
Per capire la genesi dell’espansionismo romano in Magna Grecia, dobbiamo partire da un assunto: i due mondi, quello latino e quello italiota, erano assai meno distanti di quanto a prima vista posso apparire. Al di là dell’influenza micenea nella tarda età del Bronzo, che c’è stata ed ha rappresentato un contributo importante nella creazione del substrato italico, sin dalla prima ondata di colonizzazione arcaica, il rapporto tra Roma e il mondo greco è diretto e non mediato.
Basti pensare che la fondazione di Cuma, una delle colonie greche più antiche e più lontane dalla madrepatria, è contemporanea alla nascita dell’Urbe e si dall’inizio, vi furono rapporti culturali e commerciali, come dimostrato non solo da testimonianze archeologiche, ma anche da un incontrovertibile
dato linguistico.
Per le prime, basterà ricordare, per quanto riguarda Roma, la presenza presso il porto fluviale della città (nella cosiddetta “area sacra” di Sant’Omobono) di frammenti di ceramica euboica geometrica dell’VIII secolo a.C. Molto più rilevante però è l’uso precoce di un alfabeto greco proveniente dall’Eubea (la madrepatria di Cuma) tanto per la trascrizione dell’etrusco, quanto per la trascrizione del latino. Le più antiche iscrizioni conservate di queste due lingue in cui si utilizza l’alfabeto euboico risalgono al VII secolo a.C., e costituiscono evidenti testimonianze dei precoci rapporti culturali dell’Etruria e del Lazio con Cuma. Si tratta di un dato di cui sarebbe difficile sottovalutare l’importanza storica per la cultura occidentale, dal momento che questo stesso alfabeto, tramite la diffusione del latino, è quello ancora oggi utilizzato dalle più importanti lingue moderne.
Oppure ripensare un attimo al ruolo fondamentale che ebbe Aristodemo, tiranno di Cuma, nelle complesse e ahimé poco chiare vicende che portarono al passaggio graduale tra la regalità etrusca dei Tarquini e un regime gentilizio come quello della Prima Repubblica Romana. Cosicché, al tempo delle guerre pirriche, non solo l’Urbe era guidata da una classe politica fortemente ellenizzata e seguace della filosofia pitagorica, ma la sua stessa cultura, poteva essere considerata, con qualche esagerazione, come quella di un’eccentrica e peculiare polis hellenis.
Al contempo, la Magna Grecia dell’epoca era tutt’altro che “hellenis”; la conquista di Roma era stata infatti preceduta, dagli ultimi decenni del V secolo a.C., da un imponente movimento delle genti italiche dell’interno della penisola – Lucani e Sanniti – che dopo una lunga e capillare penetrazione e violenti conflitti avevano conquistato militarmente e assoggettato quasi tutte le città greche della costa.
Da questa ondata sabina, era a malapena sopravvissuta Taranto, per il suo ricorrere ai mercenari greci. Di fatto, la “romanizzazione” della Magna Grecia fu proceduta da una sua “italicizzazione”. A questa convergenza culturale si affiancava anche una economica: vi era infatti, una forte comunanza di interessi commerciali, che tra le tante cose, porto alla nascita dello strano fenomeno delle monete romano-campane.
Per facilitare in commerci con il sud Italia, il Senato diede in outsourcing la coniazione di monete alla zecca greca di Napoli, cosa che fu fatta, ma non con il sistema ponderale latino, ma con quello greco. Le prime emissioni di questo tipo sono relative a due successive serie di in bronzo una litra che presentano al dritto la testa di Apollo e al rovescio un toro con volto umano; la legenda presente nella prima serie riporta il nome “Roma” in caratteri greci, mentre nella seconda serie vengono utilizzati caratteri latini per la scritta “ROMAION”. Insomma, era più facile che fossero accettate come valuta a Rhegion, che all’Esquilino…
Di conseguenza, è abbastanza facile capire, come le èlites patrizie, guidate dalla gens Claudia, dinanzi al problema che si porrà decine di volte nella storia della Roma Repubblicana, riconducibile allo slogan
“Terra ai contadini”
invece che dare retta ai plebei poveri, che volevano orientare lo sforzo bellico a Nord, verso la Gallia Cisalpina, puntarono a Sud. Proprio la necessità di difendere la propria legittimità politica, gli interessi dei plebei ricchi, il futuro ceto equestre, e la spada di Damocle dei potenziali moti agrari, costituirono l’ostacolo, non previsto da Pirro, totalmente ignaro di tali dinamiche, che fece fallire qualsiasi compromesso.
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