Selinunte (Parte II)

Tempio A

Cosa visitare a Selinunte ? Il nostro giro comincia con l’Acropoli, un altopiano calcareo che a sud è a strapiombo sul mare, mentre a Nord si restringe fino a m 140. L’insediamento, di forma grossomodo trapezoidale, fu ampliato verso nord alla fine del VI secolo a.C. con un formidabile muraglione a gradini (altezza m 11 circa), e circondato da mura – più volte restaurate e modificate – formate da cortine in blocchi squadrati con un riempimento di pietrame (emplècton), e scandite da 5 torri e 4 porte, che ahimè risultarono inutili contro i cartaginesi.

A nord, l’acropoli presenta delle fortificazioni con contromuro e torri, databili all’inizio del IV secolo a.C. Presso l’ingresso all’acropoli vi è la Torre di Polluce che fu costruita nel XVI secolo contro i corsari, sui resti di una torre o faro antico. Infatti, dal 1547 in poi Filippo II di Spagna diede l’incarico di difendere le coste siciliane alla Deputazione del Regno di Sicilia, che incaricò l’architetto militare Ferramolino a definire un progetto organico di fortificazione

Inoltre, dopo il rivelo (censimento) del 1549, si costituì, da parte del vicerè Giovanni de Vega una Nuova Militia con il compito di gestire la sorveglianza delle coste e di intervenire in caso di sbarco dei pirati, l’organico era costituito da novemila fanti e milleseicento soldati a cavallo. Tutte le coste della Sicilia furono suddivise in dieci sergenzie con funzioni amministrative-militari, ed ogni sergenzia era comandata da un sergente maggiore.

La maggior parte delle torri ancora esistenti sono state costruite su indicazioni topologiche e progettuali dell’architetto fiorentino Camillo Camilliani, noto per avere rimontato la Fontana Pretoria a Palermo, che ricevette l’incarico da parte del Parlamento siciliano il 1º luglio 1583, e fu accompagnato nella ricognizione preliminare dal capitano Giovan Battista Fresco della Deputazione del Regno, l’ufficio di stato cui spettava la costruzione ed il mantenimento delle torri costiere. La ricognizione durò ben due anni, dal 1583 al 1584, e comportò l’itero periplo costiero della Sicilia, effettuato quasi tutto per via terrestre. Per il progetto il Parlamento Siciliano stanziò ben 10.000 scudi.

Camillo, per ottimizzare al massimo i costi e tempi di costruzione, adottò un approccio standard. La scelta del sito delle fortificazioni dipendeva dalla possibilità di dominare un ampio spazio di mare e permettere le segnalazioni con dei fuochi fra i vari fortilizi e fra questi e le città. I torrioni erano a pianta quadrangolare, di due piani comunicanti. Nel piano terra vi erano delle cisterne e il deposito e nel primo piano l’alloggio delle vedette. Nella terrazza invece veniva messa l’artiglieria. Il personale di vedetta era formato da tre elementi: un caporale e due soldati (i torrari ). L’accesso avveniva tramite una scala di corda, da ritirare in caso di pericolo.

Tornando all’Acropoli di Selinunte, il suo impianto urbano è suddiviso in quartieri da due strade principali (larghezza m 9) che si incrociano ad angolo retto (quella nord-sud lunga m 425; quella est-ovest lunga m 338), intersecate a loro volta – ogni m 32 – da altre vie minori (larghezza m 5). Questa sistemazione urbanistica – che riproduce quella più antica – risale però al IV secolo a.C., cioè alla Selinunte punica. Ai primi anni della colonia, invece, sono da attribuire diverse aree e piccoli santuari innalzati sull’acropoli, sostituiti circa cinquant’anni più tardi da templi più grandi e duraturi.

I primi templi che si incrociano sono il Tempio A, forse dedicato ai Dioscuri e il Tempio O, forse dedicato a Poseidone – di cui restano pochi avanzi: il basamento, qualche rocchio e l’ara – che furono costruiti tra il 490 ed il 460 a.C. I due edifici hanno una struttura pressoché identica tra loro, simile a quella del Tempio E sulla collina orientale.

Solo l’intenso studio delle rovine molto dissestate e dei suoi elementi permette l’ affermazione che il tempio A costruito intorno alla metà del V sec.a.C. era il tempio classico più armonioso e perfetto di Selinunte. L’occhio sensibile, tuttavia, apprezza la bellezza classica delle precise forme delle membrature architettoniche e specialmente dei capitelli, nonostante l’avanzato stato di corrosione. Nel tempio dalle dimensioni generali moderate (stilobate 16.23/40.24 m), le colonne, disposte nel rapporto di 6/14, ormai canonico per i templi dell’occidente greco, e con interassi normali uguali ai fronti e lati, racchiudono la cella in perfetta simmetria. Per risolvere il noto conflitto d’angolo dell’ordine architettonico dorico di età classica, dovuto al fatto che agli angoli e i triglifi non possono coincidere assialmente con le rispettive colonne, si contraggono gradualmente gli interassi delle colonne più vicine agli angoli. Inoltre fu data alle colonne una leggera inclinazione verso l’interno del tempio per pareggiare le restanti piccole differenze e per poter formare, infine, il fregio, i triglifi e metope con la massima regolarità. Tale leggera inclinazione intenzionale, un accorgimento noto dai templi classici della Grecia stessa, – e qui notata soltanto con precise misurazioni, – contribuisce sensibilmente alla resa plastica e compatta del volume del tempio intero ed è un ulteriore indizio per l’alto livello architettonico – artistico di questo nobile monumento.

Una sima riccamente decorata di prezioso marmo greco-insulare incoronava l’alzato ben proporzionato. Nella cella, il pronao, vano d’ingresso orientale con due colonne in antis viene controbilanciato ad ovest dell’analogo opistodomo. Dal naos è separato l’adyton, il vano per la statua di culto che a Selinunte sembra irrinunciabile, il che porta a delle proporzioni insolitamente raccorciate, ma proprio per questo molto armoniose, della sala principale. Un elemento particolarmente elaborato sono le due scale a chiocciola ricavate nella parete d’ingresso al naos, un dispositivo che si spiega solo con delle esigenze del culto che rimangono, però, oscure. E’ questo il primo esempio della scala a chiocciola in tutta la storia dell’architettura. Il tempio creava un’ unità architettonica col suo grande altare che, a sua volta, è il più complesso esempio di questa tipologia in età classica. Infatti l’altare stesso riprendeva nel piccolo tutte le forme del grande tempio periptero. La mensa dell’altare era racchiusa da un colonnato con una intera trabeazione dorica, il tutto si alzava sulle relative gradinate e due interi frontoni fungevano da guance d’altare. Solo la fiancata rivolta verso il tempio era interrotta dalla lunga scalinata indispensabile per le funzioni di culto. Il pronao del Tempio A ha un pavimento a mosaico dove sono rappresentati la figura simbolica della dea fenicia Tanit, un caduceo, il sole, una corona e una testa bovina, il che implica un suo riutilizzo in epoca punica, caratterizzata una forte sintesi tra differenti culture.

A m 34 ad est del Tempio A vi sono i resti dell’ingresso monumentale all’area: si tratta di un propileo con pianta a forma di T, consistente in un corpo avanzato rettangolare (di m 13 x 5,60) con peristilio di 5 x 12 colonne, e in un altro corpo pure rettangolare (di m 6,78 x 7,25). Il Tempio O, realizzato pochi anni prima del gemello Tempio A, è anch’esso un periptero con 6 colonne lungo la facciata e 14 ai lati. Il tempio lungo poco più di 40m., era dotato di un pronao e di un opistodomo, distili in antis, e forse di un adyton. Accanto al Tempio O si è rinvenuta un’area sacrificale punica, un tofet, caratterizzata da ambienti costruiti con muretti a secco, all’interno dei quali erano depositati vasi contenenti ceneri, e anfore a siluro di tipo cartaginese.

Superata la strada est-ovest si entra nella seconda area sacra, posta a nord della precedente. Prima di giungere al Tempio C, a sud di esso, vi è un sacello (lunghezza m 17,65; larghezza m 5,50), che risale al 580-570 a.C., avente la struttura arcaica del mègaron, forse destinato a conservare le offerte dei fedeli. Costruito con muri pieni rialzati su uno zoccolo costituito da tre file di conci di tufo bugnati, è decorato con con pregevoli terracotte architettoniche.Privo di pronao, ha l’entrata ad est che dà direttamente nella cella (al centro della quale vi sono due basi per le colonne lignee che sostenevano il tetto), racchiusa in fondo da un adyton quadrato, al quale venne aggiunto in epoca successiva un terzo ambiente, utilizzato in età punica come deposito di munizioni per catapulte e macchine belliche. Il sacello era forse dedicato a Demetra Tesmofòros.

Alla sua destra vi è il Tempio B, realizzato dai cartaginesi in forme greche, sempre a riprova della loro ellenizzazione, piccolo (lunghezza m 8,40; larghezza m 4,60) e in cattive condizioni. Consisteva in un’edicola prostila di 4 colonne cui si accedeva per una scala di 9 gradini, con pronao e cella, he ancora conserva il basamento della statua di culto. Nel 1824, secondo quanto racconta l’Hittorf, lo scopritore, mostrava ancora chiare tracce degli intonaci policromi. Costruito probabilmente intorno al 250 a.C., poco tempo prima che Selinunte venisse definitivamente evacuata, rappresenta il solo edificio religioso che attesta la modesta rinascita della città dopo la sua distruzione. Oscura resta la sua destinazione: in passato si era creduto trattarsi dell’heroon (tempio sede di un culto eroico) di Empedocle, bonificatore delle paludi selinuntine, ipotesi in contrasto con la cronologia dell’edificio. Oggi invece ci si sta orientando più a un’attribuzione a Eshmun, il dio fenicio della guarigione, equiparato ad Asclepio.

Tempio C

Il Tempio C, dedicato ad Apollo, è il più antico in quest’area, e risale al 550 a.C. Nel 1925-27 sono state ricomposte e rialzate sul lato N numerose colonne (per la precisione 14 colonne su 17) con parte della trabeazione. Presenta un peristilio (lunghezza m 63,70; larghezza m 24) di 6 x 17 colonne (altezza m 8,62). È caratterizzato a est dall’ingresso preceduto da una scalinata di 8 gradini, un vestibolo con una seconda fila di colonne, quindi il pronao, la cella e l’adyton collegati in un insieme stretto e lungo (carattere arcaico); ha sostanzialmente la stessa planimetria del Tempio F sulla collina orientale. Data l’età arcaica in cui è stato costruito, sperimenta una serie di soluzioni architettoniche, che saranno abbandonate dallo stile dorico in epoca classica, che tenderà alla standardizzazione e all’omogeneità dei vari elementi: ad esempio, le quattro angolari hanno diametri maggiori rispetto alle altre, le scanalature variano da 16 a 20 e variabile è anche l’intercolumnio; esse, inoltre, sono prive di entasi e sono realizzate alcune a tamburi ed altre a monolito.

Nel tempio C sono stati rinvenuti: dalla decorazione della cornice alcuni frammenti di terrecotte policrome (rosso, bruno, porpora); dal frontone un gigantesco gorgoneion fittile (altezza m 2,50); dalla facciata tre metope che rappresentano: Perseo, alla presenza di Atena, in atto di decapitare Gorgone che stringe a sé Pegaso; Eracle e i Cercopi, la quadriga di Apollo vista frontalmente (il dio era affiancato dalle figure di Elio e Selene: lacunose), che sono tutte al Museo Archeologico di Palermo.

Il mito di Eracle e i Cercopi, che forse molti non conoscono, racconta che questi due fratelli, figli dell’oceanina Theia, due cialtroni, ladri e truffatori che infestavano la zona di Cuma, avendo assalito Eracle nel sonno per rubargli il bottino che portava con sé, furono catturati dall’eroe che, per punirli, li appese a testa in giù al suo bastone, come fossero prede di caccia. In quella strana posizione, uno dei fratelli riconobbe in Eracle l’uomo “dalle natiche villose” di cui aveva loro parlato la madre esortandoli a guardarsi da lui. Fatta tale scoperta, i due Cercopi cominciarono a motteggiare l’eroe e a scherzare con lui e lo divertirono a tal punto che alla fine vennero da lui liberati. Ahimè, invece di cambiare vita, i due Cercopi continuarono con le loro ruberie, tanto che Zeus, esasperato, li punì trasformandoli in scimmie.

Il mito dei Cercopi catturati e poi liberati da Eracle è piuttosto arcaico (già ad Omero si attribuiva un poemetto intitolato appunto I Cercopi) ed era una metafora orfica e pitagorica della liberazione dell’Anima dalle passioni e dagli appetiti materuali, tanto da essere rappresentato, oltre che nella metopa selinuntina, nell’Heràion (tempio di Era) del Sele. Altre figurazioni del mito si riconoscono, poi, in alcuni esemplari di ceramica corinzia e attica e su vasi italioti.

Il Tempio C in età punica fu riutilizzato come archivio cittadino, dato il ritrovamento numerosi sigilli cartaginesi. A est del Tempio C vi è il suo grande altare rettangolare (lunghezza m 20,40; larghezza m 8) di cui restano le fondazioni e qualche gradino, e poi l’area dell’Agorà ellenistica; poco oltre i resti delle case, la terrazza è limitata da un portico dorico (lunghezza m 57; larghezza m 2,80) che si affaccia su un imponente tratto del muro di sostegno dell’acropoli.

Inoltre, accanto al Tempio C, è stato appena scoperto il cosiddetto Tempio R, forse dedicato a Demetra e Kore. Costruito nel primo quarto del VI secolo a.C., è il primo tempio monumentale costruito a Selinunte, e uno dei primi rappresentanti nell’ architettura dell’Europa occidentale monumentale greca. Edificio non periptero (cioè non circondato da colonne) ha un profondo Pronao e una Cella, così come una terza camera con ingresso indipendente meridionale. Due colonne poste nel pronao, e forse una terza nella cella, allineate sull’asse centrale, sostenevano il tetto dell’edificio. I primi templi non peripteri costruiti interamente in pietra segnano l’inizio dell’ architettura monumentale in Sicilia.
I ritrovamenti dell’area come tre lance infisse nel terreno o un flauto in osso hanno fatto pensare a riti in memoria della fondazione della colonia.

Segue il Tempio D, che si data al 540 a.C. e si affaccia col suo fronte ovest direttamente sulla strada nord-sud. Presenta un peristilio (lunghezza m 56; larghezza m 24) di 6 x 13 colonne (altezza m 7,51). È caratterizzato da un pronao in antis, una cella allungata conclusa con l’adyton. È più progredito del Tempio C (le colonne sono lievemente inclinate, più slanciate e con èntasis; il vestibolo è sostituito da un pronao distilo in antis), ma mostra ancora incertezza nelle misure fra gli intercolumni e nei diametri delle colonne, come pure nel numero delle scanalature. Come già il Tempio C, mostra nel pavimento del peristilio e della cella molte cavità circolari o quadrate di cui si ignora la funzione.
Probabilmente, anche se banale, servivano come depositi delle offerte e degli ex voto dei fedeli. Il Tempio D era dedicato ad Atena (come attesterebbe l’iscrizione dedicatoria IG XIV, 269). Il grande altare esterno, non in asse col tempio ma posto obliquamente presso il suo angolo sud-ovest, fa supporre che l’attuale Tempio D occupi il luogo di uno precedente.

Parte del Tempio Y, ricostruito nel museo del Banlio Florio

est del Tempio D vi è il basamento di un tempietto arcaico, il Tempio Y, detto anche “Tempio delle piccole metope”, conservate nel museo archeologico di Palermo, preceduto da un altare quadrato. Questo tempio era il più antico periptero di Selinunte e la sua identificazione è stato un lavoro degno di Sherlock Holmes. Ai tempi dei cartaginesi fu letteralmente smontato, per essere utilizzato come materiale di costruzione per rinforzare le mura.Con sicurezza possiamo attribuire al tempio Y tre delle quattro piccole metope scoperte da Antonio Salinas nel secolo scorso, fortemente legati a schemi arcaici, raffiguranti il ratto di Europa, la Sfinge alata e la triade di Delfi; sculture, databili tra il 580-570 a.C., accomunate dal tipico kyma ad ovuli di stile ionico. A questi si aggiungono la metopa con Eracle che lotta contro il toro, rinvenuta insieme alle precedenti, e le due metope ritrovate nel tratto est delle fortificazioni da Vincenzo Tusa nel 1968. La prima raffigura una biga vista frontalmente con due personaggi sul carro, forse Helios e Selene, e due cavalli rampanti ai lati in posizione araldica; la seconda raffigura Demetra, Kore ed Ecate. Queste ultime, nonostante siano prive di kyma, risentono della corrente ionica e sono considerate stilisticamente molto vicine alle precedenti e quindi facenti parte dello stesso edificio sacro.

Intorno ai Templi C e D vi sono le rovine di un villaggio bizantino del V secolo d.C., costruito con materiale di recupero. Il fatto che alcune case risultavano sepolte dal crollo delle colonne del Tempio C, ha dimostrato che il terremoto che ha portato al crollo dei templi selinuntini deve essere avvenuto in epoca altomedievale.

Verso nord l’acropoli presenta due quartieri della città (uno a ovest ed l’altro ad est della grande strada nord-sud), ricostruiti da Ermocrate dopo il 409 a.C.: le case sono modeste, edificate con materiali di recupero; alcune di esse mostrano delle croci incise, segno che furono adoperate come edifici cristiani o da parte di cristiani.

A nord, prima di raggiungere l’abitato, vi sono le grandiose fortificazioni a difesa dell’acropoli. Si articolano come una lunga galleria (originariamente coperta), parallela al tratto delle mura nord, con numerosi passaggi chiusi ad arco, seguita da un profondo fossato difensivo varcato da un ponticello, e con tre torri semicircolari ad ovest, nord e ad est. Girando all’esterno della torre nord – con un deposito di artiglieria alla base – si entra nella trincea rettilinea est-ovest con passaggi in entrambe le pareti. Le fortificazioni, attribuibili solo in piccola parte alla città antica, sono da riferire sostanzialmente alle ricostruzioni di Ermocrate e a interventi successivi (IV-III secolo a.C.). Infatti vi furono reimpiegati degli elementi architettonici, che dimostrano che alcuni dei templi erano stati abbattuti già nel 409 a.C.

la Tabula iliaca capitolina appartenuta alla famiglia Spada

CASATO SPADA

Il termine tabula iliaca fu impiegato per la prima volta da Lorenz Beger nell‛opera Bellum et excidium Trojanum nel 1699, a proposito della più grande e più celebre delle tavole iliache, la Tabula Capitolina, rinvenuta presso Bovillae nel 1683, ora nei Musei Capitolini, con scene della guerra di Troia secondo l‛Iliade, l‛Etiopide, la Piccola Iliade, l‛Ilioupersis.

In un luogo detto altre volte ad Bovillas, ed ora alle Frattocchie, appartenente alla casa Colonna. Ivi

era anticamente la villa dell’ imperator Claudio, Ivi fu pure scoperta la così detta Tavola Iliaca da certo canonico Spagna mentr’ era a caccia, da cui ereditolla la famiglia Spada, e diedela poi in dono al museo Capitolino.

La Tabula Capitolina è la capostipite della serie del gruppo di tavolette che recano la firma di Theodoros. Il ruolo sperimentale della tavoletta si sostanzia nel fatto che la calcite in seguito non venne più utilizzata perché troppo…

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La Basilica virginum di Mediolanum

Tra le quattro basiliche ambrosiane, la Basilica virginum, dedicata a Maria e alle Sante Vergini consacrate, poi ridenominata San Simpliciano, è di certo quella che ha causato più polemiche e discussioni tra gli studiosi.

La basilica sorse nel IV secolo sulla lunga arteria che, attraverso la Porta Comasina romana, si irradiava dalla città romana di Mediolanum (la moderna Milano) a Nord verso Como (Novum Comum) e poi, attraverso le valli del passo del San Bernardino e del passo del Settimo, conduceva in Germania. Nei pressi della Porta Comasina romana era presente sul luogo dell’attuale chiesa un precedente cimitero pagano documentato da are votive rinvenute in loco e pubblicate da Giovanni Labus nel 1841-1842.

La questione dell’origine della basilica rimane però ancora oggi irrisolta: non viene infatti citata né nell’epistolario di Ambrogio né nella cronaca della vita del santo lasciata dal suo biografo diacono Paolino. Neppure Agostino, di cui Simpliciano fu precettore nella fede e che ci ha tramandato molte indicazioni anche sulla vita di Ambrogio, ha lasciato testimonianze sull’erezione della basilica. Alcuni studiosi negano che la basilica sia stata voluta da Ambrogio e preferiscono invece l’ipotesi che la sua erezione sia stata voluta e cominciata dallo stesso Simpliciano, che qui abitava nella sua vita ritirata e qui fu sepolto alla morte. Altri invece propendono per individuare nella basilica una delle quattro costruite da Ambrogio intorno all’abitato di Milano come a creare una sorta di cerchio sacro a protezione della città.

Però è certo che Simpliciano cambiò parzialmente la destinazione sacrale della basilica, dato che la utilizzò come sacello sepolcrale per i martiri Martirio, Sisinnio ed Alessandro. I tre martiri erano chierici originari della Cappadocia (Turchia) inviati da Ambrogio a evangelizzare la regione dell’Anaunia (odierna Val di Non), dove furono poi uccisi dai pagani locali il 29 maggio dell’anno 397. Il vescovo Vigilio di Trento si fece propagatore del loro culto e le loro reliquie vennero inviate al nuovo vescovo di Milano.

A questo proposito, nonostante siano state formulate diverse ipotesi sul luogo di deposizione, non si hanno certezze in relazione alla collocazione originaria, ad esclusione del loro ritrovamento, insieme alle spoglie dello stesso Simpliciano, nel corso di una ricognizione sotto l’altare maggiore promossa da Carlo Borromeo nel 1582. Altrettanto controversa poi è proprio la datazione della traslazione del corpo del Simpliciano che, stando a quanto riferito nell’Itinerarium Salisburgense, sino alla metà del VII secolo dimorava nella chiesa dei Santi Nabore e Felice presso Porta Vercellina. Al riguardo è suggestiva e verosimile l’ipotesi che il trasferimento sia stato effettuato proprio quando il rinnovato prestigio del culto dei martiri dell’Anaunia, giustificato dalla presenza dell’abate Secondo di Non alla corte di Teodolinda, sarebbe stato celebrato con lo spostamento delle spoglie del santo.

Proprio questa traslazione, oltre a rinominare la basilica, dovette coincidere con un primo restauro, che anticipò la ricostruzione romanica: a riprova di ciò, vi è il ritrovamento di alcuni tegoloni in terracotta recanti il sigillo di Agilulfo (Agilulfus Rex), re dei Longobardi e d’Italia fra il 591 e il 616 d.C. e marito di Teodolinda,che furono rinvenuti in alcuni muri e nella copertura della volta dell’abside durante i restauri del 1841; nel 1893 ne venne rinvenuto un altro mentre si provvedeva a isolare l’affresco del Bergognone. Per cui, i longobardi rifecero probabilmente il tetto e i suoi pilastri di sostegno che tripartiscono la navata.

Come per le altre fondazioni ambrosiane, la basilica di San Simpliciano, da almeno un secolo a questa parte, è oggetto privilegiato dell’interesse di studiosi di archeologia, storia dell’arte e architettura che, soprattutto dalla seconda metà del Novecento, hanno condotto scavi archeologici sul luogo della basilica. Tali interventi, hanno consentito di mettere in luce le principali tappe dello sviluppo costruttivo del monumento, identificando anche ampie porzioni delle strutture paleocristiane originarie. Le numerose trasformazioni subite dall’edificio sembrano infatti non averne alterato in modo irreparabile l’impianto planimetrico e la conservazione di buona parte degli elevati originari, nonostante gli importanti interventi di epoca romanica che, secondo una modalità frequente negli edifici milanesi, comportarono il rifacimento del sistema di copertura e di parte degli elevati perimetrali, l’inserzione di un tiburio ottagonale nel punto di innesto tra i due volumi principali, e la costruzione della torre campanaria.

La basilica presenta una pianta a croce latina affiancata in corrispondenza del settore absidale da due aule rettangolari di grandi dimensioni e, sul lato nord-orientale, da un sacello cruciforme. I perimetrali esterni dell’edificio, caratterizzati da grandi arcature cieche nelle quali sono inquadrati finestroni, tamponati in età romanica, furono il primo elemento a stimolare l’interesse e la curiosità di Edoardo Arslan che, dal 1944, condusse i lavori di restauro della basilica portando alla luce vastissime porzioni di muratura originaria fino ad allora coperte da uno spesso strato di intonaco, confermando così l’origine paleocristiana del monumento. L’ipotesi dello studioso fu in seguito sostenuta anche da M. Cagiano de Azevedo che per primo attribuì la fondazione dell’edificio ad Ambrogio, proponendo che la costruzione della basilica fosse stata iniziata intorno al 385 e terminata prima del 397.

I risultati delle indagini dell’Arslan sugli elevati, unitamente a quelli degli interventi di scavo effettuati tra gli anni’40 e’80 del secolo scorso, restituiscono oggi un quadro articolato (anche se ancora non chiarito in alcuni aspetti), ma certamente suggestivo, in merito alla evoluzione del monumento. Alla luce delle più recenti ipotesi la basilica doveva quindi presentare una planimetria del tutto coerente con quella attuale, ad eccezione della presenza di un portico ad U attorno al corpo longitudinale individuato nel corso degli scavi condotti da Mario Mirabella Roberti all’inizio degli anni’60 sul fronte occidentale dell’edificio. L’abside, della quale restano i ruderi nel giardino retrostante la basilica, era più ampia e più arretrata rispetto a quella attuale, edificata nell’ambito degli interventi ricostruttivi di epoca romanica.

Sondaggi avvenuti in tempi più recenti hanno infine consentito la chiara definizione della quota del livello pavimentale paleocristiano, identificato in un opus sectile individuato tra 1,50 e 1,80 metri al di sotto del piano attuale. Il posizionamento degli accessi è stato poi parzialmente chiarito nel corso di alcuni scavi effettuati alla fine degli anni ‘ 80: la loro collocazione a ridosso della controfacciata ha portato ad escludere la presenza di un portale centrale e ad ipotizzare l’esistenza di aperture laterali, non ancora confermate però da scavi archeologici.

Ora, la San Simpliciano paleocristiana somigliava in maniera impressionante all’Aula Palatina di Treviri, voluta da Costantino: ne era in pratica una replica ridotta, a cui era stato aggiunto un transetto. Per cui, basandosi su questo, molti studiosi hanno anticipato la sua costruzione ai tempi di Costantino o di Costanzo II, dato che però contrasta con quanto emerso dalle strutture murarie, analoghe a quelle della Basilica Apostolorum.

Inoltre, Ambrogio sicuramente conosceva l’edificio costantiniano, dato che era nato e cresciuto a Treviri, dove il padre svolgeva il ruolo di Prefetto del Pretorio per le Gallie: per cui non è da escludere che abbia voluto citarlo, in una basilica posizione sulla strada diretta per la Germania, per rendere Mediolanum, le cui basiliche replicavano sia quelle romane, sia quelle costantinopolitane, una sorta di sintesi dell’Ekumene cristiano. Il ricondurre poi alla croce lo spazio di una sala delle udienze imperiali era poi una perfetta sintesi del pensiero ambrosiano, per cui l’Impero doveva essere nella Chiesa, non estraneo o superiore alla Chiesa.

In un momento successivo all’edicazione della basilica, ma entro il V secolo d.C., venne annesso anche un sacello a nord dell’abside, dove oggi si trova la sacrestia. La datazione si basa sul modo di costruzione della volta a botte, che impiega anfore intere immerse nella malta a sostenere la struttura del tetto, tecnica caratteristica di altri sacelli come quelli di Sant’Ippolito e Sant’Aquilino, annessi alla basilica di San Lorenzo. Non è chiaro se la struttura fosse collegata fisicamente al resto della basilica oppure se fosse separata e unita al corpo della basilica solo in epoca medievale. Il sacello, le cui murature originarie sono ancora visibili all’esterno, è stato interpretato come luogo per la devozione delle reliquie dei santi (cella memoriae o martyrium), magari proprio quelli dell’Aunania, oppure cappella funeraria destinata a sepolture privilegiate

Santo Stefano Rotondo

Poco conosciuta, ma assai affascinante è la storia di Santo Stefano Rotondo, conosciuto nei secoli anche come Santo Stefano in Girimonte o Santo Stefano in Querquetulano, dagli antichi nomi del Celio, o Santo Stefano in capite Africae, per la sua vicinanza all’antico Vicus Capitis Africae. Quest’ultimo era una strada della Regio II Caelimontium di Roma antica, oggi non più visibile, che saliva dalla valle del Colosseo, iniziando probabilmente a fianco del Ludus Magnus, costeggiava il lato est del podio del tempio del Divo Claudio, fino alla sommità del Celio, dove oggi è piazza della Navicella, per proseguire e scendere poi fino alla Porta Metronia.

La forma circolare della chiesa, sin dall’alto Medioevo, ha colpito la fantasia degli studiosi, che hanno formulato, per spiegarla, una ridda di ipotesi: già nel X secolo si era pensato come in origine fosse il tempio della divinità pagana Faunus o dell’imperatore Claudio, ritenuto simile al Pantheon. Nel Rinascimento, invece, si ipotizzò fosse una ristrutturazione del Macellum Magnum, il mercato di derrate alimentare fatto costruire da Nerone.

Solo negli anni Settanta nel Novecento, il mistero fu chiarito: come Santa Maria in Domnica, questa chiesa fu costruita sulle fondazioni di una caserma, i Castra Peregrina, che ospitava i soldati degli eserciti provinciali impiegati a Roma per funzioni particolari: di polizia, come corrieri, per approvvigionare la corte imperiale. Gli scavi compiuti tra il 1969 e il 1975 sotto il pavimento della basilica e nella zona adiacente entro il perimetro della chiesa primitiva hanno riportato alla luce strutture murarie pertinenti a due edifici, databili al II secolo, che subirono rimaneggiamenti nel corso del III e del IV. In particolare, in uno dei due edifici fu ricavato un mitreo, dalle dimensioni complessive di circa m 9,50×10, tra i più grandi tra quelli scavati finora a Roma.

Nel santuario, decorato con affreschi a elementi vegetali, furono ritrovati durante gli scavi una piccola vasca di marmo colma di ossa di gallo ed oggetti riferibili ad altri culti, in particolare una testa marmorea di Iside e una statuetta marmorea di Telesforo. Sulle pareti, c’è anche un affresco raffigurante la “Personificazione della Luna”. Il mitreo fu abbandonato repentinamente, probabilmente a seguito di una devastazione violenta dello stesso, destino purtroppo comune ad altri edifici adibiti allo stesso culto. E’ difficile dare una datazione certa a questo evento, che probabilmente ebbe luogo intorno alla fine del IV secolo, epoca in cui i Castra erano ancora in uso, poiché viene ricordata dallo storico Ammiano Marcellino la carcerazione di un re alemanno che ivi sarebbe morto.

L’area della caserma, che era nel V secolo ancora di proprietà del fisco imperiale, non poteva essere occupata dalla chiesa senza il consenso dell’imperatore. Si può pertanto supporre che uno degli imperatori verso la fine dell’Impero Romano d’Occidente abbia non soltanto donato alla Chiesa, seguendo l’esempio di Costantino, l’area occupata dai Castra Peregrina, ma sostenuto economicamente proprio la costruzione della basilica. Gli scavi archeologici hanno poi mostrato come la caserma fosse distrutta e livellata per la costruzione della chiesa probabilmente nel secondo quarto del V secolo, come si desume dall’analisi del materiale ceramico di riempimento, ai tempi di Valentiniano III.

Il che ci fa anticipare la costruzione della chiesa, rispetto a quanto raccontato nel Liber Pontificalis, ai tempi di papa Leone Magno. Nel 415, furono furono ritrovate a Rappa Gamela, vicino Gerusalemme, le presunte reliquie di Santo Stefano, lapidato nel 35 d. C. per la sua attività di predicatore.

Ciò portò a una notevole ripresa del suo culto, cosa che fu sfruttata dal Papa, nella sua polemica contro gli eretici pelagiani e contro i manichei. Per prima cosa, convinse Demetriade, della ricca famiglia degli Anicii, a trasformare parte della sia villa suburbana su Via Latina in un basilica dedicata a Stefano. Basilica a tre navate, con colonne corinzie di cui sono conservate la “Confessione”, cioè il vano sotto l’altare (ora coperto dalla tettoia di plastica ondulata) sul quale i fedeli si inginocchiavano in venerazione delle reliquie del santo e il Battistero, una piccola piscina a forma di quadrifoglio scavata nel terreno, nella quale si scendeva per mezzo di una scaletta.

Ora, nonostante la ricchezza di ornamenti, pagati da Demetriade, la chiesa era troppo distante dal centro di Roma, per attirare pellegrinaggi: per cui, ovviamente, Leone III dovette costruirne una seconda, in una delle zone più popolate dell’Urbe. I lavori però, dovettero, per i problemi dell’Impero, protrarsi a lungo: sono infatti state rinvenute in un tratto delle fondazioni dell’edificio due monete dell’imperatore Libio Severo (461-465); inoltre tramite la dendrocronologia si è appurato che il legno utilizzato nelle travi del tetto era stato tagliato intorno al 455.

La chiesa di Leone Magno, terminata e inaugurata da papa Simplicio, era diversa dall’attuale. L’edificio aveva ovviamente una pianta circolare, ma era costituito in origine da tre cerchi concentrici: uno spazio centrale (diametro 22 m) era delimitato da un cerchio di 22 colonne architravate, sulle quali poggia un tamburo (alto 22,16 m); tale parte centrale era circondata da due ambulacri più bassi ad anello: quello più interno (diametro 42 m) era delimitato da un secondo cerchio di colonne collegate da archi, oggi inserite in un muro continuo, mentre quello più esterno (diametro 66 m), scomparso, era chiuso da un basso muro.

Nell’anello più esterno dei colonnati radiali sormontati da un muro delimitavano quattro ambienti di maggiore altezza, che iscrivevano nella pianta circolare una croce greca riconoscibile anche all’esterno per la differenza di altezza delle coperture.I tratti intermedi dell’anello più esterno, di altezza inferiore, erano ulteriormente suddivisi in uno stretto corridoio esterno, coperto da una volta a botte anulare, e in uno spazio più interno, probabilmente scoperto. Dai corridoi, a cui si accedeva dall’esterno mediante otto piccole porte, si passava agli ambienti radiali della croce greca, e da qui all’ambulacro interno e allo spazio centrale, coperti probabilmente con volte autoportanti, costituite forse da tubi fittili.

Gli interni erano riccamente decorati con lastre di marmo: sono stati rinvenuti tratti del pavimento originale, con lastre in marmo cipollino e fori sulle pareti testimoniano la presenza di un rivestimento parietale nello stesso materiale. Nello spazio centrale si trovava l’altare, inserito in uno spazio recintato.

Il colonnato che circonda lo spazio centrale è composto da 22 colonne con fusti e basi di reimpiego (di altezza diversa l’una dall’altra), mentre i capitelli ionici furono appositamente eseguiti nel V secolo per la chiesa. Anche gli architravi sopra le colonne, probabilmente rilavorati da blocchi reimpiegati di diversa origine, hanno altezze leggermente diverse.

Leone Magno, in pratica, si era ispirato all’Anástasis della Basilica del Santo Sepolcro a Gerusalemme, voluta dall’imperatore Costantino tra il 326 e il 334. Lì un muro esterno e due colonnati anulari circondavano il sepolcro di Cristo. La scelta di tale configurazione non era marginale ma anzi funzionale: in tal modo i fedeli potevano avvicinarsi gradualmente e con movimento continuo all’oggetto della loro visita senza creare “ingorghi” tra chi entrava e chi usciva. Non è un caso che le chiese con santuario hanno corridoi e ballatoi e sono edificate a pianta centrale: tutto ciò segue la precisa logica che permette di girare intorno al sacrario stabilendo una delle usanze tipiche dei pellegrinaggi. Scelta, quella di imitare l’Anástasis, che soddisfaceva le esigenze propagandistiche di entrambi i committenti: Leone III voleva proporre il Protomartire come alter Christus, modello per il cristiano in polemica con gli eretici. Valentiniano III e i suoi successori, invece, volevano spacciarsi come novelli Costantino, difensori della fede e restauratori dell’Impero.

Tra il 523 e il 529, sotto i papi Giovanni I e Felice IV, la chiesa fu sontuosamente ornata con mosaici e lastre marmoree intarsiate in porfido, serpentino e madreperla; al centro fu inserita una tribuna per la schola cantorum e per la cattedra, un antico sedile marmoreo di età imperiale, a cui furono tolti nel XIII secolo la spalliera ed i braccioli (oggi il sedile è collocato a sinistra dell’ingresso). Cattedra dove, secondo la tradizione, predicò papa Gregorio Magno.

Presso la chiesa, ricorda l’Armellini,

«vera il monastero e la chiesa di s. Erasmo, dove visse già monaco Adeodato che divenne poi papa. Fra le rovine di quello nel 1554 e 1561 furono rinvenute memorie domestiche degli Aradî Rufini Valerî Proculi del secolo IV, le quali attestano che ivi sorgeva un giorno la loro casa; […] Quella casa nel secolo VI o nel VII mutata in cenobio col nome di Erasmo, non perdé affatto l antica nomina poiché fu chiamata Xenodochium Valerii.»

In questo monastero trovarono rifugio i seguaci di San Benedetto messi in fuga dai monasteri di Subiaco per opera dei Longobardi dopo il 601. La chiesa ricevette una nuova funzione quando papa Teodoro I (642‐649) fece traslare a Santo Stefano Rotondo le reliquie dei santi Primo e Feliciano, secondo la leggenda due fratelli ottantenni che, essendosi rifiutati di sacrificare agli idoli, vennero sottoposti a varie specie di torture e quindi decapitati, che erano in precedenza custodite in un cimitero situato presso Mentana.

A loro fu dedicata la cappella eretta nel braccio di nord‐est della croce; la volta dell’abside fu rivestita completamente da un mosaico in cui sono raffigurati i santi Primo e Feliciano ai lati di una grande Croce gemmata e sormontata da un medaglione con il busto di Cristo; al culmine, la mano di Dio regge una corona. In quella cappella papa Teodoro fece seppellire suo padre, che era stato vescovo in Palestina. Papa Adriano I (772‐795) fece sopraelevare la parte centrale della costruzione di metri 1,50 e arricchì l’arredamento donando venti tende di lino purpureo.

A causa dello spopolamento del Celio, la chiesa decadde progressivamente. Nel IX secolo iniziarono però le spoliazioni, alle quali si aggiunsero, nell’847, i danni causati da un terremoto e nel 1084 quelli causati da Roberto il Guiscardo. Fra il 1139 ed il 1143 papa Innocenzo II trovò la chiesa in uno stato pietoso, con il tamburo scoperchiato, gli stucchi in rovina, i marmi asportati, il muro perimetrale in più parti danneggiato.

Di conseguenza, ordinò i restauri; però la navata anulare esterna, rimasta senza tetto, non fu più rifatta e cadde in rovina. Dei quattro bracci della croce rimase intatto soltanto quello in cui si trovava la cappella dei santi Primo e Feliciano.

Il colonnato mediano fu chiuso con mattoni e divenne il muro esterno; davanti all’ingresso dalla via del Laterano si aggiunse un atrio a volta. La chiesa fu coperta con tetti bassi a cono. Per la parte centrale a tamburo non si trovarono travi sufficientemente lunghe; perciò, per sorreggere il tetto, si eresse in alto, lungo un diametro, un muro trasversale (poggiante su archi disuguali sostenuti a loro volta dal colonnato interno e da altre due colonne di granito aggiunte) che finì per dividere l’ambiente in due. Delle ventidue finestre originarie del tamburo ne furono murate quattordici, per dare maggior robustezza all’alta parete cilindrica. Infine, Il pontefice volle aggiungere il portico esterno a cinque archi con colonne tuscaniche antiche che costituiscono l’ingresso della chiesa

A causa di tali interventi radicali la chiesa risultò decisamente più piccola; ma pur così semplificata, Santo Stefano Rotondo non resse il passare del tempo: agli inizi del secolo XV la chiesa risulta priva di tetto e in stato di abbandono, tanto che parecchi eruditi del primo Quattrocento la scambiarono per le rovine di un tempio di Bacco.

Così nel 1453 papa Niccolò V incaricò l’architetto e scultore fiorentino Bernardo Rossellino, che stava provvedendo anche alla ricostruzione di San Pietro. di restaurare tutto il complesso: questi rifece le coperture ed il pavimento, rialzandone il livello, collocò al centro dell’edificio un altare marmoreo, eliminò definitivamente il cadente ambulacro esterno e chiuse le 22 finestre del tamburo, sostituendole con le attuali otto bifore. La cura della chiesa fu affidata all’ordine paolino ungherese, grazie al confessore romano e procuratore dell’ordine paolino, Kapusi Bálint, che era in buoni rapporti con il pontefice.

L’altare maggiore fu dedicato, tra gli altri, ai santi ungheresi della famiglia reale degli Árpád, come santo Stefano primo re d’Ungheria, il principe ereditario – e figlio di santo Stefano – sant’Emerico, e re Ladislao. Tra il 1454 e il 1580, il convento accanto alla chiesa divenne la casa romana dell’ordine dei paolini e luogo di sepoltura dei monaci. La sconfitta dell’Ungheria da parte dei turchi presso Mohács, e il dilagare della riforma, misero in pericolo la vita dell’ordine. Con l’occupazione di Buda venne soppresso anche il vicino centro dell’ordine. Nel 1580, nel convento di Roma c’era solo un vecchio “eremita”. Ad uno degli ex alunni del Collegio Germanico, il gesuita Szántó István, venne l’idea di fondare un Collegio Ungarico al posto del convento dei paolini. Papa Gregorio XIII appoggiò l’iniziativa. Il Collegium Hungaricum, fondato nel 1579, già l’anno successivo, per cause finanziarie, dovette essere unito al Collegio Germanico, il quale era stato fondato nel 1552.

Nacque così nel 1580 il Collegio Germanico ed Ungarico, per formare buoni sacerdoti che contribuissero alla controriforma cattolica; decisione che impattò anche sulla decorazione della chiesa. Il rettore, padre Lauretano, nel 1580 fece costruire al centro dell’aula un recinto ottagonale a stucco (visibile nella foto 2), decorato da Antonio Tempesta con le “Storie di Santo Stefano”, la “Strage degli Innocenti” e la “Madonna dei Sette Dolori”. Inoltre nel 1582 le pareti della chiesa che chiudevano l’ambulacro vennero affrescate da Nicola Circignani detto il Pomarancio, con la collaborazione di Matteo da Siena per le prospettive, con 34 scene raccapriccianti del martirio di innumerevoli santi, per preparare a tale destino i missionari destinati a predicare nei territori protestanti.

Il Pomarancio era uno specialista nel tema: nel 1582 era già stato scelto dai Gesuiti per dipingere anche la serie di affreschi riferiti sempre al tema del martirio nel Collegio degli Inglesi, nelle vicinanze di Piazza Farnese. Però, in Santo Stefano Rotondo, il Pomarancio diede il meglio del suo spirito pulp, riempiendo le pareti della chiesa di n susseguirsi continuo di santi divorati da belve feroci, affogati, bolliti, bruciati, accecati, storpiati e martoriati in ogni modo possibile.

Papa Pio V, esaminando attentamente gli affreschi nel 1589, come assicurano le cronache dell’epoca, “dalla commozione versava calde lagrime, asciugandosi gli occhi continuamente”. Il divin Marchese de Sade rimase sconvolto dalle pitture, specie dal martirio di Sant’Agata, cui un carnefice strappa un seno. Ma il giudizio più specifico degli affreschi fu dato da Charles Dickens

Nessuno potrebbe sognare un tale panorama di orrore e macelleria, nemmeno se avesse mangiato un intero maiale crudo per cena. Uomini con la barba grigia bolliti, fritti, arrostiti, schiacciati, marchiati, divorati da bestie feroci, sbranati dai cani, seppelliti vivi, smembrati dai cavalli, tagliati a pezzetti con l’accetta: donne con le mammelle strappate da pinze di ferro, con le lingue tagliate, con gli occhi cavati, le mascelle rotte, i corpi slogati dalla ruota, o bruciati sul rogo, o fatti a pezzi e gettati nel fuoco: questi sono solo alcuni dei soggetti più innocenti

Una piccola lapide ricorda invece la sepoltura del re irlandese Donough O’Brien di Cashel e Thomond, morto a Roma nel 1064. Nella chiesa vi è il tabernacolo ligneo realizzato da Giovanni Gentner, mastro fornaio svevo di Roma nel 1613. E’ uno dei modelli sopravvissuti di architettura a pianta centrale d’ispirazione Michelangiolesca realizzati per la Basilica di San Pietro.

Il modello ligneo di Sangallo

Quando Paolo III salì al soglio pontificio, si mise le mani nei capelli: sia l’antica San Pietro costantiniana, sia quella nuova di Bramante, sembravano un’accozzaglia informe di ruderi. Insomma, di due basiliche, non se ne faceva una.

Considerando indegna la condizione di abbandono del cantiere, subito dopo la sua elezione il papa decise di riprendere i lavori, andando in continuità, nonostante qualche fondato dubbio, con la precedente gestione: di conseguenza, la direzione dei lavori fu affidata di nuovo ad Antonio da Sangallo e Baldassare Peruzzi, il quale però morirà nel gennaio 1536. Tra giugno e novembre 1538 Sangallo costruì un muro divisorio per separare quanto rimaneva dell’antica basilica dalla nuova, in modo da facilitare l’attività liturgicca; questo dista a 15 palmi (3.35 m) dall’ultima parasta del braccio anteriore e si trovava oltre la parete di fondo del coro di Sisto IV.

Per raccogliere i denari necessari alla ripresa dei lavori, Paolo III confermò e aumentò le indulgenze concesse dai suoi predecessori, creando inoltre una “confraternita di San Pietro”, di cui egli stesso e i cardinali erano membri e invitando i principi più importanti a entrarvi. Gli sforzi del pontefice ebbero successo; ritrovate le disponibilità finanziarie si riprese a costruire in grande: negli anni 1540-46 furono spesi nella Fabbrica 162624.56 scudi provenienti dalla conquista spagnola del Perù e dalle indulgenze, una somma considerevole in confronto ai 17260.80 scudi spesi dal 22 dicembre 1529 all’1 gennaio 1540.

Nel giugno 1539 la congregazione della Fabbrica desiderosa di recuperare il tempo perduto, arrivò a minaccia di sospendere lo stipendio al Sangallo e al suo assistente Meleghino se non avessero presentato in tempi il modello della nuova basilica. A dire il vero, queste parole erano alquanto campate in aria. Meleghino, in fondo un dilettante nell’architettura, era però un raccomandato di ferro: da giovane era stato segretario di Paolo III ed era rimasto grande amico del Papa. Per cui era più semplice che i rappresentanti della Fabbrica finissero a fare compagnia ai sorci a Castel Sant’Angelo, che gli tagliassero i viveri.

Per cui, più per chiarirsi le idee, che per la minaccia, Sangallo affidò ad Antonio Labacco la realizzazione del grande modello ligneo in scala in scala 1:29, che sarà terminato in 7 anni e costerà più di 5000 scudi, quanto una chiesa di medie dimensioni dell’epoca. Il modello misura, senza la base, 736 cm in lunghezza, 602 cm in larghezza e 468 cm in altezza. Per la sua costruzione il Labacco si avvalse dell’opera di numerosi falegnami che venivano compensati giornalmente. I primi pagamenti per il legname utilizzato nella realizzazione del modello risalgono al 13 dicembre 1539. Dopo tre anni e mezzo il lavoro era giunto alla base della cupola e solo dal marzo 1545 il Labacco affidò la realizzazione di parti decorative ad artigiani esterni alla Fabbrica di San Pietro.

Il risultato mostra come, anche nel tentativo di salvare il più possibile di quanto realizzato negli anni precedenti, Sangallo tentò un’audace sintesi di tutti i progetti di Bramante, Raffaello, Giuliano di Sangallo e Raffaello. Per prima recuperò l’idea iniziale del quincux, con i soliti deambulatori attorno alle absidi, sia per mettere una pezza al coro bramantesco, sia per non buttare quanto costruito dall’Urbinate.

A questo antepose un portico, fiancheggiato da due alti campanili e collegato a esso mediante un atrio cupolato. Nella pianta sangallesca leg randi nicchie di 40 palmi dei piloni di crociera e dei contropilastri sono chiuse per aumentarne la resistenza, dato che Antonio continuava a non fidarsi delle fondamenta bramantesche e i contropilastri a nord e a sud furono in parte demoliti per aprire dei passaggi di accesso ai deambulatori.

La differenza fondamentale tra la pianta di Sangallo e gli schemi di Bramante e Raffaello è l’isolamento dei deambulatori dalla zona centrale, tanto da sembrare spazi indipendenti: sono collegati ai bracci della croce solo attraverso stretti passaggi ricavati entro le tre nicchie del primo ordine. Sangallo alzò i prospetti su tutto il perimetro dell’edificio in modo da avere pareti di uguale altezza a tre zone sovrapposte, di cui la prima con semicolonne di nove palmi e trabeazioni doriche, già iniziata da Raffaello e ripresa da Sangallo, la seconda con paraste e la terza con ordine ionico.

Questi ordini sovrapposti in fasce orizzontali correvano con continuità nei diversi corpi di fabbrica, unificando il volume della chiesa. Mentre infatti all’interno Sangallo fu costretto a rispettare l’ordine gigante corinzio fissato da Bramante, sui lati esterni fu invece vincolato all’ordine di dimensione minore impostato da Raffaello e dalla decorazione del coro bramantesco: per armonizzarli, dovette moltiplicare i moduli decorativi, cosa che Michelangelo, secondo Vasari, non mancò di criticare

Il componimento d’Antonio venisse troppo sminuzzato dai risalti e dai membri che sono piccoli, sì come anco sono le colonne, archi sopra archi, e cornici e sopra cornici. Oltre ciò, pare che non piaccia che i due campanili che vi faceva, le quattro tribune piccole e la cupola maggiore, avessino quel finimento, overo ghirlanda di colonne molte e piccole; e parimente non piacevano molto, e non piacciono, quelle tante aguglie che vi sono per finimento, parendo che in ciò detto modello immiti più la maniera et opera tedesca che l’antica e buona che oggi osservano gl’architetti migliori

Dal compatto volume della chiesa emergevano solo la grande cupola, circondata alla base da due file sovrapposte di arcate, gli alti campanili della facciata e le torrette ottagonali angolari più basse. I deambulatori a due livelli forniva sì spazio per numerose cappelle, ma rendevano, in una sorta di nemesi storica alle critiche al progetto raffaellesco, difficile l’illuminazione dell’interno.

Per risolvere il problema degli emicicli bui, Sangallo diede fondo alla sua fantasia, partorendo, nell’ordine: finestre del secondo livello esterno che illuminavano il deambulatorio intorno all’abside; le arcate esterne che fornivano luce alle gallerie sopra i deambulatori, che poi pioveva nel braccio interno attraverso le finestre del secondo ordine; infine le aperture attraverso la copertura esterna al livello della volta.

Tutto ciò, ovviamente, contribuiva a frammentare la decorazione dell’esterno…

Gli Hyksos non invasero l’Egitto: nuovo studio conferma ciò che si sapeva già

DJED MEDU

Semitic people from Syria-Canaan invading Egypt, tomb wall at Beni Hassan, 1700 B.C, Einwanderung semitischer Familien in Agypte Rappresentazioni di genti asiatiche, Aamu, con i capi definiti Hyksos, dalla tomba di Khnumhotep II a Beni Hassan,

Gli Hyksos, fenomeno che caratterizzò il II Periodo Intermedio, sono comunemente considerati il perfetto paradigma del popolo straniero invasore che interrompe la pace e la libertà di uno Stato ingiustamente soggiogato. Il filosofo Benedetto Croce, ad esempio, usò la loro presunta invasione dell’Egitto come metafora della parentesi illiberale del fascismo in Italia, “con la sola felice differenza che la barbarie di questi durò in Egitto oltre dugento anni, e la goffa truculenza e tumulenza fascistica si è esaurita in poco più di un ventennio” (Croce B., “La libertà italiana nella libertà del mondo”, in Scritti e discorsi politici: 1943-1947, vol. I).

Ma è proprio vero che le cose andarono così? Che l’Egitto si ritrovò controllato da gente straniera venuta improvvisamente da est? Un recente studio, portato avanti da Chris Stantis

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Pirro (Parte IV)

Per capire la genesi dell’espansionismo romano in Magna Grecia, dobbiamo partire da un assunto: i due mondi, quello latino e quello italiota, erano assai meno distanti di quanto a prima vista posso apparire. Al di là dell’influenza micenea nella tarda età del Bronzo, che c’è stata ed ha rappresentato un contributo importante nella creazione del substrato italico, sin dalla prima ondata di colonizzazione arcaica, il rapporto tra Roma e il mondo greco è diretto e non mediato.

Basti pensare che la fondazione di Cuma, una delle colonie greche più antiche e più lontane dalla madrepatria, è contemporanea alla nascita dell’Urbe e si dall’inizio, vi furono rapporti culturali e commerciali, come dimostrato non solo da testimonianze archeologiche, ma anche da un incontrovertibile
dato linguistico.

Per le prime, basterà ricordare, per quanto riguarda Roma, la presenza presso il porto fluviale della città (nella cosiddetta “area sacra” di Sant’Omobono) di frammenti di ceramica euboica geometrica dell’VIII secolo a.C. Molto più rilevante però è l’uso precoce di un alfabeto greco proveniente dall’Eubea (la madrepatria di Cuma) tanto per la trascrizione dell’etrusco, quanto per la trascrizione del latino. Le più antiche iscrizioni conservate di queste due lingue in cui si utilizza l’alfabeto euboico risalgono al VII secolo a.C., e costituiscono evidenti testimonianze dei precoci rapporti culturali dell’Etruria e del Lazio con Cuma. Si tratta di un dato di cui sarebbe difficile sottovalutare l’importanza storica per la cultura occidentale, dal momento che questo stesso alfabeto, tramite la diffusione del latino, è quello ancora oggi utilizzato dalle più importanti lingue moderne.

Oppure ripensare un attimo al ruolo fondamentale che ebbe Aristodemo, tiranno di Cuma, nelle complesse e ahimé poco chiare vicende che portarono al passaggio graduale tra la regalità etrusca dei Tarquini e un regime gentilizio come quello della Prima Repubblica Romana. Cosicché, al tempo delle guerre pirriche, non solo l’Urbe era guidata da una classe politica fortemente ellenizzata e seguace della filosofia pitagorica, ma la sua stessa cultura, poteva essere considerata, con qualche esagerazione, come quella di un’eccentrica e peculiare polis hellenis.

Al contempo, la Magna Grecia dell’epoca era tutt’altro che “hellenis”; la conquista di Roma era stata infatti preceduta, dagli ultimi decenni del V secolo a.C., da un imponente movimento delle genti italiche dell’interno della penisola – Lucani e Sanniti – che dopo una lunga e capillare penetrazione e violenti conflitti avevano conquistato militarmente e assoggettato quasi tutte le città greche della costa.

Da questa ondata sabina, era a malapena sopravvissuta Taranto, per il suo ricorrere ai mercenari greci. Di fatto, la “romanizzazione” della Magna Grecia fu proceduta da una sua “italicizzazione”. A questa convergenza culturale si affiancava anche una economica: vi era infatti, una forte comunanza di interessi commerciali, che tra le tante cose, porto alla nascita dello strano fenomeno delle monete romano-campane.

Per facilitare in commerci con il sud Italia, il Senato diede in outsourcing la coniazione di monete alla zecca greca di Napoli, cosa che fu fatta, ma non con il sistema ponderale latino, ma con quello greco. Le prime emissioni di questo tipo sono relative a due successive serie di in bronzo una litra che presentano al dritto la testa di Apollo e al rovescio un toro con volto umano; la legenda presente nella prima serie riporta il nome “Roma” in caratteri greci, mentre nella seconda serie vengono utilizzati caratteri latini per la scritta “ROMAION”. Insomma, era più facile che fossero accettate come valuta a Rhegion, che all’Esquilino…

Di conseguenza, è abbastanza facile capire, come le èlites patrizie, guidate dalla gens Claudia, dinanzi al problema che si porrà decine di volte nella storia della Roma Repubblicana, riconducibile allo slogan

“Terra ai contadini”

invece che dare retta ai plebei poveri, che volevano orientare lo sforzo bellico a Nord, verso la Gallia Cisalpina, puntarono a Sud. Proprio la necessità di difendere la propria legittimità politica, gli interessi dei plebei ricchi, il futuro ceto equestre, e la spada di Damocle dei potenziali moti agrari, costituirono l’ostacolo, non previsto da Pirro, totalmente ignaro di tali dinamiche, che fece fallire qualsiasi compromesso.

Pinacoteca Civica di Teramo

La lunga storia della Pinacoteca Civica di Teramo comincia poco prima dell’Unità d’Italia, nel 1868, quando con il Decreto del 6 agosto 1868 del Ministero della Pubblica Istruzione, in cui si ordinò la costituzione delle commissioni comunali di storia, di archeologia e di arti del disegno con lo scopo di “illustrare e di provvedere alla conservazione delle memorie e dei documenti patrii” e di promuovere “le discipline che le sono proprie procurando di isvegliarne e tenerne vivo il sentimento, la cultura e la dignità”.

L’allora sindaco di Teramo, Settimio Costantini colse la palla al balzo per raccogliere in una sede unica e i dipinti provenienti dalle chiese e dai magazzini degli ordini religiosi, in collaborazione con il vescovo.

Le opere vennero provvisoriamente esposte in un palazzo vicino alla chiesa di Sant’Anna, nell’attuale sede del museo archeologico di Teramo; la pinacoteca fu inaugurata nel 1870 dal Sindaco Costantini in occasione delle feste civili per la ricorrenza dello Statuto.

L’allestimento del museo, nonostante fosse adiacente alla Scuola di disegno, istituita nel 1811, attraverso Muzio Muzii, Giuseppe Bonolis e Pasquale della Monica, e l’impegno messo dal direttore provvisorio Gennaro della Monica, ricevette uno sproposito di critiche, probabilmente immotivate.

Poco dopo, in città furono trovati reperti di epoca romana, che all’epoca furono considerati più importanti delle tavole del Quattrocento: per cui, partì campagna stampa, guidata dai Tonelli dell’epoca, per sostituire la pinacoteca con una collezione di antichità.

Il motivo scatenante di tale polemica fu il destino della collezione di Concezio Rosa, medico condotto a Corropoli e Controguerra, autore di una delle prime monografie sulle maioliche di Castelli e uno dei padri della Palentologia italiana.

Concezio nel 1865 aveva scoperto a Ripoli un intero villaggio di capanne di una comunità del tardo Neolitico, dal quale prese nome l’omonima cultura e nel 1867 iniziò a condurre scavi nella vicina Val Vibrata. Qui raccolse, durante le sue ricerche, circa 20.000 reperti risalenti all’epoca del Paleolitico e del Neolitico, tracciando in questo modo una fondamentale mappa delle origini dei primi insediamenti umani negli Abruzzi.

Nel 1873 Concezio richiese al Consiglio provinciale di Abruzzo Ultra Primo la creazione di un Museo provinciale di antichità a Teramo così da dare ampia e corretta sistemazione alla sua collezione di reperti, ma l’amministrazione provinciale lasciò cadere la richiesta e la collezione finì smembrata tra Italia e Francia.

I giornalisti d’assalto teramani, millantando lo stesso destino per le statue romane, convinserò così l’amministrazione a chiudere in deposito i dipinti, per dare lo spazio espositivo alle antichità. Le carte in tavola cambiarono per l’ennesima volta a causa dello storico e archeologo Francesco Savini, nemico giurato dell’istituzione della provincia di Pescara, che scrisse al scrive al sindaco Paris:

Il sottoscritto, convinto dell’utilità che ne verrebbe alle persone colte ed anche curiose, dell’apertura al pubblico del nostro Museo Municipale, almeno un giorno della settimana, propone alla S.V.ILL. ma che voglia destinare in ogni domenica, qualche dipendente del Comune alla custodia del Museo durante quelle ore che la a V.S. piacerà determinare”.

Dato che Savini era uno dei maggiorenti locali, il sindaco cercò di venirgli incontro, facendo deliberare, la riapertura della Pinacoteca e la nomina di un custode, assistito da una “guardia municipale”.

Nel 1903 al pittore teramano Gennaro della Monica fu incaricato dal Comune di scegliere tra i 179 quadri in deposito quali esporre: dopo un anno di inventario, i prescelti furono collocati in due camere del Palazzetto di Sant’Anna. Dato l’inaspettato successo di pubblico, l’ispettore Giorgio Bernardini fu incaricato nel 1911 dalla Direzione Generale per l’Antichità e le Belle Arti per riordinare la Pinacoteca.

I dipinti durono sistemati nelle camere del Palazzetto al piano terra e con il sindaco Berardo Cerulli, con una delibera consiliare, fu istituito un posto da custode e approvati 7 articoli del regolamento del Museo e fu nominato lo sculture Pasquale Morganti in qualità di custode dell’istituzione museale.

Nel 1922 i dipinti furono traslocati nel piano nobile del Palazzo Comunale e nel 1930 la collezione finalmente raggiunse la sua sede definitiva, una palazzina di proprietà della Reale Società di Agronomia, sita nei Giardini pubblici, che in precedenza era stata sede della Corte d’Assise del Tribunale di Teramo, decorata con un affresco di Gennaro della Monica, rappresentante “Bruto che condanna i figli”

Scriveva al riguardo Giacinto Pannella nella sua Guida di Teramo (1888):

«Nel Palazzo dei Tribunali … nell’ampia sala delle Assise, ricca di stucchi, ci ferma il gran quadro a tempera di Gennaro Della Monica finito nel 1º novembre 1886, avutane commissione dal Municipio, ed ha la dimensione di 4 metri di altezza e 8 di larghezza. Per esso torniamo di nuovo ai tempi antichi. Bruto dall’alto domina attorno tutto, persone e cose, dando sentenza che fa scendere dalla sedia curiale Collatino inorridito. Una cinquantina di Romani sono raccolti a gruppi e mostrano commozione varia conforme lor natura. La sentenza è data, mentre da un lato crepitano nel tempio le braci fumanti del sacrificio e dall’altra la lupa allatta i gemelli in vista del Campidoglio»

Nella nuova sede, i quadri furono affiancati dalle sculture dell’artista Raffaello Pagliaccetti, affidate in custodia dal proprietario Pasquale Ventilij, collezione che fu donata definitivamente alla città nel 1940.

Dopo i danni subiti dalla guerra, la pinacoteca fu riaperta nel 1958 dal sinda Carino Gambacorta: da quel momento in poi, l’allestimento è stato più volte modificato e aggiornato.L’attuale percorso espone pale del XV secolo, come i Santi di Giacomo da Campli e l’ancona del Maestro dei Polittici Crivelleschi, dipinti di scuola napoletana del Seicento e Settecento, e soprattutto opere dell’Ottocento abruzzese, come le tele di Della Monica, Bonolis e Celommi, e alcune realizzazioni del grande scultore verista giuliese Raffaello Pagliaccetti.

San Giorgio in Kemonia

Nonostante la chiesa di San Giuseppe Cafasso, citata nelle guide per la splendida vista che si gode dal suo campanile, abbia questo assunto questo nome da una settantina di anni, parecchi palermitani continuano a chiamarlo con la denominazione originaria di San Giorgio in Kemonia.

Nome derivato ovviamente dall’antico e ormai scomparso fiume palermitano, che una volta traversava l’Albergheria. Ai tempi di Panormos, ricordiamolo, il Kemonia, che costeggiava le antiche mura puniche, era una sorta di confine della città. Il suo letto, come detto altre volte, costeggiava il fianco meridionale dell’attuale Palazzo Reale per poi scendere lungo nostra via Porta di Castro, il che spiega il suo piano stradale assia più basso di quello del resto dell’area.

In epoca romana, la presenza di sorgenti naturali, che si estendevano tra San Giorgio, San Mercurio e San Giovanni degli Eremiti, forse fece dedicare l’area al culto delle Ninfe: queste dimensione sacrale, portò, nel IV all’intera cristianizzazione della zona. Furono erette il convento di Sant’Ermete, ricordato anche nell’epistolario di papa Gregorio Magno, la chiesa dell’Itria e una chiesetta, di cui non è rimasta nessuna traccia, proprio in corrispondenza di San Giorgio.

Chiesa che, ai tempi di Balarm, data la vicinanza al ribat di San Giovanni degli Eremiti, fu forse convertita in moschea. La conquista normanna impattò notevolmente sulla topografia dell’area: fu fondato il cimitero destinato al personale della Corte, dove trovarono l’ultima dimora, fianco a fianco, arabi, greci e latini, fu ristruttura e ingrandita la cinta muraria, il complesso di San Giovanni degli Eremiti fu riedificato sulle rovine del precedente monastero di S. Ermete ed affidato ai Benedettini e San Giorgio fu riedificata e affidata ai monaci basiliani, che probabilmente la dedicarono al Megalomartires.

Ora, dai documenti storici, questa ricostruzione deve essere avvenuta prima del 1140. Con sicurezza sappiamo che dal 1307 la chiesa divenne gancia dei Cistercensi. La chiesa normanna, a quanto risulta dai recenti restauri, che ne hanno identificato le mura, era assai più piccola dell’attuale, estendendosi per tre campate dell’attuale navata: di fatto le sue dimensioni erano molti simili a quelle della chiesa degli Eremiti, il che fa pensare come entrambe fossero frutto di un progetto unitario, che realizzasse una sorta di compromesso tra cattolici e ortodossi, ponendo i loro ordini religiosi allo stesso piano. Inoltre gli ingressi delle due chiese erano allineati e rivolti verso ovest. Per cui, all’epoca, l’abside doveva trovarsi all’altezza dell’attuale facciata, in via dei Benedettini

Sempre i rilievi architettonici, hanno evidenziato un altro aspetto interessante: la chiesa normanna, proprio per marcare la continuità con la tradizione locale, era ispirata alle cube basiliane e il suo aspetto doveva apparire analogo a quello della Santissima Trinità di Delia a Castelvetrano. Presentava quindi una croce greca con pianta quadrata, cupola, ambiente centrale e solitamente tre absidi, con tutti gli angoli superiori smussati, in modo da far apparire come un unico corpo la semisferica cupola con il geometrico cubo costituito dall’edificio

Le modifiche cinquecentesche della zona, con la deviazione del Kemonia, che diede il via a una nuova urbanizzazione e la costruzione dei bastioni, che determinarono la topografia locale, cambiarono la natura della chiesa: da luogo periferico, atto alla meditazione, si trasformò nella parrocchia di un popoloso e vivace. Cosa ahimé assai poco gradita ai Cistercensi.

Nel 1550 furono costretti, obtorto collo, a ospitare la confraternita di San Giorgio, che fungeva anche da “comitato di quartiere”. Nel 1583, addirittura se la filarono a gambe levate; solo dopo una serie di petizioni dirette all’arcivescovo di Palermo dell’epoca, Diego Haëdo, i monaci furono costretti a tornare. Però, in cambio, pretesero la stipula di una serie di accordi con i confrati, che oltre a prendersi in carico parte degli oneri di gestione della chiesa, dovevano, come dire, accettare una sorta di “regolamento” che imponeva loro gli orari e modalità di riunione, intimando loro di non fare troppo rumore.

Accordi che furono rinnovati nel 1615; ora, però, i confrati, per entrare in chiesa, dovevano passare per il chiostro del convento, vanificando così il tentativo dei cistercensi di non avere rotture di scatole. Per cui, di comune accordo, nel 1675, fu deciso di cambiare l’orientamento della chiesa: la vecchia porta fu murata e trasformata in una nicchia in cui porre la statua di San Giorgio e nel mezzo della vecchia abside, fu aperta una porta lato via dei Benedettini: ciò ovviamente, portò allo spostamento dell’altare e alla relativa riconsacrazione.

Nel 1740 i monaci Olivetani dello Spasimo, alla ricerca di sede definitiva, ottennero dal Senato l’autorizzazione alla fabbrica del nuovo ospizio con oratorio privato e costando poco i terreni e le case, essendo la zona popolare, misero gli occhi sull’Albergheria. Così, nel 1745 acquisirono lotti di terra, varie case e un tratto delle mura di porta Mazzara con il terrapieno corrispondente; i cistercensi colsero così l’occasione al volo per appioppare loro San Giorgio in Cremonia.

Gli Olivetani così affidarono al buon Nicolò Palma, l’incarico di ristrutturare l’intero complesso: l’architetto, in pieno furore illuminista, oltre a ribaltare totalmente l’orientamento del convento, non più allineato agli Eremiti, demolì in parte la chiesa normanna, sostituendone con una nuova, più capiente.

Nel 1784, la soppressione tutti i monasteri olivetani di Sicilia ed esproprio del loro beni, lasciò incompiuti i lavori. Il convento fu trasformato in una caserma, mentre la chiesa, tra alti e bassi continuò a rimanere aperta al culto. Nel 1953 il cardinale Ernesto Ruffini, sensibile alla causa delle recluse nell’adiacente Carcere delle Benedettine, dedica il tempio a San Giuseppe Cafasso, patrono dei carcerati.

Cosa vedere della chiesa? Palma, con la sua passione per il rigore geometrico e le proporzioni numeriche, diede il meglio di sè. Concepì una facciata, nata per essere vista di scorcio, i cui elementi, più che acquisire una dimensione plastica, paiono essere dei segni grafici che mediano tra il caos della strada e la pace interiore del monastero.

Tale euritmia è accentuata anche all’interno, che quasi preannuncia il Neoclassicismo. Sul la navata unica, coperta da una volta a botte lunettata, si affacciano tre cappelle per lato; esse sono poco profonde e molto aperte sulla nave, tanto che sembrano una prosecuzione della stessa. Alla navata segue una crociera sormontata da un controsoffitto, decorato con una finta cupola ed affiancata su due lati da absidi schiacciate, in modo da dare l’idea di un unico spazio continuo.

Lo stacco tra presbiterio e la navata, tramite il tradizionale espediente dell’arco sormontato dal cartiglio, sembra quasi dissimulato: i pilastri angolari aggettano poco dalla struttura muraria e non si differenziano, né per dimensioni né per decorazione, dalle paraste che sostengono la trabeazione lungo la nave, al di sotto della volta.

Il fatto che le due estremità di questa sorta di ridotto transetto abbiano la stessa profondità delle cappelle laterali, mostra una volontà progettuale precisa: l’accentuazione dell’ asse longitudinale su quello trasversale. Il percorso ingresso-altare, che ne risulta evidenziato si conclude con un profondo presbiterio dietro cui si imposta l’abside semicircolare, quasi tangente al limite ultimo delle mura urbiche.

Tale senso di unità è accentuato dall’utilizzo di un unico ordine architettonico, il corinzio e da un’illuminazione uniformemente diffusa. All’effetto finale contribuisce anche la decorazione classicheggiante di Giovanni Maria, l’ultimo dei Serpotta, e le pitture del Tresca, che famoso solo per la sua economicità e per rispettare le consegne senza sgarrare di un giorno, per una volta ha raggiunto un risultato dignitoso.