Pirro X

Per stanare i Romani, Pirro decise di replicare la precedente avanzata sull’Urbe: ritenendo che le legioni fossero state disposte a difesa della Campania, provò a sorprenderle, cercando di aggirarle, contando se non sull’alleanza, sulla neutralità dei Sanniti.

Per questo si diresse a Nord, nel territorio della Daunia, regione pressappoco corrispondente all’attuale provincia di Foggia: da li avrebbe traversato l’Appennino, raggiungendo la nostra Campobasso. Da li si sarebbe spostato a Isernia, da cui avrebbe proseguito lungo la valle del Venafro. Così sarebbe puntato sul Basso Lazio, aggirando le difese romane e avendo la strada aperta verso l’Urbe. Dinanzi a tale rischio, i senatori si sarebbero seduti finalmente al tavolo delle trattative.

Il problema che Pirro non aveva tenuto conto dei coloni romani stabiliti a Venosa, le cui pattuglie si resero subito conto dei movimenti epiroti: di conseguenza, l’informazione fu passata in fretta e furia ai consoli Publio Decio Mure e Publio Sulpicio Saverrione, che essendo abbastanza svegli, capirono rapidamente le intenzioni di Pirro, mobilitarono otto legioni, per un totale di 40.000 uomini, con 37600 fanti e 2400 cavalieri intercettando il suo esercito nella piana tra il torrente Carapelle ed i monti Carpinelli, nei pressi di Ascoli Satriano.

Posto peggiore per Pirro non poteva esserci: la piana era lunga e stretta. Così la sua cavalleria avrebbe avuto grosse difficoltà a manovrare, non c’era lo spazio per schierare tutti gli elefanti e per la disposizione classica della taxis falangitica. Inoltre, rispetto ad Heraclea, il re dell’Epiro non godeva del vantaggio numerico: anche il suo esercito aveva la stessa consistenza di quello romano.

In particolare, era così costituito

Ala destra: 400 cavalieri Sanniti; 300 cavalieri Tessali; 200 cavalieri Bruzi; 200 cavalleggeri mercenari italici.
Centro: I divisione – 3.000 falangiti Macedoni; 3.000 falangiti Ambracioti; 3.000 peltasti mercenari italici. II divisione – 3.000 opliti Tarantini; 3.000 guerrieri Bruzi; 3.000 guerrieri Lucani. III divisione – 3.000 falangiti Molossi; 3.000 falangiti Caoni; 3.000 falangiti Tesproti. IV divisione – 3.000 ipaspisti mercenari greci; 6.000 fanti Sanniti.
Ala sinistra: 300 cavalieri Ambracioti; 200 cavalieri Lucani; 200 cavalieri Tarantini; 400 cavalleggeri mercenari greci.
Riserva: 600 Amici del Re dello squadrone reale; 600 cavalieri dell’Agema d’Italia; 900 cavalieri Epiroti; 2.000 arcieri; 500 frombolieri di Rodi; 20 elefanti.

Ossia, trascurando arcieri, frombolieri ed elefanti, Pirro aveva a disposizione 36000 fanti e 4300 cavalieri. Il re dell’Epiro, vista l’inferiorità nella fanteria e la superiorità nella cavalleria, che era neutralizzata dalla topografia del luogo, alternò picchieri a coorti di alleati e mercenari, cercando di superare l’impostazione classica della falange e realizzando un dispositivo di forze combinato.

La battaglia durò due giorni, interrotta solo dal calar del sole. Il primo giorno, i Romani contennero la coalizione avversaria: la prima legione romana indietreggiò sotto l’urto dell’ala sinistra epirota dotata di elefanti. Il centro dello schieramento epirota, in cui si trovavano anche i mercenari tarantini, gli oschi ed i sanniti, fu spazzato via dalla terza e dalla quarta legione. Nel frattempo i Dauni, con un drappello di uomini, andarono a saccheggiare il campo di Pirro assieme alla prima legione romana, ma vennero ricacciati su un colle dall’azione della cavalleria epirota. Essi, rifugiati nei boschi, non riuscirono ad esser stanati dagli Epiroti. La cavalleria greca venne, a sua volta, attaccata e dispersa da quella romana.

L’indomani, Pirro, all’alba, fece occupare il colle ed il bosco che il giorno prima aveva dato rifugio ai romani. Secondo Frontino, il re schierò a destra i Sanniti (con gli ipaspisti); al centro la falange epirota appoggiata dai Tarantini; a sinistra gli ausiliari Lucani, Bruzi e Messapi. I romani dovettero scontrarsi in campo aperto con gli Epiroti, ma la falange, su un terreno accidentato, non riusciva ad assicurare la compattezza indispensabile a sopraffare le legioni romane

A questo punto, il console Decio Mure, decise di tenere fede alla tradizione familiare: come il nonno nella Battaglia del Vesuvio e il padre in quella di Sentino, decise di ricorre alla devotio. Questa era una pratica religiosa dell’antica Roma secondo la quale il comandante dell’esercito romano si immolava agli Dei Mani per ottenere, in cambio della propria vita, la salvezza e la vittoria dei suoi uomini.

Il console quindi, indossò la toga praetexta, si velò il capo e pronunciò la seguente preghiera

Oh Giano, Giove, Marte padre, Quirino, Bellona, Lari, Divi Novensili, Dèi Indigeti, dèi che avete potestà su noi e i nemici, Dèi Mani, vi prego, vi supplico, vi chiedo e mi riprometto la grazia che voi accordiate propizi al popolo romano dei Quiriti potenza e vittoria, e rechiate terrore, spavento e morte ai nemici del popolo romano dei Quiriti. Così come ho espressamente dichiarato, io immolo insieme con me agli Dèi Mani e alla Terra, per la Repubblica del popolo romano dei Quiriti, per l’esercito per le legioni, per le milizie ausiliarie del popolo romano dei Quiriti, le legioni e le milizie ausiliarie dei nemici.

Poi si gettò su nemici, trovando la morte: le legioni, galvanizzate, attaccarono a fondo i nemici: gli italici, che condividevano l’universo spirituale dei romani, sbandarono davanti a tale maledizione. I falangiti, senza avere i fianchi coperti, cominciarono a cadere sotto i colpi nemici.

Dinanzi a tale caos, Pirro non si perse d’animo e tentò il tutto per tutto, facendo caricare le legioni dagli elefanti: però non aveva tenuto conto dell’altro console Publio Sulpicio Saverrione, noto genialoide, che pur non avendo nessuna intenzione di sacrificarsi ai Mani, aveva passato gli ultimi mesi a capire come neutralizzare l’arma segreta nemica.

Saverrione aveva letto, dal solito scritto greco che infiocchettava i fatti con parecchia fantasia, come gli elefanti avessero un terrore panico per i maiali: quindi aveva sequestrato tutti i suini di Roma, se li era portati dietro e appena vide gli elefanti, li scatenò.

Ovviamente, i pachidermi ignorano i poveri maiali: ma questa mossa cretina, un risultato concreto lo ebbe. Pirro, nel tentativo di capire il senso di tutto ciò, fermo le taxis, mentre i suoi alleati italici, smisero di combattere, per cercare di agguantare il più gran numero possibile di suini.

Nonostante questo fallimento, Saverrione non era uomo da perdersi d’animo: scatenò contro gli elefanti la sua grande, nuove invenzione… I famigerati carri ammazza proboscidati, degli accrocchi talmente abominevoli, che ne rimase memoria a lungo: Dionigi d’Alicarnasso, che immagino abbia avuto parecchie difficoltà a mantenersi serio, così li descrisse

Essi erano dotati o di pali trasversali, mobili, montati su travi ritte, che potevano essere fatti girare a comando nella direzione voluta e avevano alle estrimità tridenti o spuntoni a forma di spada o falci tutte di ferro, oppure di ponticelli mobili che facevano calare dall’alto pesanti corvi. A molti carri erano attaccati speciali bracci di fuoco, posti anteriormente ad essi, con stoppa imbevuta di pece che veniva incendiati dai guidatori cquando si erano avvicinati alle belve, con cui si recavano ferite alle loro proboscidi. Sui carri a quattro ruote stavano molti fanti armati alla leggera, arcieri, lanciatori di pietre e di proiettili di ferro e dietro di loro numerose altre truppe

Insomma, una cosa che faceva molto Warhammer… Ora, questi trabiccoli, a funzionare, funzionavano, però ovviamente, erano ancora più lenti degli elefanti: per cui, Pirro, dopo il primo momenti di sconcerto, ordinò alla sua fanteria leggera di supportare i suoi pachidermi, risolvendo alla radice il problema.

Ma Saverrione, dopo avere pensato un Piano A e un Piano B, non poteva certo non concepire un Piano C: tempestò gli elefanti di quantità industriale di giavellotti. Attività in cui si distinse un astato, tale Gaio Municio, che pare riuscisse anche a mozzare una proboscide a un povero elefante. Lo stesso Pirro fu ferito da un giavellotto vagante.

Risultato, mentre i poveri epiroti faticavano le sette camicie nel cercare di calmare gli elefanti impazziti dal dolore, Saverrione ordinò alle legioni di ritirarsi con tutta tranquillità, per evitare problemi ulteriori.

Ora, Ascoli Satriano, in fondo non era stata una proverbiale vittoria di Pirro. Le truppe del re dell’Epiro avevano perduto 3500 soldati, 8,75% delle forze disponibili, mentre tra i romani erano caduti 6000 uomini, il 15%.

Se dal punto di vista tattico, i romani non erano riusciti a logorare ulteriormente l’avversario, strategicamente avevano bloccato la sua avanzata sull’Urbe. Pirro non aveva ottenuto la sua battaglia di annientamento del nemico, gli italici nicchiavano dallo schierarsi apertamente al suo fianco, però, parecchi segnali, i giorni successivi, facevano pensare come si fossero riaperta la possibilità di raggiungere un compromesso con il Senato.

2 pensieri su “Pirro X

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