
Passata la buriana, i lavori di San Pietro ripresero di gran lena, anche perché Michelangelo si era impuntato nel volere realizzare in tempi da record calotta dell’abside meridionale, nella cosiddetta Cappella del Re, la cui armatura è già iniziata alla fine del 1556.
Il motivo era semplice: essendo la prima calotta absidale realizzata nella Basilica, avrebbe imposto un modello a cui, volente o nolente, gli architetti che sarebbero venuti dopo di lui si sarebbero dovuti attenere. Michelangelo decise quindi di costruire la calotta interamente in conci squadrati di travertino, avviando un’opera oltre che costosa anche impegnativa, dato che la tecnica è inusitata non solo a Roma, ma in tutta Italia.
Per realizzare tale idea nel concreto, nel cantiere furono impiegati uno sproposito di uomini: nella settimana 6-12 febbraio lavorano 72 uomini (25 scalpellini, 17 muratori e 30 manovali) per una spesa totale di 92.22 scudi, in aumento rispetto ai 61.22½ scudi della settimana precedente (30 gennaio-5 febbraio). Nella settimana successiva (13-19 febbraio) il numero dei lavoranti salirà a 81 (26 scalpellini, 17 muratori e 38 manovali) per una spesa totale di 98.88 scudi.
Il 5-6 marzo vengono effettuati pagamenti per 400 tavole di “albuccio”; il 6-12 marzo si eseguono 30 tiri (un numero piuttosto elevato) a 7 baiocchi
“a tirar’ sopra le pietre aconcie, et li legnami alla Capella del Re”
e il 13-19 marzo altri 9 sollevamenti. Infine nel periodo tra il 20 marzo-2 aprile è fornita una spranga di ferro
“per l’architrave alla finestra della Capella dil Re”
Questa attività però ricevette un improvviso stop, per una sorta di tangentopoli dell’epoca: Sebastiano Malenotti, amico e uomo di fiducia di Michelangelo, il cui incarico consisteva nel verificare la qualità dei materiali ed effettuare misure e stime, fu preso con le mani nel sacco mentre falsificava i conti del cantiere, sottraendo parte dei fondi.
Le “setta sangallesca”, consapevole che buona parte di quei soldi finisse nelle capienti tasche di Michelangelo, fece rinchiudere il buon Sebastiano nella Corte Savella, il peggiore carcere della Roma dell’epoca, nella speranza che il nostro uomo confessasse.
La Corte Savella, per i pochi che non lo sanno, dato che è famosa per le vicende di Beatrice Cenci, è stato un tribunale e carcere romano affidato alla cura della famiglia Savelli sin dal 1375 nella loro carica di Marescialli di Santa Romana Chiesa e custodi del conclave, competente a giudicare cause criminali per delitti comuni di varia natura, compiuti dai laici della famiglia pontificia, e che divideva la sua giurisdizione in Roma con quello di Tor di Nona, con diritto di infliggere la pena capitale che veniva eseguita o presso il carcere stesso, altrimenti a piazza Padella presso la chiesa di San Nicolò degli Incoronati detto anche de Furcis (presso l’attuale testata di ponte Giuseppe Mazzini) per la presenza stabile del patibolo, o a piazza di Ponte attuale piazza di ponte Sant’Angelo.
Nonostante le torture, Sebastiano mantenne la bocca chiusa e non fece il nome di Michelangelo: il 3 aprile nell’aula di corte Savella “in ginocchione” dichiarò di essere l’unico colpevole e “con le braccia in croce” chiese clemenza ai deputati. Solo grazie all’intercessione di Michelangelo, Sebastiano ottenne la grazia, venendo solo licenziato e ricevendo lo stipendio di aprile.
L’otto maggio Sebastiano una lettera dai toni molti affettuosi a Michelangelo per
informarlo del proprio ritorno a Firenze:
“non vi dirò altro, restando al solito servitor vostro, se bene io non sto più in Roma”
Però, per giustificare la sua cacciata da Roma, Sebastiano sparse a Firenze la voce che i lavori nel cantiere di San Pietro erano pressoché fermi. Voce che arrivò anche alle orecchie del granduca Cosimo I, che ovviamente ne approfittò per tentare di richiamare in patria Michelangelo.
L’artista rispose che anche volendo, non avrebbe potuto farlo: era successo un immane casino, tale che
“se si potessi morire di verg[og]nia e dolore, io non sarei vivo”
No, non lo avevano beccato con il sorcio in bocca, mentre intascava le tangenti dei fornitori… Semplicemente, la calotta absidale della Cappella del Re stava miseramente crollando. Cosa era successo?
Michelangelo voleva che il travertino venisse utilizzato in modo che dal basso la calotta si percepisse come se fosse stata scolpita in un unico blocco: era quindi necessario che i singoli conci di pietra venissero tagliati e accostati perfettamente. Ma a questa difficoltà si aggiunse il fatto che la calotta era composta da tre gusci la cui curvatura non era costante, ma variava a ogni corso.
Nonostante Michelangelo avesse realizzato un modello in scala 1:30, le istruzioni non furono sufficientemente chiare per il capomastro, Giovan Battista Bizzi, altro uomo di fiducia dell’artista, che utilizzò una sola centina per ciascun guscio, così si verificò il problema che, mano a mano che la costruzione saliva, i gusci non combaciavano più con i costoloni e la chiusura verso la chiave diventava impossibile.
Dato che Michelangelo aveva fatto fuoco e fiamme per averlo a suo fianco, non scaricò tutte le colpe sul suo collaboratore: in almeno due occasioni affermò che l’errore si era verificato anche perché, ormai vecchio, non si sentiva più in grado di andare in cantiere a verificare che si seguissero le sue istruzioni. Per cui, tra i pernacchioni della “setta sangallesca”, la calotta fu smantellata e ricostruita, stavolta senza problemi.
In questo stesso periodo proseguiva anche la costruzione dell’emiciclo nord e del tamburo, mentre tra il 1558 e il 1561 Michelangelo fece realizzare il grande modello ligneo della cupola, successivamente modificato, ma che si conserva tutt’oggi.
Infine, tra la fine del 1560 e la primavera dell’anno successivo si iniziarono gli scavi per le fondazioni delle cappelle angolari rivolte verso nord: si cominciò da quella poi detta di San Michele (nord-ovest) e, nell’aprile 1562, si lavorava al “fondamento novo che si fa verso palazzo” per la futura cappella Gregoriana (nord-est).
Però, visto il precedente della Cappella del Re, il Papa, preoccupato per la cupola e per il peggiorare delle condizioni di salute del fiorentino, decise nel 1564 di affiancare a Michelangelo un architetto, come dire, un poco più esperto di statica e scienze delle costruzioni: per non irritare l’artista, fu scelto Daniele da Volterra, sì, il famigerato Brachettone, l’uomo che mise le mutande al Giudizio Universale della Cappella Sistina, suo grande amico.
I funzionari della Fabbrica di San Pietro si inalberarono, evidenziando come Daniele capiva di architettura come io di sanscrito: sotto la minaccia di sciopero generale, il Papa sostituì Daniele con un candidato proposto dalla “setta sangallesca”, Nanni di Baccio Bigio, il quale ovviamente, doveva anche mettere freno alle ruberie di Michelangelo.
Il quale, inutile dirlo, mangiò la foglia e facendo fuoco e fiamme, minacciando di abbandonare il cantiere e Nanni di Baccio Bigio, fu costretto a lasciare il posto dopo appena un mese. Michelangelo non si godé il successo, morendo poco dopo.
Il confronto tra lo stato dei lavori alla morte di Michelangelo e la situazione attuale evidenzia come la strategia dell’architetto fosse andata tutto sommato a buon fine e le parti dell’edificio da lui “vincolate” non subirono, nei decenni successivi, cambiamenti troppo significativi. L’unico settore che fu sottoposto a uno stravolgimento totale era proprio quello che Michelangelo non aveva seriamente preso in considerazione, cioè il braccio orientale con la facciata della basilica.