Le porte della Cala

Diciamola così: ho avuto un periodo complicato, sotto tanti aspetti: solo oggi sto riuscendo, con qualche ferita di troppo, ha vedere la luce. Così, finalmente, posso tornare a postare sul blog con una certa regolarità, parlando di Palermo e del suo vecchio porto, la Cala. Nel XVI secolo nelle mura che difendevano i suoi moli furono aperte una serie di porte, a uso commerciale e doganale, che prendevano nome delle merci che vi erano vendute e che, data la destinazione pratica, era caratterizzate da un’architettura alquanto semplice e spartana.

La prima di queste, partendo da Piazza Marina, era la Porta Molo Vecchio si trovava accanto alla Porta Felice, che, ovviamente, svolgeva il ruolo, ben differente di ingresso monumentale. Porta, quella del Molo Vecchio, che serviva esclusivamente per il transito delle granaglie, ma che per, la posizione, risultava assai scomoda. Per di più, dal 1581, con l’apertura della via Colonna, dedicata, come dire, allo struscio della nobilità locale, il relativo commercio fu considerato come una forma di degrado dai benpensanti dell’epoca.

Per cui, nel 1603, per risolvere entrambi i problemi fu chiusa e sostituita da una nuova porta sull’arco della Cala, detta Scaricatore di Frumento, chiusa nel 1800.

La Porta della Dogana, che delimitava lo spazio antistante la chiesa della Catena fu costruita nel 1520,per far transitare in città tutte le merci pervenute via mare, smistate nei Regi Magazzini Doganali e gravate delle regie e civiche gabelle, nella cortina denominata Mura della Lupa.

Abbellita nel 1628 dal viceré di Sicilia Francesco Fernández de la Cueva, duca di Alburquerque. Il Senato Palermitano, nella persona del pretore Antonio de Requisens, conte di Buscemi e principe di Pantelleria, decretò di chiamarla Porta Alburquerque, come recitava l’iscrizione, ma i palermitani presero l’abitudine di riferirsi a questa come Doganella, a’ Duaniedda.

Il varco era sovrastato da un’aquila marmorea recante le armi reali e due scudi raffiguranti rispettivamente le armi del Senato Palermitano e quelle del viceré. La porta era costruita con pietre d’intaglio, decorata con pilastri, cornici, fasce, architravi, mensole e fregi. Il manufatto misurava 60 palmi d’altezza per 40 di larghezza, con un vano di passaggio alto 30 palmi e largo 15.

Essa definiva lo spazio antistante la Catena rendendolo raccolto e suggestivo in un modo che oggi risulta difficile immaginare, e che era completato da una statua prima di Filippo V, poi di Filippo IV. Per esigenze di traffico la porta fu abbattuta nel 1852.

La Porta della Pescheria (o Pescaria) era la porta del mercato del pesce, realizzata nel Quattrocento e collegata da un arco alla chiesa di Santa Maria di Portosalvo. Era una piccola porta rivestita di marmo che serviva al transito del pescato, e che fu demolita nel 1596 per l’apertura della vicina Porta Carbone, mentre il mercato del pesce si spostava nella direzione del Castello a Mare, dove è ancora oggi.

Porta Carbone o della Lega, lievemente spostata rispetto al centro della Cala, fu edificata intorno al 1590 in stile rinascimentale dal Senato Palermitano. lati della porta erano decorati a bugne rettangolari, mentre superiormente non vi era né un arco, né decorazioni. La porta era alta 5,68 m per una larghezza di 4,12 m.

Nel dicembre del 1676, per paura di un attacco a Palermo, la porta fu murata. Nel 1777, su concessione del Senato Palermitano, Francesco Davì de Cordoba, proprietario delle case limitrofe, costruì un andito per collegare la porta con le sue proprietà, edificando una volta al di sopra di questa. In cambio, Davì si dovette assumere l’onere di restaurare i due fronti della porta, in stile barocco. I lavori terminarono nel 1778, per interesse del pretore Antonino La Grua, marchese di Regalmici. Anche questa fu demolita nel 1875; la sua memoria è ancora diffusa tra i palermitani, anche grazie a una famosa focacceria, dove si serve un ottimo pani ca’ meusa

Seguiva poi la Porta della Calcina, all’altezza della nostra Piazza della Fonderia, che serviva all’ingresso e alla vendita di calce e sabbia e che era un semplice fornice con arco a tutto sesto.Ancora parzialmente esistente in quanto inglobata in strutture murarie e rimaneggiata nel 1994 durante i lavori di ristrutturazione della clinica Triolo-Zancla. Esistente, secondo la testimonianza del Fazello, già nel 1590 ma non ancora nel 1560, come riporta Valerio Rosso, possiamo quindi collocare la sua costruzione nell’arco di tale trentennio. Il Mongitore ci fornisce le misure della porta:

” … fabbricata di pietra d’intaglio, alto il suo vano palmi 16, largo palmi 13 e sopra il vano fino alla volta dell’arco v’era uno spazio murato alto palmi 4″.

L’ultima notizia del suo utilizzo risale al 4 maggio del 1684, attraverso la quale uscì la bellissima statua in bronzo raffigurante Carlo II per essere trasferita a Messina. Dopodiché il varco fu murato per sempre.

L’ultima porta della Cala, verso il Castello a Mare, era la Porta di Piè di Grotta. Forse era nata anch’essa per scopi commerciali, ma il suo nome deriva da una delle tante chiese palermitane.

Il 30 Maggio 1564, alcuni ragazzi notarono che dentro una grotta della zona, usata dai pescatori per ripararsi dalle intemperie e per riporre i loro attrezzi, un dipinto su lastra d’ardesia, rappresentante Maria Addolorata con il Cristo deposto dalla Croce, donato da Alfonso Ruiz, all’epoca protonotaro del regno aveva cominciato lacrimare.

Probabilmente, era solo una questione legata al trasudare dell’umidità: tuttavia verificandosi delle guarigioni improvvise, i pescatori dell’area cominciarono a gridare al miracolo e a recarsi in pellegrinaggio alla grotta.

Subito dopo fu fondata la confraternita “Della gente di mare” sotto il titolo di S. Maria di Piedigrotta che commissionò all’architetto Baldassare Massa la decorazione marmorea dell’ingresso della grotta su cui era incisa la seguente iscrizione:

“Tertio kalendas aprilis ante diem Parascevae 1564 initium fuit signorum, quae fecit hoc in antro Beata Virgo“.

Visto che cominciarono a fioccare le elemosine e le donazioni, fu deciso di costruire una chiesa, dedicata alla Madonnda di Piedigrotta, che diede il nome alla Porta.

Chiesa che, come racconta l’architeto Spatrisano,

aveva il fronte rivolto ad occidente ed era costituita da un unico ambiente con cappelle parietali sistemate lungo le pareti longitudinali: un campaniletto a pianta quadrata era addossato al fianco settentrionale, in gran parte interrato

All’interno, l’abside era caratterizzato da pilastri e da archi con decorazioni a stucco e da bassorilievi dorati che incorniciavano un’ immagine della Natività di Maria Vergine. Ai lati di questa cappella maggiore vi erano delle sedie corali perché in questa chiesa, quando fu costruita, otto sacerdoti celebravano le funzioni religiose. Al centro di essa vi era l’altare maggiore in marmo ed ornato da pietre colorate e da diversi fregi e bassorilievi dorati

Nella parte destra della chiesa vi erano quattro cappelle: la prima, vicina all’altare maggiore, era consacrata a S. Leonardo; la seconda era dedicata alla Madonna della Pietà detta di Piedigrotta, la terza all’Immacolata Concezione della Vergine e la quarta a Sant’Erasmo.La cappella dedicata alla Madonna della Pietà è così descritta da Mongitore:

è ella sfondata a volte, edificata dopo li miracoli operati a intercessione della Vergine.

Sopra l’altare v’ha l’Immagine e tutta freggiata la cappella di vari ornamenti d’argento ricchi insieme, e vaghi, che la rendono splendida e venerabile. Pendono ivi molte votive tabelle, che fan piena fede delle grazie a larga copia dispensate dalla Vergine. A lato dell’ altar dalla parte del Vangelo v’ha la Grotta, ove è la miracolosa immagine della Vergine, convertita in divota cappelletta. Entro questa cappelletta si vede dipinto S. Placido e compagni

Sempre sul fianco destro vi era una cappella intitolata all’Immacolata Concezione della Vergine, edificata dal Senato palermitano in memoria di una tragedia avvenuta il 15 Dicembre 1590, quando sbarcò alla Cala il vicerè Diego Enriquez de Gusman conte di Albadelista, che proveniva da Messina. Tutte le autorità cittadine si trovavano sul posto per salutarlo. Il pontile di legno che univa la nave alla terraferma crollò e centinaia di persone caddero in mare. A stento si salvò l’Arcivescovo di Palermo don Diego de Aedo quando già stava per annegare. Molti morirono perché fatti annegare da delinquenti senza scrupoli allo scopo di derubarli.

Matteo Donia scrisse che perirono circa 150 fanciulli e popolani e 105 nobili, Ministri e cavalieri. Il viceré in segno di ringraziamento alla Madonna per lo scampato pericolo e per ricordare il tragico evento, affido al pittore palermitano Giuseppe Alvino detto il “Sozzo”, l’incarico di raffigurare in un quadro ad olio il “ Miracolo della sua salvezza” che naturalmente egli attribuiva alla Vergine. L’Alvino dipinse l’immagine dell’Immacolata in atto di calpestare il serpente, con angeli intorno e nella parte inferiore raffigurò la scena del crollo del ponte di Piedigrotta.

Al suo interno la chiesa conservava anche un fanalone di galea donato nel 1613 da don Ottavio d’Aragona, generale delle galee di Sicilia, in memoria delle grazie ricevute dalla gloriosa Vergine per essersi salvato da una violenta burrasca dove rischiò il naufragio, e per la vittoria riportata contro una squadra navale Turca che gli permise di liberare 1300 cristiani.

La chiesa purtroppo fu gravemente danneggiate dalle bombe anglo americane il 22 marzo del 1943 e demolita nel giugno 1944: paradossalmente si salvò solo la grotta che aveva dato origine a tutto, che ancora esiste.

Si trova infatti dentro il mercato ittico, pochi metri al di sotto dell’attuale piano di calpestio e vi si accede grazie a una botola

Chevreul: il Trionfo della Ragion Pratica

Nonostante l’energia con cui Goethe difese le sue tesi sui colori, queste furono derise dai suoi contemporanei: anche perché uno scienziato britannico, Thomas Young, aveva da tempo ipotizzato che le discrepanze fra il colore percepito e lo spettro cromatico posto in evidenza da Newton risiedeva esclusivamente nella fisiologia dell’occhio umano. Le cose cambiarono grazie al chimico francese Eugène Chevreul, direttore delle tinture presso l’arazzeria Gobelins, che non riusciva a venire a capo di un problema pratico: benché si impegnasse a fondo nel realizzare al meglio i pigmenti necessari a colorare le stoffe, i risultati erano sempre inadeguati.

Per caso, a Eugène capitò tra le mani il libro di Goethe sui colori: leggendolo, il francese ebbe un’intuizione: il fallimento di un colore nel mostrare il suo effetto non era dovuto alla sua purezza o a difetti di fabbricazione, ma all’influenza delle tinte adiacenti con cui era abbinato. Di conseguenza, il grande poeta tedesco non poteva che avere ragione: ogni tinta influenzava quella vicina nella direzione del complementare del suo colore. Così, nel saggio De la loi du contraste simultané des couleurs et de l’assortiment des objects colorés del 1839, Eugène, oltre a evidenziare questi concetti, inventò dal nulla una terminologia che ancora oggi usiamo, per descrivere le relazioni tra i colori: tons per i valori tonali in una scala dal bianco al nero, gamme per la scala tonale stessa, nuances per le modificazioni di una tinta mescolata con un’altra, couleurs franches per i pigmenti puri e saturi, coulers rebattues o rompus per i colori impastati con il nero o grigio. Il lavoro di Eugène, oltre a influenzare la Storia dell’Arte, ispirando la pittura di Seurat, ha avuto un impatto dirompente sulla società moderna, che è andato ben oltre il tingere vestiti o il make-up: i televisori a colori, i monitor dei portatili o degli smartphone, le videocamere digitali, sono tra le tante applicazioni concrete delle sue riflessioni in ambito della colorimetria.

Questo, cosa che avrà fatto rigirare Goethe nella tomba, grazie a un altro grande scienziato, James Clerk Maxwell, l’uomo che scoprì le equazioni dell’elettromagnetismo, da cui Einstein partì per la definizione della sua Teoria della Relatività ristretta. Maxwell provò a ridurre all’essenziale i ragionamenti di Chevreul e di Goethe, ponendosi una domanda molto semplice: qual è l’insieme di colori minimi che associati tra loro generano tutti gli effetti ottici e le relative sensazioni psicologiche?

Così nel 1861 fece fotografare da Thomas Sutton tre volte un tartan scozzese mettendo sopra l’obiettivo tre filtri di diverso colore: blu, rosso e verde. Le tre immagini furono poi sviluppate e proiettate su uno schermo con tre proiettori differenti. Una volta messe a fuoco sullo stesso punto ne scaturì l’immagine a colori, la prima nella storia. Per cui, dedusse Maxwell, qualsiasi tinta poteva essere riprodotta, combinando, secondo diverse proporzioni, puntini di blu, rosse e verde: come risultato, riuscì a definire le equazioni che permetto di descrivere in termini matematici qualunque colore.

Goethe e i colori

In questi giorni, a causa di un complicato periodo lavorativo, ho postato assai poco: provo a riprendere, affrontando un tema molto particolare, il rapporto tra make-up, arte e teoria dei colori. Un legame peculiare e poco noto, il cui padre nobile è un nome che lascia molti di stucco: si tratta, udite, udite, di Johann Wolfgang von Goethe, l’autore de I dolori del giovane Werther, del Faust e delle Elegie Romane. Goethe è l’incarnazione vivente del verso di Terenzio

Homo sum, humani nihil a me alienum puto

ossia

Sono un uomo e nulla di ciò che è umano mi è estraneo

Era infatti animato da una curiosità insaziabile, dal desiderio di conoscere ogni cosa e di dedicarsi a tutte le arti: oltre che poeta, fu pittore, filosofo e appassionato di scienze naturali, dove, ahimè, diede il peggio di sé. Perché, per essere buoni scienziati, l’entusiasmo e la dedizione non sono sufficienti: servono rigore, logica ferrea, analisi matematica e metodo. Tutte cose di cui Goethe difettava alquanto. Nonostante questo, più per puntiglio che per vera necessità, provo a dire la sua sulla botanica, sulla mineralogia, sulla fisica e soprattutto sull’ottica. La sua bestia nera era il buon Newton, ma non quello reale, ma l’icona che era stata costruita dagli Illuministi.

Il Newton in carne e ossa, con tutte le sue stranezze, era molto simile a Goethe: un uomo coltissimo, curioso di ogni cosa, appassionato di magia e di alchimia, che considerava il suo più grande successo non la scoperta della legge di gravitazione universale o il calcolo infinitesimale, ma la previsione esatta della data dell’Apocalisse, che secondo lui dovrebbe avvenire nel 2060.

Se ci pensate bene, il concetto di “azione a distanza”, su cui è basata la teoria classica della gravità o quella del magnetismo, elaborata da Gilbert, è presa pari pari dal De Magia di Giordano Bruno e da altri testi dell’esoterismo rinascimentale: Aristotele l’avrebbe derisa come superstiziosa e non scientifica.

Ma il Newton che conosceva Goethe, costruito ad arte nel Settecento, era il padre spirituale di Laplace: l’uomo che sosteneva che l’Universo non fosse nulla più che un meccanismo, che funzionava secondo regole immutabile, in cui ogni cosa, dal sasso all’Uomo, non era nulla più che un misero ingranaggio. Ciò strideva alla sensibilità di Goethe: per lui l’Universo, nelle sue molteplici manifestazioni, era l’Epifania di principi superiori, il concretizzarsi dell’Assoluto nel Tempo. Come Fichte o Schelling, amava ripetere

Tutte le cose che percepiamo e di cui parliamo sono solo manifestazioni dell’idea.

Se tutto è discende da un unico principio, allora non esistono, nel Reale, contrapposizioni rigide, ma un progressivo, continuo sfumare tra entità differenti. Concetto che si riflette nella peculiare concezione dei colori. Newton, con i suoi studi sul prisma, aveva ipotizzato come luce fosse costituita da un flusso di particelle leggerissime di diverso colore: se queste venivano mescolate secondo una giusta proporzione, saltava fuori il bianco

Goethe, durante il suo viaggio in Italia, per capriccio, provò a replicare gli esperimenti di Newton sulla luce: si accorse così come una semplice parete bianca, da sola, non fosse sufficiente a produrre la scomposizione dei colori attraverso il prisma. Solo tracciandovi sopra una striscia nera, nel prisma diventavano visibili i colori dell’iride lungo i suoi bordi.

Per cui trasse due conclusioni, che sviscerò nel suo libro La Teoria dei Colori: una sbagliata, ossia come il Colore nascesse dall’interazione della luce con le tenebre. L’altra, che invece sarà gravida di conseguenza in futuro, è che la percezione del Colore non fosse assoluta, ma dipendesse dal contesto e dalla condizione psicologica dell’osservatore.

I sepolcri di Cercennii e dei Calventii.

All’inizio della Via Appia Pignatelli, all’interno di una proprietà privata si trovano due mausolei, attribuiti alle famiglie dei Cercennii e dei Calventii.

Il primo è costituito da un vano a pianta quadrata, 7,56 x 7,8 m, con nicchioni alle pareti, realizzato in mattoni con un ampio ingresso sul lato sud, decorato secondo gli studi di Pirro Logorio, con quattro paraste e quattro nicchie sui tre lati: la copertura era probabilmente a crociera, come farebbero ipotizzare le quattro colonne situate agli angoli della stanza, sempre secondo la testimonianza di Pirro. Queste furono asportate dal proprietario della vigna Diaolella e distrutte nella calcara.

La decorazione in opus sectile della parte inferiore delle pareti e in mosaico negli intradossi delle volte nelle nicchie appare il frutto di una ristrutturazione dell’edificio, in cui furono tamponate le finestre tamponate le finestre strombate in origine aperte sulle pareti.

Tutti questi elementi fanno datare la costruzione tra il IV e V secolo. Probabilmente in origine fu costruito come un mausoleo, che Pirro Ligorio attribuì, per un’iscrizione alla famiglia dei Cercennii, e probabilmente, data la vicinanza alla catacomba di Pretestato, fu trasformato in un oratorio cristiano dedicato a San Zenone, attestato dalle fonti medievali, adiacente a un cenobio, i cui resti furono rappresentati in una pianta di Fra’ Giocondo.

Il secondo è un edificio a pianta circolare, di cui, grazie a uno sproposito di disegni, realizzati Fra’ Giocondo, Peruzzi, Pirro Ligorio e Canina, abbiamo un’idea molto chiara dell’aspetto originale: si trattava di una struttura circolare, con l’aggiunta, lungo la circonferenza di sei ampie nicchie. A sud si apre una porta, proceduta da un vestibolo rettangolo. In alzato, all’esaconco inferiore, che raggiunge il diametro di 17 metri, era sovrapposto un tamburo sovrastato da una cupola.

L’essere realizzato da mattoni di spoglio e letti di malta piuttosto alti e la pianta peculiare, fa assegnare il monumento all’età tardo antico, quindi contemporaneo a quello dei Cercennii, il che invalida l’attribuzione ai Calventii, famiglia della prima età imperiale, ipotizzato da Pirro Ligorio, a causa di un’iscrizione, poi rivelatasi falsa, trovata in zona.

Sicuramente l’edificio era un Mausoleo di una ricca famiglia cristiana, collegato alle vicine catacombe di Pretestato, adiacente probabilmente a un’antica basilica, almeno a giudicare da una pianta sempre di Fra’ Giocondo.

Le facciate principali dei due monumenti si affacciano l’attuale Via Appia Pignatelli, che sembra ricalcare il tracciato di un antico diverticolo della Via Appia Antica. Entrambi non sono fruibili al grande pubblico, per una complessa situazione tipicamente italiana, dato che nel 1961, i proprietari del terreno dei due mausolei presentarono alla Soprintendenza ai Monumenti del Lazio un Progetto di massima con la Proposta per la sistemazione della zona archeologica e la costruzione di quattro ville. La Soprintendenza ritenne che il progetto soddisfasse le esigenze paesistiche della località, ma la documentazione pervenuta nella richiesta di concessione in sanatoria non legittimò la validità degli atti perché privi di tutti i timbri e protocolli necessari per l’identificazione ufficiale degli stessi.

Nel 1965 la Variante al P.R.G. di Roma vincolò a Parco Pubblico il comprensorio della Via Appia e in opposizione a tale provvedimento i proprietari dell’area, nel 1966, ricorsero al Consiglio di Stato contro il Ministero dei Lavori Pubblici e tutte le istituzioni preposte.

Nonostante le norme prescrittive di inedificabilità, i proprietari custruirono nel 1970 partendo da un progetto degli anni ‘60 dell’architetto di piazza Augusto Imperatore, Ballio Vittorio Morpurgo. Il 2 febbraio 1972 arrivò il provvedimento di demolizione emesso dal Comune di Roma e il 19 maggio 1973 l’esposto alla Procura della Repubblica. Passarono 14 anni, è il 1986, ed ecco che arriva da parte dei proprietari la richiesta di condono edilizio. Domanda rifiutata nel 2003. E parte, nel 2012, il ricorso al Tar per i tre villini, ma notificato, per un errore spesso riscontrato in questi casi, alla Soprintendenza del Lazio, non a quella di Roma, con relativi, ulteriori ritardi nel procedimento.

E ancora oggi non se vede fine..

Pirro Ligorio e San Pietro

Da lungo tempo gli storici dell’architettura, e non solo, continuano a chiedersi con che forme e per mezzo di quali soluzioni architettoniche Michelangelo avrebbe concluso la Basilica Vaticana, se la sua vita fosse stata ancor più lunga da permettergli di farlo. A chi non si occupi attivamente della storia dell’edificio tale domanda potrà sembrare a prima vista un’oziosa ricerca destinata a costruire ipotesi impossibili da verificare.

Eppure, dopo la morte di Michelangelo, per i contemporanei tale interrogativo era generato dall’esigenza concreta di poter continuare a costruire speditamente secondo i suoi progetti. Restavano allora certamente grandi interrogativi aperti, come la definizione della curvatura da assegnare alla sezione della cupola e il disegno della nuova facciata, in evidente contrasto con i resti della navata costantiniana.

Il primo ad affrontare questi problemi fu il diretto successore di Michelangelo alla direzione del cantiere Vaticano, Pirro Ligorio, noto a più per Villa d’Este a Tivoli. Pirro, pochi lo sanno, era nobile di famiglia, nacque a Napoli probabilmente nel 1512; stranamente, invece che dedicarsi alle attività tipiche dei nobili dell’epoca, il mestiere delle armi o il cortigiano, si appassionò alla pittura, tanto che, nel 1534, dove si dedicò, per usare un termine moderno alla street art. Altra cosa che molti infatti ignorano, specie tra i presunti grandi artisti esquilini, è che la facciate dei palazzi romani in pieno Rinascimento, non fossero scialbe, ma ricche di fantasiosi affreschi a monocromo, che non anno nulla da invidiare ai nostri attuali murales.

Secondo la testimonianza del Baglione, Pirro decorò numerosi palazzi tra via del Corso e Campo Marzio, “la facciata incontro alle Convertite” e “un’altra dal canto dell’istesse Convertite[…] Sono di sua mano l’opere delle facciate in Campo Marzo[…] Un’altra à piè della salita di S. Silvestro di monte Cavallo”. Il biografo prosegue poi ricordando il palazzo Caetani all’Orso, vicino piazza Fiammetta.

Il successo ottenuto lo portò a partecipare assieme a Jacopino del Conte, Francesco Salviati a uno de principali cicli pittorici del Manierismo romano, la vita del Battista nell’Oratorio di San Giovanni Decollato: Pirro dipinse due affreschi, la Danza di Salomè e la Decollazione del Battista, dal gusto enfatico e dall’architettura che ricorda una quinta teatrale, con la sperimentazione prospettica e le citazioni dell’Antico. Nonostante questi effetti speciali, molto lodati dai contemporanei, gli affreschi sfigurano dinanzi l’onirica Deposizione della Croce di Jacopino del Conte.

Ora, se una cosa non mancava nella Roma dell’epoca, erano i pittori: dinanzi alla spietata concorrenza, come vedremo poi, Pirro era troppo signore per pugnalare alla schiena il prossimo, decise di mutare pelle, trasformandosi in archeologo. Ora, per gli standard dell’epoca, Pirro era di una modernità sconcertante: applicò un abbozzo di metodo stratigrafico e di centuriazione, per tenere traccia nei suoi appunti del luogo esatto del ritrovamento dei reperti, si interessò, oltre che ai capolavori, anche alle testimonianze della vita materiale e nelle ricostruzioni, si impegnò nel confronto delle fonti. Non solo, come gli umanisti dell’epoca, si rapportò con le fonti classiche, ma le confrontò con le rovine e con le testimonianze numismatiche.

Lavoro che lo portò al servizio del cardinale Ippolito d’Este e alla stesura della sua opera opera Delle antichità di Roma, composta da 10 volumi manoscritti, una sorta di enciclopedia archeologica in cui vengono riportati monumenti antichi, epigrafi, vite di uomini illustri, monete, che diede a Pirro una fama straordinaria, tanto da entrare al servizio di papa Pio IV.

Il suo primo incarico fu il casino privato del papa, nei giardini vaticani, ispirati a palazzo Dell’Aquila di Raffaello, con la sua ricca decorazione della facciata. Il casino è composta da due distinti edifici che occupano le estremità dell’asse maggiore di un piazzale ellittico cui si accede attraverso due portali ad arco, ed ha la facciata riccamente decorata da rilievi in stucco e sculture, che ispireranno quella di Palazzo Spada.

Da quel momento in poi, oltre a dedicarsi alle fontane di Villa d’Este, lavorò alla facciata di Palazzo Borromeo, al transetto nord di San Giovanni in Laterano, al Palazzo della Sapienza, di cui progettò il cortile e iniziò la sistemazione del Cortile del Belvedere nel quale spicca il Nicchione detto “della Pigna” da lui progettato

E sempre la protezione papale lo portò nel luglio 1564, a cinque mesi dalla morte di Michelangelo, a prendere il suo posto nella prestigiosa carica di architetto della Fabbrica di S. Pietro, il Vignola fu eletto secondo architetto. Nomina che portò a sproposito di polemiche: Pirro fu accusato di essere un grande teorico, ma un mediocre pratico.

A peggiorare la sua posizione, vi era anche i suoi pessimi rapporti con Michelangelo, per cui Pirro provava dei sentimenti contradditori. Difatti, se da un lato lo ammirava e imitava, dall’altro scriverà nel Libro su’i circhi:

«A quelli anchora pare cosa degna di laude quando nell’architettura hanno fatti molti frontispitij l’uno dentro l’altro, chi rotto e chi intero, et metteno tali interrompimenti nelli templi di dio, sulle case private, et ne’ gran palazzi, le quale cose gli antichi usarono nelli sepulchri, sforzandosi tutti a produrre tale sciocchezze, et hanno oltre a questo per variare insino ai membri delle cornici delle corone, degli epistylij di quegli edificij che hanno curati. Li contorni li hanno fatti traspiombare et cadere fuori del perpendicolare infuori, cosa contra la natura delle quadrature et delle discissione delle cose che si fanno ferme stabili.».

Antipatia che lo rese vittima dell’ostracismo da parte di Vasari, che per ripicca non gli dedicò una biografia e che portò Della Porta ad accusarlo di accusa di “falsare del piombo” e di essere uno “sculturetto da cocuzze”

Per prima cosa, Pirro dovette affrontare l’ordinaria amministrazione, completando buona parte del braccio nord del transetto, continuando l’impostazione della cupola e lavorando alla cappella di nordest, nota come cappella gregoriana.

Poi incominciò a introdurre delle variazioni rispetto a quanto previsto da Michelangelo: con l’aiuto del Vignola, modificò l’aspetto delle cupole minori, accentuandone lo slancio verticale, il che fa pensare che come Sangallo avesse intuito la questione della forma catenaria, e modificò il progetto dell’attico.

Infine decise di affrontare due problemi cruciali: il primo cosa fare dei resti dell’antica basilica costantiniana. Ora, Pirro propose di buttarli giù e riprendendo l’idea di tutti i progetti antecedenti a Michelangelo, di costruire al suo posto una grande navata. Insomma, quello che farà Maderno. Il secondo, cercare di sanare il complesso sistemi di tangenti, corruzione e preventivi gonfiati che aveva messo in piedi il suo precedessore, cosa che lo portò a uno scontro con quella che potremma chiamare ironicamente “setta michelangiolesca”, l’insieme di capomastri, fornitori e appaltatori che si riempivano le tasche con quella gestione.

Pirro, purtroppo per lui, non aveva né il carattere, né il carisma, nè la propensione all’intrigo di Michelangelo: per cui, a causa di una calunnia di Della Porta, che l’accusò di aver rubato delle antichità presenti nelle fabbriche da lui presiedute e di avere frodato la Camera Apostolica,fu imprigionato nel carcere di Tor di Nona per 22 giorni.

Benché fosse prosciolto dalle accuse, Pirro fu licenziato dal cantiere di San Pietro ed ebbe due contentini: la direzione del cantiere del Palazzo della Minerva, la sede dell’Inquisizione e la tomba di Paolo IV in Santa Maria sopra Minerva, che portò alla distruzione dell’affresco di Filippino Lippi il Trionfo delle Virtù sui Vizi: tomba che, per l’effetto policromo determinato dall’uso di marmi diversi, verde antico, pietrasanta e broccatello, anticipa il gusto barocco, raggiungendo una grandiosità che la fece apprezzare anche da Vasari il quale, senza fare ovviamente il nome di Pirro, la definì “maravigliosa”.

Tuttavia, amareggiato, Pirro si trasferì a Ferrara, dove tra le tante cose, a causa dei terremoti che colpirono la città tra il 1570 e il 1574, elaborò le prime teorie di architettura antisismica. Nel frattempo Vignola, vista l’esperienza del collega, decise di non toccare nulla né del progetto michelangiolesco, né del malaffare che aveva generato..

Ibn Battuta, viaggiatore

Ibn Battuta, arabo marocchino, è uno dei più grandi viaggiatori della Storia: in quasi trent’anni, dal 1325 al 1354, girò per mezzo mondo, dal Nord Africa fino in Cina, percorrendo il sudest europeo, il Medio Oriente, il centro e il sudest asiatico, la Russia, l’India, il Kurdistan, il Madagascar, Zanzibar, Ceylon o, in Occidente, i regni di Aragona e Granada e del Mali, che avrebbe visitato in viaggi successivi. In totale percorse più di 120.000 kilometri.

Iniziò le sue peregrinazioni nel 1325, a ventuno anni, partendo dalla sua città natale e dirigendosi in pellegrinaggio alla Mecca. Così racconta la sua decisione

Partii solo, senza un amico che mi allietasse con la sua compagnia e senza far parte di una carovana, ma ero spinto da uno spirito risoluto e sottacevo in cuore lo struggente desiderio di visitare quei Nobili Santuari. Così mi decisi ad abbandonare coloro che – donne e uomini – amavo e lasciai il mio paese siccome un uccello s’invola dal nido. I miei genitori erano ancora in vita e soffrii molto a separarmene: sia io che loro ne provammo una gran pena.

Quando iniziò a viaggiare le navi aragonesi, veneziane e genovesi controllavano il Mediterraneo, ma durante i suoi andirivieni calpestò suolo cristiano solo in Sardegna, che apparteneva alla Corona di Aragona, e a Costantinopoli, la capitale dell’Impero bizantino.

La sosta sull’isola non fu delle migliori: Ibn Battuta comincia la sua descrizione parlando

Un’isola cristiana dotata di un porto straordinario, tutto circondato da grandi travi in legno e con un’entrata simile a una porta che viene aperta solo quando se ne dà il permesso

il che fa pensare che la nave aragonese su cui si era imbarcato avesse attraccato a Cagliari, cosa che è confermata da un altro dettaglio

Sull’isola sorgevano diverse fortezze ed entrati in una di queste vedemmo che ospitava diversi mercati

Ma a questo punto della descrizione, Ibn Battuta, rivela la sua preoccupazione, dato che la Sardegna Aragonese era uno principali mercati mediterranei degli schiavi di origine musulmana e di certo, il viaggiatore non voleva finire in catene

Io feci voto all’Altissimo che avrei digiunato per due mesi consecutivi se ci avesse fatti ripartire sani e salvi, perché avevamo saputo che gli abitanti dell’isola avevano intenzione di inseguirci non appena fossimo usciti, per farci prigionieri. Comunque ne venimmo fuori vivi e dopo dieci giorni giungemmo a Tanas.

Ben diversa è la descrizione di Costantinopoli

Costantinopoli, di una grandezza sterminata, è divisa in due parti fra le quali scorre un maestoso fiume, l’Absumi, dove la marea si fa sentire, come succede con il fiume di Salè, in Marocco. Un tempo c’era un ponte in muratura, ma poi è andato distrutto e ora il fiume si attraversa solo in barca. Una delle due parti della città, Istanbul (Astanbul), sorge sulla sponda orientale del fiume e ospita le residenze del sovrano, dei grandi dignitari e del resto della gente. Strade e mercati, ampi e lastricati in pietra, comprendono quartieri separati per ogni gilda e sono muniti di porte che la notte vengono tenute chiuse – artigiani e venditori, fra l’altro, sono quasi tutte donne. Questa parte della città, con al centro la basilica, si trova a piè di un monte che si protende nel mare per circa nove miglia ed è largo altrettanto se non di più: in cima vi hanno sede una piccola roccaforte e il palazzo del sovrano, e intorno scorrono le mura, ben fortificate e inaccessibili a chiunque dalla parte del mare, che racchiudono all’interno circa tredici borghi abitati

Quanto alla seconda parte della città, Galata (al-Ghalata), sorge sulla riva occidentale del fiume, tanto vicina al corso d’acqua quanto lo è Rabat al suo fiume (il Bou Regreg), ed è riservata alle abitazioni dei cristiani d’Occidente, che di svariata provenienza – genovesi, veneziani, romani e franchi – sono tutti sotto la giurisdizione del sovrano di Costantinopoli. Questi nomina suo luogotenente uno di loro che sia gradito agli altri – il cosiddetto qumis – e impone loro un tributo annuale, ma a volte capita che gli si rivoltino contro e allora il sovrano li combatte finché il Papa non interviene a ristabilire la pace. Lavorano tutti nel commercio e hanno un porto fra i più grandi al mondo: vi ho personalmente visto un centinaio di navi simili alle galere e altre di pari grandezza, oltre a un numero incalcolabile di barche più piccole. Quanto ai mercati, sono belli ma pieni di immondizie e attraversati da un rigagnolo d’acqua sporca lurida – anche le chiese, del resto, a Galata sono sporche e non hanno nulla d’interessante

Lo colpì invece molto Santa Sofia

Descriverò solo l’esterno, perché dentro non l’ho vista. La chiamano Aya Sufiya e dicono sia stata costruita da Asaf ibn Barakhya, figlio della zia materna di Salomone. Fornita di tredici porte e circondata da mura come una città, è una delle più grandi chiese bizantine e comprende un sacrato lungo circa un miglio, con un enorme portone che tutti possono varcare – e infatti anch’io ci sono entrato insieme al padre del sovrano, di cui parlerò oltre. Questo sacrato, dunque, sembra una sala delle udienze: lastricato in marmo, è attraversato da un rivo d’acqua che, uscendo dalla chiesa, scorre fra due argini alti circa un cubito, di marmo venato e tagliato in modo splendido. Sulle sponde del rivo crescono alberi ben allineati l’uno all’altro e dalla porta della cinta a quella della chiesa si stende un alto pergolato in legno su cui si abbarbicano le viti, mentre in basso crescono gelsomini e piante aromatiche. Fuori dalla porta della cinta, invece, sorge un grande padiglione con delle tavole anch’esse in legno su cui stan seduti gli addetti alla porta, e a destra del padiglione si trovano panche e gabbiotti, per lo più sempre in legno, dove stanno seduti i qadi e gli scribi della cancelleria. In mezzo ai gabbiotti si erge poi un altro padiglione ligneo a cui si accede per mezzo di una scaletta in legno: vi è sito un grande scanno rivestito da un drappo su cui si siede il loro (gran) qadi, ma di costui parleremo oltre. Il rivo di cui sopra, infine, si biforca in due rami: uno attraversa, a sinistra del primo padiglione, il mercato degli speziali, mentre l’altro passa colà ove stanno i qadi e gli scribi.

Quanto agli inservienti, occupano una serie di portici all’entrata della chiesa e, oltre a spazzare il pavimento, accendere le lampade e chiudere le porte, devono lasciare entrare solo chi si prosterna davanti a un’enorme croce ritenuta la reliquia di quella su cui fu crocifisso il sosia di Gesù. Questa croce, custodita in una teca d’oro lunga una decina di cubiti con sopra un’altra identica, sistemata di traverso, è posta sulla porta che, ricoperta di lamine d’argento e d’oro, è munita di due picchiotti d’oro puro. A quanto mi hanno detto, questa chiesa ospita diverse migliaia di monaci e di preti – fra cui alcuni discendenti degli Apostoli – e racchiude al suo interno un’altra chiesa riservata alle donne, abitata da oltre mille vergini consacrate al servizio di Dio – e ben più numerose donne non più giovanissime.

Il sovrano, i grandi dignitari del regno e il resto della gente vengono a visitare questa chiesa ogni mattina, e il Papa ci viene una volta all’anno: quando è a quattro giorni di cammino dalla città il re gli va incontro, smonta da cavallo in segno di rispetto ed entra a Costantinopoli precedendolo a piedi – poi, fintanto che il Papa resta in città, cioè fino a quando parte, va a rendergli omaggio tutti i giorni al mattino e alla sera

Altrettanto interessante è la descrizione che da del palazzo imperiale delle Blacherne

Il sovrano di Costantinopoli, Takfur, è figlio del sovrano Jirjis (Giorgio), che pur essendo in vita ha rinunziato al mondo e si è fatto monaco, consacrandosi ad adorare Dio nelle chiese e lasciando il regno al figlio – ma di lui riparleremo in seguito.

Eravamo arrivati a Costantinopoli da quattro giorni quando la khatun mi mandò l’eunuco Sunbul al-Hindi, che mi prese per mano e m’introdusse a palazzo. Varcammo quattro porte, tutte provviste di portici con uomini in armi e una pedana ricoperta da tappeti per il loro comandante, e arrivati davanti alla quinta l’eunuco mi lasciò ed entrò solo, tornando poi con quattro eunuchi bizantini. Questi mi perquisirono per assicurarsi che non avessi addosso dei coltelli: a quanto mi disse l’ufficiale, era la loro procedura, in base alla quale chiunque entra al cospetto del sovrano – sia nobile o del volgo, straniero oppure no – viene perquisito, proprio come fanno in India. Dopo la perquisizione l’addetto alla porta, presomi per mano, aprì i battenti e mi ritrovai circondato da quattro uomini: due mi presero per le maniche, gli altri due si misero dietro, e insieme a loro entrai quindi in una grande sala delle udienze. I muri erano rivestiti di mosaici che rappresentavano vari aspetti del creato – esseri viventi e altri inanimati -, e al centro del locale scorreva un rivo d’acqua con alberi su entrambi i lati. A destra e a sinistra c’erano degli uomini che stavano ritti in piedi senza proferir parola e i quattro che mi scortavano mi consegnarono ad altri tre al centro della sala. Questi mi presero per le vesti come avevano fatto i primi, poi qualcuno fece un cenno e mi condussero oltre. Uno di loro era ebreo e mi disse in arabo: << Non temere: fanno sempre così con gli stranieri! Io sono l’interprete e vengo dalla Siria >>. Allora gli chiesi come dovevo salutare. << Dì: al-Salam alay-kum! >>, mi rispose.

Giunsi così a un imponente padiglione ove vidi il sovrano assiso in trono, con davanti la moglie, la madre della khatun, e quest’ultima ai suoi piedi insieme ai suoi fratelli. Alla sua destra c’erano sei uomini, alla sua sinistra quattro, e altri sei gli stavano alle spalle – e tutti erano armati. Prima che mi avvicinassi a salutarlo, il sovrano mi fece segno di sedermi un attimo per placare il mio timore: io obbedii, poi mi avvicinai e gli porsi i miei omaggi. Egli fece nuovamente segno di sedermi – la qual cosa, questa volta, io non feci – e quindi mi pose una serie di domande su Gerusalemme, la Roccia santa, la Qumama (chiesa del Santo Sepolcro), la culla di Gesù, Betlemme ed Hebron, e poi ancora su Damasco, Il Cairo, l’Iraq e l’Anatolia.

Con l’aiuto dell’ebreo che ci faceva da interprete risposi a tutto quanto e le mie parole gli piacquero a tal punto che disse ai suoi figli: << Trattate quest’uomo con riguardo e proteggetelo! >>.

Poi mi regalò una veste d’onore e ordinò di darmi un cavallo con sella e briglie e un parasole di quelli che usano per riparare la testa dei re in segno della sua protezione (aman). Allora gli chiesi di mandarmi anche qualcuno che venisse ogni giorno con me a cavallo per la città, onde poter ammirare stranezze e meraviglie di cui poter parlare nel mio paese, ed egli acconsentì.

Qui vige l’usanza che se qualcuno indossa una veste d’onore del sovrano e monta un suo cavallo, venga portato a fare il giro della città a suon di corni, trombe e tamburi, in modo che tutti lo vedano – serve soprattutto perché non vengano importunati i Turchi del sultano Ozbek -. Sicché anch’io vi fui condotto”.

Leggendo le descrizioni di Ibn Battuta emergono due sentimenti contrastanti: l’incanto, il fondersi di smarrimento e sorpresa che nasce dall’incontrare un altrove sconosciuto e straniamento, perchè siamo costretti a guardare con altri occhi ciò che diamo per scontato.

La percezione che ha Ibn Battuta di Santa Sofia è ben diversa non solo dalla nostra, ma anche da quella che aveva un abitante di Costantinopoli della sua epoca. La sfida dell’alterità, anche nel nostro quotidiano lavorativo è capire la vision di chi abbiamo accanto, figlia della sua storia personale, della sua cultura e dei pregiudizi. Per questo, per collaborare al meglio, dobbiamo sempre tenere in mente che ciò consideriamo banale, scontato e consolidato, può non esserlo per l’altro

Il Parco Sottomarino di Baia (Parte I)

Come accennato altre volte, si può fare la battuta che a Baia ci sono più cose da vedere sotto l’acquae che sulla terra. Tutto è ovviamente effetto del bradisismo, che ha portato la la di costa di età romana ad una profondità di 10 m sotto il livello del mare. Tale movimento tellurico, estremamente veloce, per gli standard geologici, è dovuto alle variazioni di volume di una camera magmatica vicina alla superficie che si svuota e si riempie, o anche a variazioni di calore che influiscono sul volume dell’acqua contenuta nel sottosuolo molto poroso.

I primi indizi dell’esistenza della città sommersa saltarono fuori negli anni Venti, grazie ai primi rinvenimenti e recuperi casuali in occasione dei dragaggi nelle acque del porto per l’ampliamento della banchina, a cura del Real Genio Civile, ma sono nel 1956, grazie alle foto aeree scattate dal pilota (e sub) militare Raimondo Bucher, si ebbe un’idea di massima della planimetria dell’area, cosa che portò alle prime ricerche da parte di Nino Lamboglia e Amedeo Maiuri, che portarono tra il 1959 ed il 1960 alla redazione della prima carta archeologica, grazie alle prime esplorazioni subacquee.

Il 1969 segnò due tappe importanti per l’archeologia subacquea e la tutela dell’area di Baia. La prima, causale, con l’affioramento davanti Punta Epitaffio, a seguito di una mareggiata, di due sculture di grande qualità che furono riconosciute come “Ulisse e compagno con l’otre”, ancora al loro posto nell’abside di un edificio rettangolare. La seconda tappa fù l’accordo tra il soprintendente di Napoli Alfonso De Francis ed il Direttore dell’Orfanotrofio militare, ospitato nel Castello di Baia, di destinare parte di questo complesso a sede del museo archeologico dei Campi Flegrei. Nonostante molta risonanza nemmeno queste due importanti tappe riuscirono a raggiungere un seguito immediato, dato che solo nel 1980 avvenne il primo scavo subacqueo effettuato direttamente da archeologi.

Nel 1984 finalmente fu consegnato alla soprintendenza il Castello di Baia ed avviato un progetto di restauro per interventi funzionali: venne istituito un locale ufficio archeologico, un primo laboratorio di restauro, di depositi archeologici. Nello stesso periodo riprendeva il rilevamento della città sommersa di Baia.

Attività che portò alla progressiva tutela dell’area: nel 1987 fu posto il vincolo archeologico della fascia marina dei 500 mt dell’intero ambito flegreo con il divieto di alterare lo stato dei luoghi. Tra il 1994 ed il 1998 vennnero emanate specifiche ordinanze dalla capitaneria di porto per regolamentare il transito delle motonavi commerciali. Nel 1998 la la soprintendenza prese in consegna lo specchio d’acqua della sponda settentrionale. Nel 1999 fu realizzato il primo percorso di visita per subacquei. Nel 2000 a causa di un grave danneggiamento provocato da un traghetto incagliatosi nel fondale, fu sospesa definitivamente l’attività del porto commerciale. Il 7 agosto 2002 fu istituito il parco archeologico sommerso di Baia equiparato ad area marina protetta. La gestione provvisoria del parco sommerso è stata affidata alla Soprintendenza per i beni archeologici di Napoli e Caserta.

I sub, cosa possono visitare, nelle loro immersioni? Il primo sito, alquanto affascinante, è la secca delle fumose, costituto da piloni, colonizzati da alghe e coralli, che si ergono tra fumarole, colonne di bolle gassose di origine vulcanica che si sprigionano dal fondale, e depositi di zolfo. I piloni facevano parte delle strutture a protezione del Portus Iulius, fatto costruire da Agrippa

facendo penetrare il mare nei laghi Lucrino e Averno

secondo quanto racconta quel pettegolo di Svetonio, come base navale contro Sesto Pompeo, il figlio di Pompeo Magno, che per sfuggire alle liste di proscrizione compilate da Ottaviano, Antonio e Lepido, reclutò una flotta composta da esuli, da ex schiavi e pirati, e nel 42 a.C. occupò la Sicilia, la Sardegna e la Corsica, dandosi alla pirateria, impedendo l’arrivo di rifornimenti a Roma.

Velleio Patercolo, così commenta tale decisione

Egli allora, come ho già detto, dopo aver occupato la Sicilia, accogliendo nei ranghi del suo esercito schiavi e fuggiaschi, aveva gonfiato il numero delle sue legioni e, per mezzo di Mena e di Menecrate, liberti paterni, nominati comandanti navali, infestava il mare con atti di brigantaggio e di pirateria e si serviva del bottino per le necessità sue e dell’esercito, senza vergognarsi di molestare con scorrerie piratesche quelle coste che erano state liberate con operazioni militari condotte proprio da suo padre.

Secondo le descrizioni di Cassio Dione e Velleio Patercolo, il porto costiero offriva un naturale rifugio protetto per le navi da guerra oltre ad un ampio cantiere navale interno. Ingenti opere ingegneristiche lo collegavano, infatti, sia al lago di Lucrino, che era molto più vasto all’epoca e fungeva già da rada riparata, sia al lago d’Averno che forniva un approdo sicuro e, grazie ai boschi limitrofi, anche il legname per il cantiere navale. Sotto la direzione dell’architetto Lucio Cocceio Aucto, il canale artificiale, già esistente e lungo 300 metri che collegava i due laghi, venne allargato a 50 metri. Fu, inoltre, creato, presso il porto, uno sbocco per il lago di Lucrino scavando il breve tratto sabbioso che lo separava dal mare.

Portus Iulius possedeva un molo costiero lungo 372 metri ed edificato su archi che poggiavano su quindici piloni quadrangolari. Era difeso da una lunga diga – sulla quale passava la Via Herculea (o Via Herculanea) – che partiva dalla Punta dell’Epitaffio, presso Baia, per giungere fino a Punta Caruso, e che includeva l’ingresso al canale navigabile che conduceva al Lucrino. Il complesso militare era completato dai camminamenti sotterranei commissionati da Agrippa per mettere in comunicazione sicura il lago d’Averno con il porto di Cumae, come viene descritto da Strabone nella sua Geografia. La funzione militare del porto si esaurì una ventina d’anni dopo la costruzione a causa della bassa profondità del lago Lucrino e del parziale insabbiamento con il conseguente trasferimento della flotta a Miseno nel 12 a.C.

Portus Iulius, ampliato con infrastrutture e magazzini, mantenne, tuttavia, per molto tempo (fino al IV secolo) la funzione di porto commerciale, estendendosi verso Pozzuoli con la costruzione di due nuovi sobborghi (vici) cittadini: il vicus Lartidianus e il vicus Annianus. Sui suoi moli ogni anno attraccavano centinaia di navi alessandrine con il grano egiziano e con molti altri prodotti esotici (spezie, vetri, unguenti e tessuti) che giungevano in Italia dalla lontana India, attraverso l’Oceano Indiano, il Mar Rosso, le vie carovaniere del deserto egiziano.

Sotto Nerone fu intrapresa la costruzione di un lunghissimo canale navigabile (fossa Neronis, parzialmente rilevato dalle fotografie aeree) che avrebbe dovuto congiungere Portus Iulius a Roma, per consentire un traffico sicuro dalle tempeste per le navi che rifornivano di grano la capitale. La costruzione del canale fu interrotta alla morte di Nerone e non venne mai completata.

Portus Iulius venne abbandonato nel IV secolo per il progressivo abbassamento della linea di costa causato dal bradisismo. Alla fine del V secolo, secondo Cassiodoro, la diga costiera era già crollata e parte del materiale lapideo della stessa era stato riutilizzato per riparare le mura di Roma. Nei secoli successivi l’arretramento della costa marina produsse la scomparsa del lago di Lucrino e il porto romano venne completamente sommerso.

Il complesso antico si estende per circa 10 ettari ad una profondità variabile da 2,50 a 5 metri circa ed è stata rilevata direttamente solo la parte orientale. Vi si può osservare il tracciato di una via che passa fra i resti di due file parallele di magazzini portuali, con alzati di murature in opera reticolata, intonaci, casseforme lignee, impianti idraulici e poi un edificio più vasto con un orientamento diverso da tutte le altre strutture, disposto obliquamente, nel quale si è voluto riconoscere la domus dell’ammiraglio essendovi ancora dei pavimenti a mosaico.

San Vincenzo in Prato

Pochissimo nota, anche agli stessi milanesi, è la basilica paleocristiana di San Vincenzo in Prato, nei pressi della Darsena, nei pressi de Le Biciclette, locale in cui, grazie a un amico che all’epoca faceva il DJ, ho trascorso uno sproposito di serate meneghine.

In origine, il luogo in cui sorge era probabilmente un nemeton, un bosco sacro dei celti, in cui i druidi compivano i loro riti e sacrifici: all’epoca augustea, con lo sviluppo urbano di Mediolanum, il nemeton fu “civilizzato”, con la costruzione di un sacello dedicato probabilmente a Giove. Con il tempo, questo santuario suburbano fu affiancato da un cimitero, progressivamente cristianizzato, tanto che ai tempi di Ambrogio fu associato a Vincenzo, diacono aragonese martirizzato sotto Diocleziano, tra l’altro protettore di Lisbona e con un particolare simpatia per i corvi.

Tanto era diffusa la devozione a tale martire nella Mediolanum imperiale, che lo stesso Agostino gli dedicò alcuni sermoni. Nel 770, l’ultimo re longobardo, Desiderio, costruì una cappellina circolare, forse dedicata alla Vergine. L’epiteto “in Prato”, fu acquisito perché sita nel podere detto Prata, di proprietà del vescovo Odelperto, che nel gennaio dell’806 lo concesse ad Arigauso, abate del monastero di Sant’Ambrogio, in virtù dei suoi servigi, a patto che tornasse nelle mani della curia milanese alla sua morte. Arigauso, per aggirare tale clausola, decise di fondare un monastero benedettino adiacente alla cappella, che comprendeva sia un ospizio per i pellegrini, sia un ospedale.

Per cercare di guadagnare qualcosa in più con le donazioni e le elemosine, i frati affermarono, nel 859 di avere ritrovato nel vecchio cimitero paleocristiano, prima le reliquie di Vincenzo, poi, facendosi prendere la mano, di Quirino e Nicomede. Ora, come dire, sappiamo che diedero fondo alla loro fantasia, perchè, bene o male, sappiamo dove furono sepolti i tre martiri: Vincenzo a Valencia, per poi avere il corpo spostato qua e la per la Spagna, Quirino in Pannonia, Nicomede a Santa Prassede, all’Esquilino. Per cui, i tre, Mediolanum non l’avevano vista neppure da lontano.

Però, i pellegrini dell’epoca credettero alla storia e cominciarono a frequentare in massa la cappella di Desiderio: per sfruttare al meglio il business, i benedettini cambiarono la dedica alla chiesa, attribuendola proprio a Vincenzo e intrapresero grandi lavori di ristrutturazione. Per ottenere qualche fondo in più, intorno all’anno 1000 dissero, sfidando l’ira dei comaschi, di avere trovato anche le reliquie di Abbondio… Qualcuno evidentemente ci cascò, dato che l’edificio venne restaurato e riedificato tra il IX e XI secolo perché oramai cadente, mantenendo però le antiche forme. Nel 1386 l’abate Beno dei Petroni di Bernareggio fece riparare e decorare la chiesa. La crisi cominciò i primi anni del 1500 quando a causa della guerra con la Francia, il chiostro venne militarmente occupato e il complesso sacro adibito a caserma.

Nel 1520 il monastero fu soppresso e trasformato in commenda: nel 1598 divenne poi una parrocchia, il che portò alla costruzione del campanile barocco. Nel 1729 la chiesa fu restaurata e imbiancata nuovamente, e vennero collocati all’interno dipinti di Giuseppe Ripamonti e Pietro Maggi. Nel 1787 la parrocchia fu abolita e due anni dopo, a causa delle leggi ecclesiastiche promulgate da Giuseppe II, la chiesa sconsacrata, per diventare una caserma, una stalla, magazzino.

Il suo destinò cambiò radicalmente grazie a un personaggio assai bizzarro, Francesco Bossi, che, nel maggio 1799 chiese all’amministrazione meneghina l’autorizzazione ad installare una fabbrica di acido solforico e di altri prodotti chimici. Dati le complesse vicende legate alla guerra tra Napoleone e la Seconda Coalizione, Francesco dovette aspettare un paio d’anni, per vedere realizzato il suo sogno: la prima fabbrica chimica italiana nel 1801, nell’area dell’allora convento di San Girolamo, dalle parti di Porta Vercellina, lungo il “naviglio Morto” oggi via Carducci.

Oltre all’acido solforico, Bossi produceva anche acido cloridrico, acido nitrico, cloruro di ammonio, solfati di sodio, di potassio, di magnesio e di rame. L’acido nitrico era, fra l’altro, usato per la preparazione delle lastre per la stampa delle monete da parte della Zecca.

Ben presto i fumi e i miasmi della produzione all’interno della chiesa sconsacrata di San Girolamo si fecero sentire, provocando la protesta degli abitanti della zona e dei gendarmi, ospitati nello stesso convento. Tanto che il 13 giugno 1802 fu emessa un’ordinanza che obbligava Francesco a smettere subito la produzione. Nel novembre dello stesso sfortunato anno 1802, pieno di debiti, dovette cedere la sua quota nell’impresa al socio Luciano Diotto e a Michele Fornara, il tizio che aveva progettato e realizzato al tornio tutto il macchinario. I tre soci litigarono per qualche tempo e Francesco uscì definitivamente di scena proprio nel momento in cui, nonostante l’inquinamento, gli affari cominciavano ad andare meglio.

I guai non finirono, nel 1807 il prefetto del Dipartimento dell’Olona (la Repubblica italiana si era nel frattempo trasformata in Regno Italico) fece compiere un ennesimo sopralluogo nella fabbrica di acido solforico, ora della ditta Fornara & C.; ancora una volta venne constatata la nocività delle esalazioni gassose irritanti e il Prefetto ordinò il definitivo trasferimento della fabbrica. Nel 1808, dopo lunghe discussioni, la fabbrica Fornara si trasferì in San Vincenzo in Prato, la nostra chiesa sconsacrata, più appropriata perché all’epoca sorgeva in una zona più aperta e in mezzo ai prati, abbastanza isolata. La chiesa di San Vincenzo venne venduta ai due soci per lire 10.193, che vi portarono il laboratorio chimico. Convertirono il campanile in ciminiera e purtroppo danneggiarono gravemente parti della vecchia struttura e distruggendo gli affreschi quattrocenteschi che ne decoravano l’interno.

Fabbrica il cui interno che forse ispirò un’acquaforte che Luigi Conconi realizzò nel 1880, intitolata la Casa del Mago. Nello stesso anno si ha l’ appello ai milanesi per il recupero della basilica che doveva servire come parrocchia per il nuovo popoloso quartiere di Porta Genova. Da questo momento iniziano le trattative per l’acquisto dell’edificio dalla ditta Candiani e Biffi si protrassero fino al 1884.

Dal 1885 in poi, su sollecitazione delle Commissioni cittadine facenti capo all’Accademia di Belle Arti di Brera, l’architetto Gaetano Landriani, responsabile dei restauri alla vicina Basilica di sant’Ambrogio, la restaurò in modo assai energico, con estese ricostruzioni talvolta arbitrarie (ricostruzione delle absidiole laterali, abbattimento del campanile barocco e sua ricostruzione in puro finto stile romanico) e l’aggiunta di un arredo liturgico alquanto kitsch e delle decorazioni neopaelocristiane opera del pittore Attilio Nicora. Nella seconda metà del secolo XX una successione di interventi degli architetti milanesi Vito e Gustavo Latis ha lavorato sulle pavimentazioni (1962), sul tetto (1973), ha realizzato la riforma degli altari a seguito del Concilio vaticano II con l’eliminazione di alcuni dei rifacimenti ottocenteschi “in stile” tra cui gran parte delle decorazioni pittoriche e gli amboni e balaustre in cemento.

La chiesa,in mattoni a vista e che misura 40 per 20 metri circa, ha tre navate con copertura a capriate, che si riflettono sulla partizione esterna della fronte a spioventi. Questa è caratterizzata da tre portali sovrastanti da lunette cieche, da due grandi finestre nella parte superiore e da un coronamento del timpano riprodotto nell’Ottocento dal motivo autentico che si trova sul retro. L’abside maggiore ed il timpano sovrastante sono originali e costituiscono l’elemento stilisticamente più significativo dell’esterno, ornati da motivi romanici a fornaci ed archetti in cotto.

All’interno le navate sono spartite da colonnati che sostengono, su una serie eterogenea di notevoli capitelli di recupero romani ed altomedievali, nove archi a tutto sesto. Nella parete piena sono inserite due serie di vetrate moderne, che sviluppano i soggetti delle gerarchie angeliche – sulla destra – e della creazione del mondo – sulla sinistra. Le finestre del coro portano tre vetrate ispirate alle parole di apertura del Vangelo di Giovanni.

Nel catino absidale come nei medaglioni tra le arcate, decorazioni pittoriche della fine del secolo scorso. Sull’altar maggiore è collocato l’affresco della Crocifissione detto “Madonna del pianto”, del XV secolo, proveniente dalla chiesetta di San Calocero e attribuito alla scuola degli Zavattari. Chiesa quella di San Calocero, in stile barocco, che fu demolita nel 1951 a causa dei danni riportati dai bombardamenti alleati dell’anno 1943, in cui secondo la tradizione proprio l’affresco portato a San Vincenzo pianse lacrime di sangue tre giorni e tre notti nel 1519. Nella navatella di destra, un altro frammento di affresco portato da S. Calocero, la “Madonna dell’aiuto”; all’inizio di quella di sinistra una colonna romana con capitello corinzio rivestita di mattoni, che sosteneva fino al 1885 la prima campata dell’arcata sinistra. Al di sotto del presbiterio sopraelevato si trova la vasta cripta, coperta da voltine a crociera sorrette da colonnine dotate di bei capitelli: rappresenta uno dei migliori esempi in Lombarida di cripta “ad oratorio” di epoca romanica. L’altare contiene l’urna di pietra con le reliquie dei martiri portate a San Vincenzo tra il IX e l’XI secolo; dietro di esso si trova tuttora un antico pozzo, le cui acque erano ritenute miracolose.

Il battistero ottagonale che si trova all’esterno, sulla sinistra, è opera dell’architetto Paolo Mezzanotte e venne aggiunto nel 1932 con la benedizione del cardinale Schuster: la Pietra santa qui contenuta e facente parte del fonte battesimale, proviene dalla Chiesa di San Nazaro in Pietrasanta, demolita nel 1889 per lasciare spazio alla nuova Via Dante. Questa chiesa era collocata ove sorge ora l’imponente edificio di Casa Broggi, all’angolo fra la via Meravigli, via Santa Maria Segreta e la allora contrada San Nazaro in Pietrasanta (successivamente via Giorgio Giulini e oggi indicativamente via Dante), nelle immediate vicinanze della Piazza Cordusio, nel luogo dove, secondo la tradizione vi era la casa di San Nazario. La Pietra Santa era un resto di una colonna romana, su cui, secondo la tradizione, sarebbe servita di appoggio a Sant’Ambrogio nell’atto di montare a cavallo durante le sue lotte contro gli Ariani

Il Pago Tropio

Tornando alla nostra passesseggiata virtuale sull’Appia Antica, superato il complesso Callistiano, si giunge nella località “ad catacumbas”, una depressione situata tra il II e il III miglio della via Appia antica, dovuta alle antiche cave di pozzolana esistenti nell’area, in cui si sviluppava il cimitero cristiano di San Sebastiano.

Dato che questo era l’unico che rimase accessibile per tutto il Medioevo, il nome della località per estensione passò poi a designare qualunque cimitero sotterraneo. Nell’area, al di là delle memorie religiose, è caratterizzata da un’altissima concentrazione di presenze archeologiche. Una famiglia di grande tradizione, la gens Annia, discendente dagli antichi Attili Regoli, aveva in questa parte di territorio, tra il III miglio della via Appia e la valle del fiume Almone, fin dall’età repubblicana i propri possedimenti, che vennero ereditati da un personaggio da romanzo e detto fra noi, anche alquanto cialtronesco, il buon Erode Attico

Questo era un VIP dell’epoca antonina, ricco sfondato e alquanto vanitoso, tanto da scrivere sulla sua tomba

“Giacciono in questo sepolcro i pochi resti di Erode figlio di Attico, nativo di Maratona, mentre la sua fama è sparsa in tutto il mondo”.

Erode, nato tra il 100 ed il 101 d.C., fu retore, filosofo, precettore degli imperatori Lucio Vero e Marco Aurelio, e governatore di una parte dell’Asia e della Grecia. Aveva ereditato le sue ricchezze dal padre che pure si chiamava Erode Attico, un ateniese che discendeva dalla famiglia reale dell’Epiro, gli Eacidi, che oltre a vantare ascendenza mitologica con Achille, aveva come antenato il buon Pirro.

Si narra che Erode Attico padre, nonostante le illustri origini, fosse ridotto nella miseria più nera; un giorno, mentre nella sua casa di Atene sbatteva la testa nel muro per la disperazione, scoprì una cavità nella quale era nascosto un enorme tesoro.

Gli studiosi dell’ ‘800, conquistati dalla suggestività dell’episodio, si scervellarono nella ricerca dell’origine di un tale tesoro, e giunsero ad attribuirlo nientemeno che al re persiano Serse, che l’avrebbe abbandonato in Grecia in seguito alla sconfitta di Salamina; studi critici più recenti hanno però spiegato questa incalcolabile ricchezza in modo meno fantasioso, ipotizzando una più concreta speculazione finanziaria: i beni di famiglia, tesaurizzati e nascosti dal nonno per non pagare i debiti, sarebbero in seguito ritornati in circolazione col pretesto del tesoro.

Fatto sta che Erode Attico padre (questo è vero), divenuto improvvisamente il più ricco uomo dell’epoca, scrisse preoccupato all’imperatore Nerva per avere istruzioni; l’imperatore, brevemente, rispose “usane”. Nuovamente interpellato dal perplesso Erode, Nerva rispose addirittura “e tu abusane”; ma chi usò l’immensa ricchezza fu invece Erode Attico figlio, che diventò famoso costruendo grandiose opere pubbliche, soprattutto in Asia minore e ad Atene, dove ancora oggi si ammirano lo stadio delle Olimpiadi e l’Odeon sotto l’Acropoli; inoltre si debbono a lui lavori a Canosa di Puglia e naturalmente a Roma.

Dato che piove sempre sul bagnato, Erode non pago dei suoi beni, sposò l’ancor più ricca Annia Regilla. tra l’altro parente della moglie di Antonino il Pio, Faustina, sì, proprio quella del tempio nel Foro Romano. Anna morì in Grecia nel 160 mentre era incinta ed Erode fu accusato di aver fatto assassinare da un suo liberto. Trascinato in giudizio dal cognato Annio Attilio Bradua ne uscì prosciolto da ogni accusa – probabilmente anche grazie all’intervento dello stesso Marco Aurelio – ma l’opinione pubblica continuò a ritenerlo colpevole, accusandolo di avere corrotto i giudici, anche perché Erode non faceva nulla per nascondere la passione che provava per Polideuce, il giovane figlio di un suo liberto.

Proprio Marco Aurelio diede il consiglio al suo maestro di salvaguardare le apparenze, il quale, come dire, si fece prendere la mano, dandosi a esagerate manifestazioni di lutto: fece dipingere di nero tutta la casa, regalò i gioielli della moglie ai templi degli dei, ed in suo onore ristrutturò tutto il fondo, a cui diede il nome di Pago Triopio in ricordo del famoso santuario che Demetra, dea delle messi, aveva nella città di Cnido in Asia minore (l’odierna Turchia). Egli volle in questo modo porre la sua proprietà al di sopra dei comuni interessi umani.

Nello stesso tempo la parola Triopio richiamava il nome di Triopas, re di Tessaglia, che secondo la leggenda aveva osato tagliare la legna del bosco sacro a Demetra, e per questo era stato da lei punito con una fame insaziabile che lo aveva portato alla morte. Forse, nelle intenzioni di Erode, tale ricordo doveva tenere lontani dal fondo i malintenzionati che si fossero avvicinati per rubare o per recare danno alla sua proprietà.

Il Pago Tropio si estendeva nella zona compresa tra la chiesa del Quo Vadis e via dell’Almone. Grazie a cinque epigrafi qui trovate, dette appunto “iscrizioni triopee”, abbiamo un’idea abbastanza precisa sull’origine e sull’organizzazione del comprensorio.

Le prime due iscrizioni, su grandi colonne di marmo cipollino (ora al Museo Nazionale di Napoli), riportano:

“Non è permesso ad alcuno di portarle via dal Triopio, che è situato al terzo [miglio] della via Appia, nel possedimento di Erode. Chi le rimuoverà non ne riceverà certo vantaggio. Ne è testimone la dea infernale (Hecate) e le colonne che sono dono a Cerere e a Proserpina e agli dei Mani e [a Regilla].”

Altre due iscrizioni (oggi al Louvre), scolpite su cippi di marmo pentelico, contengono un lungo panegirico in versi, composto da Marcello Sideta, il medico della corte imperiale, che si era autoconvinto di essere un grande poeta… Per dare lustro al suo genio, mi limito a citare l’incipit del suo capolavoro

Venite qui a questo tempio, donne tiberine, a portare offerte sacrificali
intorno alla statua di Regilla. Ella discende dagli Eneidi molto ricchi, inclito
sangue di Anchise e di Afrodite dell’Ida, si sposò tuttavia a Maratona. La
onorano le dee celesti, la nuova Demetra e la vecchia Demetra. A loro è dedicata
l’effigie sacra della donna dalla bella cintura. Ella dimora con le eroine sulle
isole dei beati, dove Cronos regna

Una copia delle due colonne con cotale testo poetico si trova a villa Borghese.

Nella quinta iscrizione, su una colonna di marmo collocata originariamente all’ingresso del Triopio e ora ai Musei Capitolini, è scritto, in latino e in greco:

“Annia Regilla, moglie di Erode Attico, luce della casa, alla quale appartennero questi beni”.

Le iscrizioni ci descrivono campi di grano, olivi, vigne, prati, addirittura la stazione di polizia, il campo sacro a Nemesi e Minerva, il parco, il villaggio colonico (che era dalle parti di Cecilia Metella) e, nel luogo in cui successivamente fu costruito il Palazzo di Massenzio, la villa residenziale. Soprattutto è citato un tempio dedicato a Cerere (la dea romana corrispondente alla Demetra dei Greci) e a Faustina (moglie dell’imperatore Antonino Pio, da poco morta e quindi divinizzata), al cui interno Erode collocò la statua della moglie; il tempio, tuttora esistente, va identificato nella chiesa di Sant’Urbano, di cui parlerò in futuro

La valle, pur suddivisa in diversi appezzamenti, continuò ad essere coltivata fino agli inizi del XV secolo, quando l’insalubrità del fondovalle, il timore di briganti e di invasori, ed il generale progressivo spopolamento della campagna romana, determinarono l’abbandono delle attività agricole. Nel 1547 i Caffarelli entrarono in possesso della tenuta acquistandone i terreni da diversi proprietari e bonificarono la valle ridando slancio all’agricoltura e costruendo il casale detto della Vaccareccia. Così il Pago Tropio divenne la nostra Caffarella

Nel 1695 la tenuta fu venduta ai Pallavicini e nel 1816 venne infine rilevata dai Torlonia che la bonificarono per l’ultima volta restaurando e ampliando la rete idrica.

Michelangelo e la Cupola

In realtà, il problema delle volte e delle absidi era alquanto secondario, nella testa di Michelangelo: il suo scopo fondamentale era di chiudere, in un modo o nell’altro, la questione della cupola. Tutto l’opposto di Antonio da Sangallo che, sulla scia di Raffaello, si era concentrato nel definire la planimetria generale, cercando di fare convivere in qualche modo le contraddizioni lasciate aperte da Bramante, aveva voltato alcune delle parti fondamentali dell’edificio e soprattutto aveva rafforzato le fondamenta.

Di conseguenza, i quattro grandi archi della crociera innalzati da Bramante entro il 1511, rimanevano, come dire, abbandonati a stessi. Non che che Antonio non si fosse posto il problema. Si era infatti reso conto del fatto che per la sua concezione, la cupola bramantesca sarebbe crollata sotto il suo peso. Per cui, invece di accroccare delle modifiche poco efficaci e costose da realizzare.

Per cui decise di riprogettarla del tutto: nella sua prima versione, la cupola sangallesca di San Pietro avrebbe misurato al piede qualcosa come 7,45 m di spessore; diffidando delle spinte generate dal profilo semicircolare al «primo terzo» (ossia al piede), Antonio rialzò drasticamente il sesto, e al contempo dilata la calotta per allontanarla dai pennacchi, sino a farle raggiungere la massima luce mai immaginata nella storia: 200 palmi, ossia 44,60 metri.

Questo trionfo del gigantismo, però, impedisce, per non indebolire il tamburo, di aprirvi finestre e per non aumentare ulteriormente il carico, a rinunciare alla lanterna, per cui sulla tomba di Pietro non avrebbe potuto capeggiare la croce: paradossalmente, il risultato sarebbe stato più simile al Pantheon del progetto bramantesco.

Se all’epoca del richiamo al paganesimo, poco importava, il Concilio di Trento è ancora lontano, la scarsa illuminazione dell’altere principale metteva Antonio in una situazione imbarazzante: era infatti una delle principali critiche che aveva rivolto al precedente progetto raffaellesco. Non solo non l’aveva risolto, ma era riuscito anche a fare peggio del predecessore. Per cui, ributtò tutto e ricominciò da capo a progettare.

Per prima cosa, sostituì il tamburo anulare con uno radiale, applicando a una cupola di oltre 40 metri di luce un sistema sino ad allora usato per le lanterne, riconfigurando la struttura da continua in discontinua e indirizzando le spinte della calotta in una serie di setti radiali connessi da volte a botte coniche che si neutralizzano l’una l’altra.

In tale modo la muratura del tamburo si alleggeriva senza perdere di resistenza alla spinta, la quale ultima agisce su direzioni appunto radiali; ciò avrebbe quindi permesso l’apertura di queste benedette finestre. Poi, per dare continuità al tutto, estese la struttura radiale al primo terzo della cupola, con due ordini sovrapposti di arcate che saldavano indissolubilmente calotta e tamburo, fusi in un unico nodo costruttivo: di fatto al modello classicista del Pantheon, che era il culmine di una tradizione consolidata dall’epoca augustea, sostituisce quello dell’inquieto sperimentalismo dell’architettura tardo antica, riprendendo le soluzioni strutturali del cosiddetto Tempietto di Minerva Medica all’Esquilino.

Antonio, per la sua esperienza nei cantieri e per la sua conoscenza dell’architettura fiorentina, in particolare della Cupola di Santa Maria del Fiore, si era reso conto empiricamente conto di una cosa che avrebbe dimostrato Bernoulli solo alla fine del Seicento: ossia che il profilo più adatto per sostenere una cupola che si regge col proprio peso non è quella circolare, ma quella della catenaria rovesciata, forma che assume una catena appesa, tenendo fermi i suoi due estremi. Ciò lo portò ad adottare un sesto accentuatamente rialzato, idea che sarà ripresa da Della Porta e che troviamo nell’attuale cupola.

Per cui, volendo decorare l’interno della sua cupola con una volta cassettonata, dovette elabora un profilo ovale mistilineo, in cui il primo tratto di calotta, il più sollecitato, era molto ripido, mentre quello sommitale era più stondato, a suggerire dal basso l’immagine di una volta emisferica; l’intradosso era tracciato in modo da rimanere esterno al triangolo equilatero costruito sul diametro della cupola, dando luogo a una constructio ad triangulum che quasi preannunciava Borromini e il Barocco.

Tutto queste riflessioni, furono prese e gettate nel secchio da Michelangelo, per tre motivi estetici: il primo è che lo slancio verticale pensato da Antonio aveva senso per una basilica delle dimensioni ipotizzate da lui e da Raffaello, ma sarebbe stato alquanto incongruo e sproporzionato, per quella più ridotta pensata dal fiorentino.

Il secondo, il rifiuto della sovrapposizione e del concatenamento di ordini di misure differenti,
che rappresentava una delle caratteristiche più evidenti dell’architettura di Sangallo, ereditata tra l’altro da Bramante e da Raffaello, a favore di una elementare sovrapposizione di corpi di fabbrica cilindrici.

Il terzo il presunto recupero dell’idea base del Bramante, ossia costituire un mausoleo nelle forme di una tholos cupolata sospesa nel cielo, per testimoniare il carattere trascendente del sacrario del primo pontefice: il problema è che il buon Donato, di idee, ne aveva avute a bizzeffe, anche per colpa delle paturnie di Giulio II e sceglierne una, invece di un’altra, era come dire, alquanto arbitrario.

Per cui, Michelangelo ipotizzò di realizzare il tutto mantenendo una sostanziale coincidenza nelle quote alle quali si impostavano gli ordini esterno e interno, rendendo certamente più semplice la costruzione e affidando a massicci anelli il compito di sostenere e distribuire il peso del tamburo e della cupola. Più facile a dirsi, che a farsi. Il problema era come mantenere tutto in piedi, evitando crolli.

Come Antonio, guardò alla tradizione fiorentina, ma non al Duomo, forse memore dei problemi che aveva avuto Giuliano da Sangallo a Loreto, ma all’intuizione che Salvi d’Andrea, altro architetto sottovalutato, ebbe per costruire le cupole di crociera e della sagrestia di Santo Spirito a Firenze, costituite da due calotte sottili connesse solo al primo terzo con speroni, e per il resto indipendenti per struttura e geometria. Di fatto Salvi d’Andrea aveva applicato nel concreto una resistenza di tipo scatolare

Cosa che non si può dire per la cupola brunelleschiana: questa infatti non è una vera cupola a doppia calotta, ma piuttosto una cupola a calotta unica, quella interna, spessa e fortemente costolonata, ricoperta da otto falte sottili esterne che danno un contributo strutturale discutibile. Se per ipotesi le si togliesse la calotta esterna, questa rimarrebbe comunque stabile: se questo succedesse nelle cupole di Santo Spirito, queste crollerebbero miseramente.

Idea, quella di Salvi d’Andrea, che era stata proposta proprio per la cupola di Santa Maria del Fiore nel 1366, per il concorso organizzato dall’Arte della Lana, dal capomastro Neri di Fioravanti, ma che non era stata realizzata nel concreto e che aveva limitati precedenti storici. È utilizza nella basilica di San Vitale a Ravenna e nel battistero di S. Giovanni a Firenze (11°-12° sec.), che è una doppia cupola in quanto volta ottagonale sormontata da un tetto piramidale in legno. Curiosamente, però, l’esempio più simile si trova nella lontana Persia: è la tomba del sovrano mongolo Khudabanda Oljeytu a Sullaniyya, eretta tra il 1307 e il 1313.

Partendo da questa ispirazione, nell’ottobre 1548, Michelangelo concepì un abbozzo di progetto, dove, sopra un tamburo anulare, abbastanza spesso da raccogliere la spinta al piede della volta superiore, si elevavano due distinte calotte, l’interna a tutto sesto, l’esterna a sesto acuto; nell’intercapedine si alzava una scala che connetteva le due volte al primo terzo, ma poi proseguiva con gradini anulari sulla sola calotta interna, sino al serraglio.

La scelta delle due calotte indipendenti, dallo spessore ridotte, era da una parte frutto di una necessità estetica, il desiderio di Michelangelo di offrire la cupola vaticana in forme diverse alla visione interna e a quella esterna. La diffusa luminosità dell’interno una calotta emisferica, appena rigata da scorniciature di natura quasi grafica, avrebbe comunicato l’idea della perfezione geometrica e immateriale della volta celeste, culminata dalla griglia stellata prevista in controluce nell’oculo sommitale. La slanciata calotta a sesto acuto esterna, innervata da una plastica costolonatura, invece, si sarebbe invece mostrata come un corpo pieno, solido, scolpito dai raggi solari.

Dall’altra, della necessità di alleggerire il più possibile la struttura, che lo portò anche all’abbandono del calcestruzzo, tradizionale nell’architettura romana e utilizzato nei progetti della cupola di Bramante e di Sangallo in favore della pietra strutturale e del laterizio; per questo, scelse il travertino proveniente da Fiano Romano, invece che quello di Tivoli, dato che i proprietari di tale cave erano più propensi a sganciare tangenti.

Il percorso seguito dal Michelangelo per giungere alle sue ultime proposte del 1561 è riassumibile in pochi punti. Come accennato, nel 1548 il tamburo era concepito come un largo muro anulare, attraversato e alleggerito da un corridore voltato a botte, per fare d’appoggio alla doppia calotta; tra il 1549 e il 1551 Michelangelo elaborò i celebri disegni di Haarlem e di Lille, nei quali il congegno di massima delle due calotte è confermato, ma in forme più evolute.

Nel disegno di Haarlem (dove il tamburo non compare), Michelangelo studiò un sesto ovale per la calotta interna, ispirato al deprecato progetto dell’ancor più deprecato Sangallo. Nel disegno di Lille il tamburo fu profondamente rivisto: Michelangelo assottigliò il tamburo, ma al contempo lo irrobustì con dodici speroni radiali (sempre d’inconfessata ispirazione sangallesca), posti presumibilmente in corrispondenza di costole interne alle due calotte; in testa agli speroni il fiorentino immaginò di accostare coppie di colonne, in linea con alcune proposte bramantesche.

Disegno in cui si mostra, oltre alla cupola, anche l’alzato del tamburo, con oculi circolari, colonne binate e alto cornicione decorato con statue. La presenza di oculi e colonne binate in realtà, fu una sorta di riciclo di vecchia idea: questa soluzione, infatti, richiama una precedente proposta (inv. 50A recto conservato presso Casa Buonarroti) formulata da Michelangelo tra il 1519 ed il 1520 per il completamento del tamburo della cupola di Santa Maria del Fiore. Fu sulla base di queste idee, ancora non del tutto precisate, che Michelangelo iniziò a costruire nel gennaio 1554 l’attuale tamburo a 16 speroni, secondo un disegno conservato presso Casa Buonarroti, che, malgrado presenti solo una porzione della sezione del tamburo, lascia intuire la loro presenza, assieme a oculi e paraste interne.

L’idea degli oculi fu definitivamente abolita assai prima del 1557-1558, quando Michelangelo commissionò un modello ligneo della cupola (preceduto da uno studio in argilla del 1556), con un tamburo caratterizzato da finestre trabeate; la presenza di timpani curvi al posto di quelli alternati costituisce la principale differenza tra questo modello e la costruzione reale, nonché la dimostrazione che il progetto della cupola fu colmo di ripensamenti e di numerose modifiche in corso d’opera. Il modello, ancora esistente, fu comunque realizzato quando i lavori del tamburo erano già cominciati e molto probabilmente subì modifiche successive che ne hanno alterato l’aspetto originario; pertanto lo stesso non aiuta a comprendere le vere intenzioni di Michelangelo

Nel modello 1558-61, e nei disegni che ne attestano lo studio, comparve per la prima volta una calotta esterna a tutto sesto, che rappresenta l’ultima versione elaborata da Michelangelo: sopra al tamburo a sedici speroni, iniziato quando il fiorentino pensava probabilmente di unire le volte della cupola con delle costole interne meridiane, furono poste due calotte unite al piede da quattro corpi scala e da sedici speroni che si arrestavano al primo terzo. Di lì in su le calotte, che misuravano circa un metro di spessore, salivano indipendenti fino a riunirsi nel serraglio, che costituiva una sorta di lanternino interiore, sopra al quale era posta la grande lanterna a colonne binate, forse libere.