Pirro (Parte IX)

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Per sua fortuna, Pirro, con la vittoria di Eraclea, ottenne in parte l’obiettivo politico che si era proposto, ossia la creazione di un comune fronte anti romano in Sud Italia, che gli facilitasse sia l’approvvigionamento, sia l’arruolamento di nuovi mercenari, da impiegare nella futura campagna siciliana.

Rinforzi lucani e sannitici si unirono all’esercito di Pirro, i Bruzi si ribellarono all’Urbe e buona parte delle città della Magna Grecia si allearono con il sovrano epirota: Locri scacciò la guarnigione romana, imitata poco dopo da Crotone.

L’unica eccezione fu Rhegion, filo romana, dove però ne successero di tutti i colori: il pretore campano Decio Vibellio, che comandava la guarnigione cittadina, massacrò una parte degli abitanti, cacciò i restanti e si proclamò amministratore della città, creandosi di fatto un regno autonomo. Subito dopo, Decio si alleò con i Mamertini di Messana ed ai Tauriani di Mamertion, creando una sorta di “Stato mercenario osco dello Stretto”.

Poi, con il massimo della faccia tosta, Decio cominciò a mercanteggiare tra Roma e Pirro, promettendo di schierarsi con gli avesse offerto di più: ovviamente, l’Epirota, che aveva necessità di controllare Rhegion per passare in Sicilia, fu assai più parco in promesse del Senato. Per cui, nonostante quanto avesse combinato, Decio fu riconosciuto come alleato dai Romani, incominciando a combattere una sorta di guerra parallela contro gli epiroti, allo scopo di tutelare i suoi interessi e arraffare più territori possibili in Calabria.

Decio e i suoi soldati campani respinsero persino un attacco alle mura di Rhegion sferrato da parte dell’esercito di Pirro, conclusosi solo con l’incendio del legname per costruzione navali ammucchiato fuori dalle porte. Poi conquistarono Kaulonia, governandola sotto il presunto nome di Roma. Infine, forse una strana emissione calabrese (con testa di Apollo/tripode e leggenda che rimanda a Mystia ed a Hyporon) si deve leggere nel quadro della guerra contro Pirro, nel senso della temporanea occupazione di Decio dei centri di Mystia, presso Kaulonia, e Hyporon, presso Capo Spartivento.

L’avventuriero campano,però, fece una pessima fine: colpito da una malattia agli occhi, e temendo di essere curato da un medico di Rhegion, Decio si rivolse ad un luminare di Messana, senza sapere che si trattava di un reggino emigrato, che, ricordandosi la sua origine ed i torti patiti dai concittadini, lo uccise a tradimento.

Per sfruttare al meglio il momento favorevole, Pirro decise di trovare un accordo con Roma, al fine di delimitare le sfere d’influenza in Magna Grecia: per questo spedì un’ambasciata, guidata da Cinea, per dettare le condizioni di pace e restituire i prigionieri catturati al termine della battaglia. Il povero Cinea, invece di trovarsi davanti un interlocutore unico, con cui trovare un compromesso, dovette invece confrontarsi con una litigiosa assemblea, suddivisa in tre grossi partiti: gli anticeltici, convinti che la vocazione di Roma fosse espandersi e colonizzare la Gallia Cisalpina e che quindi, la guerra con Pirro non fosse che un inutile spreco di tempo e di risorse, i centristi, favorevoli a un compromesso, che però tutelasse gli interessi, soprattutto economici, romani in Magna Grecia e i filo campani, che anche per loro interessi personali, non avrebbero ceduto un’unghia dell’espansione romana verso Sud.

I filo campani avevano poi, a differenza degli altri partiti, un leader carismatico, Appio Claudio Cieco, che con la sua retorica, riuscì a condizionare il voto del Senato: la sua orazione terminò con

Se Pirro vuole la pace e l’amicizia dei Romani, prima si ritiri dall’Italia e poi mandi i suoi ambasciatori. Fintanto che rimarrà non sarà considerato né amico né alleato, né giudice o arbitro dei Romani.

Avendo il Senato consapevolezza delle perdite subite da Pirro e delle sue difficoltà a ripianarle, diede ordine, per impressionarlo, di arruolare alla presenza dello stesso Cinea, l’arruolamento di due nuove legioni, affidate ancora a Levino, al fine di rimpiazzare i caduti in battaglia. L’obiettivo era o di costringere il re epirota a ritirarsi oppure a concedere condizioni più favorevoli ai romani. L’ambasciatore, sconvolto nel vedere quanti fossero i volontari per questa nuova chiamata alle armi, tornato da Pirro esclamò:

Stiamo combattendo una guerra contro un’Idra

Poi, evidentemente, raccontò delle divisioni politiche romane: Pirro quindi si pose l’obiettivo di screditare partito filo campano e costringere, con la paura, le altre fazioni a imporgli un compromesso. Per questo, concepì un piano audace, un’azione Shock and Awe, con l’intento i applicare una precisa, chirurgica quantità di potenza strettamente focalizzato per raggiungere la massima influenza con il minimo costo.

Sfruttando al meglio la finestra di opportunità, con Levino sostava a Venosa, impegnato ad assicurare le cure ai feriti e a riorganizzare l’esercito in attesa di rinforzi e Coruncanio impegnato a guerreggiare in Etruria, Pirro organizzò la sua marcia su Roma, allo scopo di terrorizzare gli avversari, spingendoli alla pace. A questa azione militare, associò la richiesta di restituzione ai Sanniti e agli Etruschi dei territori perduti in guerra, in modo da convincerli a schierarsi al loro fianco.

Durante l’avanzata deviò su Napoli, in cui erano concentrati gli interessi economici del partito filo campano, in modo da spaventare la cricca di Appio Claudio Cieco: ciò diede tempo a Levino di schierarsi a Capua, pronto a dare battaglia. Pirro, invece di accettare la sfida, continuò imperterrito ad avanzare verso Roma, devastando la zona del Liri e di Fregellae, giungendo sino a Preneste.

Qui sorsero due grossi problemi: il primo, la mancanza di adeguate artiglierie di assedio, che avrebbe reso vana la sua minaccia. Il secondo, che gli Etruschi, dopo un mercanteggiare indegno, avevano ottenuto favorevoli condizioni di pace da parte di Roma; per cui Coruncanio potette marciare verso sud.

Consapevole di non disporre di forze sufficienti per affrontare le armate riunite di Coruncanio, Levino e Barbula, che comandava le legioni appena arruolate, Pirro decise di ritirarsi e far ritorno in Campania, dove ripartì le forze nelle varie città in attesa dell’inverno; in questo modo sottolineò anche i limiti territoriali che egli stesso aveva fissato per la sua azione, confinandola alla sola Italia meridionale.

Però, nonostante la successiva propaganda romana, l’azione epirota aveva raggiunto il suo obiettivo: i filo campani erano stati isolati e le fazioni favorevoli all’accordo avevano prevalso, spedendo come ambasciatore presso Pirro Gaio Fabricio Luscino.

Un accordo, sulla spartizione delle sfere d’influenza, restituzione dei prigionieri e difesa degli interessi economici romani dovette essere abbozzato: ma i filo campani ebbero un’inaspettato aiuto da parte dei cartaginesi. Più a lungo Pirro fosse stato trattenuto dai romani in Italia, più tempo avrebbero avuto per prepararsi a fronteggiarlo in Sicilia.

Così i cartaginesi inondarono i filo campani d’oro: una buona parte finì nelle loro tasche, la rimanente servì a corrompere i senatori, per renderli favorevoli al continuare la guerra. Il solito Cinea, che era stato spedito per chiudere le trattative, accompagnato, a dimostrazione della buona volontà epirota, da soldati romani fatti prigionieri nella battaglia di Eraclea, che sarebbero stati restituiti senza riscatto, si vide rispondere picche.

In più, su proposta di Appio Claudio Cieco, il Senato considerò i prigionieri romani “infami”, poiché erano stati catturati con le armi in pugno, e perciò allontanati. Questi ultimi avrebbero potuto essere reintegrati nello Stato romano solo nel caso in cui ciascuno di loro avesse consegnato le spoglie di due nemici uccisi.

Pirro, a questo punto, si trovava in seria difficoltà per gli approvvigionamenti: riceverli via mare dall’Epiro era troppo dispendioso. Prelevarli in loco dagli alleati italici gli avrebbe alienato la loro benevolenza e fatti tornare nel campo romano. Per cui, il re epirota decise di passare dalla carota al bastone. Roma venne minacciata di occupazione se non avesse ritirato il suo esercito al di qua del fiume Garigliano e non avesse smesso di compiere azioni belliche e messo un freno ai campani di Reggio. Appio Claudio, però, convinto che l’azione precedente di Pirro fosse poco più di un bluff, chiuse ogni rimanente possibilità di trattativa.

A Pirro, così, non rimaneva che cercare uno scontro decisivo che obbligasse Roma a piegarsi.

Il Coro dei Canonici di Atri

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La cattedrale di Atri, nel coro dei Canonici dipinto da Andrea de Litio, custodisce uno dei gioelli di quello che Longhi chiamava “Rinascimento umbratile”: una serie sperimentazioni e dialoghi tra diverse culture figurative, che, trovandosi in aree marginali in un’ottica toscano centrica, sono state per lungo tempo sottovalutate.

Andrea, pur lavorando essenzialmente in Abruzzo, tra l’Aquila che, all’epoca, per il ruolo fondamentale nel commercio dello zafferano, era tutt’altro che periferia economica e sociale, e la corte degli Acquaviva, tra le ricche e potenti del Regno di Napoli. La sua stessa formazione, diciamola tutta, avrebbe fatto invidia a tanti suoi colleghi fiorentini dell’epoca: a bottega del maestro gotico del trittico di Beffi, legato alla cerchia di Gentile da Fabriano, adolescente, se ne partì per Firenze, dove entrò per un breve periodo nella bottega di Masolino da Panicale.

Intorno al 1440 andò a lavorare come miniatore alla corte di Mantova, dove conobbe Pisanello e Jacopo Bellini, per poi a Ferrara, dove, se l’attribuzione dell’Adorazione dei Magi di Rotterdam fosse confermata, lavorò con Galasso Galassi, il maestro di Cosmé Tura, per poi andare a Venezia, dove vi abitavano alcuni parenti e lavorava il suo vecchio maestro Masolino; in quell’occasione approfondì lo studio dell’arte locale.

Nel 1443 è nella Roma di Martino V, mentre nel 1452 si trasferisce a Firenze, per una sorta di aggiornamento sulle novità toscane presso la bottega di Beato Angelico: tornato ad Atri un anno dopo, alternerà la sua permanenza in Abruzzo con soggiorni a Napoli, per collaborare al cantiere dell’Arco Trionfale di Castel Nuovo e approfondire le novità della pittura fiamminga.

Andrea lavorerà a più riprese al ciclo della Cattedrale d’Atri, costituito da 101 pannelli, cosa che lo rende tra i cicli di affreschi più grandi dell’Abruzzo. Dopo aver conosciuto il loro momento di gloria, gli affreschi del coro caddero nell’oblio e di essi non si conoscevano più l’autore e la datazione. Questa situazione durò fino a quando, nel 1897, lo storico atriano Luigi Sorricchio attribuì per la prima volta questa grande opera ad Andrea De Litio, facendo tornare l’interesse su questi affreschi, peraltro già restaurati nel 1824 ad opera del vescovo Ricciardone che lisalvò dalle infiltrazioni d’acqua. L’attribuzione del Sorricchio fu confermata negli anni quaranta-cinquanta da storici quali Federico Zeri e Ferdinando Bologna.

Gli affreschi si articolano in più parti: sulle tre pareti del coro (di cui quella di fondo la più grande) vi sono le scene della Vita di Maria, che racconta la vita della Madonna; sulle colonne alcune raffigurazioni di santi; sull’arco trionfale e su quelli piccoli laterali altre raffigurazioni di santi; sulla volta gli Evangelisti, i Dottori della Chiesa e le Virtù Cardinali e Teologali Furono realizzati in due fasi: tra il 1460 e il 1470 furono eseguite la Vita di Maria, i santi sulle colonne (anche se questi forse di qualche anno più tardi, intorno al 1475) e quelli sugli archi, mentre tra il 1480 e il 1481 fu eseguita la decorazione della volta.

Ovviamente, ciò è visibile a livello di evoluzione dello stile, con una sempre maggiore padronanza della prospettiva e un’attenzione fiamminga ai dettagli della vita quotidiana: ma tutti gli affreschi sono caratterizzati da un gusto narrativo ricco di estro, attento alle realtà della vita quotidiana e alla resa dei più immediati sentimenti umani.

La stessa prospettiva non serve per costruire una gabbia spaziale, posta al di là del Tempo, ma supporta e rende più serrato il racconto, costruendo il montaggio di scene differenti: se dovessimo paragonare il ciclo di Atri a un film contemporaneo, questo sarebbe il Vangelo secondo Matteo di Pasolini. I paesaggio sono quelli aspri dei calanchi appenninici e le scene urbane sono ambientate in un Atri più o meno trasfigurata dal pittore, immersa nelle attività del tempo. Ad esempio, nella Natività appare come il centro fortificato sullo sfondo, fronteggiato dall’altura dove si trovano due impiccati, il Colle della Giustizia perché luogo delle esecuzioni capitali; nell’Incontro di Anna e Gioacchino alla Porta Aurea il pittore sembra aver voluto rappresentare uno degli accessi urbani con accanto gli archi di una fontana, come era tipico di tutte le porte della cittadina.

In più, ogni scena fa riferimento, come usi e costumi alla quotidianità del suo tempo, alle abitudini e alle superstizioni: ad esempio, nella scena della nascita della Vergine, dominata da un ampio camino, è presente una strega, fantomatica figura della tradizione abruzzese, qui rappresentata come una vecchietta che sta lisciando un gatto: la strega pronuncia il suo “malaugurio”, ma nessuno ci fa troppo casa e anzi una ragazza dall’altra parte del letto ride a sentire quelle parole.

E soprattutto, ciò che rende ancora più vive quelle storie è la grande diversità di tipi umani presenti, un intero ritratto collettivo degli abitanti di Atri dell’epoca. Il messaggio di Andrea, condiviso anche dai committenti, il vescovo e il duca, che si fanno ritrarre senza problemi: il messaggio evangelico non era qualcosa di remoto e lontano, ma un’esperienza concreta, da vivere assieme ogni giorno.

La cappella di Nostra Signora della Soledad

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Sull’originaria chiesa di San Demetrio in Piazza della Vittoria o come si diceva prima, Piano del Regio Palazzo, adiacente al trecentesco palazzo Sclafani, si sa purtroppo poco. Dal Mongitore e dal Cannizzaro si sa che “appartenne ai Greci e non senza fondamento, poiché il santo a cui fin dal principio fu dedicata la Chiesa è greco e dai Greci tenuto in somma venerazione, proprio del ceto dei sellai e facitori dei finimenti di cavalli“.

Il che è abbastanza ovvio: Demetrio di Tessalonica, sulla cui vita si alquanto poco, è considerato dalla chiesa ortodossa un megalomartire, come San Giorgio, ed è considerato un ed è considerato un santo miroblita, ossia uno le cui reliquie emettono un profumo di fiori e un olio miracoloso; benché dalla tarda “passio” risulti essere un diacono, l’averlo messo in coppia con Giorgio, lo fece rappresentare sempre nell’iconografia come un soldato.

Il fatto poi che Gaspare Palermo ne documenti il primitivo impianto basilicale a tre navate, diviso da sei colonne e caratterizzato da otto archi, fa pensare a una fondazione di epoca normanna: per cui, probabilmente affidata ai monaci basiliani, fungeva da parrocchia per i dignitari di lingua greca della corte degli Altavilla.

La vicinanza a Palazzo Sclifani, che nel 1430 divenne l’ospedale centrale di Palermo, salvò la chiesa dal relativo abbandono: sappiamo come nel 1439, la manutenzione della chiesa fosse finanziata della corporazione dei pescatori dediti alla pesca e alla trasformazione dei tonni.

Il 27 Maggio 1580 arrivano a Palermo “I Padri dell’Ordine della Trinità” al fine di fondare un convento. L’Arcivescovo di Palermo Cesare Marullo accorda loro la licenza di fondarlo nella Chiesa di Santa Lucia al Borgo. Chiesa, quella di Santa Lucia, distrutta a seguito dei bombardamenti anglo americani della Seconda Guerra Mondiale, che era ubicata sul confluire dell’attuale Corso Scinà nel Piano dell’Ucciardone e risultavano ai margini della zona popolata appena fuori Porta San Giorgio, che all’epoca era l’estrema periferia cittadina. La costruzione di Borgo Vecchio, infatti, voluta da Carlo d’Aragona Tagliavia, Principe di Castelvetrano, presidente del Regno, Viceré di Sicilia, era appena iniziata, tanto che i primi edifici, ancora incompleti, furono usati come lazzaretti per le grande peste del 1575.

I Trinitari, ovviamente, non tanto contenti della sistemazione, tanto che ruppero così le scatole al viceré e all’arcivescovo, che ottennero nel 1589 di trasferirsi a San Demetrio. All’epoca, come raccontato in un altro posto, l’area era sede dei quartieri militari spagnoli preposti alla difesa del Palazzo Reale: i frati, da buoni politici, per arruffianarsi i vicini, convincerli ad andare a messa da loro e offrire abbondanti elemosine, posero sul muro meridionale della chiesa bassorilievo marmoreo raffigurante la Madonna genuflessa in atto d’adorazione ai piedi della Santa Croce denominata Madonna della Soledad, di cui vi era enorme devozione nella Penisola Iberica.

Sempre in quest’ottica, nel 1590 fecero costruire all’interno della chiesa la Real Cappella della Soledad, patrocinata dai dignitari al servizio della corte spagnola del viceré di Sicilia Diego Enriquez Guzman, conte di Alba de Lista. L’anno seguente è documentata la presenza di dodici fosse davanti al prospetto dell’edificio, manufatti sotterranei destinati all’immagazzinamento del grano.

Nello stesso anno il Venerdì Santo, i frati organizzavano una processione dei Misteri della Passione di Gesù Cristo, durante la quale molti si flagellavano a sangue, come succede ancora oggi in diverse località spagnole.

Tutto questo, che doveva essere a uso e consumo dei soldati spagnoli, ottenne un inaspettato successo anche tra i palermitani: l’anno seguente in tanti accompagnarono con torce accese i “Disciplinantes”, così chiamati perchè camminavano con abiti bianchi e visiere calate per non essere riconosciuti “para ganar las gracias solamente con Dios y su bendita Madre N.S. de la Soledad”.

Così cominciò a diffondersi l’uso, tra le varie confraternite palermitane, delle straordinarie processione del Venerdì Santo, tanto spettacolari, quanto poco valorizzate a livello turistico: a titolo di curiosità, l’arcivescovo Giannettino Doria, l’inventore del culto di Santa Rosalia, nel 1610 proclamò che per i giorni di Giovedì e Venerdì santo quando Gesù Cristo riposava sottoterra nessuno a Palermo dovesse circolare con ruote, ovvero con carrozze e carrozzelle e doveva esserci il massimo silenzio. Questo proclama durò fino al 1892 e nei giornali di allora, quando iniziarono a circolare i primi tram e per la città facevano un particolare rumore, appaiono numerosi articoli di protesta sulla violazione di tale bando. A quei tempi chi assisteva ad una processione molto spesso andava con abito nero fregiato a lutto, in alcune case si coprivano addirittura gli specchi perchè sembrava oltraggioso guardarsi e infine non si gettava acqua nei pavimenti.

Proprio per essere una sorta di “chiesa nazionale”, la cappella della Soledad ottenne molte più attenzioni della chiesa di San Demetrio che la custodiva: nel 1679 la cappella fu interessata da lavori di abbellimento intrapresi sotto la guida del celebre architetto gesuita Paolo Amato che aggiunse tre scenografiche arcate separate da due colonne nella zona presbiterale.

Lo stesso Amato fornì i disegni per la decorazione a stucco che fu realizzata da Andrea Surfarello, uno dei più capaci assistenti del Serpotta. Nel secolo successivo è stata ulteriormente abbellita e rifinita e il seicentesco rivestimento marmoreo parietale fu in parte sostituito da marmi mischi disegnati dal buon Giuseppe Venanzio Marvuglia a cui si deve anche la riconfigurazione planimetrica della cappella. Per nostra fortuna, il buon Giuseppe, evitò per una volta di prendere qualcuna delle sue strambe iniziative, rispettando la struttura originale della cappella.

Il tre maggio 1732 Carlo VI la pose sotto la propria reale protezione e dichiarata Imperiale, nel tentativo di guadagnare alla causa austriaca i sudditi filospagnoli.

Non solo la casa Reale Spagnola, ma anche quella Italiana patrocinò tale cappella: in particolare, le regine di casa Savoia donarono i manti che vestono la statua dell’Addolorata che viene portata in processione di Venerdì Santo: quello di Maria Cristina di Savoia rubato nel 1866, fu sostituito nel 1895 da quello di Margherita di Savoia.

Purtroppo, la chiesa di San Demetrio, fu bombardata nel 1943 e poi demolita anche se le foto d’epoca dimostrano che si sarebbe potuta salvare, essendo ridotta meno peggio di tante alte chiese palermitane dell’epoca. Anche la cappella della Soledad che si trovava all’inizio della navata di destra subì alcuni danni ma per fortuna venne risparmiata dalla demolizione. Oggi al posto della chiesa di S. Demetrio è stato realizzato un salone ad uso della Cattedrale, si osservano ancora alcune colonne dell’edificio riutilizzate. La cappella venne restaurata dai danni subiti dai bombardamenti a spese della nazione spagnola e il restauro venne completato nel 1957 anno in cui venne inaugurata dal Cardinale Ernesto Ruffini; oggi è affidata alla cura delle suore Teresiane. Successivamente, nel 2007, è stata restaurata la facciata: tutto, come i restauri precedenti, a totale carico dell’Ambasciata di Spagna in Italia che tutt’oggi ne conserva il patronato.

Cosa ammirare della Soledad, le rare volte che è visitabile? Si accede alla cappella attraversando un piccolo cortile-sagrato dove si trova un elegante portale in marmo dove campeggia lo stemma reale, con un cancello in ferro battuto elegantemente lavorato che un tempo la separava dalla navata della chiesa di San Demetrio.

Entrando vi si trovano lateralmente i busti con le rispettive iscrizioni di Don Martino de Pinedo e di Andrea de Salazar. L’”anticappella” progettata dal Marvuglia in stile neoclassico, precede la cappella vera e propria, un’autentica macchina scenica barocca, piena di simboli, riccamente decorata a marmi mischi di squisita fattura dove trovano posto una serie di pitture situati entro raffinate cornici in stucco che propongono scene ispirate alla passione di Cristo del pittore catanese Olivio Sozzi: nella parete di destra troviamo ”l’Agonia di Gesù nell’orto degli ulivi” mentre nella parete si sinistra si trova la “Crocifissione”, ai lati dell’altare troviamo la “Lavanda dei piedi” a sinistra e “l’Ultima cena” a destra.

L’altare, tutto in marmo con bassorilievi dorati, ospita, dentro una nicchia realizzata in raffinati marmi mischi, la veneratissima cinquecentesca statua lignea di provenienza iberica della Madonna della Soledad. Il pavimento è interamente occupato da lapidi sepolcrali di nobili famiglie spagnole.

Oltre alla straordinaria processione del Venerdì Santo, il periodo antecedente la Settimana Santa è preceduto da A Scinnuta rAddulurata, un rito risalente al 1600. Nel sesto venerdì di Quaresima, la veneratissima Sacra Immagine della Vergine SS. Addolorata de la Soledad, accompagnata dalla banda musicale, era spostata dalla sua Cappella al centro della chiesa, (A Scinnuta – discesa), dove veniva celebrato la Santa Messa, mentre prima e dopo la funzione religiosa la banda musicale intonava all’esterno della chiesa alcune tipiche marce, offrendo un gustoso anticipo dei Sacri riti della Settimana Santa Palermitana. Dalla Relazione del Governatore della Compagnia del Preziosissimo Sangue e Misteri della Passione di Christo Signor Nostro del 1653 si evince che sicuramente in quell’anno avevano luoghi tali riti.

In occasione della scinnuta, la piazza antistante la Real Cappella de la Soledad, all’interno della Chiesa di San Demetrio della SS. Trinità, era stracolma di gente che impaziente attendeva il riecheggiare delle note musicali eseguite dalla banda, che intona le tipiche marce della Settimana Santa, le prime notizie di questa celebrazioni risalgono al 1653. Interrotta, a causa del secondo conflitto mondiale, a scinnuta rAddulurata non fu più ripristinata, per i gravi danni subiti alla Chiesa e alla cappella, e per il trasferimento della Confraternita in via Formaggi finendo così l’antica tradizione ru venniri ra scinnuta (venerdì di discesa). Rito che però è stato ripristinato in occasione del Giubileo del 2000.

Le cave di Cusa

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La visita a Selinunte non può considerarsi conclusa senza una visita alle Cave di Cusa, il cui parco è intitolato all’archeologo Vincenzo Tusa, che si raggiungono percorrendo la SS 115 in direzione sud, superata la zona vinicola, verso Campobello di Mazara.

Cave, il cui nome fa riferimento ad un vecchio proprietario dell’area, il barone Cusa e che nell’antichità erano note come come Ramuxara o Damus-ara (cava calda), che si presentano ancora oggi come delle cave a cielo aperto, totalmente immerse nel verde di colture intensive e che furono utilizzate per la costruzione dei templi di quell’antica colonia greca.

Le cave sono costituite da un grosso banco di calcarenite (un tufo compatto e resistente, particolarmente adatto alla costruzione) che si estende per circa due chilometri, da est a ovest, lungo un pianoro vicino la costa e che distano da Selinunte tredici chilometri, una distanza irrisoria oggi che disponiamo di moderni mezzi di locomozione veloci e robusti, ma non ai tempi quando si usavano carri, buoi e schiavi.

Eppure gli ingegneri e architetti della città greca le scelsero perché erano il punto più vicino dove il banco di calcarenite si mostrava compatto e massiccio a tal punto da poter staccare elementi di grosse dimensioni, come quelli utilizzati per il tempio G.

I blocchi più piccoli invece, venivano estratti da cave molto più vicine alla cittadella, come quelle sui pendii di Manuzza e, appena quattro chilometri più a nord, presso il vecchio e disabitato podere Baglio Cusa, le ‘Cave di Barone’.Da più lontano invece, dalle cave Misilbesi a Menfi, arrivavano i blocchi per la realizzazione delle sculture e gli ornamenti dei templi. Per fare un confronto, complessivamente furono estratti circa 150.000 metri cubi di pietra dalle cave di Cusa e 54.000 dalle Cave di Barone.

La calcarenite venne estratta per più di 150 anni, a partire dalla prima metà del VI sec. a.C. fino alla sconfitta dei greci da parte dei cartaginesi nel 409 a.C. In quell’occasione la cava fu abbandonata in fretta e furia dagli scalpellini e dagli operai addetti e così anche le abitazioni di questi ultimi, che temevano qualche rappresaglia dei cartaginesi. L’interruzione improvvisa dei lavori ci permette oggi di ricostruire tutte le fasi di lavorazione con estrema precisione.

L’interno dell’area archeologica è costellata da grandi massi cilindrici sparsi sul terreno o ancora da estrarre. Alcuni rocchi sono completamente scavati, pronti per essere trasportati, altri appena accennati, altri in viaggio per Selinunte furono abbandonati per strada.I Cartaginesi non ne ebbero più bisogno data la modestia delle loro realizzazioni architettoniche, utilizzando invece, la stessa Selinunte per prelevare materiale da costruzione. Il considerevole numero dei blocchi permette di stabilire che le persone impegnate nelle cave erano circa 150.

E’ possibile riconoscere anche qualche capitello, massi cilindrici con la base quadrata, che nella parte superiore presenta dodici cunei che servivano per ricavare l’echino (utilizzato nel capitello, costituisce una sorta di cuscino sotto l’abaco). Qua e la si possono ammirare anche abbozzi di colonne gigantesche che sicuramente erano destinate al Tempio G.

L’estrazione dei blocchi veniva praticata da schiavi che ricevevano in cambio solo cibo e vestiti. I gruppi di lavoro erano due: i Leukorgol (scalpellini occupati nel cantiere di costruzione) ed i Latomoi (scalpellini che lavoravano nelle cave).

La tecnica di estrazione era lunga e complessa. Per iniziare si tracciava la circonferenza o il perimetro del pezzo da estrarre, poi si tracciava un secondo solco più esterno profondo circa mezzo metro chiamato canale di frantumazione. Il cordolo di pietra rimasto tra i due canali doveva poi essere eliminato.L’operazione proseguiva fino a quando il tamburo non aveva raggiunto l’altezza desiderata, dopo di che si procedeva alla sua estrazione, distaccandolo dal fondo roccioso con l’aiuto di cunei di legno che si facevano rigonfiare con l’acqua. L’estrazione avveniva mediante argani o facendo scivolare il blocco su piani inclinati, eliminando prima la parte anteriore dello scavo.Ancora oggi è possibile notare alcuni solchi a forma di U nei blocchi, dovuti alle corde che servivano per sollevarli, oppure buchi quadrati alle due estremità dove venivano fissati i perni per facilitare lo spostamento e la messa in posa.

Il metodo di trasporto fu elaborato da Chersifone, architetto di Cnosso (Creta) e successivamente perfezionato da suo figlio Metagene. I rocchi di forma circolare venivano trasportati per rotolamento, quelli squadrati, invece, venivano rivestiti con un’intelaiatura di legno per agevolarne il trasporto ed evitarne il danneggiamento. Al centro delle due superfici di appoggio del blocco, si scavava un foro quadrato che consentiva il montaggio di un’armatura circolare di legno, sostituita da due ruote e arrotolata da una fune. I blocchi venivano così trainati faticosamente da buoi o schiavi che per raggiungere Selinunte impiegavano almeno due giorni.

Tornando a Plinio

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Un paio di giorni fa, in un post ho chiacchierato su un brano di Plinio il Vecchio che era stato citato in pagina Facebook: però, debbo confessare che mi era rimasto un dubbio nel retro cranio. Ora dalle mie vaghe reminiscenze scolastiche, ricordava Plinio il Vecchio come un autore alquanto verboso: insomma, una battuta così laconica, non era certo da lui.

Per cui, con un poco di fatica, mi sono messo a ricercare il brano originale, che rispetto a quello citato su Facebook, è di gran lunga differente.

Anche questa innovazione giunse con ritardo in Roma. Nelle leggi delle dodici tavole si parla solo di alba e di tramonto; alcuni anni dopo fu aggiunto il mezzogiorno, che era annunciato dal messo dei consoli quando scorgeva il sole fra i Rostri e la Grecostasi. Quando poi il sole si era inclinato dalla colonna Menia verso il carcere, il messo annunziava l’ultima ora del giorno; ma questo soltanto nei giorni sereni. Tale uso durò fino alla prima guerra punica. Fabio Vestale racconta che, undici anni prima della guerra contro Pirro , Lucio Papirio Cursore collocò il primo orologio solare presso il tempio di Quirino, nel momento in cui consacrava tale tempio sciogliendo il voto fatto da suo padre. Ma Fabio Vestale non descrive il funzionamento di questo orologio, non dice il nome del suo costruttore, né il luogo dove fu costruito; e tace anche il nome della fonte da lui tenuta presente.

Marco Varrone afferma che il primo orologio collocato in un luogo pubblico fu quello fatto sistemare su una colonna presso i Rostri durante la prima guerra punica dal console Mario Valerio Messalla dopo la presa di Catania in Sicilia; questo orologio fu trasportato da Catania 30 anni dopo la data a cui la tradizione attribuiscel’orologio di Papirio, cioè nell’anno 491 di Roma. Le linee di questo orologio non corrispondevano con precisione alle ore; tuttavia esso rimase la massima autorità per novantanove anni, finchè Quinto Marcio Filippo, che fu censore insieme a Lucio Paolo, fece installare accanto a quello antico un nuovo orologio diviso con maggiore precisione; e questo dono risultò fra gli atti più graditi della sua censura.

Ad esso, nell’anno 497 di Roma, i censori P. Cornelio Scipione Nasica e M. Popilio Lenate affiancarono l’orologio ad acqua, utilizzato già dagli alessandrini da più di cento anni, proprio per compensare le deficienze del quadrante solare nei giorni di nebbia.

Cosa ne possiamo trarre da questo brano ? La prima considerazione è abbastanza banale: sino a poco prima delle Guerra Pirrica, il rapporto tra Romani e Tempo era alquanto rilassato, non basandosi sulla rigida scansione che caratterizza le nostre giornate, ma sulla sulla disponibilità della luce a seconda delle stagioni.

La stessa meridiano non è vista come un oggetto appartenente alla dimensione civile, ma alla sfera del Sacro, tanto da essere offerta come voto alla divinità che supervisiona la vita comunitaria, il cui tempio, posto nel Quirinale, non era certo al centro dell’attività quotidiana del romano dell’epoca.

Le cose cambiano a seguito della penetrazione romana in Magna Grecia e in Sicilia, che trasforma l’economia arcaica, incentrata sulla produzione agricola destinata all’autoconsumo, a una di tipo commerciale: lo stesso processo che porta alla nascita delle monete romano-campane, fa ripensare il rapporto con il Tempo.

Però, per il contesto tecnologico e scientifico dell’epoca della Prima Guerra Punica, la Meridiana è un oggetto raro e prezioso, tanto da essere considerata una preda di guerra, e, come una statue per essere posta su una colonna nel luogo in cui la Repubblica mostrava ai cittadini e agli ambasciatori l’essenza del suo potere, i Rostra, le tribune in cui i Magistrati pronunciavano le loro orazioni

Tra l’altro, Plinio ci da due indicazioni sulla tipologia di meridiana: era abbastanza compatta da stare su una colonna e nonostante questo, il suo quadrante era tranquillamente visibile da un passante. In più, il problema della determinazione dell’ora esatta non dipendeva solo dalla lunghezza delle ombre e quindi l’inclinazione dello gnomone (latitudine), ma anche dalla disposizione delle linee orarie (longitudine). Probabilmente, si trattava di una meridiana a emiciclo.

Realizzare empiricamente una meridiana, con approssimazioni successive, implicava una rara competenza: l’artigiano, dopo anni d’esperienza, disegnavano le linee sul marmo, basandosi su riferimenti locali, che venivano poi scolpite da uno scalpellino. Poi, con parecchia pazienza, dopo numerosi tentativi, si sistemava lo gnomone.

Il regolare la meridiana su un nuovo luogo, significava abradere le precedenti linee dal quadrante semisferico e rifare da capo tutto il lavoro precedente. Questo significa trovare un romano con analoghe competenze empiriche, cosa tutt’altro che semplice, rischiando di mettere a rischio un oggetto di valore, il tutto con un margine di errore che difficilmente compensato i dieci minuti di differenza tra l’ora locale di Catania e Roma.

Con l’evoluzione dei rapporti sociali ed economici, evidentemente sia questi dieci minuti di differenza, sia l’informazione sull’ora esatta di notte e nei giorni di maltempo, dopo la Seconda Guerra Punica, quando l’economia romana si globalizzano, si trasformano da lusso superfluo a necessità.

Per cui l’arrivo della nuova meridiana, precisa, viene accolto con gioia, come quello dell’orologio ad acqua: l’orologio solare si è trasformato da unicum a oggetto di arredo urbano, replicabile e di facile reperibilità. Questo, come detto nell’altro post, è merito dell’evoluzione della scienza greca e della nascita della trigonometria.

Domine quo vadis

geta

La nostra nuova passeggiata sull’Appia Antica comincia da un monumento purtroppo difficilmente visitabile, dato che si trova in una proprietà privata: si tratta del cosiddetto Sepolcro di Geta, posto all’altezza dell’attraversamento del fiume Almone.

In origine, questo era un tipico “sepolcro a torre”, ossia un monumento funebre a gradoni, costituito da sette corpi volumetrici sovrapposti in più livelli, in ordine decrescente. Oggi è visibile solo la parte inferiore in calcestruzzo del nucleo della struttura, sormontata da una piccola costruzione risalente al tardo medioevo, che ancora nei primi anni del Novecento era chiamata Osteria dei Carrettieri. Sulla superficie dei resti sono ancora riconoscibili i segni degli alloggi funzionali al sostengo delle lastre marmoree che rivestivano il monumento.

L’identificazione del sepolcro è legata a un passo della solita Historia Augusta, in cui il fantomatico scrittore Elio Sparziano, che collocava la tomba di Geta in quel luogo, descrivendola come una struttura simile al Settizonio collocato presso il Palatino.

Non tutti gli studiosi concordano nel riconoscere in questa struttura il monumento descritto da Spaziano; stando a quanto afferma Ashby Geta, infatti, sarebbe stato sepolto nel Mausoleo di Adriano insieme a Settimio Severo e Caracalla.

quovadis

La tappa successiva è assai più nota: si tratta della chiesa di Domine Quo Vadis. Secondo la leggenda, citata in età paleocristiana dagli apocrifi Acta Sancti Petri, da Ambrogio e da Origine, l’apostolo Pietro, che fuggiva da Roma per sottrarsi alle persecuzioni di Nerone, avrebbe incontrato in visione Gesù. Secondo questo racconto, Pietro pose a Gesù la domanda

Domine, quo vadis?

ovvero

Signore, dove vai?

e alla risposta di Gesù,

Eo Romam iterum crucifigi

ossia

Vado a Roma a farmi crocifiggere di nuovo

Pietro capì che doveva tornare indietro per affrontare il martirio. A riprova di tale evento, Gesù lasciò l’impronta dei suoi piedi su una lastra di marmo. Intorno al IX secolo, per costruire tale presunta reliquia fu costruito il primo edificio, una sorta di edicola a pianta quadrata, grande più o meno come l’attuale, con ampie aperture che consentivano al viandante di vederne l’interno, dove presumibilmente erano collocate le impronte.

Il primo documento in proposito è una bolla di Gregorio VII del 1° marzo 1081, che rendiconta i beni donati alla cura dei monaci del monastero di San Paolo fuori le Mura. Tra tali beni anche la chiesa di Sancta Maria quae cognominatur Domine quo vadis.

Un’indicazione confermata in seguito da altri documenti risalenti al XII secolo, i quali citano appunto la chiesa di Santa Maria ubi Dominus apparuit. Altri nomi con cui fu conosciuta la chiesetta furono “S.Maria delle Palme”, “S.Maria in palmis”, “S.Maria de palma”, “S.Maria ad passus”, “S.Maria ad transitum”, “S.Maria del passo”, nomi che conservò fino al XVII secolo quando assunse il nome attuale.

Una testimonianza d’eccezione della devozione che attirava delle presunte impronte di Gesù ci è stata lasciata da Francesco Petrarca il quale, nel 1336, in una lettera al suo amico vescovo Giacomo Colonna descrive l’emozione che prova alla sola idea di poter vedere quella singolare reliquia nel suo imminente viaggio a Roma.

In realtà, queste impronte, nella chiesa di Domine quo vadis vi è una copia, l’originale è conservata nella Basilica di San Sebastiano, sono un ex voto pagano per il dio Redicolo, offerte da un viaggiatore prima di partire per garantirsi il buon esito di un viaggio (o al ritorno, in ringraziamento). Un esempio di analogo è visibile ai Musei capitolini. La lunghezza delle impronte è di 27,5 cm che corrisponde a un numero di calzatura pari a 44/45, già notevole oggi, ma che all’epoca doveva essere qualcosa di straordinario.

Nel 1628 la chiesa fu devastata da un violento temporale: così, nel 1637 il cardinale Francesco Barberini, ne finanziò la ricostruzione. Attualmente, la sua facciata è scandita da due lesene laterali; sulla sommità un timpano e lo stemma dei Barberini. Un timpano ridotto è collocato sopra la porta d’ingresso, sormontato a sua volta da una grande finestra.

L’interno è ad un’unica navata; sull’altare è collocata l’immagine della Madonna del transito, e ai lati due affreschi con la Crocifissione di Gesù e la Crocifissione di Pietro. Sopra l’altare, in una lunetta, un affresco con l’Incontro di Gesù con Pietro. Nelle pareti laterali altri due affreschi con gli stessi soggetti. Nell’unica cappella laterale vi è un affresco con San Francesco e il panorama di Roma con le sue chiese. Infine, nella chiesa vi è un busto di bronzo di Henryk Sienkiewicz, lo scrittore polacco autore del famoso romanzo storico Quo vadis?.

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L’ultima tappa è invece la Cappella di Reginald Pole, personaggio da romanzo: discendeva dai Plantageneti perchè sua madre era nipote di due Re, Edoardo IV e Riccardo III e questo ne faceva uno dei parenti più prossimo di Enrico VIII che lo protesse e volle pagare la sua educazione.

Si formò in Italia, in particolare a Padova, presso San Giovanni di Verdara, dove soggiornò fino al 1526 ed ebbe modo di frequentare personaggi della levatura di Pietro Bembo e Gasparo Contarini, ma anche l’agostiniano Pier Martire Vermigli, protagonista italiano della corrente riformista cattolica (poi passato alla riforma).

Nel 1527 tornò in Inghilterra, dove si ritirò nella Certosa di Sheen per completare gli studi. Fu coinvolto contro la sua volontà nella vicenda del divorzio di Enrico VIII da Caterina di Aragona: benché personalmente contrario, ottenne dai teologi e canonisti dell’Università della Sorbona di Parigi il parere favorevole allo scioglimento dell’unione

Perse comunque il favore del re e nel 1532 si trasferì a Padova, dove conobbe, tra gli altri, Gian Pietro Carafa, Benedetto Fontanini, Jacopo Sadoleto e Alvise Priuli, che da allora fu il suo principale collaboratore. A Venezia si dedicò allo studio filologico della Bibbia sotto la guida dell’ebreo fiammingo Giovanni di Kampen. Dopo la rottura di Enrico VIII con la Chiesa di Roma (1534), inviò al re il trattato Pro ecclesiasticæ Unitatis defensione, per convincerlo a tornare sui suoi passi.

Nel frattempo, ordinato diacono, nel 1535 in Inghilterra si pensò a lui come al possibile marito di Maria Tudor, figlia di Enrico e di Caterina, ma Reginald venne innalzato alla dignità cardinalizia da papa Paolo III nel concistoro del 22 dicembre 1536, ottenendo la diaconia dei Santi Nereo e Achilleo (optò successivamente, nel 1540, per il titolo dei Santi Vito e Modesto e poi per quello di Santa Maria in Cosmedin): il papa lo scelse anche quale membro della commissione, presieduta da Contarini, incaricata di tracciare le linee di una riforma della Chiesa, la quale consegnò al pontefice il documento Consilium de emendanda Ecclesia. Fu poi membro della commissione incaricata di preparare il Concilio ecumenico; incontrò a Nizza anche Francesco I di Francia e l’imperatore Carlo V.

La sua opposizione allo scisma anglicano, portò sua madre e suo fratello a essere giustiziati per alto tradimento;anche il Cardinale rischiò di essere ucciso dai sicari e cercò rifugio a Toledo dove Carlo V si rifiutò di consegnarlo all’ambasciatore inglese.

Pole, nominato Amministratore del Patrimonio di San Pietro, si trasferì a Viterbo, dove raccolse attorno a sé gli Spirituali reduci del circolo napoletano di Juan de Valdés, per lo più ecclesiastici di rango che, accogliendo alcune delle idee luterane ma senza voler staccarsi da Roma, premevano per una radicale riforma della Chiesa, improntata sul piano teologico su pochi fundamentalia fidei e, sul piano pratico, sulla svalutazione di riti e opere esteriori. Del circolo facevano parte, tra gli altri, il cardinale Giovanni Morone, il protonotario apostolico Pietro Carnesecchi, le gentildonne Vittoria Colonna e Giulia Gonzaga, il grande artista Michelangelo Buonarroti, mentre il principale animatore era il mistico spagnolo Juan de Valdés, vicino alle dottrine luterane.

Tra il 1545 e il 1546 Pole fu legato pontificio al Concilio di Trento, ma abbandonò l’assemblea alla vigilia del voto sul decreto de iustificatione, adducendo motivi di salute. Intanto la Congregazione dell’Inquisizione accumulò una ricca documentazione a carico dei membri dell’Ecclesia, della quale si servì per controllare lo svolgimento dei successivi conclavi.

Dopo la morte di Paolo III, nel conclave del 1549 fu il candidato principale e gli mancava un solo voto e se fosse stato più ambizioso avrebbe potuto accettare di divenire Papa per adorationem. Preferì non scontrarsi con i cardinali francesi ed alla fine fu eletto Giulio III; in quello successivo, nel 1555, fu invece fatto fuori dalle accuse di eresia formulate da cardinale Giovanni Pietro Carafa (prefetto dell’Inquisizione, e in seguito eletto papa Paolo IV).

Ritiratosi nel monastero benedettino di Maguzzano, Pole fu inviato nel 1554 da papa Giulio III quale suo legato in Inghilterra per aiutare Maria I nel suo tentativo di riportare il regno all’obbedienza romana. Deposto l’arcivescovo scismatico Thomas Cranmer, Pole l’11 dicembre 1555 fu eletto amministratore apostolico di Canterbury; il 20 marzo 1556 ricevette l’ordinazione presbiterale e il 22 quella episcopale.

Nel 1557 Paolo IV gli revocò la legazione inglese e lo richiamò a Roma, con l’intenzione di arrostirlo a fuoco lento sul rogo: ma Pole rimase in patria, protetto dalla regina Maria e da Filippo II di Spagna. Morì nel palazzo di Lambeth (residenza degli arcivescovi di Canterbury), a Londra, il 17 novembre 1558, all’età di 58 anni (la regina Maria era morta dodici ore prima): fu l’ultimo arcivescovo cattolico di Canterbury.

Ora, come gli antichi romani, Reginald Pole volle innalzare nel 1539 una cappella per ringraziare Dio di averlo fatto sfuggire ai sicari di Enrico VIII proprio nel punto in cui gli era stato teso l’agguato. Il Cardinale fece costruire la cappella lungo la Via Appia all’incrocio con il Vicolo della Caffarelletta.

L’edificio richiama l’architettura dei sepolcri romani a tempietto: presenta due porte, oggi murate con blocchi di tufo, con stipiti ed architravi in travertino, laterizio giallo utilizzato per i 4 occhi circolari e per le 8 finte colonne con basamenti e capitelli corinzi in peperino, un gradino di basamento (crepidine) sempre in peperino e volta a cupola cuspidata coperta da tegole e coppi.

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La meridiana di Plinio

Plinio

Questa settimana, salto le vicende relative alla costruzione di San Pietro, per commentare il post, evidenziato nella foto, e apparso in una simpaticissima pagina su Facebook, che negli anni mi ha regalato uno sproposito di risate.

Ora il post su Plinio ha scatenato una ridda di interventi, dal banale e scontato

Se ne sono accorti presto!

al più colto ed erudito, che in sintesi, afferma come i romani non avessero poi in fondo necessità di meridiane così precise, perché non legati alle esigenze del capitalismo e della liturgia cristiana. Però, per l’annoso problema del gap tra cultura umanistica e matematica, nessuno si è accorto del contenuto implicito di quel brano.

Cominciamo, ricordando tre cose: la prima è che il Sole non è un orologio esatto per la mancanza di regolarità del suo moto apparente lungo l’eclittica e la durata del giorno, definita come l’intervallo tra due passaggi successivi del Sole al meridiano, è variabile, di conseguenza ogni giorno la meridiana fisserà un mezzogiorno differente. La seconda è che i tempi locali tra due località differiscono di una quantità costante che è uguale alla differenza di longitudine tra i due luoghi: nel caso citato di Plinio,il mezzogiorno di Catania differisce da quello di Roma di circa 10 minuti. La terza è che in Italia il Sole non è mai a picco e anche d’estate ci sono ombre anche a mezzogiorno, inoltre la lunghezza dell’ombra della meridiana varia a seconda delle stagioni e della latitudine, cosa che impatta anche sulla differenza precedente.

Per cui, un antico romano, subito dopo la Prima Guerra Punica, ipotizziamo attorno al 240 a.C. per accorgersi dell’errore presente nella meridiana di Messalla, avrebbe dovuto impelagarsi in un meccanismo assai macchinoso.

Per prima cosa, la più semplice, avrebbe dovuto procurarsi almeno altre due meridiane: una per la stima dell’istante esatto in cui il sole passava sul meridiano locale, il mezzogiorno astronomico, l’altra fornire l’ombra con cui confrontare quella proveniente dalla meridiana siciliana.

Questo perché la linea di mezzogiorno delle due meridiane, per le differenza di longitudine, avrebbe coinciso: di conseguenza, serviva un punto di riferimento indipendente tra le due, per definire una linea di mezzogiorno standard, che avrebbe sostituito quella iniziale della meridiana di Messalla.

A mezzogiorno avrebbe misurato l’ombra reale della meridiana di riferimento e quella della lunghezza dell’ombra di  quella catanese. Poi avrebbe stimato ad occhio il fattore di correzione dovuto alla differenza di latitudine tra Catania e Roma, all’epoca era già nota la relazione che nel giorno dell’equinozio di primavera e autunno permette di approssimarla con la formula

Latitudine = 90 – Altezza apparente del sole

In funzione di questo valore, avrebbe corretto la lunghezza dell’ombra della meridiana di Messalla, trasformando l’ombra reale in una virtuale. Infine, avrebbe fatto la differenza tra la lunghezza dell’ombra reale di riferimento e quella dell’ombra virtuale. In funzione del valore ottenuto, avrebbe dovuto correggere a mano l’inclinazione dello gnomone, ripetendo tante volte il procedimento, finché tale differenza non fosse stata pari a 0.

Ora al di là della lunghezza del procedimento, i conti effettuati con l’abaco e gli aggiustamenti ad occhio avrebbero introdotto una serie di errori, che il gioco non ne sarebbe valso la candela. La procedura si semplifica notevolmente, se si hanno a disposizione tre cose: la prima è uno strumento meccanico, che funga da riferimento, producendo un modo uniforme e indicando un un tipo di ora diverso da quello delle Meridiane, misurato in ore uguali, ciascuna pari alla ventiquattresima parte del giorno solare medio, la cui durata corrispondeva alla media aritmetica di tutti i giorni solari di un anno. La seconda i valori tabellari della cosiddetta equazioni del tempo, che, a seconda del giorno dell’anno, indica i minuti da aggiungere o togliere per calcolare dal tempo medio dell’orologio il tempo reale solare; equazione che è la somma di due curve sinusoidali con periodi rispettivamente di un anno e sei mesi. Questi due elementi, permettono di calcolare al meglio e in maniera oggettiva il tempo di riferimento per eseguire il confronto tra le due meridiane. L’ultimo cosa è un set efficace di formule trigonometriche e dei relativi valori, in modo assai meno complicati e più precisi i calcoli precedenti.

Queste tre cose, sono disponibili dopo la Seconda Guerra Punica: se la costruzione del Planetario di Archimede, che introduce le ruote dentate e i rotismi epicicloidali o differenziale, e l’introduzione dello scappamento permette la costruzioni di orologi meccanici, risalgono intorno al 230 a.C. le tavole trigonometriche di Ipparco sono invece del 180 a.C.

Per cui la testimonianza di Plinio ci indica che a Roma, intorno al 170 a.C. ci fosse un tizio, di cui purtroppo ignoriamo l’identità che: aveva a disposizione un orologio meccanico, padroneggiava abbastanza bene le recenti scoperta ellenistica e aveva sufficiente curiosità da affrontare il problema della meridiana.

Il che aggiunge un ulteriore spunto: il procedente algoritmo, basato sul confronto sul tempo oggettivo fornito da un orologio meccanico e due meridiane, se queste sono poste in due località differenti, può essere utilizzato anche per il calcolo della longitudine, ovviamente con un errore rispetto al più preciso cronometro marino, utilizzato dal 1700 in poi.

Come forse sapete, Tolomeo nella sua Geografia compie un errore sistematico nel calcolo della longitudine, apparentemente del 40%. Cosa che ha portato Luigi Russo ha ipotizzare come il geografo alessandrino avesse confuso la posizione del Meridiano di Ferro, l’equivalente antico del nostro Greenwich, spostandolo dai Caraibi alle Canarie, arrivando poi alla discutibile conclusione che ai tempi dell’Ellenismo, i greci avessero scoperto l’America.

In realtà, se ipotizziamo che Tolomeo utilizzasse come unità di misura lo stesso stadio di Poseidonio, pare a 222 metri, per semplificarsi i conti, in modo che un grado coincidesse con 500 stadi, rispetto ai 700 di Eratostene,tale errore si riduce drasticamente. In particolare, ha un ordine di grandezza analogo a quello che si ha se si calcolasse la longitudine con le meridiane, invece che con il cronometro

Per cui, non è da escludere che il metodo della meridiana fosse di uso comune per i geografi dell’epoca. Di conseguenza, il brano di Plinio, più che mostrare che i romani fossero scemi o che avessero un rapporto con il Tempo diverso dal nostro, ci da qualche spunto di riflessione sulle questioni scientifiche e matematiche dell’epoca classica.

Pirro (Parte VIII)

Piatto_con_elefanti_in_assetto_da_guerra_(Museo_nazionale_etrusco_di_Villa_Giulia,_Roma)

Dionigi di Alicarnasso e Plutarco riferiscono che all’alba del 1º luglio 280 a.C. i Romani attraversarono il Sinni, con l’idea di prendere di sorpresa Pirro, dato che il re dell’Epiro, tutto si aspettava, tranne che il console Levino volesse dargli battaglia.

Per questo Pirro aveva disposto l’accampamento più vicino ad Eraclea che al fiume Sinni, in modo da garantirsi la massima facilità di approvvigionamento e aveva lasciato a guardia della riva i 3.000 hypaspistai, che dovevano pattugliarla e avvertirlo quando i romani, come da lui ipotizzato, si fossero ritirati per carenza di viveri.

Paradossalmente, Levino aveva compiuto un errore di valutazione simmetrico: convinto che gli hypaspistai non svolgessero un ruolo di pattuglia, ma fossero l’avanguardia dell’esercito di Pirro e che quindi il grosso delle truppe epirote fosse nelle vicinanze, il console aveva organizzato l’attraversamento del Sinni come se fosse una sorta di manovra a tenaglia.

La fanteria guadò il fiume davanti agli hypaspistai, fungendo da incudine, mentre la cavalleria scelse un guado più lontano, in modo da aggirare il fianco del presunto grosso dell’esercito nemico, svolgendo il ruolo di martello: date le somiglianze della tattica di Levino con quella adottata da Alessandro nella battaglia del Granico, forse il console, a differenza di quanto affermato da qualche storico, non poi così ignaro delle tattiche ellenistiche.

La manovra riuscì perfettamente, ma invece di accerchiare l’intero esercito epirota, ne coinvolse una minima parte. Ora gli hypaspistai, tutt’altro che entusiasti di prendersi in pieno due legioni romane, mandarono subito un messaggero all’accampamento di Pirro, per chiedere aiuti.

Pirro si trovò davanti a una scelta difficile: nell’ipotesi migliore, si trattava di una manovra diversiva, organizzata da Levino per eccesso di prudenza, per impedire un inseguimento da parte della truppe epirote. Nella peggiore, i romani erano così scemi da attaccare battaglia in condizioni di inferiorità numerica. In entrambi, i casi, non c’era tempo, per soccorrere con tutte le truppe gli hypaspistai. Per cui, con grande coraggio, si mise a capo della cavalleria, dandole poi l’ordine di raggiungere il campo di battaglia. La fanteria leggera e pesante sarebbe eventualmente giunta poi.

Il re dell’Epiro, giunto alle rive del Sinni, si rese conto della pessima situazione del suoi soldati, per cui decise di agire in modo assennato: da una parte ordinò ai poveri hypaspistai di ritirarsi, poi per coprirne la fuga, lanciò una carica di copertura da parte della cavalleria macedone e tessala.

Carica che però abortì subito, dato che Pirro dovette scontrarsi con un nuovo imprevisto: l’arrivo della cavalleria romana. Durante lo scontro uno dei capitani di Pirro, Leonato il Macedone, si accorse come uno dei romani Oblaco Volsinio, prefetto della cavalleria alleata romana dei ferentani, avesse preso di mira il dell’Epiro. Pochi istanti dopo, Oblaco spinse il cavallo e, abbassando la lancia, aggredì Pirro. Nello scontro entrambi caddero da cavallo, dopo aver gettato le insegne, Leonato intervenne in aiuto di Pirro, mentre Oblaco fu bloccato e ucciso dai soldati macedoni. Sia perché se l’era vista brutta, sia perché era memore di tante sconfitte nelle battaglie tra i Diadochi, dovute alla morte in battaglia dei comandanti, Pirro chiamò a sé Megacle e decise di scambiare con quest’ultimo i panni e le armi, continuando così a combattere come un normale soldato e scongiurando altri rischi.

A togliere le castagne dal fuoco a Pirro, fu l’arrivo del resto del suo esercito: gli opliti e i pezeteri corsero in soccorso dei pochi hypaspistai e disposti in falange ingaggiarono i manipoli romani. Per cercare di sopraffare i legionari, gli epiroti effettuarono ben sette cariche. Ora, abbiamo idee parecchio confuse sulle caratteristiche della legione manipolare dell’epoca: tuttavia, possiamo ipotizzare come, a seconda dei casi e delle esigenze tattiche, i manipoli potevano disporsi o in un fronte continuo o con dei varchi tra loro.

Dato che gli epiroti, riuscirono a sfondare le prime linee nemiche ma non poterono avanzare ulteriormente a meno di non rompere la propria formazione, è assai probabile che Levino, proprio per contrastare la falange, abbia adottato la disposizione con i varchi. Le taxis dei pezeteri, per infilarvisi, si sarebbero rotti e questi soldati, meno pesantemente armati dei legionari, ne sarebbero stati sovrastati.

Per rompere lo stallo, Levino lanciò una carica avvolgente di cavalleria, consapevole della fragilità della falange ad attacchi laterali: i Romani, inoltre, continuarono a prendere di mira colui che portava le armi reali finché un cavaliere di nome Destro assalì e uccise Megacle; lo spogliò quindi delle vesti reali e corse verso il console Levino, annunciando a tutti di aver ucciso Pirro. Dopo tale notizia i legionari, galvanizzati dalla morte del re epirota, sferrarono un deciso contrattacco, mettendo in difficoltà opliti e pezeteri, mentre gli epiroti sbigottiti cominciarono a perdersi d’animo. Pirro, avendo inteso il fatto, si mise a correre per il campo e a capo scoperto si fece riconoscere dai suoi soldati. Per riprendere in mano le sorti della battaglia, decise di schierare la sua arma segreta: mandò in campo gli elefanti da guerra.

Mossa che ebbe un successo assai maggiore di quanto aspettato dal re dell’Epiro: i soldati romani, dinanzi a quelle bestie ignote, entrarono in panico, cominciando a ritirarsi in disordine. Pirro, allora, ordinò alla cavalleria tessala di attaccare, sbaragliando definitivamente la fanteria romana. Tuttavia, la fortuna aiutò Levino: da una parte i tessali, invece di continuare ad incalzare i Romani in fuga, si dedicarono a saccheggiare il loro accampamento, trovando ben poco. Come aveva ben previsto Pirro, i legionari erano prossimi alla fame. Dall’altra, vi fu il sopraggiungere della notte, che rese impossibile il combattimento.

Così i Romani seguendo la via Nerulo-Potentia-Grumentum, si ritirarono a Venosa. Dionigi di Alicarnasso ci evidenzia le seguenti perdite: 15.000 morti tra i Romani e 13.000 tra le truppe di Pirro. Inoltre Eutropio riferisce che 1.800 soldati romani furono fatti prigionieri, nel seguente brano

Pirro prese mille e ottocento Romani e li trattò con il massimo riguardo, seppellì gli uccisi. E avendoli veduti a terra giacere con ferite sul petto e con volti truci, anche morti, si dice che egli alzasse le mani al cielo con queste parole: “Avrebbe potuto essere il padrone di tutto il mondo, se gli fossero toccati tali soldati”

Facciamo due conti: complessivamente, l’esercito romano contava complessivamente 80.000 soldati. A seguito della battaglia di Eraclea il tasso di perdita complessiva era del 21%, importante, ma sostenibile. Nell’esercito epirota, il tasso di perdita era invece pari al 46%, un’ecatombe. Per cui, Pirro aveva ottenuto un successo tattico, ma una disfatta strategica: la battaglia di annientamento si era trasformata in battaglia d’attrito, dove Pirro, era consapevole di essere il perdente, avendo a disposizione assai meno risorse. Secondo la leggenda, così commentò, il risultato della battaglia

«Un’altra vittoria come questa e me ne torno in Epiro senza più nemmeno un soldato»

Il Museo Capitolare di Atri

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Benché sia poco nota, Atri, grazie agli Acquaviva, tra le principali del regno di Napoli, è stata dei poli di elaborazione del linguaggio quattrocentesco centro italiano, fondendo le istanze fiorentine, con una serie di suggestioni tardo gotiche, provenienti dalla Francia e dalla Spagna.

Processo che è ben testimoniato dal museo capitolare, il più antico d’Abruzzo: nel 1912 il Canonico Raffaele Tini cominciò ad esporre con un certo ordine oggetti pregiati che, in verità, erano già conservati nella sacrestia della Cattedrale. Si attrezzarono più tardi altre stanze, dove furono collocate le ceramiche, i codici miniati e gli incunaboli che prima erano stipati in accoglienti casse, anch’esse notevoli per pregi artistici. Il Museo è sistemato nei locali di un antico monastero benedettino – cistercense del XII secolo, situato a ridosso della Cattedrale, dove fa bella mostra di sé un nobilissimo chiostro su tre lati e a due piani. In seguito, a motivo della erezione a Diocesi di Atri, divenne abitazione dei canonici, i quali vi risiedevano conducendo quasi una vita monastica.

L’ultima trasformazione radicale si ebbe negli anni ‘60 sotto la direzione del soprintendente Guglielmo Matthiae che ristrutturò tutto l’edificio demolendo e ricostruendo ex novo l’ala nord dello stesso. Vi furono sistemati più razionalmente tutti gli oggetti esposti, compresi gli armadi scolpiti da Carlo Riccione che, dopo la demolizione della sacrestia e del coro interno, furono ricostruiti e sistemati nei primi 2 locali del nuovo museo. Un’ultima definitiva ristrutturazione, si é avuta nei primi mesi del 1994, quando, grazie alla Soprintendenza, alla Regione Abruzzo e alla Fondazione Tercas. Il Museo in questi ultimi anni si é arricchito di donazioni private come la raccolta di ceramiche di Vincenzo Bindi, e la raccolta di arte lignea di Tommaso Illuminati donata dagli eredi dello stesso.

Nell’ingresso del museo è dedicato agli arredi sacri: tra tutti, spiccano due grandi reliquiari francescani del XVII sec. in legno, con reliquie che provengono dalle catacombe romane, tre portaceri lignei del XVI sec. di buona fattura; lungo le scale una discesa dello Spirito Santo, opera di Giuseppe Prepositi, pittore locale allievo del Solimena. e una serie di sei candelieri e croce in legno dorato con Cristo in argento.

La prima e la seconda sala conservano i mobili provenienti dalla distrutta sagrestia della Cattedrale; a questi, nella seconda sala, si affianca la collezione dei codici miniati e degli incunaboli (quasi 30), provenienti sia dai canonici della Cattedrale che dal Palazzo Acquaviva, contenute in espositori del 1931 opera di Renato Tini.

La terza sala è dedicata sia ai paramenti sacri, tra cui spicca il tappeto rosso ricamato in argento donato nel 1732 al cardinale Troiano Acquaviva dalla regina d’Inghilterra, sia a reliquari provenienti dalle chiese locali

Nella quarta sala comincia la Pinacoteca: entrando da sinistra si due tavole Natività e Flagellazione attribuite a Pedro de Aponte, pittore di Saragozza, che seguì il Re Ferdinando il Cattolico durante la sua visita a Napoli, ove dovette ottenere l’incarico per le dette tavole dal Duca d’Atri Andrea Matteo III d’Acquaviva. Dato che gli elementi architettonici richiamano molto quelli del Bramante milanese e del Bramantino, che è assai probabile che il pittore abbia soggiornato per un certo periodo alla corte di Ludovico il Moro.

Al centro della sala vi una grande tavola Madonna col Bambino e Santi dei primi del 1500, opera attribuita Antonio Solario detto “lo Zingaro”, pittore assai poco noto: i punti fermi della sua biografia è che fu allievo prima di Antonello da Messina, poi di Bellini, che lavorò nelle Marche, a Napoli e a Venezia e che un certo punto della sua vita si trasferì a Londra, per entrare al servizio di Enrico VIII. Ma l’importanza della sala è nell’importante collezione di sculture lignee, che vanno dal dal XIII al XVII secolo.

Nella quinta sala sono esposti alcuni quadri del del XVI-XVII secolo, tra cui spicca una Madonna del Cavalier d’Arpino, mentre nella sesta vi sono opere barocche, di scuola napoletana.

La settima e ottava sala sono dedicate alla collezione Bindi, comprendente collezione di ceramiche abruzzesi di Castelli dal XVI al XIX secolo, oltre alla ceramica povera del XIX-XX sec. di Bussi, Lanciano, Atri e Torre de Passeri. Enttando sulla destra, sulla destra, Diploma di Laurea di Francesco Antonio Saverio Grue, datato 1798. Al centro, in vetrine modulari, dalla particolare forma a capanna, sono esposti i 100 pezzi della raccolta Vincenzo Bindi costituiti da piatti, mattonelle, piastrelle, vasi, ecc. prevalentemente di Castelli, ma anche di altre scuole, rappresentanti pressoché l’intera storia della ceramica d’Abruzzo, dagli inizi del XVI sec. al XIX. Sulla destra in vetrine della stessa tipologia di quelle centrali, altre ceramiche di Castelli e di officine di ceramica popolare abruzzese, raccolte e conservate negli anni dai canonici del Capitolo Cattedrale. Sono presenti mattoni maiolicati che provengono dal soffitto di S. Donato in Castelli, opere dei Grue (Francesco, Carlantonio, Francesco Antonio Saverio, Anastasio, Liborio, Francesco Saverio e Niccolò Tommaso), dei Gentili (Carmine, Giacomo e Berardino).

Non mancano i Cappelletti: Nicola (1691-1767) e Fedele (1874-1920), Gernaldo Fuina e tante altre ceramiche di autori non determinati ed altre più recenti costituenti la cosiddetta ceramica povera. Nel mezzo, solitaria, La Madonna col Bimbo maiolica bicolore, invetriata, attribuita a Luca della Robbia ed eseguita verso il 1470. In fondo due grandi vasi policromi di Francesco Saverio Grue (1720-1755) rappresentanti “Natività” e “Adorazione dei Magi” determinati ed altre più recenti costituenti laceramica povera. Nel mezzo, solitaria, La Madonna col Bimbo maiolica bicolore, invetriata, attribuita a Luca della Robbia ed eseguita verso il 1470.

La nona sala ospita oltre 100 pezzi di oreficeria, dal XIII al XX secolo, donati dalla fondazione Tercas, che opera molto per rivalutare i beni culturali della provincia di Teramo. La maggior parte dei pezzi viene dalla Cattedrale, ma gli altri vengono tutti dalle chiese di S.Chiara, S.Agostino, S.Nicola, S.Domenico e S.Reparata. I pezzi sono di varie scuole; molto presente quella abruzzese, oltre a pezzi della scuola orafa di Atri, che rientra nella lunga lista di artisti della scuola atriana. La scuola orafa di Atri fu l’unica dell’Abruzzo a sopravvivere fino al XVII secolo con artisti di alto livello (pur operando solo nella provincia di Teramo): infatti tutte le altre scuole orafe abruzzesi nel XVII secolo erano praticamente scomparse, per via della crescita di notorietà dei pezzi provenienti da Napoli.

Tra i vari pezzi esposti spiccano la stupenda Croce in cristallo di Rocca, un lavoro di scuola veneziana della fine del XIII sec., un pastorale in avorio intagliato fine XIII sec.,un riccio di pastorale, sempre in avorio intagliato, in origine dipinto, con un agnello e un drago, risalente agli inizi del XIV sec. e la grande Croce processionale in argento sbalzato e dorato, eseguita in Atri, nel 1518 da Mastro Giovanni di Rosarno di Calabria. La decima sala custodisce le opere dello scultore novecentesco locale Tommasi Illuminati.

Il percorso museale continua nello splendido chiostro, da cui si accede all’undicesima sala, in cui sono collocati alcuni materiali lapidei databili tra il II e il XIX secolo; vi si possono notare colonne, resti di finestre, balaustre, pietre tombali, stemmi, statue ecc. provenienti da varie zone di Atri e anche da alcune chiese della città. Una vera curiosità è la palla del campanile del duomo (XV secolo) con lo squarcio provocato dal fulmine nel 1996: si trovava collocata in cima alla torre campanaria, poi gravemente danneggiata a causa del fulmine e quindi sostituita da una uguale che funge da parafulmine.

Nella tredicesima sala si possono ammirare resti romani, mentre la quattordicesima è costituita dalla Cisterna Romana che alimentava le Terme che sorgevano dove ora è il Duomo. Lungo le volte e le colonne della cisterna si trovano affreschi del XIV e XV secolo, opere delle botteghe dei più importanti artisti attivi in queste epoche nel duomo di Atri: il Maestro di Offida e Antonio di Atri, protagonisti della transizione locale tra Tardo Gotico e Primo Rinascimento.

Nell’ultima sala sono infine conservate alcune fotocopie delle lettere scritte da vescovi e papi (gli originali si trovano nell’annessa Biblioteca Capitolare) tra il XIV e il XVII secolo e indirizzate alla diocesi di Atri.

Complesso dei Santi Elena e Costantino

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Benché sia situata in un luogo centralissimo, in Piazza Vittoria, tra Palazzo dei Normanni e la Cattedrale, il complesso dei Santi Elena e Costantino è assai poco noto ai palermitani. Benché fosse situato nella Galka, questo luogo non era di pertinenza delle grande Moschea.

Dall’epistola di “Teodosio monaco a Leone arcidiacono” sappiamo che questo monaco e il vescovo di Siracusa, testimoni dell’assedio e della presa della città da parte degli Arabi, il 21 maggio 878, furono fatti prigionieri, insieme ad altri religiosi, e trenta giorni più tardi condotti a Balarm. La città era sede del nuovo potere aghlabita di Sicilia ed uno dei due prigionieri fu costretto a partecipare ad una disputa teologica con l’emiro seduto in trono sotto un portico e nascosto dietro un velo. Al termine della quale il vescovo ed il monaco Teodosio furono portati via dai guardiani nel luogo dove erano trattenuti prigionieri. Lungo il percorso (per plateam) furono circondati da una folla di cristiani in lacrime e di saraceni curiosi venuti a vedere il vescovo di Sicilia condotto nella oscurità di una prigione a cui si accedeva attraverso una piccola porta, discendendo quattordici gradini scavati nella terra.

Da quello che siamo riusciti a ricostruire, anche dai sondaggi archeologici, questo portico, che svolgeva da padiglione delle udienze, dovrebbe coincidere con l’attuale complesso dei Santi Costantino ed Elena. Dopo la caduta del Kalbiti (948-1053) e fino all’insediamento a Palermo di Ruggero di Altavilla, Balarm era amministrata da un consiglio (giamà‘a) di sceicchi (shuyùkh) insieme agli uomini di religione, ai giuristi e agli stessi figli delle famiglie dei tuggiàr che possedevano delle navi e si dedicavano al trasporto a lunga distanza commerciando i prodotti del Mediterraneo orientale (la nave Shaykhi, degli sceicchi di Palermo, effettuò un carico in Egitto nel 1037-1038).

I membri di questo consiglio, eletti dall’Umma dei fedeli, trasformarono quel portico in un complesso di fondachi e magazzini. In un documento del 1153, appare come un tale Leone de Bisiniano fosse proprietario di un recinto denominato “il fondaco” comprendente: sette case terranee, pagliera, pozzo, e terreno piantato con alberi nel mezzo, nella strada detta misit de Sipene, dal nome della Moschea di Sibyà, posta fuori dalla Galka, vicino la sua porta d’ingresso accanto alla chiesa di San Costantino de plano.

Documento che testimonia due cose: la persistenza della destinazione commerciale dell’area, confermata anche dagli scavi archeologici, e la precoce “sacralizzazione” di parte del complesso. Dato il valore simbolico della titolatura della chiesa, gli Altavilla, come Costantino ha sconfitto con l’aiuto divino Massenzio amico dei pagani, hanno sottomesso gli infedeli, ponendosi in continuità con l’Impero Romano e proponendosi come alternativa al Basileus, questa deve essere avvenuta nei primi anni dopo la presa di Balarm.

Con il progressivo spopolamento dell’area nel tardo Medioevo, la chiesa di San Costantino fu progressivamente abbandonata: nei primi del Quattrocento, in occasione di un restauro di cui sappiamo ben poco, nella titolatura fu aggiunta anche quella di Sant’Elena. Nel 1568 fu rinominata Santa Maria del Palazzo e consacrata alla Madonna di Monserrat: il motivo fu legato al trasferimento sopra l’altare maggiore di un quadro, dipinto su pietra, proveniente dall’antica Porta dei Patitelli, che sorgeva dove ora si trova la chiesa di S.Antonio Abate e pare essere stata costruita sopra le mura dell’antica torre Pharat, che insieme ad un’altra torre quella di Baich, sovrastavano l’attuale “Vucciria”. Trasferimento che fu voluto dal Viceré di Sicilia Francesco Ferdinando d’Avalos, duca di Pescara. In tale occasione, la chiesa divenne sede dell’omonima Confraternita, successivamente trasformata in Compagnia, che vi rimase fino al 1832. In seguito la chiesa fu assegnata alla Compagnia della Carità che vi rimase fino al 1944.

Nel 1587, però la confraternita di Santa Elena e Costantino, volendo rinnovare il vecchio culto, decise di costruire una nuova chiesa, proprio accanto a quella normanna: i lavori languirono per diverso tempo, finché nel 1602, il Vicerè Don Lorenzo Suarez, Duca di Feria, al fine di predisporre una migliore difesa del Palazzo dei Normanni, decise di fare demolire santa Santa Maria del Palazzo.

Per le pressioni della Confraternita di Sant’Elena e Costantino e di quella di Santa Maria di Monserrat, rimasta senza una sede sociale, il senato palermitano concesse un finanziamento di cento scudi: di conseguenza, un annetto dopo, la nuova chiesa dei Santi Elena e Costantino fu termina. Nel 1612 fu inoltre completata l’adiacente canonica. A fine Seicento il complesso fu oggetto di un’ulteriore trasformazione, con l’aggiunta dell’Oratorio del primo piano, dedicato a Costantino.

Abbandonato nel 1947, dopo un lungo periodo di incuria il Complesso è stato acquisito dalla Regione Siciliana e, conclusi nel 2007 i restauri avviati nel 1988, è stato preso in carico dell’ARS che ne ha fatto la sua Biblioteca Archivio storico e un Info Point Centro di Informazione e Documentazione Istituzionale. I documenti dell’Archivio storico, consultabili da parte di studiosi e di cittadini, sono custoditi al piano terreno e conservati all’interno di moderne strutture di innovativa concezione realizzate dall’architetto milanese Italo Rota.

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Dato che gran parte degli arredi è stata trasferita nel museo diocesano, nella chiesa è rimasto ben poco: in asse con l’ingresso è il cappellone con l’altare maggiore in legno, illuminato da un oculo e riccamente addobbato con stucchi. Sull’altare una nicchia plurilombata custodisce la sacra immagine della Madonna con Bambino e Santi, donata da d’Avalos, mentre sulla sinistra un pregevole ambone ligneo proveniente da una chiesa dismessa. Il transetto, con due brevi cappelle sulle ali, è l’unica parte rimasta della chiesa seicentesca, nonostante i danni provocati, nell’800, da un incendio. Una cantoria lignea, dalle linee curve e spezzate, sovrasta l’ingresso. La cappelletta di destra del transetto ospita dei simulacri: Assunta dormiente e Crocifisso.

L’Oratorio, di grande valore artistico, situato sopra l’andito d’ingresso, si raggiunge grazie a uno scalone monumentale in pietra di Biliemi. Scalone – definito nel 1715 e affrescato nel 1724 con scene della Passione, perdutesi nel tempo – che si diparte dal lato sinistro del cortile

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Gli affreschi che impreziosiscono la volta e le pareti laterali sono opera di Filippo Tancredi, Guglielmo Borremans e Gaspare Serenari allievo del Borremans. Rappresentano la Visione della Croce, il Ritrovamento della croce, la Battaglia di Ponte Milvio, il Battesimo di Costantino e il Sogno di Costantino, con San Pietro e San Paolo e l’indicazione dei committenti nel cartiglio 1690, raffigurante la visione e la voce che attribuisce all’imperatore il motto «in hoc signo vinces».

Le pareti sono decorate invece con episodi della vita di Sant’Elena la Storia della vera Croce, Sogno della Santa Imperatrice, Viaggio a Gerusalemme, La distruzione degli idoli, Scavi alla ricerca della Croce, Incontro con il Saladino; immagini che risulterebbero essere delle sinopie. Gli affreschi veri e propri, furono staccati durante l’ultima guerra mondiale per proteggerli dai potenziali effetti distruttivi delle bombe. Ahimé, purtroppo, se ne è persa ogni traccia: il mio sospetto è che siano finiti a decorare la villa. di qualche riccone inglese o americano.

Meraviglioso è il pavimento in maiolica, che rappresenta Costantino in battaglia, eseguito dalla bottega dei Sarzana su disegno del domenicano Andrea Palma, architetto del Senato cittadino, che fu molto legato a questa chiesa. Il suo maestro, Paolo Amato, ne fu infatti cappellano

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