
La crisi della zona della Galka nel Quattrocento, oltre al progressivo abbandono di Palazzo dei Normanni, ridotto in alcune sue parti a una cava a cielo aperto e alla mancanza di grandi lavori nella Cattedrale, è testimoniata anche dalla ristrutturazione delle porte urbiche in quell’area. Sappiamo infatti da Tommaso Fazello come nel 1460 avvenisse la chiusura di un varco d’accesso inserito nella cinta muraria a meridione e al contempo l’apertura di un varco, molto semplice, costituito da un solo ordine di colonne e da cornicione, chiamato Porta dell’Aquila.
Varco che dava accesso, oltre al Piano della della Cattedrale, a un Cassaro molto più ridotto di quello attuale, che si interrompeva all’attuale via Roma. Qui esisteva la Porta di mare (Bab-al-Bahr), detta poi Porta di Patitelli, che si affacciava verso il porto della Cala, allora molto più esteso dell’attuale, e la torre di Baych, sovrastante la porta. Sulla torre erano scolpiti gli stemmi dei re normanni e quello di Casa Spatafora che nel XVI secolo Nicola Spatafora, pretore della città nel 1570, fece trasportare nel giardino del suo palazzo all’Albergheria.
Con il rinnovo urbanistico del primo Cinquecento, la Porta dell’Aquila crebbe sempre più di importanza, tanto che, il 13 settembre 1535 fu utilizzato dall’imperatore Carlo V reduce dalla provvisoria Conquista di Tunisi, per l’ingresso trionfale nella città.
Nella seconda metà del Cinquecento, quando tutti i nodi legati all’interramento della Cala vennero al pettine, i vicerè spagnoli dovettero accollarsi, tra l’opposizione dei nobili e del popolo, una serie di grossi lavori pubblici: da una parte era necessario la costruzione di un nuovo porto, dotato di un nuovo arsenale e capace di accogliere le grandi navi mercantili e le armate navali, dall’altra, dall’altra questa nuova infrastruttura doveva essere ben collegata alla città
Chi cominciò i lavori, fu il vicerè Garcia di Toledo, il tizio che avrebbe fatto a meno di liberare Malta dall’assedio turco: per prima cosa, scelse come sede del nuovo porto l’ampia baia a nord della città fino alle falde di Monte Pellegrino, che ne costituiva la naturale protezione. Così, nel 1567 fu costruito il Molo Nuovo, odierna Via Cristoforo Colombo, in prossimità della Tonnara di San Giorgio, accanto ad una fortificazione dei primi del ‘500.
Poi, bisognava scegliere questo nuovo asse stradale: inizialmente il viceré pensava ad ampliare l’antica strada arabo normanna, che iniziava nei pressi del Bastione del Tuono lungo le mura della Marina,costituito dalla via Alloro, dalla discesa dei Giudici e dal suo naturale prolungamento lungo la medievale via di Santa Chiara fino al Palazzo Reale. Il problema fu che, per adeguarle alle nuove esigenze di traffico commerciale, bisognava abbattere i palazzi di numerosi nobili palermitani, che tanto si lamentarono con Madrid, da costringere il viceré a cambiare idea.
Per cui fu deciso di prolungare il Cassaro: l’incarico progettuale fu dato all’architetto del Senato Cittadino, Giuseppe Spatafora. Nello stesso lasso di tempo, venivano predisposti gli strumenti operativi. Si stabilì, ad esempio, che per le fonti economiche necessarie si sarebbe fatto ricorso alle tasse sul pane, sulla farina, sull’uva e sul vino. Per le demolizioni fu varato un nuovo strumento: il Privilegio della via Toledo che, non ammettendo alcuna remora alle demolizioni decise dai deputati, ed assicurando tempi brevi per la presentazione dell’istanza di valutazione, appena 15 giorni, dava indicazioni per la valutazione degli immobili da demolire e per l’accorpamento dei lotti da ricostruire. La normativa prevedeva la tassazione degli immobili, in proporzione al beneficio derivante dal nuovo affaccio o dalla vendita delle aree edificabili, ed una valutazione pari all’8% del prezzo di locazione
delle case da demolire.
Di conseguenza, la vecchia Porta di mare e la torre araba furono demolite e il Cassaro prolungato verso Piazza Marina: dato la possibilità incrementare la rendit immobiliare lo sviluppo di questa “Strada Nuova”, fu supportata attivamente dalla nobiltà palermitana che non solo contribuì alla realizzazione, ma creò anche spazi nuovi, come l’apertura di Piazza Aragona (successivamente Bologna, o dei Bologna, volgarmente chiamata Bologni) o Piazza Pretoria.
Dopo dopo avere terminato i primi lavori sulla Via Nova, gli interessi dell’amministrazione spagnola, anche per contenere la pirateria barbaresca, si concentrarono sul porto: nel 1575, il primo tratto del “Molo Sud”; l’anno successivo si diede inizio alla costruzione del Molo Nord.
Nel frattempo, a seguito di questa prima ristrutturazione urbanistica, crebbe il ruolo di Porta dell’Aquila e fu deciso così nel 1569, dal Senato Cittadino a provvedere a una sua prima monumentalizzazione: la valutazione dei lavori da effettuare fu affidato Nicolò Antonio Spatafora e Giacomo Del Castrone, che ebbero potere decisionale riguardo a tutte le funzioni gestionali e amministrative.
I due decisero, anche per motivi di contenimenti costi, di non demolire il vecchio edificio, per ricostruirne uno nuovo, ma di cercare, quanto possibile, di restaurare l’esistente: gli architetti che se ne occuparono per primi furono Giorgio di Faccio e Giuseppe Giacalone, che completarono i lavori di rifacimento del primo ordine della porta nel 1570. Nello stesso anno, ai due architetti subentrarono Paolo Daino e Pierluca Matta, di cui tuttavia non abbiano molte notizie. L’incarico della decorazione scultorea fu dato a Carlo Manieri e a Giovanni Colazzi
Questo gruppo di lavoro concepì una sorta di Giano Bifronte: in direzione della città, ispirati dalla trattastica di Serlio, realizzarono un arco di trionfo classicheggiante, con la facciata animata da solo due coppie di lesene corinzie e da un fregio con festoni a ghirlanda, piccole maschere e busti di donne.
Al contempo, la facciata verso Monreale, fu un trionfo dell’immaginazione manierista. L’esempio più evidente sono i quattro mori sulle paraste, in ricordo della vittoria a Tunisi: i mori, legati o con le braccia amputate, sono stati posti come monito a tutti i nemici di Palermo e dell’impero spagnolo, quasi a voler dire allo spettatore ‘questo è ciò che accade a chi sfida questa città’. Un altro elemento in stile tipicamente manierista è quello delle diciannove maschere, di cui la più grande posta al centro dell’arco, con la lingua di fuori, con tutto il suo valore apotropaico.
Per la liberazione dal contagio di peste nel 1575 fu apposta un’immagine della Vergine Immacolata e l’iscrizione:
«Virgini Immaculatæ Summo Urbis Præsidio, atque ornamento, Servati Clientes D. S.»
Le cose cambiarono ulteriormente con la nomina di Marcantonio Colonna, l’eroe di Lepanto, a viceré della Sicilia, che, il 24 aprile 1577 fece il suo ingresso trionfale a Palermo. Il suo primo provvedimento fu di porre fine all’epidemia che infuriava ormai da due anni in Sicilia: con piglio decisamente pratico e razionalistico, affatto alieno dalle superstizioni che attribuivano il morbo a malocchi e pratiche di magia nera, e in perfetta sintonia e collaborazione con uno scienziato, il protomedico Filippo Ingrassia, puntò rigorosamente su quanti non distruggevano i panni infetti e le suppellettili, punendoli severamente al pari di quanti, medici e barbieri, non rivelavano al governo le persone sospette. In questo modo contenne e debellò la peste dilagante.
Il suo obiettivo primario nel governo dell’isola era di indebolire e spezzare lo strapotere dei nobili: appena nominato fece giustiziare quattro personaggi di alto rango e ordinò l’arresto del marchese della Favara, che fino a quel momento aveva agito nel totale disprezzo delle leggi e del potere vicereale. Per fare questo, oltre a riformare l’amministrazione finanziare dell’isola, promosse e condusse una dura repressione del banditismo, perché era consapevole della connivenza fra i capi delle bande armate e i nobili.
In più, consapevole dell’importanza della Sicilia come granaio dell’Impero Spagnolo, cercò di modernizzare il più possibile l’agricoltura: per attenuare lo stato di forte indebitamento in cui versavano i nobili, infatti, sostenne e incoraggiò il processo di concessioni di terre in enfiteusi. Né mancò di redarguire con aspre lettere i tanti feudatari che concedevano le loro terre feudali a condizioni troppo esose e inique per i contadini.
Ovviamente, questa politica gli procurò tanti nemici, compresi gli inquisitori, dato che Marcantonio, con tutte le sue stranezze, era tra le persone più tolleranti dell’epoca e riteneva idiota bruciare una persona per le sue opinioni religiose. I quali, alla fine riuscirono a cacciare il vicerè dalla Sicilia. Da una parte, fu accusato legato da stretta amicizia al temibile Aluch ‘Alì (Ulucchiali), comandante della flotta turca, e che avesse avviato con lui trattative segrete per uno scambio di prigionieri turchi e cristiani. Dall’altra ci si mise lo scandalo della sua relazione extraconiugale con Eufrosina Siracusa Valdaura baronessa del Miserendino e le torbide vicende famigliari.

Nel frattempo, però l’energico viceré aveva anche continuato l’opera di ristrutturazione urbanistica di Palermo: sempre nell’ottica di rafforzare il rapporto tra la città e nuovo porto, da una realizzò la Strada Colonna, il lungomare, dall’altra prolungò il Cassaro sino al mare, che divenne così elemento determinate della nuova idea di città, fondale, quinta prospettica, asse generatore di altrettante architetture e arteria fondamentale per i commerci.
Per monumentalizzare il Cassaro, Marcantonio ordinò di costruire una nuova porta alla sua fine, la nostra Porta Felice, che avrà un percorso edilizio tormentato e di ingrandire ulteriormente la Porta dell’Aquila.Nel 1578 il viceré perpetuò l’esistenza di un corridoio meridionale sopraelevato comunicante col Palazzo Reale verosimilmente ricalcante la parte iniziale attraverso la Galca del primitivo percorso della Strada Coperta. Poi, decise di ingrandirla ulteriormente. I lavori cominciarono nel 1582 e furono affidati a Giovanni Antonio Salamone, che però morì l’anno dopo: a lui successe Giovanni Battista Collipietra, toscano, architetto del Senato di Palermo, mentre nella decorazione scultorea fu coinvolto Vincenzo Gagini, figlio di Antonello
La porta ebbe svariati nomi, tra cui Porta Aurea o Porta del Sole, poiché illuminata dal sole per tutte le ore del giorno; Marcantonio però decise di denominarla Porta D’Austria o Porta Imperiale, in ricordo del passaggio di Carlo V. Ma l’abitudine del popolo di chiamarla Porta Nuova rimase nel tempo così forte da conferirle quest’ultimo nominativo.
Al primo livello ne vennero quindi aggiunti altri due, culminanti nella grande piramide marmorea con la sua lanternina. I due ordini sono fondamentali nel ruolo di Porta Nuova all’interno del complesso monumentale di Palazzo Reale, poiché collegati ad esso fin dalla loro realizzazione, fornendo alla porta una funzione privata oltre che rappresentativa.
Il secondo ordine nel lato interno presenta oggi una fascia ritmata da lesene che la dividono in cinque parti, Al loro interno sono contenute nicchie ovoidali con cornici molto decorate, contenenti quattro busti allegorici: l’Abbondanza, la Giustizia, la Verità e la Pace. Al centro quasi sicuramente si trovava l’aquila marmorea adesso posta nel lato esterno del primo ordine, probabilmente spostata in un primo momento per paura che potesse cadere.Per quanto riguarda il lato esterno, la fascia del primo ordine è semplicemente intervallata da due finestre fiancheggiate a sinistra dallo stemma araldico dei Colonna e al centro dall’aquila marmorea.
Il terzo livello è eccezionalmente – si tratta dell’unico con questa caratteristica – identico in entrambi i lati. Si tratta di un loggiato in cui il bianco del marmo di balaustri e colonne contrasta con le finestre retrostanti. Ogni colonna, che si eleva da plinti figurati con maschere, culmina in capitelli compositi, dando vita a cinque archi a tutto sesto con altri mascheroni al centro. All’interno del loggiato, i cui tetti presentano volte a crociera, le finestre sono sormontate da cinque sculture di arpie.
Al di sopra del tutto vi è un terrazzo, e all’interno di questo si innanza una torretta quadrilatera che fa da base alla piramide maiolicata, conclusa in cima da una lanternina ottagonale. La piramide presenta in tutti e quattro i lati la rappresentazione dell’aquila di Palermo, che in questo luogo sembra quasi volare per proteggere e osservare la città tutta
La costruzione subì la quasi totale distruzione il 20 dicembre 1667, quando esplosero i depositi di polvere da sparo a causa di un fulmine dovuto ad un temporale. Nel 1669 l’architetto Gaspare Guercio la ricostruì integralmente e pensò di porre a coronamento dell’edificio una copertura piramidale rivestita da piastrelle policrome maiolicate con le immagini di aquile ad ali spiegate.
Le iscrizioni del 1668 recitano di provvedimenti e risarcimenti operati dal viceré di Sicilia Francesco Fernandez de La Cueva, duca di Alburquerque. Il terremoto del 16 giugno 1686 provocò dei danni. I lavori di restauro comportarono la realizzazione di scarpe o delfini di rinforzo sul fianco sinistro, interventi posti in essere dal viceré Giovan Francesco Pacecho, duca di Uzeda.
Fino ai restauri eseguiti nel 1825 è documentato visibile un affresco raffigurante la Beata Vergine Maria contornata da angeli, ritratta con Sant’Agata, Sant’Agatone, San Michele Arcangelo, opera realizzata da Pietro Novelli sulla parete interna. Nel 1848 Porta Nuova rischiò di essere demolita ad opera del governo rivoluzionario, ma venne salvata in extremis nel rispetto del parere espresso da una commissione convocata appositamente. Dal 1870 fa parte del complesso del distretto militare di Palermo.
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