un fregio floreale sovrastante con racemi d’acanto che si sviluppano da cespi. La volta è suddivisa in spicchi nei quali si alternano coppie caprine ed ovine a figure maschili, interpretabili forse quali filosofi che reggono rotuli scritti.
Completamente integra è la famosa immagine di una figura femminile di orante, dalla quale è suggerito il nome moderno della sala, che indossa una tunica ornata da una fascia purpurea e volge le braccia verso il cielo, in un gesto di preghiera. Seguono una serie di riquadri con figurazioni di varia natura quali: la maschera del Sileno circondata da ramoscelli di olivo; una maschera teatrale femminile tra fiori policromi ed un’altra maschera di Sileno tra spighe di grano, un ramoscello di vite e mostri marini fantastici sospesi a mezz’aria.
Proprio la figura dell’orante ha scatenato una ridda di interpretazione: la prima la identifica come un’immagine della Pietas Romana: di conseguenza, questo ambiente è stato frequentato da una famiglia pagana. La seconda lo associa al ritratto di una diaconessa: il che ha fatto formulare l’ipotesi che il proprietario, a seguito della conversione della moglie, sia diventato cristiano e trasformato il piano superiore in una chiesa. La terza interpretazione, dato il carattere sincretico della decorazione, associa l’ambiente a un luogo di culto di una setta gnostica o eretica.
Tornando indietro e superando alcuni ambienti di servizio non decorati, si giunge alla Cella Vinaria, un ambiente ricavato da una stanza con eleganti decorazioni del II secolo d.C. trasformata in un vano di servizio il cui uso si protrasse nel tempo, forse fino al VII secolo, come indica la cronologia delle anfore qui ritrovate ed ora esposte nell’Antiquarium. L’utilizzo quale magazzino è testimoniato anche dalla presenza di vasche in cocciopesto, di un’anfora interrata nel piano pavimentale e di un pozzo.
Attraverso lo stretto passaggio e scesi i pochi gradini si percorre il vicus, un lungo e stretto vicolo lastricato con basoli irregolari che separava originariamente i due edifici originali. Il vicolo, inglobato nella ristrutturazione del complesso nella metà del III secolo d.C., divenne elemento interno di raccordo tra due zone di un’unica grande domus, allargandosi in parte in un cortile a cielo aperto: il ninfeo, visibile nei prossimi ambienti. Sulla destra è l’accesso alle sottostanti terme.
Percorrendo l’intero vicolo, sulla sinistra si giunge al sottoscala, luogo dove, secondo la tradizione, avrebbero subìto il martirio e sarebbero stati sepolti i martiri Giovanni e Paolo e dove fu realizzata, dopo la metà del IV secolo d.C., la confessio. In questa piccola cappella di culto i fedeli si soffermavano in preghiera in corrispondenza delle venerate sepolture e di fronte alle scene cristiane conservate nella nicchia, attualmente protetta dal cancello moderno. La decorazione, datata seconda metà del IV secolo d.C., è disposta su due registri. In alto a sinistra è raffigurata la scena dell’arresto di tre figure tra soldati romani, identificate probabilmente con i martiri cristiani Crispo, Crispiniano e Benedetta, per i quali una versione più tarda della passio ne ricorda qui anche la sepoltura. In alto a destra è raffigurata invece la scena del martirio per decapitazione dei tre personaggi. Al centro in basso si può notare un orante con ai piedi le figure adoranti del senatore Pammachio, al quale si deve la costruzione della basilica, e della moglie Paolina. La sovrastante apertura è stata variamente interpretata dagli studiosi quale “fenestella confessionis” o “vano destinato ad un tabernacolo per reliquie”.
Scendendo la scala si raggiunge la moderna passerella metallica che conduce al Ninfeo di Proserpina, che, come accennato in precedenza,era in origine un cortile interno a cielo aperto per separare gli edifici commerciali da quelli residenziali. Con i successivi interventi venne trasformato in un elegante ninfeo, grazie all’inserimento di nicchie con fontane ancora visibili alla base della parete affrescata. La struttura quadrata di colore rosso è identificabile come un pozzo.
Il grande affresco della seconda metà del III secolo d.C., che doveva ornare i tre lati del Ninfeo, rappresenta una scena mitologica inserita in un contesto marino del quale fanno parte i piccoli eroti, impegnati in attività di pesca e di navigazione. Al centro su una sorta di isolotto sono semi-sdraiate, all’uso dei banchetti, due figure femminili: una avvolta in un pallio (mantello) e l’altra seminuda con accanto un personaggio maschile, in piedi, nell’atto di versare da bere. Il pavimento del III secolo d.C. è formato da grosse tessere marmoree policrome.
Nell’ambiente attiguo si conserva un pavimento a piccole tessere di mosaico bianche e nere riferibili al II secolo d.C., decorato con tralci vegetali e colombe. La piccola stanza, tagliata dal muro di fondazione della basilica, faceva parte di un preesistente edificio del II secolo d.C. e fu inglobata nel progetto della domus tardo antica.
Dal centro della passerella metallica e volgendo le spalle alla struttura cilindrica costituita da un pozzo di scarico medioevale, è possibile ammirare gran parte della facciata interna della domus (nella , che si conserva in questo punto per due piani: al piano inferiore presenta due finestre che davano luce ad un piccolo ambiente termale (balneum). Sopra il balneum era situato un appartamento del quale si conservano ancora due stanze con le relative finestre. La parete trasversale costituiva il prospetto posteriore esterno della domus, ornato da una fontanella a tre nicchie. Nel III secolo d.C., nel momento della fusione delle due case, il piano inferiore fu interrato fino al livello del piano terra dell’insula, dando origine al cortile sul quale venne costruita una scala, di cui si conservano ancora pochi gradini, per salire ai piani superiori dell’abitazione. Sotto la pavimentazione del cortile è visibile un sistema di scarico delle acque con la caratteristica forma a cappuccina.
Alla fine del percorso si giunge all’Antiquarium, che occupa il basamento a croce greca della sovrastante cappella di S.Paolo della Croce. Il moderno allestimento museale curato dalla Soprintendenza Archeologica di Roma raccoglie i materiali romani e medioevali delle domus provenienti dagli scavi realizzati fra il 1887 ed 1936. All’interno si possono osservare iscrizioni di varia tipologia ed appartenenza, diversi tipi di anfore da trasporto, vari materiali di uso quotidiano come vasellame, piccoli rocchetti in bronzo, aghi crinali e da cucito in avorio, lucerne ad olio e resti del vecchio arredo liturgico della chiesa sovrastante.
Sezione molto interessante è quella dedicata ai bolli laterizi, ossia l’uso, a partire dall’età imperiale, di apporre bolli sui mattoni con la funzione di veri e propri marchi di fabbrica. Nei testi, spesso accompagnati da simboli di vario genere, venivano ricordati il proprietario dell’officina o il fabbricante stesso. Anche la forma del bollo è interessante perché ne attesta il periodo storico: i bolli rettangolari, su una sola riga, erano tra i più comuni dalla tarda Repubblica fino all’età di Nerone; il testo su due righe si riferisce invece ad epoca traianea. I bolli semicircolari erano in uso da Tiberio a Nerone, quelli a forma lunata in epoca flavia, i bolli circolari risalgono in parte al I secolo ma le maggiori attestazioni sono dei primi decenni del II secolo d.C. I bolli circolari con orbicolo sono i più diffusi tra Domiziano e Caracalla e quasi esclusivi fino agli inizi del III secolo d.C.: spesso il bollo è accompagnato da figure e simboli che si riferiscono ai personaggi menzionati nel testo. Nei frammenti qui esposti si possono osservare tegole o frammenti laterizi con bolli vari, da quelli circolari a quelli rettangolari fino a quelli circolari ad orbicolo, prodotti dalle officine Domitiana o Ieronymus, queste ultime appartenenti al patrimonio dell’imperatore Marco Aurelio.
Trovato l’accordo tra Raffaello e Antonio da Sangallo, fu però necessario convincere Leone X della scelta di abbandonare le paraste giganti di Bramante, a favore della nuova articolazione dello spazio basato sulle colonne alte nove piedi romani. Per cui, i due artisti dovettero completare il progetto con il disegno della nuova facciata e degli altri fronti esterni, anche per giustificare l’aumento dei costi di costruzione, rispetto all’ipotesi di utilizzare colonne ben più piccole.
Essendo Raffaello, sempre frustrato nel suo sogno di imitare Bramante, abbandonare la pittura per dedicarsi completamente all’architettura, impelagato nel dipingere uno sproposito di dipinti e coordinare la sua spropositata bottega nella decorazione delle Logge Vaticane, la progettazione di dettaglio fu affidata per di più ad Antonio da Sangallo; per nostra fortuna, riusciamo a ricostruire gran parte del suo processo creativo, con i suoi numerosi schizzi dedicati alle porte e alla facciata e i modelli relativi alle basi delle colonne e ai loro piedistalli, disegnati per fornire un’indicazione precisa agli scalpellini romani, alcuni appartenenti alla mia famiglia, che pur non essendo indisciplinati come quelli lombardi, avevano l’abitudine di interpretare a modo loro le indicazioni degli architetti.
Purtroppo, nel concreto si è conservato ben poco di tutto di questa fase, nell’attuale San Pietro: il piedistallo andò distrutto nella elevazione del pavimento avvenuta dopo il 1540. Si è conservato soltanto l’unica base corinzia messa in opera sotto la direzione di Raffaello in una posizione leggermente più alta di quella originale.
Nella primavera 1519 la progettazione dei deambulatori, idea che era stata proposta in origine da fra Giocondo era conclusa; lo si deduce dal fatto che il sistema adottato nella loro articolazione esterna ritorna in due progetti coevi: in quello del cortile circolare di villa Madama, altro progetto comune tra Raffaello e Sangallo, e in uno dei progetti di quest’ultimo per San Giovanni dei Fiorentini.
Chiesa quest’ultima, che avuta una costruzione tanto complicata quanto quella di San Pietro: dopo l’apertura di via Giulia, Bramante, impegnato nei lavori del nuovo Palazzo dei Tribunali, ne presentò primo progetto a pianta centrale, allo scopo forse di utilizzare San Giovanni dei Fiorentini come una sorta di ambiente di test, su cui provare le soluzioni da applicare nel più grande e prestigioso cantiere del Vaticano.
Dal primo progetto irrealizzato si arrivò ad un concorso, voluto da Leone X, per l’effettiva realizzazione con il coinvolgimento dei più grandi artisti dell’epoca: Jacopo Sansovino, Raffaello Sanzio, Antonio da Sangallo e Baldassarre Peruzzi. Il vincitore, Jacopo Sansovino, principiò così la costruzione nel 1519 su base centrale, incontrando subito i primi problemi, in quanto la chiesa si era immaginata, essendo dedicata al Battista, con la zona absidale edificata nel letto del fiume Tevere.
Proprio i problemi delle forti sostruzioni da edificare nelle sabbie del fiume e il sospetto che i fondi destinati ai lavori finissero invece nelle tasche dell’architetto, provocarono l’allontanamento del Sansovino e la commissione dell’opera ad Antonio da Sangallo il Giovane, che per la sua esperienza come architetto militare, le fondazioni le sapeva dimensionare e costruire
Neanche lui riuscì però a dare seguito al proprio progetto, peraltro basato sulla integrazione tra pianta centrica e longitudinale, sempre nell’ottica di sfruttare l’esperienza per il cantiere del Vaticano. In questo periodo risalgono cinque splendidi disegni di Michelangelo Buonarroti, che immaginò una chiesa a pianta centrale cui affidò la realizzazione al suo allievo Tiberio Calcagni, che ne trarrà anche un modello ligneo, più volte rappresentato.
L’effettiva edificazione della chiesa avvenne con il coinvolgimento di Giacomo Della Porta che impostò una chiesa a pianta basilicale con tre navate su pilastri arcuati e cinque cappelle per lato e con tre catini absidati al sommocroce e cupola, chiesa che è, a parte questi ultimi particolari, l’edificio oggi visibile. Il completamento di questo avverrà solo con Carlo Maderno, il quale ridurrà il progetto di Giacomo Della Porta, concludendo abside e transetti con tre pareti piane con finestroni ed edificando nel 1634 la slanciata cupola in laterizi e stucco.
Tornando alla nostra San Pietro, decisa la planimetria dei bracci del transetto, Sangallo e Raffaello dovettero affrontare l’annosa questione, frutto dei dissidi tra Giulio II e Bramante, del braccio del coro. I due artisti, sulla questione, avevano due punti di vista differenti: Raffaello propendeva per l’integrarlo nella nuova costruzione, mentre Sangallo voleva buttarlo giù e sostituirlo con un braccio analogo a quelli del transetto. Alla fine, per non essere malmenati entrambi da Leone X, tentarono di omologarlo ai bracci della crociera, con l’abside viene aperta mediante colonne e il deambulatorio articolato dalle solite colonne a 9 piedi. Vedendo i disegni dell’epoca, il tutto sembrerebbe più un tentativo di mettere una pezza a una situazione irrisolvibile, che una soluzione efficace.
Una volta chiarito il sistema dei deambulatori, della loro articolazione esterna e anche delle nicchie di 40 piedi, si passò infine alla messa a punto dei dettagli delle parti progettate in ultimo; questa fase progettuale è documentata da pochi schizzi del Sangallo, il quale definì il sistema di volta a botte cassettonata, previsto per tutti i passaggi tra la navata centrale, e quindi anche tra i bracci del coro, e le navate laterali, compresi gli spazi sormontati dalle cupole minori. Nel frattempo, fu cominciata la costruzione della volta del passaggio tra il braccio sud della crociera e la cappella sud-ovest a sinistra del coro.
Elaborati e definiti questi dettagli, furono assegnate le commesse dei lavori per le pietre del rivestimento interno dei deambulatori: dato che nel febbraio 1521 Giuliano Leno, amministratore e organizzatore della Fabbrica di San Pietro, già aveva speso “per le mura della cappella del re di Francia et conci et pilastri et capitelli…due. 14.000” e per la “chiavica tutt’intorno” 2.000 ducati, i miei antenati dovrebbero avere cominciato a sbozzare il travertino nel gennaio 1520.
E sappiamo anche grazie anche quale fortunoso evento fu possibile il loro pagamento: nell’ottobre 1519, il patrizio veneziano Marcantonio Michiel riporta la notizia del ritrovamento di un tesoro, venuto alla luce durante gli scavi per la fondazione di un pilastro dell’abside della cappella del re di Francia. Ai mesi successivi al maggio 1519 risale poi una serie di decreti emanati per sovvenzionare la Fabbrica di San Pietro.
Abbiamo un’idea abbastanza precisa delle condizioni del cantiere grazie al pittore fiammingo Maarten van Heemskerck, che partì nel 1532 per l’Italia, dove soggiorno per quattro anni. . Preziosi oggi sono i suoi lavori nella città eterna: il suo grande talento nel disegno e nei particolari ci permettono oggi di sapere nei dettagli lo stato di manutenzione di quegli anni di molti ruderi dell’epoca romana e la conoscenza di quelli che oramai non esistono più. La sua opera grafica è importante inoltre per documentare le fasi di sviluppo dei grandi cantieri romani del XVI secolo come quello della Basilica di San Pietro i cui i lavori, in quegli anni successivi al Sacco di Roma, erano fermi, facendo somigliare quanto già costruito ad una rovina invasa dalle erbacce.
In questo contesto, come un fulmine a ciel sereno, arrivò la notizia della morte di Raffaello a soli 37 anni, il 6 aprile 1520, il giorno di Venerdì Santo. Secondo Vasari la morte sopraggiunse dopo quindici giorni di malattia, iniziatasi con una febbre “continua e acuta”, causata da “eccessi amorosi”, e inutilmente curata con ripetuti salassi.
Uno dei testimoni del cordoglio suscitato dalla morte dell’artista è sempre Marcantonio Michiel, che in alcune lettere descrisse il rammarico “d’ogn’uno et del papa” e il dolore dei letterati per il mancato compimento della “descrittione et pittura di Roma antiqua che’l faceva, che era cosa bellissima”. Inoltre non mancò di sottolineare i segni straordinari che si avverarono come alla morte di Cristo: una crepa scosse il palazzo vaticano, forse per effetto di un piccolo terremoto, e i cieli si erano agitati. Scrisse Pandolfo Pico della Mirandola a Isabella d’Este che il papa, per paura, “dalle sue stantie è andato a stare in quelle che feze fare papa Innocentio”.
Nella camera ove egli morì era stata appesa, alcuni giorni prima della morte, la Trasfigurazione e la visione di quel capolavoro generò ancora più sconforto per la sua perdita. Scrisse Vasari a tal proposito:
“La quale opera, nel vedere il corpo morto e quella viva, faceva scoppiare l’anima di dolore a ognuno che quivi guardava”
La sua scomparsa fu salutata dal commosso cordoglio dell’intera corte pontificia. Il suo corpo fu sepolto nel Pantheon, come egli stesso aveva richiesto
Forse Antonio Tebaldeo, un poeta amico di Raffaello, o più probabilmente il grande umanista Pietro Bembo compose per lui l’epitaffio inciso sulla sua tomba
Ille hic est Raphael timuit quo sospite vinci, rerum magna parens et moriente mori
ossia
Qui giace Raffaello da lui, quando visse, la natura temette d’essere vinta, ora che egli è morto, teme di morire
Per i casi della vita, si persero rapidamente le tracce della sua tomba. Le uniche notizie certe le aveva tramandate il solito Vasari che indicava sotto l’edicola della Madonna del Sasso, scolpita dall’allievo di Raffaello, Lorenzetto, il luogo dove era stato seppellito. Tuttavia, questa testimonianza non era considerata affidabile, tanto che il commissario delle antichità Carlo Fea, affermava che i resti dell’artista si trovavano in santa Maria sopra Minerva nella cappella degli Urbinati.
La disputa si avviò a una soluzione quando nel settembre del 1833, il Reggente dell’Accademia dei Virtuosi del Pantheon, un sodalizio artistico – religioso ancora operante , ottenne il permesso dalle autorità ecclesiastiche di ricercare il sepolcro del Sanzio. Insieme all’ Accademia di San Luca e all’ Accademia dell’Archeologia, seguendo le indicazioni del Vasari, si cominciò a scavare sotto la Madonna del Sasso. Ci vollero cinque giorni, per arrivare a riportare alla luce una cassa di legno di abete in parte marcita a causa delle frequenti inondazioni della zona; al suo interno fu ritrovato, tra la commozione generale e l’esultanza dei Virtuosi lo scheletro intatto di Raffaello.
Il comune di Blevio, in provincia di Como, la cui storia risale ben prima della nascita di Roma, nel Settecento divenne una della capitali culturali della Lombardia: grazie alla sua posizione panoramica ed alle attrattive naturali, divenne un ambito luogo di soggiorno.
Nel suo territorio furono costruite una serie di ville che ospitarono personaggi illustri del tempo, tra cui numerosi esponenti del mondo delle arti e della politica, tra cui ad esempio Giuditta Pasta, Alessandro Manzoni, Adelaide Ristori, Maria Taglioni. Ville in cui l’Arte creava una perfetta sintesi tra Natura e Cultura.
Nel tentativo di ricreare quell’atmosfera, nel 2015 il Comune decise di realizza un progetto proposto dall’artista dell’artista Tiziana Tettamanti, che prevedeva un parco dedicato al mosaico, analogo al Giardino dei Tarocchi a Capalbio e al Parco della Pace a Ravenna.
Parco che si articola in tre sentieri che dal lago salgono verso la Strada Regia, traversando il paese, ognuno dedicato a un tema specifico. Citando la presentazione del progetto
La forma artistica espressiva che si propone è quella del mosaico, che raccoglie un insieme di tecniche che hanno il pregio di poter garantire una vasta gamma di soluzioni capaci di resistere in spazi aperti offrendo un impatto visivo importante.
Il mosaico consente all’artista libertà di espressione. Valorizza il colore, la rifrazione e i riflessi della luce naturale sulle sue superfici. Si adatta a diversi supporti e consente l’utilizzo di molteplici materiali.
L’obiettivo, ambizioso, è di collocare 50 opere (5 opere ogni anno) nei parchi pubblici e lungo le pedonali che salgono verso le frazioni del paese, scelte grazie un opportuno concorso. Attualmente sono collocati 37 opere (31 a lago nella Frazione Girola e 6 vicino alla Scuola Primaria e al Municipio).
Quest’anno, il concorso ha riservato una grande soddisfazione all’Esquilino: la Categoria A, rivolta a studenti di Accademie, Licei artistici, Scuole di mosaico con partecipazione individuale, di gruppo o di classe è stata vinta dal Laboratorio di Mosaico del nostro Centro Anziani, a testimonianza del grande passione e impegno che i partecipanti, in collaborazione con la Scuola di Mosaico San Lorenzo, stanno mettendo in questa esperienza.
In più, Valentina Vezzani, una mia vecchia amica, che già negli anni scorsi aveva vinto il concorso nella Categoria B, rivolta a mosaicisti ed artisti sia italiani che stranieri, realizzerà l’opera A late winter’s love dance con il contributo/sponsorizzazione del Ristorante Momi Riva Stendhal di Blevio.
Uno dei più importanti musei d’arte sacra del Centro Italia si trova in Abruzzo, a Lanciano: aperto al pubblico nel 2002 da Monsignor Carlo Ghidelli, il museo è stato frutto di una minuziosa ricerca di opere antiche, a cura di Monsignor Enzio d’Antonio, presso la sede arcivescovile e le varie chiese di Lanciano, alcune delle quali sconsacrate da secoli. Il museo si trova all’interno del palazzo del Seminario, che divenne sede della diocesi frentana, distaccata da quella di Chieti nel 1515 nel XVI secolo e che ospitò il seminario sino agli anni Sessanta.
Con molta probabilità la data d’inizio cantiere è il 1590, anno in cui venne abbandonata l’antica residenza vescovile presso la Cattedrale, per realizzarvi l’ospedale di Santa Maria della Sanità. L’edificio presenta un complesso impianto risultato dell’accorpamento di case preesistenti. Nel 1819 sul prospetto principale fu montata la porta dell’antica chiesa dell’Annunziata di Piazza Plebiscito, demolita da Eugenio Michitelli per realizzare la facciata neoclassica della Cattedrale. Il portale quattrocentesco ha un arco ogivale, e gli elementi neogotici della facciata (le finestre) furono realizzati nel contesto di revival, poiché il secondo portale laterale è tipicamente barocco. La facciata presenta una scansione in tre livelli, più un attico, definita da cornici marcapiano in mattoni sagomati, che segano l’imposta delle aperture. Al piano terra sono tre portali, di cui quelli laterali con stipiti e archi a sesto acuto in mattoni, sono attualmente murati. Al centro si apre l’ingresso principale col portale quattrocentesco.
Il museo si trova al secondo piano e si estende in nove sale, per circa 1000 mq. Le opere esposte all’ingresso palesano un elemento fondante dell’istituzione museale: non privare nessun luogo di culto delle sue opere e non sottrarre nessuna opera dal luogo per il quale era stata concepita, utilizzando per la realizzazione del percorso espositivo soltanto opere che nel corso degli ultimi due secoli erano state accantonate in deposito o perché sostituite da altre, come nel caso dell’elegante statua lignea di San Francesco, scalpita da Citarelli, o perché troppo preziose o troppo delicate per poterne continuare l’uso come nel caso della croce processionale o del torciere in legno tornito e argentato oppure perché diventati obsoleti dopo la riforma liturgica seguita al Concilio Vaticano II, come nel caso del monumentale pulpito della Cattedrale, che venne realizzato dall’ebanista Gabriele Bruno e dal pittore Emidio Villante nel 1873, su disegno dell’Ingegner Filippo Sargiacomo
La seconda sala evidenzia in pieno la concezione espositiva su cui si basa il museo: gli oggetti non sono disposti ed esposti né in ordine cronologico, ripercorrendo le tappe della storia dell’arte, e nemmeno seguono un criterio tipologico che avrebbe visto succedersi nelle sale dipinti, sculture, argenterie. L’allestimento, che costituisce un modello assai innovativo, è stato progettato in modo che ogni sala illustri un aspetto delle tradizioni religiose locali nella loro espressione artistica, nell’intento di ricostruire e, per quanto possibile, mostrare al visitatore l’ambito culturale che ha prodotto le opere esposte.
In particolare, questa sala è dedicata le opere in onore della Vergine, trasferite nel museo per ragioni di sicurezza, soprattutto dopo i danni alla cattedrale con il terremoto della Val di Comino del 1984. Il nucleo dei gioielli più antichi è costituito da pezzi del XVII-XVIII secolo di scuola napoletana, per poi passare ad opere più tarde, come i quadri dipinti ex voto degli anni dell’Ottocento, realizzati in onore della Madonna a testimonianza di eventi prodigiosi
Il più antico gioiello della collezione è un pendaglio del 1601, in argento dorato, con grande cristallo di rocca affiancato da 4 rubini montati a notte. Il pendente doveva essere completato da alcune perle; forse elemento di dono della Marchesa d’Ugni di Guardiagrele.
Brocca d’argento del 1603 e Catino Gotico
Tra gli oggetti in esposizione spiccano una brocca in argento in fusione poi sbalzato, inciso, cesellato e dorato reca l’iscrizione con la data 1603 il che la rende un esemplare rarissimi di oreficeria del XVII secolo gran parte della quale è andata perduta per via dell’altro valore intrinseco della materia prima.
Altrettanto interessanti i catini, in ottone sbalzato e inciso, datati al XV secolo e genericamente indicati come di manifattura slava anche se taluni esemplari simili sono riferiti alla Germania settentrionale, intorno ad Acquisgrana. Essi recano una indecifrata iscrizione nella quale lettere greche si mescolano a caratteri gotici a formare una parola che viene ripetuta per quatto volte.
Campeggia al centro della sala, suddiviso in tre tele, il modello per la perduta decorazione ad affresco della cupola della Cattedrale, realizzato dal pittore napoletano Giacinto Diano raffigurante l’Incoronazione di Maria, databile al 1788. Ai lati troviamo gli unici due frammenti salvati dell’affresco originale che raffigurano, rintracciabili nella composizione generale, la testa di Dio Padre e la testa di Re Davide. La cupola della Cattedrale venne scoperta il 9 novembre 1788 come riportato dallo storico Omobono Bocache, “con festa, tripudio e sparo”. Gli affreschi, a causa delle infiltrazioni nella copertura in piombo della cupola eseguita nel 1823 iniziarono a deteriorarsi già dal 1830,e nel 1847 si riuscì a salvare, staccandoli insieme all’intonaco soltanto i due frammenti ora visibili.
Sono poi esposte due vesti in seta, una del ‘700 e una dell’800 con cui si vestivano le statue della Santa Patrona. La prima, interamente ricamata in oro, reca le insegne di Giacomo Lieto dei duchi di Polignano Arcivescovo di Lanciano dal 1754 al 1769 il quale fece realizzare, nel 1758, in sostituzione della antica cona della Madonna un nuovo altare marmoreo, eseguito dal noto marmoraro napoletano Crescenzio Trinchese su progetto dell’ingegnere Gennaro Campanile, figura poco nota ma certamente influenzato da Ferdinando Sanfelice. L’abito, destinato a coprire l’immagine in terracotta sull’altare maggiore, sul modello lauretano, è databile a quegli anni e risalta per la preziosità del lavoro e per l’ottimo stato di conservazione. Il secondo abito è databile alla metà del secolo successivo e copriva il la statua a manichino utilizzata per le processioni, rimasta in uso fino alla realizzazione di quella attuale nel 1933, in occasione del centenario dell’incoronazione della Santa Patrona. Oltre ad essere ricamata in oro, con motivi a girali e foglie, del filo dorato corre all’interno della tessitura in seta rendendo l’insieme ancora più magnifico.
Di interesse, oltre ad alcune statue quattrocentesche della Madonna col Bambino, purtroppo abbastanza rovinate e consumate per essere state rinchiuse per anni negli scantinati della Cattedrale, si trova un dipinto della Madonna col Bambino di uno sconosciuto Jacopo da Lanciano, del XIV secolo, che però, dallo stile, sembrerebbe un allievo di Paolo Veneziano.
Nella terza sala s’introduce il tema della venerazione per la Vergine e i Santi. Tutti i dipinti esposti, in aderenza al tema, appartengono al medesimo autore, l’ortonese Pasquale Bellonio nato nel 1698 e morto nel 1786, che sebbene nel campo della pittura non risalti per particolari capacità pittoriche certamente ebbe numerose committenze ed è significativo per la sua padronanza di connotazione iconografica come si può vedere nel trittico raffigurante l’Annunciazione, la Natività e l’Assunzione di Maria. Nella sala sono anche presenti due eccezionali leoni reggicero della fine del XVI secolo, in legno scolpito, dipinto e dorato.
Nella quarta sala il tema della venerazione per la Vergine e i Santi trova il suo sviluppo in numerose dipinti e sculture di notevole interesse storico e di elevato pregio artistico provenienti da diversi luoghi di culto oggi totalmente scomparsi, come la chiesa di San Martino, o in attesa di restauro come la cappella della Confraternita di Maria Santissima Addolorata in Santa Lucia.
Casula
Spiccano nella sala un pastorale del XIII secolo in argento lavorato, proveniente dall’ambito sulmonese degli orefici peligni, e una casula. Il prezioso manufatto tessile medievale è stato scoperto in modo del tutto casuale nell’area di Largo San Giovanni, durante i lavori di restauro del 2013-14 della torre campanaria della chiesa distrutta nel 1943 da bombardamenti.
La veste liturgica identificata come “casula” si presenta nella tipica foggia della pianeta “romana”, conosciuta in Italia sin dal Medioevo, come evoluzione della “poenula” campana, più corta ai lati, meno maestosa, più pratica. Confezionato intorno alla metà del XV secolo, l’indumento sacerdotale utilizza materiali tessili di reimpiego più antichi, un sontuoso tessuto del XIV secolo e una croce figurata a ricamo, recuperata dalla scomposizione di un paliotto o dalla bordatura di un piviale, risalente al primo decennio del XV secolo.
Di interesse sono il lampasso a due trame lanciate, broccato, di colore azzurro e giallo chiaro, nato come tessuto profano per una committenza di rango elevato. Il motivo decorativo a barde orizzontali presenta nella balza principale un tralcio d’acanto, che si piega in due sinuosi girali. In quello inferiore un cerbiatto, spolinato d’oro, tenta di divincolarsi dagli arbusti in cui si è impigliato con le corna, mentre un cane da caccia sta per ghermirlo. La balza inferiore più piccola, ornata da dischi con scritta calligrafica cifica alternati a un rapace identificato come un falcone. Sul retro dell’abito si trova la croce figurata, costituita da una striscia di luno, dove sono stati ricamati a punto catenella con filati in oro membranaceo e sete policrome 12 busti di santi, apostoli e profeti in cornici.
La quinta sala è dedicata alla figura di Cristo ed in particolare al significato di Redenzione del suo sacrificio sulla croce. Al tempo stesso è destinata a richiamare nella mente del visitatore i riti della Settimana per la quale Lanciano è nota.
L’affresco della Crocifissione del XV secolo, staccato dal muro dell’ex chiesa di San Mauro dei Padri Carmelitani (l’edificio attuale della Galleria Imperiale in viale De Crecchio), fu staccato dalla chiesa prima della sua demolizione negli anni ’30 del novecento per la costruzione dell’ex cinema Imperiale, ad opera degli allievi dell’Istituto d’arte “Giuseppe Palizzi” di Lanciano; interessante notare il paesaggio contemporaneo alla realizzazione dell’affresco, che corrisponde a quello di Lanciano.
La Madonna Addolorata del XIX secolo in legno scolpito e dipinto in cartapesta e tessuto, proviene dalla Cattedrale di Santa Maria del Ponte; è una delle varie statue vestite delle chiese lancianesi, erano oggetto di particolari pratiche devozionali, soprattutto nell’ambito femminile, che andavano dalla realizzazione accuratissima del vestiario, alle cerimonie di vestizione prima delle uscite processionali.
Cristo Portacroce
Ma ciò che spicca è il Cristo Portacroce: il dipinto venne probabilmente realizzato per un privato committente che successivamente lo fece collocare in uno degli altari di patronato della chiesa di Santa Maria Maggiore, da dove l’importante dipinto, per anni conservato nell’ufficio parrocchiale, pervenne in occasione dell’apertura al pubblico del Museo, nel 2002. La tipologia stilistica dell’opera è molto vicina a delle tavole dello stesso soggetto una all’Accademia dei Concordi a Rovigo, un’altra al Museum of Fine Arts di Toledo negli Stati Uniti e un’altra ancora presso l’Isabella Stewart Gardner Museum di Boston già in Collezione conte Zileri dal Verme, ma l’attribuzione definitiva di questo dipinto risulta a tutt’oggi non univoca, oscillando tra il Bellini e il Giorgione.
La sesta sala è dedicata al tema della venerazione per i Santi e vi sono conservate numerose opere provenienti dalle parrocchie di Lancianovecchio soppresse nell’800 e successivamente demolite, come la statua di San Lorenzo, della seconda metà XV secolo, e quella di San Giovanni, del’300, e la pala di San Maurizio, dipinta alla metà del XVII secolo. Provengono invece dall’Oratorio dell’Addolorata in Santa Lucia i busti degli Evangelisti Marco e Luca, datati 1778, insieme ai due ovali con San Giuseppe e San Francesco di Paola
Croce Processionale di Nicola da Guardagriele
Nelle bacheche troviamo oggetti liturgici, calici, pissidi e croci processionali, datati dal XIV al XIX secolo. Tra questi spicca la croce processionale di Sant’Agostino realizzata da Nicola da Guardiagrele, che si propone, per stile e disegno, come un’opera straordinariamente innovativa rispetto alla tradizione precedente e rivela la capacità tecnica assolutamente fuori dal comune del suo autore, che realizza figure a tutto tondo completamente a sbalzo e cesello, con precisione magistrale.
Nella settima sala sono presenti numerose e diverse statue “vestite”, popolarmente dette “conocchie”, di cui soltanto la testa e le mani venivano realizzate, generalmente in legno. Assai diffuse nei secoli passati sono cadute in disuso dopo il Concilio Vaticano ma erano legate a particolari espressioni della Fede, soprattutto in ambito popolare e privato. Da collezioni private provengono, infatti, le numerose statuette dell’Addolorata esposte, anche se non mancano altri soggetti come una Sant’Anna con Maria bambina, di pregevole fattura settecentesca napoletana e un San Nicola di Bari vestito di carta. Tra i vari esemplari esposti spiccano quelli di Santa Chiara della metà dell’800 e Sant’Antonio da Padova del XVIII secolo.
L’ottava sala è dedicata al tema delle reliquie e vi sono esposti numerosi reliquiari di varia foggia realizzati prevalentemente tra il XVII e il XIX secolo tra i quali, degno di particolare interesse è quello che contiene le reliquie di Papa Celestino V. Nella sala sono stati collocati il busto di Sant’Agostino realizzato nel 1718 dallo scultore lancianese Domenico Renzetti e un fonte battesimale in legno intagliato, inciso, dipinto e dorato risalente al XVII secolo. Risalta per il suo particolare pregio il mobile da sacrestia del XVII secolo, ornato con quattro piccoli pannelli raffiguranti paesaggi e scene di caccia eseguiti in carta ritagliata applicata su un fondo nero.
Nella sala è conservato anche il Rogationum Offitium Terrae Lanzani, sec XIV, manoscritto su pergamena, proveniente dalla chiesa di Santa Maria Maggiore di Lanciano. Il manoscritto è di fondamentale importanza per ricostruire la storia religiosa della città di Lanciano nei secoli più antichi, quando esse era ancora sottoposta all’autorità del Vescovo di Chieti.In esso sono registrate le invocazioni ai santi protettori della città ed era utilizzato durante le Rogazioni, riti propiziatori in forma di processioni, che si svolgevano all’interno del centro urbano e all’esterno delle mura fornendoci quindi anche un quadro assai ben delineato dei luoghi di culto e della loro collocazione all’interno della pianta cittadina.
Nella nona sala sono esposti alcuni dei numerosi paramenti sacri appartenuti a Mons. Francesco Maria De Luca e gli anelli dei presuli lancianesi che, per tradizione vengono lasciati al tesoro della Madonna del Ponte. Sono presenti anche due opere settecentesche dell’ebanista Modesto Salvini, un tabernacolo ed un busto di San Pasquale Baylón, e un dipinto raffigurante San Giuseppe col Bambino, del pittore Giacinto Diano risalente al 1790 circa e proveniente dalla famiglia Stella Maranca Antinori.
Paramento
Lungo la galleria che conduce all’uscita è esposto, con altre dipinti di minor interesse, un parato ricamato di straordinaria fattura, per le dimensioni e la ricchezza del ricamo, che, si sviluppa per una superficie di oltre cinquanta metri quadrati
E’ costituito da cinque elementi cuciti insieme sul quale sono raffigurate quattro divinità femminili pagane: Cerere, Giunione, Diana e Anfitrite, forse parte di un ciclo più ampio. Stilisticamente è collocabile nella prima metà del ‘700, in un’epoca, quindi, antecedente alla fondazione delle pur famose seterie della Reale Manifattura di San Leucio. Destinato, con ogni probabilità, a rivestire le pareti di un importante palazzo napoletano la loro realizzazione dovette, per motivi ignoti, interrompersi e restare incompiuta.
Compare a Lanciano nel testamento di Mons. Francesco Maria de Luca che fu Arcivescovo di Lanciano tra il 1818 e il 1839, negli anni in cui venne ricostruito il prospetto della cattedrale della Madonna del Ponte. Rimase l’uso, durato fino agli anni ’80, di stenderlo davanti alla facciata nelle occasioni più importanti e solenni.
La crisi della zona della Galka nel Quattrocento, oltre al progressivo abbandono di Palazzo dei Normanni, ridotto in alcune sue parti a una cava a cielo aperto e alla mancanza di grandi lavori nella Cattedrale, è testimoniata anche dalla ristrutturazione delle porte urbiche in quell’area. Sappiamo infatti da Tommaso Fazello come nel 1460 avvenisse la chiusura di un varco d’accesso inserito nella cinta muraria a meridione e al contempo l’apertura di un varco, molto semplice, costituito da un solo ordine di colonne e da cornicione, chiamato Porta dell’Aquila.
Varco che dava accesso, oltre al Piano della della Cattedrale, a un Cassaro molto più ridotto di quello attuale, che si interrompeva all’attuale via Roma. Qui esisteva la Porta di mare (Bab-al-Bahr), detta poi Porta di Patitelli, che si affacciava verso il porto della Cala, allora molto più esteso dell’attuale, e la torre di Baych, sovrastante la porta. Sulla torre erano scolpiti gli stemmi dei re normanni e quello di Casa Spatafora che nel XVI secolo Nicola Spatafora, pretore della città nel 1570, fece trasportare nel giardino del suo palazzo all’Albergheria.
Con il rinnovo urbanistico del primo Cinquecento, la Porta dell’Aquila crebbe sempre più di importanza, tanto che, il 13 settembre 1535 fu utilizzato dall’imperatore Carlo V reduce dalla provvisoria Conquista di Tunisi, per l’ingresso trionfale nella città.
Nella seconda metà del Cinquecento, quando tutti i nodi legati all’interramento della Cala vennero al pettine, i vicerè spagnoli dovettero accollarsi, tra l’opposizione dei nobili e del popolo, una serie di grossi lavori pubblici: da una parte era necessario la costruzione di un nuovo porto, dotato di un nuovo arsenale e capace di accogliere le grandi navi mercantili e le armate navali, dall’altra, dall’altra questa nuova infrastruttura doveva essere ben collegata alla città
Chi cominciò i lavori, fu il vicerè Garcia di Toledo, il tizio che avrebbe fatto a meno di liberare Malta dall’assedio turco: per prima cosa, scelse come sede del nuovo porto l’ampia baia a nord della città fino alle falde di Monte Pellegrino, che ne costituiva la naturale protezione. Così, nel 1567 fu costruito il Molo Nuovo, odierna Via Cristoforo Colombo, in prossimità della Tonnara di San Giorgio, accanto ad una fortificazione dei primi del ‘500.
Poi, bisognava scegliere questo nuovo asse stradale: inizialmente il viceré pensava ad ampliare l’antica strada arabo normanna, che iniziava nei pressi del Bastione del Tuono lungo le mura della Marina,costituito dalla via Alloro, dalla discesa dei Giudici e dal suo naturale prolungamento lungo la medievale via di Santa Chiara fino al Palazzo Reale. Il problema fu che, per adeguarle alle nuove esigenze di traffico commerciale, bisognava abbattere i palazzi di numerosi nobili palermitani, che tanto si lamentarono con Madrid, da costringere il viceré a cambiare idea.
Per cui fu deciso di prolungare il Cassaro: l’incarico progettuale fu dato all’architetto del Senato Cittadino, Giuseppe Spatafora. Nello stesso lasso di tempo, venivano predisposti gli strumenti operativi. Si stabilì, ad esempio, che per le fonti economiche necessarie si sarebbe fatto ricorso alle tasse sul pane, sulla farina, sull’uva e sul vino. Per le demolizioni fu varato un nuovo strumento: il Privilegio della via Toledo che, non ammettendo alcuna remora alle demolizioni decise dai deputati, ed assicurando tempi brevi per la presentazione dell’istanza di valutazione, appena 15 giorni, dava indicazioni per la valutazione degli immobili da demolire e per l’accorpamento dei lotti da ricostruire. La normativa prevedeva la tassazione degli immobili, in proporzione al beneficio derivante dal nuovo affaccio o dalla vendita delle aree edificabili, ed una valutazione pari all’8% del prezzo di locazione delle case da demolire.
Di conseguenza, la vecchia Porta di mare e la torre araba furono demolite e il Cassaro prolungato verso Piazza Marina: dato la possibilità incrementare la rendit immobiliare lo sviluppo di questa “Strada Nuova”, fu supportata attivamente dalla nobiltà palermitana che non solo contribuì alla realizzazione, ma creò anche spazi nuovi, come l’apertura di Piazza Aragona (successivamente Bologna, o dei Bologna, volgarmente chiamata Bologni) o Piazza Pretoria.
Dopo dopo avere terminato i primi lavori sulla Via Nova, gli interessi dell’amministrazione spagnola, anche per contenere la pirateria barbaresca, si concentrarono sul porto: nel 1575, il primo tratto del “Molo Sud”; l’anno successivo si diede inizio alla costruzione del Molo Nord.
Nel frattempo, a seguito di questa prima ristrutturazione urbanistica, crebbe il ruolo di Porta dell’Aquila e fu deciso così nel 1569, dal Senato Cittadino a provvedere a una sua prima monumentalizzazione: la valutazione dei lavori da effettuare fu affidato Nicolò Antonio Spatafora e Giacomo Del Castrone, che ebbero potere decisionale riguardo a tutte le funzioni gestionali e amministrative.
I due decisero, anche per motivi di contenimenti costi, di non demolire il vecchio edificio, per ricostruirne uno nuovo, ma di cercare, quanto possibile, di restaurare l’esistente: gli architetti che se ne occuparono per primi furono Giorgio di Faccio e Giuseppe Giacalone, che completarono i lavori di rifacimento del primo ordine della porta nel 1570. Nello stesso anno, ai due architetti subentrarono Paolo Daino e Pierluca Matta, di cui tuttavia non abbiano molte notizie. L’incarico della decorazione scultorea fu dato a Carlo Manieri e a Giovanni Colazzi
Questo gruppo di lavoro concepì una sorta di Giano Bifronte: in direzione della città, ispirati dalla trattastica di Serlio, realizzarono un arco di trionfo classicheggiante, con la facciata animata da solo due coppie di lesene corinzie e da un fregio con festoni a ghirlanda, piccole maschere e busti di donne.
Al contempo, la facciata verso Monreale, fu un trionfo dell’immaginazione manierista. L’esempio più evidente sono i quattro mori sulle paraste, in ricordo della vittoria a Tunisi: i mori, legati o con le braccia amputate, sono stati posti come monito a tutti i nemici di Palermo e dell’impero spagnolo, quasi a voler dire allo spettatore ‘questo è ciò che accade a chi sfida questa città’. Un altro elemento in stile tipicamente manierista è quello delle diciannove maschere, di cui la più grande posta al centro dell’arco, con la lingua di fuori, con tutto il suo valore apotropaico.
Per la liberazione dal contagio di peste nel 1575 fu apposta un’immagine della Vergine Immacolata e l’iscrizione:
«Virgini Immaculatæ Summo Urbis Præsidio, atque ornamento, Servati Clientes D. S.»
Le cose cambiarono ulteriormente con la nomina di Marcantonio Colonna, l’eroe di Lepanto, a viceré della Sicilia, che, il 24 aprile 1577 fece il suo ingresso trionfale a Palermo. Il suo primo provvedimento fu di porre fine all’epidemia che infuriava ormai da due anni in Sicilia: con piglio decisamente pratico e razionalistico, affatto alieno dalle superstizioni che attribuivano il morbo a malocchi e pratiche di magia nera, e in perfetta sintonia e collaborazione con uno scienziato, il protomedico Filippo Ingrassia, puntò rigorosamente su quanti non distruggevano i panni infetti e le suppellettili, punendoli severamente al pari di quanti, medici e barbieri, non rivelavano al governo le persone sospette. In questo modo contenne e debellò la peste dilagante.
Il suo obiettivo primario nel governo dell’isola era di indebolire e spezzare lo strapotere dei nobili: appena nominato fece giustiziare quattro personaggi di alto rango e ordinò l’arresto del marchese della Favara, che fino a quel momento aveva agito nel totale disprezzo delle leggi e del potere vicereale. Per fare questo, oltre a riformare l’amministrazione finanziare dell’isola, promosse e condusse una dura repressione del banditismo, perché era consapevole della connivenza fra i capi delle bande armate e i nobili.
In più, consapevole dell’importanza della Sicilia come granaio dell’Impero Spagnolo, cercò di modernizzare il più possibile l’agricoltura: per attenuare lo stato di forte indebitamento in cui versavano i nobili, infatti, sostenne e incoraggiò il processo di concessioni di terre in enfiteusi. Né mancò di redarguire con aspre lettere i tanti feudatari che concedevano le loro terre feudali a condizioni troppo esose e inique per i contadini.
Ovviamente, questa politica gli procurò tanti nemici, compresi gli inquisitori, dato che Marcantonio, con tutte le sue stranezze, era tra le persone più tolleranti dell’epoca e riteneva idiota bruciare una persona per le sue opinioni religiose. I quali, alla fine riuscirono a cacciare il vicerè dalla Sicilia. Da una parte, fu accusato legato da stretta amicizia al temibile Aluch ‘Alì (Ulucchiali), comandante della flotta turca, e che avesse avviato con lui trattative segrete per uno scambio di prigionieri turchi e cristiani. Dall’altra ci si mise lo scandalo della sua relazione extraconiugale con Eufrosina Siracusa Valdaura baronessa del Miserendino e le torbide vicende famigliari.
Porta Nuova Lato corso Calatafimi
Nel frattempo, però l’energico viceré aveva anche continuato l’opera di ristrutturazione urbanistica di Palermo: sempre nell’ottica di rafforzare il rapporto tra la città e nuovo porto, da una realizzò la Strada Colonna, il lungomare, dall’altra prolungò il Cassaro sino al mare, che divenne così elemento determinate della nuova idea di città, fondale, quinta prospettica, asse generatore di altrettante architetture e arteria fondamentale per i commerci.
Per monumentalizzare il Cassaro, Marcantonio ordinò di costruire una nuova porta alla sua fine, la nostra Porta Felice, che avrà un percorso edilizio tormentato e di ingrandire ulteriormente la Porta dell’Aquila.Nel 1578 il viceré perpetuò l’esistenza di un corridoio meridionale sopraelevato comunicante col Palazzo Reale verosimilmente ricalcante la parte iniziale attraverso la Galca del primitivo percorso della Strada Coperta. Poi, decise di ingrandirla ulteriormente. I lavori cominciarono nel 1582 e furono affidati a Giovanni Antonio Salamone, che però morì l’anno dopo: a lui successe Giovanni Battista Collipietra, toscano, architetto del Senato di Palermo, mentre nella decorazione scultorea fu coinvolto Vincenzo Gagini, figlio di Antonello
La porta ebbe svariati nomi, tra cui Porta Aurea o Porta del Sole, poiché illuminata dal sole per tutte le ore del giorno; Marcantonio però decise di denominarla Porta D’Austria o Porta Imperiale, in ricordo del passaggio di Carlo V. Ma l’abitudine del popolo di chiamarla Porta Nuova rimase nel tempo così forte da conferirle quest’ultimo nominativo.
Al primo livello ne vennero quindi aggiunti altri due, culminanti nella grande piramide marmorea con la sua lanternina. I due ordini sono fondamentali nel ruolo di Porta Nuova all’interno del complesso monumentale di Palazzo Reale, poiché collegati ad esso fin dalla loro realizzazione, fornendo alla porta una funzione privata oltre che rappresentativa.
Il secondo ordine nel lato interno presenta oggi una fascia ritmata da lesene che la dividono in cinque parti, Al loro interno sono contenute nicchie ovoidali con cornici molto decorate, contenenti quattro busti allegorici: l’Abbondanza, la Giustizia, la Verità e la Pace. Al centro quasi sicuramente si trovava l’aquila marmorea adesso posta nel lato esterno del primo ordine, probabilmente spostata in un primo momento per paura che potesse cadere.Per quanto riguarda il lato esterno, la fascia del primo ordine è semplicemente intervallata da due finestre fiancheggiate a sinistra dallo stemma araldico dei Colonna e al centro dall’aquila marmorea.
Il terzo livello è eccezionalmente – si tratta dell’unico con questa caratteristica – identico in entrambi i lati. Si tratta di un loggiato in cui il bianco del marmo di balaustri e colonne contrasta con le finestre retrostanti. Ogni colonna, che si eleva da plinti figurati con maschere, culmina in capitelli compositi, dando vita a cinque archi a tutto sesto con altri mascheroni al centro. All’interno del loggiato, i cui tetti presentano volte a crociera, le finestre sono sormontate da cinque sculture di arpie.
Al di sopra del tutto vi è un terrazzo, e all’interno di questo si innanza una torretta quadrilatera che fa da base alla piramide maiolicata, conclusa in cima da una lanternina ottagonale. La piramide presenta in tutti e quattro i lati la rappresentazione dell’aquila di Palermo, che in questo luogo sembra quasi volare per proteggere e osservare la città tutta
La costruzione subì la quasi totale distruzione il 20 dicembre 1667, quando esplosero i depositi di polvere da sparo a causa di un fulmine dovuto ad un temporale. Nel 1669 l’architetto Gaspare Guercio la ricostruì integralmente e pensò di porre a coronamento dell’edificio una copertura piramidale rivestita da piastrelle policrome maiolicate con le immagini di aquile ad ali spiegate.
Le iscrizioni del 1668 recitano di provvedimenti e risarcimenti operati dal viceré di Sicilia Francesco Fernandez de La Cueva, duca di Alburquerque. Il terremoto del 16 giugno 1686 provocò dei danni. I lavori di restauro comportarono la realizzazione di scarpe o delfini di rinforzo sul fianco sinistro, interventi posti in essere dal viceré Giovan Francesco Pacecho, duca di Uzeda.
Fino ai restauri eseguiti nel 1825 è documentato visibile un affresco raffigurante la Beata Vergine Maria contornata da angeli, ritratta con Sant’Agata, Sant’Agatone, San Michele Arcangelo, opera realizzata da Pietro Novelli sulla parete interna. Nel 1848 Porta Nuova rischiò di essere demolita ad opera del governo rivoluzionario, ma venne salvata in extremis nel rispetto del parere espresso da una commissione convocata appositamente. Dal 1870 fa parte del complesso del distretto militare di Palermo.
In un un manoscritto del IX sec. “Vita antiqua” custodito presso l’Archivio Capitolare Vercellese si narra che sul colle di Crea, (443 m.) verso il 350, Sant’ Eusebio, vescovo di Vercelli, in fuga dagli ariani, fondò un Oratorio, e cioè un luogo di preghiera in onore della “Beata Madre di Dio Maria”. Secondo un’antica tradizione, circa dieci anni dopo, sempre Eusebio, di ritorno dall’Oriente dove era stato esiliato, per la sua strenua difesa dell’ortodossia cattolica, portò a Crea un’icona della Vergine opera dell’evangelista Luca, la cosiddetta Madonna Nera, dal colore dell’incarnato.
Come spesso avviene in questi casi, a seguito di un restauro, eseguito nel 1981, si scoprì come questo fosse in realtà dovuto al fumo delle candele e come la scultura, in legno di i cedro scolpito e dipinto, risalisse alla metà del XIII secolo.
Secondo la tradizione, il vecchio edificio paleocristiano fu trasformato in un santurio dal re d’Italia Arduino d’Ivrea,che, ritiratosi nell’Abbazia benedettina di Fruttuaria, avrebbe ricevuto da Maria Assunta l’incarico di costruire tre santuari: la Consolata a Torino, Belmonte nel Canavese e Crea nel Monferrato.
Anche se la storia è sicuramente romanzata, è possibile che nella seconda metà del X secolo, l’oratorio diventasse metà di pellegrinaggi e quindi fosse in qualche modo ampliato, ristrutturato e associato a un convento: a riprova di questo, nel 1060 l’imperatore Enrico IV confermò i privilegi dell’abbazia di San Benigno di Fruttuaria a Serralunga di Crea.
Nel secolo successivo, il convento fu assegnato ai canonici regolari agostiniani di Vezzolano, probabilmente su pressione dei Marchesi di Monferrato: Guglielmo I il vecchio, sì, il crociato che appare in uno dei tanti capitoli del videogioco Assassin’s Creed, donò al santuario una reliquia della Santa Croce, probabilmente frutto delle sue avventure in Terra Santa.
All’inizio del XIV secolo, scomparsa la dinastia degli Aleramici, furono i Paleologi, nuovi Marchesi del Monferrato, a prendere Crea sotto la loro protezione. Tra il 1372 ed il 1418 fecero edificare, all’interno della chiesa, la cappella di Santa Margherita di Antiochia ove venne sistemata una reliquia della Santa.
La cappella di Santa Margherita
Tra il 1474 ed il 1479, Guglielmo VIII Paleologo commissionò gli importanti affreschi della Cappella di suddetta cappella: sulla parete di fondo, ai lati della Madonna in Trono, compaiono il suo ritratto e quello di sua moglie Bernarda di Brosse, assieme alle figlie. Affreschi, che svolgono un ruolo fondamentale nella diffusione dell’arte rinascimentale in Piemonte, che furono realizzati da un pittore non identificato, chiamato, con poca fantasia “Maestro di Crea”.
Analizzandone lo stile, è assai probabile che appartenga alla cerchia intima del casalese Giovanni Martino Spanzotti, condividendone il percorso formativo: lo studio delle novità fiamminghe, portati in Piemonte dai pittori dai pittori borgognoni e provenzali, che lo portarono a sviluppare il suo amore per la ritrattistica e l’analisi psicologica, l’influenza dell’espressionismo della scuola ferrarese, il luminismo del Foppa.
Questo dialogo tra culture si riflette negli affreschi di Crea, in cui convivono l’accuratezza con cui il pittore riesce a rendere il tratti fisiognomici e l’eleganza delle vesti della famiglia nobiliare e la dimensione onirica del paesaggio.
Sempre i Paleologi arricchino la chiesa di opere di Macrino d’Alba, che aveva studiato nella bottega di Signorelli e del Perugino e che introdusse in Piemonte le novità della pittura centroitaliana, con il gusto del colore acceso, l’impaginazione delle scene tra ardite architetture rinascimentali e paesaggi ricchi di ruderi e “antiquaria” romani. Terminata la dinastia dei Paleologi, nel 1536 il Monferrato passò ai Gonzaga, che ampliarono la chiesa e la decorarono secondo i dettami della Controriforma.
Fu sotto Vincenzo I Gonzaga che, nel 1589, oltre ad attuarsi un ampliamento della chiesa, venne concepito il primo progetto di costruzione delle cappelle del Sacro Monte.
Fu il modello del Sacro Monte di Varallo, ormai in fase avanzata di costruzione, con le sue splendide cappelle ricche di statue dipinte e di pareti affrescate, ad ispirare a Padre Costantino Massino, priore di Crea,concepi quindi un’opera d’arte totale, una sorta di Sacra Rappresentazione posta al di fuori del tempo e dello spazio, che doveva convincere il fedele della Verità della Fede Cattolica, contrapposte alle falsità dei Protestanti, parlando all’Emozione e non alla Ragione.
Le cappelle – fatta eccezione per le prime due dedicate a Sant’Eusebio – furono incentrate su alcune tappe della vita della Vergine (inizialmente sui misteri del Rosario), secondo un percorso che culmina nella cappella dell’Incoronazione di Maria, più nota come Il Paradiso, in cui, oltre trecento statue raffigurano, o meglio recitano, l’Incoronazione di Maria, da parte della Trinità, sostenuta da uno stuolo di angeli. Le fanno da corona tre giri di statue raffiguranti apostoli, santi e martiri.
Sappiamo che le prime cappelle edificate furono quelle della Natività e della Presentazione di Maria al tempio, e che nel 1598 erano 10 le cappelle che facevano da corona al Santuario. Pochi anni dopo il nuovo priore di Crea concepì un ambizioso disegno di ampliamento del Sacro Monte portando a 40 il numero di cappelle da edificarsi, disegno che guidò gli interventi successivi, ma che non fu mai portato a termine.
Tra i principali scultori che operarono al Monte sin dall’avvio del lavori nel 1589, vanno ricordati i fratelli Jean e Nicolas de Wespin (detti i Tabacchetti), artisti di provenienza fiamminga, il maggiore dei quali, Jean, aveva già lavorato a Varallo Sesia. Tra gli autori delle opere a fresco va ricordato ancora Guglielmo Caccia detto il Moncalvo, esponente di primo piano della pittura manierista piemontese tra la fine del XVI e l’inizio del XVII secolo.
Verso la fine del Seicento il Monte contava 18 cappelle e 17 romitori (luoghi di preghiera dedicati ciascuno ad un santo, ad uso dei devoti che, per altra via, ridiscendevano dalla cappella del Paradiso al Santuario); ma bisogna considerare che aveva dovuto subire, nel 1657, il vulnus dei soldati francesi e sabaudi in lotta contro il Monferrato.
Nel 1735 venne rifatta la facciata della chiesa, secondo l’impianto stilistico barocco che oggi vediamo. La prosperità di Crea durò sino alla fine del Settecento. La soppressione degli ordini religiosi voluta da Napoleone nel 1801 ed il saccheggio operato dalle sue truppe nello stesso anno, ridussero il Sacro Monte in condizioni di rovina e di abbandono.
L’intervento ottocentesco, sostitutivo di cappelle andate perdute, rivela invece una statuaria più semplice a eccezione della cappella della Salita al Calvario, dove intervenne Leonardo Bistolfi con una composizione di grande intensità emotiva.