Come ogni anno, è il turno dei bilanci: devo confessare che mi trovo in difficoltà. Lamentarsi del lavoro, anche se a ragione, mi pare inappropriato. Lo stesso, pavoneggiarmi per le uscite editoriali. E’ stato un anno difficile, con troppe perdite.
Sento la mancanza di Pippi, che mi teneva una compagnia incredibile. Non mi pare vero, di non passeggiare per le strade di Palermo. E ho ancora il vuoto dentro, per gli amici che ho perso Qualche giorno fa, sovrappensiero, stavo per fare uno squillo a Francesco, per i soliti auguri di Natale. Me ne sono reso conto l’ultimo istante, della cappellata che stavo facendo.
Mi mancano le sue battute, le sue caricature verbali dei clienti, i suoi monologhi sulla politica, in cui spesso aveva ragione, la sua cultura e la sua umanità.
Un anno che ha avuto anche le sue gioie, dalla vacanza con i miei alla nascita di mio nipote Flavio… Speriamo insomma, che si volti pagina e che questo 2021 sia veramente un anno di rinascita… Diamoci tutti una pacca sulle spalle, perché, in fondo, siamo sopravvissuti… Buon anno a tutti !
Il tratto dell’Appia che va dalla Tomba di Cecilia Metella è probabilmente il più monumentale della strada, caratterizzato su ambedue i lati da un susseguirsi ininterrotto di edifici sepolcrali di varie tipologie, costruiti con differenti tecniche edilizie, dall’età repubblicana alla tarda età imperiale.
Si va dalla più semplice tomba collettiva a incinerazione, generalmente sotterranea: il colombario, a quelle individuali o famigliari, in forma di altare, o di edicola su base quadrangolare, ai più elevati sepolcri a torre, per lo più ridotti al solo nucleo di calcestruzzo privato del rivestimento originario; tipici del paesaggio della via sono poi le tombe a tempietto su due piani in laterizio, spesso di due colori; i mausolei a pianta circolare e copertura conica frequenti lungo la strada riprendono la tradizione delle tombe a tumulo; sono poi attestati mausolei in laterizio, del III-IV sec. d.C., a pianta circolare o articolata e copertura a cupola.
Come raccontato negli scorsi post, sall’area del Mausoleo di Cecilia Metella fino al IX miglio operò Luigi Canina con i suoi interventi di conservazione e restauro, inserendo una cornice di pini e cipressi che ancora oggi connota il paesaggio della via Appia. Restauri successivi, come quelli eseguiti dal Ministero per i Beni Culturali in accordo con il Comune di Roma in occasione del Giubileo del 2000, hanno recuperato e ripristinato ampi tratti dell’antico selciato della via e delle antiche crepidini (marciapiedi), con l’obiettivo di restituire alla via Appia quell’assetto di “museo all’aperto” ipotizzato nell’Ottocento.
La sequenza dei sepolchi è inaugurata da quello di Quinto Apuleio, i cui resti comprendono comprendono un pezzo di iscrizione, un grosso frammento di lacunare fiorito in travertino che apparteneva probabilmente a un soffitto, una grata che chiude l’ingresso di una camera funeraria seminterrata e, infine, un torso di statua.
Oltre il bivio tra la via Appia e via di Cecilia Metella, subito dopo un tratto dell’antica pavimentazione, è visibile sulla sinistra il nucleo in cementizio di un sepolcro a torre o a edicola a più piani, conosciuto come Torre di Capo di Bove, su cui si riconoscono sia alcuni blocchi di travertino che facevano parte del rivestimento, sia gli strati corrispondenti alle diverse fasi di costruzione.
Sulla facciata una targa di marmo così recita:
“Nell’anno 1865 Padre Angelo Secchi sulla traccia del P.Boscowich rigorosamente misurava lungo la via Appia una base geodetica e nell’anno 1870 collo stabilire presso i due estremi di essa questo punto trigonometrico e l’altro alle Frattocchie costituiva una base sulla quale fu verificata la rete geodetica italiana ordita nell’anno 1871 dagli ufficiali del Corpo di Stato Maggiore per la misura del grado europeo”.
Per chi non lo sapesse, la geodesia è la costruzione di una serie di triangoli, che grazie ai principi della trigonometria, permettono di stabilire l’estensione di un territorio. In seguito tale metodo di misurazione venne sostituito dall’aerofotogrammetria e dai sistemi satellitari.
Dopo avere superato i resti di un paio di sepolcri a torre, al 187 sulla sinistra vi è una proprietà privata all’interno della quale si trova il Mausoleo degli Equinozi, di cui ho parlato in passato. Poco prima del Casale Torlonia, a m. 6,20 dalla carreggiata stradale, si trova un monumentale nucleo in conglomerato di calcestruzzo e scaglie di selce; la poderosa struttura misura oltre m. 9 sul fronte strada, ha oltre m. 5 di spessore e la sua altezza supera i m. 12. Si tratta dei resti di un sepolcro di epoca romana. Si notano le varie gettate del conglomerato cementizio realizzate nelle diverse giornate di lavoro e, sul lato sinistro, il basamento presenta ancora tracce dell’originario rivestimento in opera laterizia. La struttura appare oggi del tutto privata dell’originario rivestimento decorativo che doveva essere in blocchi o in lastre di marmo o travertino. Sulla sommità si notano degli incavi nel conglomerato cementizio, probabilmente relativi ad elementi decorativi o utili per accoglie le urne cinerarie
Al 240, invece, si incrocia il Casale Torlonia, sulla cui facciata, oltre allo stemma di quella famiglia, è presente una targa che ricorda in latino, risalente al 1853, che tradotta in italiano, die:
“Pio IX pontefice massimo durante gli esperimenti del telegrafo venendo da Terracina per l’Appia purgata dai suoi ingombri, dette con la sua maestà fama a questa dimora”.
Nel casale si ritirò a vivere, lontano dal clamore di Roma, Giovanni Giolitti, al termine del suo lavoro alla Corte Suprema amministrativa dello Stato. Il casale fu anche successivamente trasformato per ospitare l’Ambasciata del Marocco.
Subito dopo, si raggiunge la Torre dell’Acqua Ceccignola, uno dei “bottini” di controllo dell’acquedotto fatto costruire dalla famiglia Torlonia nel 1895. La famiglia, proprietaria di vastissimi terreni nella campagna romana, realizzò un impianto tecnologicamente avanzato per irrigare le loro proprietà agricole. Ai piedi del castello della Cecchignola, poco al di fuori dei limiti occidentali del parco, le sorgenti formavano un laghetto e per poter compensare il dislivello tra la quota delle sorgenti e quella dell’Appia, Alessandro Torlonia innalzò un’antica torre esistente sistemandovi all’interno un serbatoio. L’acqua veniva prelevata attraverso pompe dal laghetto, raggiungeva i 45 metri di altezza alimentando il serbatoio e attraverso una tubazione in ghisa lunga vari chilometri raggiungeva l’Appia irrigando le terre di famiglia. Una targa sulla torre con lo stemma dei Torlonia indica l’anno di costruzione della struttura
Il cancello e il reticolato di filo spinato sulla sinistra racchiudono l’ex Forte Appio, una volta destinato ad alloggio per i generali della N.A.T.O. in appoggio all’aeroporto di Ciampino, di cui parlerò in futuro. Questa struttura difensiva è stata costruita tra il 1877 e il 1880. È stato il primo forte edificato sul lato sinistro del Tevere, nell’ambito del cosiddetto “campo trincerato” di Roma, una cintura di strutture militari costruite a partire dal 1877 per la difesa della capitale. Posizionate a una distanza media di 4-5 chilometri dal perimetro delle Mura Aureliane, formavano un anello lungo circa 37 chilometri, con 4 batterie e 15 forti posti lungo i principali assi di penetrazione nella città, quasi sempre le vie consolari
Accanto al cancello di ingresso (n.c. 258) un grande mausoleo parallelepipedo in calcestruzzo ha alla base i calchi in gesso di una statua e vari pezzi antichi, i cui originali sono stati messi al sicuro dalla Soprintendenza Archeologica di Roma.
Si susseguono poi sulla destra vari resti di tombe, blocchi parallelepipedi di tufo, massi di calcestruzzo, mentre sulla sinistra troviamo, discosto dalla strada, un colombario ben conservato coperto da un corpo moderno. L’ingresso è dal lato opposto alla strada; qui una scala chiusa da un cancello arrugginito porta alla camera funeraria, in fondo alla quale si vede un arcosolio. Alle pareti si riconoscono nicchie su più file e tracce di pitture floreali. Seguono poi le tracce di altri sepolcri. A destra è scomparsa un’epigrafe che ricordava un Gneo Bebio Tampilo, e subito dopo due iscrizioni commemorano una certa famiglia Turrania. Poco più avanti, dallo stesso lato ma all’interno della recinzione del Forte Appio, un gran mausoleo è sormontato dai resti di una torre.
Superata l’area militare di Forte Appio, sul lato destro della strada si vede il calco in gesso di una stele funeraria con altorilievo in marmo, conservata per motivi di sicurezza al Museo Nazionale Romano, pertinente ad un monumento non più conservato, di età repubblicana:raffigura un giovane nudo, in atteggiamento eroico, con la clamide sulla spalla e la corazza di tipo ellenistico ai piedi. Poco oltre, a sinistra, incontriamo il cosiddetto sepolcro di Quinto Servilio, risalente al I secolo d.C. che fu ricostruito e restaurato come una quinta architettonica in mattoni dallo scultore Antonio Canova nel 1808; come ricordato in altri post in età napoleonica, infatti, comincia a prendere piede l’idea di un unico parco compreso tra il Campidoglio e i Castelli Romani, progetto che il governatore De Tournon affidò a personalità del calibro di Antonio Canova e Giuseppe Valadier.
Sul sepolcro, oltre ad alcuni frammenti in marmo della decorazione architettonica, fu ricomposta l’iscrizione funebre originale, da cui si evince che Servilio Quarto aveva realizzato il monumento a sue spese. Canova volle evidenziare la sua opera di risistemazione attraverso un’iscrizione murata sul sepolcro, in cui si ricorda come papa Pio VII avesse provveduto alla conservazione dei frammenti qui scoperti nel 1808. Nel sepolcro, probabilmente della tipologia a “edicola”, vi erano una statua femminile, ora dispersa, e la statua togata di Servilio Quarto, conservata ai Musei Vaticani.
A sinistra un altro pilastro moderno, in laterizio, è detto Tomba di Seneca, che si presenta come una facciata in laterizio che Antonio Canova ricostruì nell’Ottocento, murandovi alcuni elementi architettonici e decorativi in marmo (molti dei quali ormai mancanti perché rubati nel tempo). L’archeologo Antonio Nibby ne propose l’identificazione con il sepolcro di Seneca, mettendo in relazione una figura sul frammento di un coperchio di sarcofago rinvenuto nei pressi (in realtà raffigurante Ippolito) con le fonti storiche, che attestano al IV miglio della Via Appia la presenza della villa del filosofo, ove egli si suicidò per volere di Nerone nel 65 d.C.
Ancora sul lato sinistro della via, di fronte al civico 199A, si conservano i resti di un mausoleo circolare. Non conosciamo il nome della famiglia che costruì questo sepolcro. Si conserva il nucleo originario in cementizio del tamburo cilindrico con le impronte di blocchi di travertino, al quale fu sovrapposta una copertura conica in scaglie di lava basaltica. Il monumento, che all’interno presenta la cella funeraria con pianta a croce greca – con due bracci della stessa lunghezza – e quattro nicchie per ospitare i sarcofagi, è databile alla prima età imperiale ossia I secolo d.C. L’archeologo Rodolfo Lanciani lo adibì a deposito dei reperti provenienti dagli scavi eseguiti lungo l’Appia alla fine dell’Ottocento.
Pier Luigi Manieri è tante cose: curatore di eventi, ai suoi tempi è stato capace di trasformare l’Elsa Morante, trascurato dall’attuale amministrazione, in uno centri propulsivi dell’avanguardia romana. Saggista e cultore della materia cinematografica, ad esempio ha scritto l’affascinante monografia “La Regia di Frontiera di John Carpenter”, scrittore, suo è “Roma Special effects -di vampiri mutanti supereroi e altre storie” una raccolta di racconti ambientati ovviamente nell’Urbe, curatore di antologie.
Oltre a fornire il la alla sua scrittura, Pier è importante per un altro motivo, in questo romanzo… Anni fa, quando il poverino si trovò trascinato nel mio matrimonio, tra un brindisi e l’altro, vedendosi entrambi in ghingeri e piattini, cominciammo a scherzare e straparlare.
Così ci inventammo due personaggi letterari, due piccoli delinquenti romani, di epica cialtroneria, che, per darsi un tono, si atteggiavano a gangster, addirittura americanizzando il loro cognome: i fratelli Wolf.
A mo di scherzo, sia io, sia Pier, li abbiamo infilati in quasi tutti le nostre fatiche letterarie: ovviamente, Io, Druso non poteva fare eccezione: così, ho ricreato la loro versione nel mondo di De Bello Alieno, i famigerati Lupinus.
Di seguito, il primo dei brani in cui appaiono questi fenomeni da baraccone
Con tutta sincerità, i primi giorni furono assai noiosi: non è che si notasse così tanta differenza dalla Campania Nova, trascurando il fatto che si vedessero sempre meno conifere e sempre più latifoglie. In più, gli aborigenes locali, intimoriti dal nostro spiegamento di forze, badavano bene dal farsi vedere in giro. Le cose cambiarono dopo una decina di giorni. Eravamo appena sbarcati in una piccola baia. Annoiato, decisi di prendere in giro Ordenius.
“Certo, questo è un posto per pescare assai migliore di quello per cui avevamo ai ferri corti a Misenus Novus…”.
Mi aspettavo un sorriso o un insulto, non certo il gesto di tacere.
“Guarda là, Claudio”.
Diressi lo sguardo nella direzione indicata dal frisone, trovandomi davanti il fumo di un focolare.
“Grazie agli dei! Ero stanco di non vedere un’anima viva”.
Ordenius scosse il capo, di fronte al mio entusiasmo.
“Calma, non abbiamo idea di cosa ci potremmo trovare davanti”.
Attaccai a ridere senza ritegno.
“Sì, qualche indigeno ancora più strano della media!”.
Dinanzi alla mia ostinazione, Ordenius cedette e diede ordine ai frisoni, armati di tutto in punto, di avanzare. Io mi posi alla loro testa, quando qualcuno pose una mano sulla mia spalla. Era Valeria.
“Claudio, ha ragione il nostro amico veterano… Potrebbe essere pericoloso”.
I nostri ausiliari, sentendo le sue parole, si fermarono di colpo. Per rassicurare tutti, cercai di parlare con tono pacato.
“Ho i miei dubbi… Con me ci sono uomini coraggiosi, armati sino ai denti… Poi, al massimo, incontreremo qualche aborigeno spaurito. È la buona occasione per capire chi possa abitare queste terre, anche se, a essere sincero, non mi aspetto grandi sorprese. Potranno parlare strano, avere tra i capelli penne di altri uccelli, tatuarsi il viso in maniera differente, ma sempre iperborei sono, no?”.
Rincuorati dalla mia battuta e dal mio procedere spericolato, anche gli altri tornarono a seguirmi, con maggiore cautela, finché non ci trovammo in una radura, dove due cacciatori, uno alto e magro, l’altro basso e tozzo, erano impegnati nell’arrostire un cervo. Il profumo mi fece venire l’acquolina in bocca. Per presentarmi, feci il segno che indicava
Vengo in pace
Presso le tribù iperboree, accompagnato, a scanso di equivoci, da una decina di fucili puntati. I due cacciatori ci guardarono perplessi, per poi agitare le braccia come ossessi, in segno di saluto.
“Demetrio, figlio indegno di un’etera pustolosa, come sei finito in queste terre desolate?”.
Ci girammo tutti verso il mio liberto, che si cominciò a scompisciarsi dal ridere.
“Ma non ci credo! Gaius e Vibius Lupinus, brutti istrici puzzolenti, va bene che dovevate cambiare aria, ma non avete esagerato?”.
Cercando di mantenere un contegno, mi rivolsi a Demetrio, cercando di attirare la sua attenzione
“Ehm, conosci quei due?”.
Demetrio mi guardò come se avessi perso il ben dell’intelletto.
“Ovvio, sono stati miei soci per anni… “.
Il più basso dei due tizi accennò un inchino.
“Vibius Lupinus, per servirvi… Io sono il fratello furbo, mentre Gaius è quello bello e affascinante. Ancora non l’avete gettato ai leoni, quel perditempo di Demetrio?”.
Il mio liberto fece loro una linguaccia.
“Sempre dopo di voi, bastardi”.
Gaius, con aria preoccupata, mi si avvicinò, dicendo
“La vostra presenza non ha nulla a che vedere, con una certa questione relativa a un elisir contro tutti mali e per la ricrescita dei capelli, vero?”.
Vibius quasi sbilanciò il fratello, dandogli un’energica pacca sulla spalla
“Ma cosa dici mai Gaius! Ma ti pare che tali patrizi, nobili esponenti dell’ordine senatoriale, possano sprecare il loro prezioso tempo per una minuzia del genere?”.
Demetrio anticipò la mia risposta.
“Infatti, state sereni amici miei! Abbiamo ben altri pensieri, che gli equivoci di cui sicuramente siete stati vittime. Siamo impegnati, per la gloria della Repubblica, in un lungo viaggio di esplorazione, per scoprire gli estremi confini dell’Iperborea”.
Gaius distese le rughe del viso e Vibius ridacchiò, tornando a parlare.
“Allora siamo colleghi! Anche noi siamo esploratori! Si dice che oltre le Montagne Azzurre, scorra un grande fiume, che pare sia chiamato il Padre delle Acque. Si narra che, sulle sue rive, fenici ed egiziani abbiano fondato città ricche d’oro, di incenso e di avorio. Noi vogliamo raggiungerle, per stabilire dei commerci con queste, per l’onore nostro e la ricchezza dello Stato. Per cui, festeggiamo il nostro incontro e invochiamo il buon esito delle nostre imprese”.
Così cenammo assieme, bevendo e raccontando storie, finché non giunse il tempo di tornare a bordo. Dopo i saluti, mi avvicinai a Demetrio.
“Allora?”
Il mio liberto si fermò, a guardare la luna.
“Sono tra i più grossi cialtroni che abbia mai conosciuto, il che è tutto dire. Non sono neppure convinto che siano veramente fratelli e che quelli siano i loro veri nomi. Lavoravano da me, quando avevo aperto una bisca clandestina a Misenus Novus. Vibius truccava i dadi, Gaius convinceva con le buone o con le cattive i recalcitranti a pagare i debiti di gioco. Poi, quando ho cambiato il mio genere d’affari, loro si sono messi in proprio, impelagandosi in imprese sempre più bislacche. Pensa che almeno ogni due anni, si dirigono verso occidente, alla ricerca di Sesto Pompeo”.
Mi diedi una pacca sulla fronte.
“Hercle , non sono quei tizi del contrabbando di fucili? Me ne accennò una volta Metacomet…”.
Il mio liberto mi rispose con un’alzata di spalle.
“Temo proprio di sì”.
Mi girai a guardare per l’ultima volta quei due tizi, che si stavano preparando a trascorrere la notte nelle braccia di Morfeo.
“Demetrio, in tutti quei viaggi, hanno mai tirato fuori un ragno dal buco?”.
Il mio liberto scosse il capo.
“Ma quando mai! Ogni volta che ritornano, sporchi di polvere, puzzolenti come maiali e con le tasche vuote, provano a propinarmi una storia diversa, nella speranza che gli conceda un prestito, per intraprendere una nuova demenziale impresa. Claudio, pensa che l’ultima volta mi hanno raccontato come Sesto Pompeo avesse conquistato le sette città d’oro di Cibola, abitate da uomini simili alle scimmie, e stesse raccogliendo un esercito, armato di spade di luce e di cannoni che sparano lava e fiamme dal calore insopportabile. Insomma, tutto possiamo dire di loro, tranne che manchino di fantasia”.
Quasi inciampai, salendo sulla lancia.
“E come ci sono finiti qui, codesti strampalati figuri?”.
Demetrio, che fu assai più agile di me a salire a bordo, riprese il suo racconto.
“Da quello che so io, a Nova Stabia, si spacciarono per medici, proponendo come cura per ogni male salassi e purghe, per ristabilire il giusto equilibrio degli umori”.
Sorrisi, pur essendo sballottato da una parte e l’altra dalle onde.
“Non è che si differenziassero molto da quelli veri”.
Demetrio si spostò nel centro della barca.
“Senza dubbio alcuno, solo che a questi rimedi tradizionali, aggiunsero una sorta di elisir, ottenuto dall’olio di roccia che ogni tanto sgorga nell’entroterra di Campania Nova, dal sapore orribile, che provocò un colossale mal di pancia in tutti gli abitanti di Nova Stabia. Per non essere linciati, dovettero scappare in fretta e furia e non se ne ebbe più traccia, sino a oggi”.
Sospirai, vedendo l’Argo sempre più vicina.
“Quindi la storia dell’esplorazione, Demetrio? Come loro solito, erano alla ricerca del figlio di Pompeo Magno e hanno avuto paura che tu li prendessi in giro?”.
Il mio liberto fece una strana smorfia.
“Conoscendo quelle due teste matte, non lo escluderei a priori… Però, ogni tanto, si impelagano in imprese ancora più folli. Anni fa, entrambi partirono verso Nord, Gaius vestito da uomo medicina, Vibius da suo servitore, assieme al solito carico di fucili, che hanno l’abitudine di tenere ben nascosto nel sottofondo di un carro. I nostri legionari, lo sanno, ma sono ben pagati per girare lo sguardo da un’altra parte.Qualche giorno dopo avere superato la frontiera, entrarono nel territorio degli Abenaki e colsero al volo l’occasione, presentatagli lungo la strada, di partecipare ad una piccola scaramuccia tra tribù rivali.
Schierandosi dalla parte di colori che parevano più deboli e aiutandoli a vincere, li avevano costretti ad accompagnarli al loro villaggio, dove Vibius, per festeggiare la vittoria, aveva inscenato un farsesco omaggio alle divinità locali, millantando una particolare familiarità col feticcio più grande; quindi, domandato a gesti del cibo, aveva accettato solo quello che gli veniva offerto dai sacerdoti e dal capo del villaggio, ottenendo con le sue pantomime di essere creduto un’incarnazione divina. Reclutati ed addestrati alcuni guerrieri e conquistato un secondo villaggio, i due cialtroni si improvvisarono pacificatori e legislatori, autoproclamandosi re e primi oratori”.
Con un poco di fatica, riuscii a salire sull’Argo. Appena Demetrio mi raggiunse, mi rivolsi a lui.
“E perché sono tornati tra noi romani, invece di godersi i frutti delle loro conquiste?”.
Il mio liberto sospirò.
“Perché quei due somari non sapevano che, presso gli Abenaki, vi era l’abitudine di sacrificare ogni due anni i loro capi al Grande Spirito, affinché il loro sangue fecondasse la Terra e la rendesse prospera. Appena se ne accorsero, scapparono più di fretta che di paura”.
Ovviamente, oltre a celebrare un mio antenato, che campava vendendo lunari ed elisir, omaggio uno dei racconti che più ho amato da ragazzo, l’Uomo che volle farsi re di Kipling…
In fondo
Tutto iniziò su un treno, nella tratta che va da Ajmir a Mhow…
Bene o male, a scuola, anche di sfuggita, ci hanno raccontato della tragica spedizione ateniese contro Siracusa: il problema è che spesso e volentieri, ce l’hanno descritta, dando una lettera alquanto parziale di Tucidide, una sorta di follia collettiva di quella città, che si era impegnata in un’impresa senza né capo, né coda.
In realtà, la spedizione del 415 a.C. non nasce all’improvviso, ma è il culmine di una serie di eventi e considerazioni geopolitiche, che hanno origine un decennio prima, ai tempi di Pericle. Come evidenziato, altre volte, la cerealicoltura in Grecia è ben poco produttiva: le città, per evitare la fame, dovevano importare grandi quantità di grano dall’estero. Tale commercio diventava fondamentale in caso di guerra, per il semplice motivo che un oplita affamato, è un oplita demotivato.
Per cui, per evitare che la propria fanteria pesante si ammutinasse per fame nei confronti del governo, le città greche tendevano a combattere guerre brevi, che si risolvevano in una battaglia campale: poi tutti a casa, a zappare la terra e riempirsi lo stomaco.
La Guerra del Peloponneso però cambia quest’ordine di cose: da una parte, costringono a mobilitare e quindi nutrire, gli eserciti per lunghi periodi. Dall’altra la strategia di entrambi i contendenti, fa crollare la produzione agricola. Pericle, concentrando la popolazione ad Atene, che deve essere nutrita, abbandona le campagne dell’Attica; al contempo, gli spartani si trovano spesso messi a ferro e fuoco dai raid ateniesi i loro campi in Messania.
Per cui, le importazioni di grano crescono esponenzialmente: bloccarle all’avversario, significa ridurlo alla fame e costringerlo alla resa. Atene si riforniva dalla Crimea e dall’Egitto: per questo per lei era vitale mantenere il controllo dell’Ellesponto e di Naucrati sul Nilo, cosa, nelle prime fasi della guerra, facilitata dall’inferiorità della flotta della Lega Peloponnesiaca, sia dalla sostanziale neutralità dell’Impero Persiano nelle dispute tra barbari greci.
Sparta, invece, dipendeva dal grano siciliano: Atene, però, nonostante la superiorità marittima, non aveva una flotta sufficiente per bloccare tale importazioni. Per cui, se si voleva costringere Sparta alla rese, bisogna in qualche modo agire alla fonte, convincendo, con le buone o con le cattive, le polis siciliane a non vendere i propri cereali ai lacedemoni.
Per fare questo, serviva un intervento militare, ma mancava un casus belli. Come racconta Tucidide
In Occidente, le città doriche erano alleate di Sparta, ma non avevano mai partecipato alla guerra
L’occasione saltò fuori in modo alquanto inaspettato: in Sicilia era in corso una lunga guerra tra Leontini e Siracusa, che aveva imposto un embargo commerciale alla rivale. Leontini, a quanto pare, aveva stabilito un trattato militare negli anni intorno alla metà del V secolo a.C., rinnovato nel 433 a.C.
Viste le brutte, Leontini decise di agire in due modi: stipulò un’alleanza con tutte le città siciliane e della Magna Grecia che avevano il dente avvelenato con Siracusa e chiese aiuto ad Atene, spedendovi un’ambasciata guidata dal sofista Gorgia, nel 427 a.C.
A Pericle brillarono gli occhi e quindi, ufficialmente mando una spedizione di soccorso alla città alleata, 20 triremi e 650 opliti, sotto il comando degli strateghi Lachete e Careade; in realtà, l’obiettivo primario non era mettere un freno alle ambizioni egemoniche Siracusa, ma infastidire i suoi commerci nel Tirreno. Se l’azione politico militare fosse riuscita, in cambio dell’embargo nei confronti degli Spartani, Atene gli avrebbe concesso mano libera in Sicilia.
Lo strumento di pressione sui Siracusani fu identificato nell’occupazione delle Eolie: peccato che Pericle, in vena di risparmio e sottovalutando le difficoltà dell’impresa, avesse lesinato nelle risorse. 650 opliti erano oggettivamente pochini, per controllare l’intero arcipelago. Insomma, Lachete e Careade stavano rischiando una figura assai meschina, anche perché stavano finendo i soldi, quando arrivò la proposta di alleanza da parte di Rhegion, in guerra perenne con Locri, a sua volta alleato di Siracusa.
Rhegion, in cambio dell’aiuto contro Locri, avrebbe messo a disposizione ulteriori opliti e coperto le spese militari: Lachete e Careade fecero mente locale sulla geografia della Sicilia e si resero conto che il controllo dello Stretto di Messina sarebbe stato ancora più dannoso per gli interessi siracusani, rispetto al piano originale. Per cui, senza neppure avvertire la madre patria, accettarono la proposta, trasformando Rhegion nella loro base operativa.
Azione, che però, a differenza di quanto affermano alcuni storici, non significava subordinare l’iniziativa degli ateniesi a quella degli alleati della Magna Grecia: da una parte vi era la prospettiva di arrivare a controllare un territorio così ricco di risorse naturali, in particolare legname, come l’entroterra montuoso di Locri. Dall’altra, gli obiettivi di Rhegion, controllo dello Stretto, era funzionale al blocco dell’esportazione del grano siciliano nel Peloponneso.
In funzione di questo obiettivo, gli ateniesi ottennero con una serie consecutiva di vittorie la defezione di Messina dalla parte dorica, un forte locrese sull’Alessi (fiume di confine tra i territori di Locri e Regio), sottomisero i Siculi che diventano loro alleati, assaltarono e presero Myle, la nostra Milazzo e Lipari
Il problema è che 650 opliti, che la metti, la metti, sempre pochi sono: per cui, per avere aiuti dagli alleati locali, gli ateniesi furono costretti ad appoggiarli, partecipando al bislacco assalto alla fortezza di Inessa, famosa per i suoi campi di grano, sulle pendici dell’Etna. Assalto respinto, in cui gli opliti mostrarono tutti i loro limiti dinanzi alla cavalleria dei siracusani.
Successivamente, gli ateniesi sbarcarono ancora in territorio locrese presso il Caicino (Amendolara?). Attaccano Imera ed ancora le Eolie. Quando gli alleati Siculi iniziarono ad allestire un esercito di terra per conquistare le polis avversarie via terra, gli Ateniesi optarono per un approccio marino contro le isole Eolie e un sostegno terrestre alla conquista di Imera. Tuttavia gli alleati, insoddisfatti del piccolo contingente inviato loro dagli Ateniesi, ne richiesero una di più vasta portata: così Atene allestì 40 navi. I Siracusani, però, avendo intercettato i messaggi tra Atene e le città alleate, cominciarono ad allestire una flotta di larghe dimensioni cercando, in tal modo, di contrastare gli aiuti provenienti dalla Grecia. Pitodoro, figlio di Isiloco, alleato degli Ateniesi, prelevando la loro flotta si diresse verso Locri cercando di conquistarla di nascosto, ma fallì.
Questa iniziativa fece svegliare i Locresi, che si resero conto come il vero obiettivo ateniese, nonostante le chiacchiere su Siracusa, fossero loro: per cui agirono di conseguenza, cercando di scacciare gli ateniesi dalla loro base. Per cui, arruolarono un esercito e ad allestire una flotta per assediarla via mare e via terra, per assediare Rhegion e favorire al suo interno un colpo di stato filo spartano. Come scrive Tucidide
Così i Locresi nello stesso tempo lanciarono in massa una invasione nel territorio reggino per impedire che questa città (Regio) portasse aiuto a Messana. Questa fu una manovra per far in modo che a Regio prevalesse il partito filo dorico. In effetti questa città era stata per lungo tempo divisa ed era impossibile per essa resistere ai Locresi
Il tentativo, però, grazie agli ateniesi, fallì; però, i locresi non si persero d’animo. Assieme ai siracusani raccolsero 20 navi, di cui metà locresi e metà siracusane, si diressero e conquistarono con un colpo di mano Messina, che fu costretta a uscire dalla lega delio-attica. Nella nuova conquista, i Siracusani installarono la base per le future operazioni di guerra; da questo punto, infatti, cominciarono a riunirsi le flotte degli alleati siracusani per prepararsi ad affrontare quella ateniese, che era ancora, relativamente alla loro, piccola e debole. Sempre citando Tucidide
Se fossero riusciti dominatori nella battaglia sul mare, sarebbe stato facile per loro espugnare Reggio con le forze riunite della fanteria e della marina, e il loro vantaggio militare si sarebbe notevolmente rafforzato
La conquista però, fu più faticosa del previsto, dato che locresi e siracusani persero tutta la flotta, cosa che impedì loro di conquistare Rhegion. Per cui, per rafforzare il loro dominio, gli alleati decisero di conquistare Naxos: due giorni dopo piombarono con l’esercito sotto le mura di quella città, arruolando, nel contempo, mercenari siculi. Ma i Nassi, ripresi dallo sconforto iniziale, fecero una sortita contro i Siracusani e i locresi, compiendo una grande strage tra gli assedianti che in più di mille perirono.
Visto il risultato, gli ateniesi passarono alla controffensiva, stringendo d’assedio Messina, che aveva ben poche speranze di potere resistere a un attacco su larga scala, ma i Locresi, guidati dal generale Demotele, giunsero in soccorso e si schierarono in battaglia, nella primavera del 425 a.C. Da una parte dunque Leontini, Ateniesi e gli alleati nativi, dall’altra un esercito locrese rinforzato da elementi siracusani.
Lo scontro che ne seguì fu il più grande di tutta la guerra, eppure gli storici e i cronisti non ne danno un resoconto dettaglio. Sappiamo che vinsero, a costo di gravi perdite, gli Ateniesi. La situazione, però assai complessa: dei 650 opliti iniziali, erano rimasti letteralmente quattro gatti, né era possibile, per vicende di Pilo, mandare ulteriori rinforzi.
Al contempo, i siracusani e alleati erano ridotti ai minimi termini: se gli ateniesi fossero tornati lancia in resta, avrebbero forse ottenuto i loro obiettivi strategici. Per evitarlo, il genio di Ermocrate, stratega siracusano, tirò fuori il coniglio dal cilindro, proponendo la pace di Gela, nel 424 a.C.
In poche parole, con questa si stabilivano accordi che azzeravano la situazione in tutta la Sicilia, in particolar modo a favore di Siracusa. Tutte le città si pacificavano e raggiungevano degli accordi, togliendo il casus belli agli ateniesi, che furono costretti a tornare a casa.
Per curiosità, ecco come il discorso di Ermocrate, riportato e ricostruito da Tucidide
La città nel cui nome mi accingo a parlarvi, uomini di Sicilia, non è la meno potente: e più fra tutte resiste al logorio della guerra. Dunque esporrò a questo pubblico consesso la linea politica che mi pare più densa di promesse per l’avvenire dell’intera Sicilia. La guerra è un male: i suoi danni vi sono noti. È quindi inutile che mi dilunghi a rammentarvene i sacrifici; sono già un patrimonio d’esperienza per voi. Nessuno è spronato a impugnare le armi dall’ignoranza dell’alto prezzo di sangue che esigono, né lo convince a riporle il timore, quando balena nei suoi progetti la speranza di un acquisto. Accade invece che all’aggressore paiano più fruttuosi i profitti, delle privazioni cui s’espone; sull’altro fronte, chi si difende è più disposto ad imboccare il sentiero di un conflitto, irto di pericoli, che a curvare il capo a un’offesa immediata. Ma nel momento in cui queste politiche si rivelano ugualmente dannose, allora i suggerimenti e gli sforzi per riottenere la pace acquistano più decisiva efficacia. Se ce ne convinceremo nelle attuali circostanze, gli interessi comuni ne trarranno un beneficio notevole. Noi tutti abbiamo peccato di particolarismo e siamo giunti alla guerra per regolare al meglio ciascuno le proprie convenienze. Ora, con il dibattito, cerchiamo di approdare a un’intesa e se si rivelerà inattuabile un accordo che soddisfi equamente le singole pretese, ebbene riprenderemo le armi.
Ora dunque bisogna comprendere, se facciamo appello alla ragione, che la conferenza qui raccolta non deve avere sul tappeto polemiche d’interesse privato. A mio avviso, la rete ateniese minaccia di avviluppare l’intera Sicilia. Occorre discutere se c’è ancora tempo per scioglierla da questa trama. La questione ateniese deve essere un monito ben più severo e urgente all’interna armonia di quanto possono le mie parole. Costoro non solo rappresentano in Grecia la potenza principale, ma anche qui da noi, in Sicilia allungano l’occhio a spiare, con una piccola flotta, i nostri passi falsi. Attenti alle proprie opportunità manovrano con quel loro scaltro stile politico, protetti dallo schermo legittimo di un’alleanza, una forza che per tradizione e natura dovrebbe essere loro ostile. Se ci assumiamo noi stessi il compito di sollevare una guerra spingendoli a intervenire – uomini che non hanno bisogno di troppi colpi di sprone per presentarsi in armi – se non solo ci distruggiamo a spese nostre, ma tracciamo loro, piana e dritta, la via del dominio aspetteranno con ansia di vederci all’ultimo stadio dello sfinimento, come è ragionevole temere, e compariranno allora con una flotta più potente, bramosi di soggiogare tutta la nostra Sicilia.
Invece se ci guida la prudenza, occorrerebbe ampliare la sfera di intese politico-militari e imbarcarci in operazioni rischiose più per conquistare ciascuno al proprio paese possessi esterni, che per sacrificarne il patrimonio attuale. E dovete convincervi che la discordia è il più mortale nemico per le città e per tutta la Sicilia e riflettere sul fatto che noi, quanti vi risiedono, mentre incombe lo spettro di un attacco nemico coltiviamo imperterriti, città contro città, le nostre discordie. È indispensabile prendere coscienza di questa realtà. Cadano vertenze tra uomo e uomo, tra città e città. Associamo le nostre forze in un impeto concorde, per restituire sicura la Sicilia. A nessuno sorga il pensiero che la guerra contro Atene coinvolge solo quelli tra noi che appartengono al ceppo dorico, mentre gli uomini di Calcide possono tenersi tranquilli fuori dalla mischia, fiduciosi nella loro affinità con gli Ioni. Si oppongono qui due stirpi, ma l’artiglio di Atene non vuol offendere, vibrato dall’odio razziale, una di esse; minaccia in blocco gli averi della Sicilia, le nostre comuni fortune. Proprio ora si sono smascherati in occasione dell’appello che i coloni di origine calcidese hanno loro rivolto. Costoro non si erano mai attenuti ai loro concreti obblighi di alleanza, ma sono stati ben pronti e lieti gli Ateniesi a superare di slancio perfino il proprio dovere, quale, alla lettera, gli articoli del patto esigevano. Capisco benissimo e giustifico questi ardori ateniesi e l’accortezza che li governa e non mi scaglio contro chi aspira all’impero, ma contro chi è troppo supino a lasciarselo imporre. Poiché è universale e perenne impulso nell’uomo dominare chi si piega, e difendersi dall’oppressore. È in colpa chi tra noi, conscio di tali principi, non provvede in tempo a misure adeguate di protezione ed è forse qui convenuto recando in sé un errore di fondo se non è convinto che il nostro problema capitale è di porre riparo, con i mezzi più fidati e in armonia d’intenti all’abisso in cui stiamo tutti per affondare. Certo un sollecito accordo tra noi significherebbe un enorme passo avanti, verso la libertà da quest’incubo: poiché le basi avanzate ateniesi non si trovano certo nei propri confini, ma in quelli di coloro che ne hanno invocato la presenza. Impiegando questo rimedio non occorrerà un nuovo conflitto per risolvere il precedente: con la pace i dissidi si sciolgono senza postumi dolorosi e chi ha sfruttato una richiesta di aiuto per ammantare di decoro una passione immorale di dominio, è pregato ora, con un onestissimo motivo, di ritirare le mani e prendere la strada di casa.
Riguardo agli Ateniesi, è tale il profitto che si ricava da una deliberazione ponderata. Se, a giudizio di tutti, la pace è la fortuna più preziosa, perché non dovremmo anche noi imporla, nei nostri rapporti interni? O non vi volete convincere che se uno possiede un vantaggio da custodire, e su un secondo s’addensa l’ombra di un infortunio da sventare, è la pace, non la guerra, la condizione migliore per consentire al primo di difendersi e all’altro di liberarsi? E che la pace offre meno rischiose occasioni di prestigio e di gesti magnifici? E quanti diversi privilegi potrebbero, a ricordarli, fornire sostanza a discorsi interminabili, come, purtroppo, le miserie e gli orrori della guerra? Sono queste le riflessioni da approfondire, senza irridere alle mie parole, di cui piuttosto ciascuno si avvalga come di un tempestivo avviso, per provvedere in tempo alla propria sicurezza. E se qualcuno confida saldamente in se stesso, nella giustizia delle proprie ragioni e nella forza che stima di possedere, badi a non subire una delusione cocente; sappia di molti che s’avventarono a vendicare una offesa patita e di altri che, ben temprati giurarono a se stessi di riuscire in una conquista; e i primi non solo fallirono il colpo vendicatore, ma neppure sfuggirono alla catastrofe, mentre agli altri, in luogo di un guadagno toccò la perdita del proprio. Il giusto motivo di una vendetta non ne garantisce anche il successo finale, solo per il fatto che è la replica a una percossa illegalmente inferta; e la potenza non assicura il trionfo, anche se l’accompagna la speranza. Domina sempre il fattore incalcolabile del futuro: ma questa incertezza, la più illusoria tra tutte, può divenire anche l’elemento più utile. Poiché l’impero universale del previdente timore ci ispira, nelle relazioni con gli stati stranieri, una politica più prudente.
Ora, sotto l’influsso di questa duplice cosciente inquietudine, per il futuro indecifrabile, sorgente sempre viva di ansie, e per la reale allarmante presenza degli Ateniesi, e ormai convinti, in relazione al disinganno di molti tra noi nei loro progetti, che bastarono questi scogli a frantumare i sogni e le ambizioni di grandezza da ciascuno coltivati, respingiamo il nemico dalla nostra terra, ove ha posto piede. Abbracciamo il partito migliore, una pace stabile nel tempo: se non si può giungere a tanto, firmiamo tra noi un armistizio, il più duraturo possibile, o rimandiamo a più opportune occasioni le vertenze particolari. Seguendo il mio consiglio, dovete persuadervi, abiteremo ciascuno una città libera e contrapporremo a chiunque, amico o ostile, in virtù della nostra sovrana indipendenza e su basi di parità, un’adeguata e gagliarda replica. Ma se, non confidando in questi argomenti, pieghiamo il capo ad altri, non sarà più questione di voler punire un eventuale aggressore. Ci potremo dire felici, se solo ci si imporrà l’obbligo di stringerci in amicizia con gli avversari più odiosi e di alzare le armi contro chi meno dovremmo.
E io che, come ho già detto all’inizio, parlo in nome della città più potente, e che mi sento più pronto ad assalire che a difendermi, prevedendone gli effetti, giudico più proficua una politica riflessiva, aperta anche a qualche concessione. Irrigidirsi contro il nemico è una follia, cui segue un danno anche più grave. Non vibro a una frenesia dissennata di vittoria, che mi inculchi la convinzione di poter egualmente disciplinare il mio personale volere e il corso della fortuna, su cui non vale il mio freno. Quando s’impone una rinuncia, mi fletto e l’accolgo. Ebbene proclamo che secondo giustizia il mio contegno deve essere modello per tutti, che dobbiamo adattarci a qualche sacrificio tra noi per non favorirne il nemico. Non è vergogna per uomini che abitano la stessa patria scendere a qualche concessione reciproca, Dori a Dori, Calcidesi a quelli dello stesso ceppo e, in complesso, tra genti vicine che abitano il medesimo suolo, lambito dal mare e distinto da un unico nome di popolo: Sicelioti. Combatteremo, io credo, e ricorreremo alla pace quando sarà opportuno, ma sempre tra noi, appellandoci a trattati che noi soli riguardino. Stringiamoci compatti sempre a far barriera, se siamo ragionevoli, contro genti straniere che si avanzino con propositi aggressivi. Poiché sappiamo che una perdita inflitta ai singoli è ogni volta un pericolo per il fronte comune. Così non sentiremo più l’urgenza d’invitare dall’estero alleati e intermediari di pace. Con questa politica, oltre a non privare la Sicilia, nelle circostanze attuali, di due fruttuosi risultati, la liberazione dalla minaccia ateniese, e dalla lotta interna, potremo in seguito godere quest’isola in assoluta autonomia, tra noi, senza il terrore costante di un agguato straniero
Gli ateniesi, però, non la presero bene: sempre lasciando la parola a Tucidide
Ma al loro ritorno gli strateghi furono puniti dagli Ateniesi, due, Pitodoro e Sofocle, furono condannati all’esilio ed uno, Eurimedonte, ad una multa: il motivo fu che loro dovevano sottomettere il mondo siciliano, come si auguravano, e ciò fu fatto loro pagare con la partenza
In più cominciarono a riflettere sulle lesson learned. Per prima cosa, gli opliti ateniesi si erano mostrati superiori a quelli siracusani: se quattro gatti, per tre anni, dal 427 al 425, avevano fatto tutto questo casino, una spedizione seria avrebbe facilmente conquistato la Sicilia. Seconda cosa, bisognava fare terra bruciata nei confronti di Siracusa, per impedire una replica del congresso di Gela. Per questo, nel 422 fu spedito Feace in missione diplomatica in Sicilia; l’oratore riuscì a fare aderire Catania alla coalizione antisiracusana e, soprattutto, fu stipulato un trattato di non belligeranza con Locri, che lasciava ad Atene mano libera, in cambio nel non intervento in Magna Grecia.
Ippocrate di Gela, anche se la sua figura è nota solo in linee generali, ma che sotto molti aspetti, è uno straordinario innovatore sia nella politica della Sicilia Greca, sia in generale, del mondo classico.
Succeduto al fratello Cleandro dopo una guerra civile contro gli oligarchi locali, che vinse grazie all’appoggio della fazione guidata da Gelone, come gli altri tiranni dell’epoca, cercò di proiettare all’esterno le tensione interne alla polis, ma con tutt’altra ambizione rispetto al rubare le terre ai vicini, come succedeva quasi sempre sino ad allora, sia in Grecia, sia in Sicilia: Ippocrate, infatti, è il primo che si pose l’obiettivo geopolitico di unificare sotto un unico dominio le polis dell’isola.
Grazie ad Erodoto, abbiamo un’idea di massima delle conquiste compiute dal tiranno di Gela
Alla morte del figlio di Pantare Cleandro, che regnò su Gela per sette anni e morì per mano di un uomo di Gela, Sabillo, prese il potere Ippocrate, fratello di Cleandro. Al tempo della tirannide di Ippocrate, Gelone, discendente del sacerdote Teline, era doriforo di Ippocrate assieme a molti altri, tra i quali Enesidemo, figlio di Pateco. In breve tempo per il suo valore fu nominato comandante di tutta la cavalleria; infatti quando Ippocrate assediò Callipoli, Nasso, Zancle, Lentini, nonché Siracusa e varie città barbare, Gelone in queste guerre si distinse in modo particolare.
La prima conquista fu Kallipolis, colonia greca mai identificata con certezza, ma che dovrebbe forse corrispondere con la nostra Giarre; poi passo a Naxos, a Messina e infine Lentini, con un disegno strategico abbastanza semplice. Ippocrate si sarebbe prima diretto contro centri minori, in modo da fare bottino e procurarsi fondi per sostenere la guerra, per poi concentarsi sulle polis più importanti. In questa campagne, che lo resero padrone della Sicilia orientale, Gelone fece carriera, diventando ipparco, comandante della cavalleria.
Per vincere le guerre, però, serve un esercito: imitando i cartaginesi, Ippocrate affiancò alla milizia della Polis, che a differenza di quelle greche, era costituita essenzialmente da cavalieri, piuttosto che da opliti, mercenari arruolati tra i profughi ionici in fuga dai persiani, per avere questa benedetta fanteria pesante e da siculi, che invece costituivano la fanteria leggera, che aumentava la flessibilità del suo esercito: un dispositivo tattico a cui, nella Grecia continentale, si arriverà solo alla fine della Guerra del Peloponneso.
Ma i mercenari, per combattere, debbono essere pagati: per far questo, Ippocrate adottò due soluzioni distinte. La prima, tradizionale, è basarsi sul saccheggio delle città conquistate gli fa ottenere ricchezze che egli può rimettere in circolazione coniando moneta ed è forse al nuovo tiranno che va attribuita la prima attività di coniazione a Gela (adottando il sistema ponderale euboico-attico e il didramma come valore nominale di base). Ma l’attività della nuova zecca di Gela va ascritta non solo all’esigenza di pagare i mercenari, ma anche ad un’intensa attività edilizia, che si sviluppa tanto a Gela, con la ristrutturazione del complesso templare di Athena Lindia, quanto nella madrepatria (lavori per il thesaurós del santuario di Olimpia). L’argento per le monete proveniva da esazioni effettuate nella madrepatria e dalla vendita dei prigionieri resi schiavi,inizialmente solo indigeni, ma ben presto anche Greci.
A questo approccio predatorio, che di fatto creava un circolo vizioso, con la guerra che continuava ad oltranza per auto alimentarsi, Ippocrate associò una straordinaria innovazione: l’istituzione di colonie militari da destinare ai soldati, i quali si assicuravano il possesso di vasti spazi di terra coltivabile. Soluzione che sarà imitata da tutti i tiranni greci successivi e probabilmente grazie alla mediazione di Dioniso di Siracusa, che aveva rapporti diplomatici più o meno conflittuali con l’Urbe, anche dai romani, e che garantiva al tiranno una serie di vantaggi: le tesaurizzazione del bottino, la trasformazione dei soldati in contribuenti, un maggior controllo del territorio.
Il rischio delle colonie militari, se costituite non da cittadini, ma mercenari è che qualche loro comandante troppo intraprendente mandi al diavolo il suo datore di lavoro, rivoltandosi e proclamando la secessione: Ippocrate, consapevole del rischi, inventò un meccanismo di bilanciamento di potere, non distruggendo le poleis conquistate, ma le affidandole a tiranni vicari, che da lui dipendono e a cui è riservata un’autonomia appena formale, come è il caso di Enesidemo di Leontini, figlio di Pateco. Questi oltre a tassare e controllare i loro concittadini, fungevano anche da cani da guardia per qualche strana iniziativa da parte delle colonie militari.
Di questi tiranni vicari abbiamo comunque pochissime informazioni. Il caso meglio documentato è anche quello più controverso e riguarda Zancle, la nostra Messina. La vicenda è documentata dalla testimonianza del solito Erodoto (6, 23):
Durante questo viaggio accaddero i seguenti avvenimenti: i Sami, navigando verso la Sicilia, giunsero a Locri Epizefiri proprio mentre gli Zanclei e il loro re, che aveva nome Scite, assediavano una città dei Siciliani per conquistarla. Saputo ciò, il tiranno di Reggio Anassilao, il quale era allora in discordia con gli Zanclei, venuto a colloquio con i Sami li persuase che conveniva dire addio a Calatte verso la quale navigavano e occupare invece Zancle, che era vuota di uomini. Poiché i Sami si lasciarono convincere e occuparono Zancle, allora gli Zanclei, appena seppero che la città era occupata, accorsero a difesa e chiamarono in aiuto Ippocrate tiranno di Gela, che era loro alleato. Ma Ippocrate quando effettivamente col suo esercito venne loro in aiuto, mise in ceppi Scite re degli Zanclei come responsabile della perdita della città e suo fratello Pitogene e li mandò nella città di Inico, e gli altri Zanclei li consegnò a tradimento ai Sami con cui si era accordato e aveva scambiato giuramenti. Gli era stato fissato questo compenso dai Sami, che essi stessi si prendessero la metà di tutti i beni mobili e degli schiavi che erano nella città e che invece tutti i beni dei campi li avesse Ippocrate.
Il passo di Erodoto può essere collegato ad un passo di Tucidide il quale riferisce:
Zancle dapprima era stata così chiamata dai Siculi, poiché il luogo ha l’aspetto di una falce (i Siculi chiamano la falce «zanclon»); poi gli abitanti furono scacciati dai Sami e da altri Ioni, che fuggendo i Medi approdarono in Sicilia.
I Sami e gli Ioni menzionati da Erodoto e da Tucidide sono con tutta probabilità da collegare alla battaglia di Lade del 494 a.C., che determina la fine della rivolta ionia contro i Persiani. Queste genti, in fuga dal disastroso risultato della guerra contro gli Achemenidi, avevano intenzione di colonizzare la nostra Caronia.
Quando giungono a Locri Epizefirii, Anassilao, il tiranno di Rhegion, i cui obiettivi di controllo dello stretto e del commercio tirrenico con i Cartaginesi lo ponevano in diretto contrasto con le ambizioni dei tiranni sicilioti, li invita a conquistare Messina, come suoi alleati.
Il tentativo fallisce per l’intervento di Ippocrate, che non fidandosi più del suo clientes, arruola i profughi mercenari, caccia a pedate Scite e trasforma Messina da polis a colonia militare. Scite riesce a scappare e a tornare a Cos, dove originariamente aveva rinunciato alla tirannide per cercare fortuna in Occidente e si era allontanato con il permesso del re persiano Dario. Il quale, al vederlo tornare e presentarsi alla sua corte, sempre secondo Erodoto
“lo giudicò il più onesto di tutti gli uomini che erano venuti a lui dalla Grecia”
Per completare il suo progetto egemonico, però, mancava un tassello: il possesso di Siracusa, per due importanti motivi. Il primo è che, essendo Siracusa posta in un punto centrale tra la costa meridionale e quella orientale gli avrebbe permesso un controllo e una vigilanza costante sui territori conquistati e sottomessi. Il secondo, ancora più importante era il controllo del suo porto, che associato a quello di Zancle, avrebbe assicurato le comunicazione e gli scambi commerciali con l’Oriente, la Madrepatria e Cartagine, e il controllo dei mari.
Il tiranno di Gela aspettava il momento opportuno per dichiarare guerra alla polis: sfruttò l’occasione dell’ennesima guerra civile tra i gamóroi “coloro che possiedono una porzione di terra” la classe di proprietari terrieri discendenti dai primi coloni corinzi e i Killichirioi, i braccianti e gli artigiani, discendenti dai siculi e dagli immigrati di seconda generazione. Nel 492 a.C. Ippocrate invase la chora di Siracusa, sconfiggendo i suoi cittadini nei pressi del fiume Eloro, in cui si distinse il cognato di Gelone, Cromio, a cui Pindaro dedicò la Prima Ode Nemea.
Ippocrate però, fu costretto a togliere l’assedio di Siracusa, per due motivi: il primo, la minaccia di intervento della flotta di Corcira e di Corinto, e il tiranno di Gela non voleva concedere a queste città una scusa per intervenire nelle vicende siciliane. Il secondo, le continue razzie che le città sicule stavano cominciando a compiere ai danni dei suoi domini, che stavano rischiando di trasformarsi in una guerra aperta.
Per cui, a malincuore, accettò un compromesso con Siracusa, rimandando a tempi migliori la conquista: la polis dovette pagargli un tributo e cedergli il possesso di Camarina. A seguito della pace, Ippocrate concentrò i suoi sforzi contro i siculi. Il suo primo obiettivo fu Ergezio, nell’area della nostra Paternò.
Secondo quanto racconta Polieno nei suoi Stratagemmi, Ippocrate mostrandosi uomo magnanimo davanti agli Ergetini li convinse ad entrare tra le file del suo esercito: dava loro la paga migliore, li lodava oltremodo, guadagnandosi sempre più la loro fiducia. Poi una notte, quando tutti gli uomini in grado di combattere lo accompagnarono, egli condusse gli Ergetini in mare, ponendoli su delle barche, tra le onde. Nel frattempo si diresse tramite la pianura della Lestrigonia nell’entroterra, in una Ergezio ormai priva di difese; la conquistò mentre gli Ergetini erano bloccati sulla costa, poi, una volta presa, diede ordine ai Geloi e ai Camarinesi di uccidere gli Ergetini.
Il passo successivo fu la conquista di Ibla; disperata ed eroica fu la difesa dei siculi, ma Ippocrate riportò la vittoria che sventuratamente pagò con la vita per le numerose ferite riportate in battaglia. Alla sua morte, però, il suo dominio si sciolse come neve al sole.
Il primo a muoversi fu Anassilao di Rhegion, che, con un colpo di mano, conquistò Zancle, scacciandone i sami e il tiranno vicario Cadmo di Cos, figlio di Scite. Lo scontro è attestato da una dedica posta su uno schiniere e su un elmo rinvenuti a Olimpia, in cui i Reggini si vantano di una vittoria sui Geloi. Da quanto racconto Tucidide, Anassilao insediò nella città “uomini di provenienza diversa” (Tucidide, 6, 4, 6), tra cui dei Messeni, probabilmente salvatisi da un moto di iloti datato 490 a.C. Fu forse in questa occasione che Anassilao, egli stesso di discendenza messena, ribattezzò la città Messana. Anassilao diviene ecista di Messana e molto probabilmente vi si trasferisce, lasciando Reghion al figlio Leofrone
Al contempo, Gelone, che fungeva da tutore dei figli minorenni di Ippocrate, dovette affrontare sia la rivolta delle vecchie famiglie oligarchiche, tanto che a sentire Erodoto, organizzò un colpo di stato
Quando anche Ippocrate, dopo aver regnato tanti anni quanti suo fratello Cleandro, morì presso la città di Ibla, in una guerra da lui intrapresa contro i Siculi, ecco allora che Gelone finse di soccorrere i figli di Ippocrate Euclide e Cleandro, giacché i cittadini non volevano più essere loro soggetti, ma in realtà, sbaragliati in battaglia i cittadini di Gela, strappò ai figli di Ippocrate il potere e lo detenne personalmente.
In realtà la situazione potrebbe essere, a sentire Aristotele, di solito assai bene informato sulle vicende siciliane, assai più complessa. Il maestro di color che sanno, in un brano della Retorica, così scrisse
Costoro commettono ingiustizie nei confronti di quelli che stanno per subirle da altri, poiché non vi è più il tempo necessario per deliberare, come si dice fosse il caso di Enesidemo, che mandò il premio del cottabo a Gelone che aveva sottomesso Gela, in quanto [Gelone] l’aveva preceduto, poiché anch’egli [Enesidemo] si apprestava a fare la stessa cosa
Di fatto, si scatenò una sorta di notte dei lunghi coltelli tra i generali di Ippocrate e Gelone fu il più lesto ad approfittarne..
Può sembrare strano, ma i dati storici concreti sulla figura e sulla vita di Santa Rosalia, la Santuzza, sono alquanti scarni: di fatto, c’è un vuoto di circa cinque secoli tra la sua esistenza terrena e il suo diventare protagonista della vita religiosa palermitana.
Così, il gesuita Giordano Cascini nel 1631, quando su mandato del Senato palermitano, fu incaricato di scrivere “De vita et inventione S. Rosaliae virginis panormitanae commentarium breve”, per completare il lavoro, riadattò biecamente la vita di Sant’Alessio, che all’epoca, grazie alle rappresentazioni teatrali romane dell’epoca, era diventata una sorta di bestseller dell’epoca, ovviamente cambiando il sesso del protagonista e spostando le vicende nello spazio e nel tempo.
Sicuramente, non faceva di cognome Sinibaldi: l’iscrizione scolpita in una grotta della in cui lei stessa si dice figlia di Sinibaldi, signore della Quisquina e delle Rose, rinvenuta nel 1624 da due muratori è di certo falsa, anche perché la migrazione lucchese a Palermo è molto più tarda, risalendo a alla seconda metà del Quattrocento.
Di certo, era una monaca basiliana, che a un certo punto, cosa tipica nella spiritualità di origine bizantina, scelse di dedicarsi alla vita eremitica: in vita dovette godere di una certa fama, dato che fu subito dichiarata Santa dall’Arcivescovo di Palermo Gualtiero Offamilio, visto che il nome di Santa Rosalia, lo si trova in documenti del 1196 – 1198 dei Papi Celestino III e di Innocenzo III, della Regina Costanza e di Federico II in cui si fa menzionedi terreni dedicati al suo nome presso l’isola di Capo Rizzuto in Calabria di proprietà del Monastero cistercense di Santa Maria della Sambucina.
Però, era considerata una delle tante sante di secondo piano: le fu dedicato un altare nella Cattedrale vecchia, distrutto nelle ristrutturazione del Cinquecento, una cappella adiacente alla grotta su Monte Pellegrino e una chiesetta sulla presunta casa di famiglia.
Il fatto che sorgesse all’Olivella, fuori delle mura cittadine, in una sorta di baglio, una fattoria fortificata in aperta campagna, fa pensare come la sua famiglia, pur non essendo di origine nobiliare, potesse essere costituita da proprietari terrieri benestanti.
Chiesa, quella dell’Olivella, che chiesa fu eretta probabilmente intorno 1160, in stile arabo normanno e documentata in atti testamentari del 18 aprile 1257: essendo molto periferica, non è che svolse un ruolo così importante nella Palermo medievale.
Le cose cambiarono nel 1402, quando fu fondata una confraternita dedicata a Santa Caterina d’Alessandria, che sin da subito, cominciò a rompere le scatole a tutte le gerarchie ecclesiastiche palermitane, affinché dessero ai suoi confrati una sede adeguata. Tanto fecero, che nel 1415, per toglierseli dalle scatole, il cardinale Ubertino de Marinis, vicecancelliere e Gran Giustiziere del regno di Sicilia, concesse loro proprio la chiesa di Santa Rosalia. A riprova che all’epoca la devozione per la Santuzza non è che fosse così diffusa, nessuno batté ciglio quando i confrati cambiarono la titolatura della chiesa, dedicandola a Santa Caterina.
Le cose cambiarono ulteriormente con l’insediamento dei Filippini nella zona: per avere a disposizione il terreno occupato dalla vecchia chiesa, i religiosi giunsero a un compromesso con i confrati. In cambio della cessione del lotto, i Filippini avrebbero eretto a loro spese un nuovo oratorio, sede della confraternita di Santa Caterina e nella loro nuova grande chiesa, un altare, inizialmente assai defilato, dedicato a Santa Rosalia.
I religiosi mantennero i patti e non lesinarono spesa per il nuovo oratorio, rendendolo un’importante testimonianza artistica del passaggio tra rococò e neoclassicismo: con le leggi savoiarde sugli ordini religiosi e la mattanza delle confraternite palermitane, l’oratorio fu abbandonato nel 1867, finché, nel 1946 fu affidato all’Ordine dei Cavalieri Gerosolimitani del Santo Sepolcro, che ancora oggi ne ha cura.
La facciata, come tanti altri oratori palermitani, è assai semplice: delimitato ai bordi da due lesene troviamo un portale in pietra con volute e architrave aggettante, sormontato da una finestra che dà luce alla cantoria, decorata dalla conchiglia e dalle doppie volute laterali. Tutto sovrastato da un cornicione d’attico a due “pire di pietra”. Dall’ingresso principale si accede attraverso un portone ligneo finemente lavorato, in un piccolo vestibolo dove sulla parete centrale tra le due usuali porticine d’ingresso all’aula vi è un dipinto su tela che raffigura lo Sposalizio Mistico di Santa Caterina, probabilmente di Gaspare Bazano detto “ lo Zoppo di Ganci”.
L’interno dell’oratorio è un capolavoro realizzato in stucco e attribuito a Procopio Serpotta, che era membro della confraternita, e a Domenico Castelli. A differenza del padre Giacomo, Procopio non diede fondo a una fantasia sfrenata, facendo predominare gli stucchi sul resto degli elementi decorativo, ma al contrario cercò di raggiungere un elegante equilibrio con la pittura e l’architettura dell’oratorio. Le sue parole d’ordine furono euritmia e rappresentazione razionale e unitaria dello spazio.
Per ottenere tale obiettivo, Procopio concepì una decorazione ispirata alla tradizione cristiana, che vede Caterina come protettrice della Cultura. Così scandì lo spazio tra una finestra e l’altra con figure muliebri che simboleggiano la Dialettica, la Fisica, la Geometria, la Teologia, la Retorica, l’Etica, la Geografia, l’Astrologia, la Scienza e la Sapienza. Accanto all’arco di trionfo sono collocate, inoltre le statue delle Sante vergini palermitane, Santa Ninfa e Santa Oliva, e più accostate ai lati del quadro dell’altare maggiore raffigurante “Il Martirio di S. Caterina”, troviamo Sant’ Agata e Santa Rosalia che affiancano il dossale dell’elegante altare ligneo. Ogni finestra dell’oratorio ha il timpano arricchito da putti che sostengono targhe e medaglioni con la semplice funzione decorativa.
Pregevoli sono le opere pittoriche: oltre al già citato “Martirio di S. Caterina” attribuito a al pittore Giuseppe Salerno l’altare maggiore, al centro della parete d’ingresso troviamo il dipinto su tavola cinquecentesco raffigurante la “Madonna col Bambino” del raffaellesco Vincenzo degli Anzani da Pavia. Ai lati dell’altare altri due pregevoli dipinti del XVII secolo: a sinistra una tela con “S Caterina che disputa con i sapienti” e a destra un’altra raffigurante “S. Caterina in carcere che riceve la visita dell’imperatrice Costanza”. Nella volta del cappellone un affresco che raffigura “Il trionfo di S. Caterina”, eseguito da Antonino Grano e portato a compimento dal figlio Paolo dopo la morte del padre.
Gli scanni lignei del confrati sono in stile neoclassico. Essi sono allineati alle pareti laterali e sono arricchiti in modo incantevole da quattordici tavole ellittiche dipinte nelle spalliere che raccontano la vita di Santa Caterina. Partendo dalla parete destra verso il presbiterio si osservano: l’incontro tra l’imperatrice e la Santa; la conversione di Porfirio, il battesimo di Porfirio, la convocazione della Santa davanti all’Imperatore Massenzio e ai retori e filosofi, la Visione della Santa in carcere, l’offerta di ricchezze dell’Imperatore alla Santa per rinunciare al suo credo (la Santa indicando in alto vuol dire che l’unico vero bene è Dio), Santa Caterina e le sue accolite si oppongono, di fronte all’Imperatore, al sacrificio pagano. Continuando sulla sinistra, sempre dal vestibolo vediamo: Santa Caterina che predica tra i soldati, Santa Caterina in prigione nutrita da una colomba, il Supplizio della ruota, la decapitazione della santa con gli angeli che scortano la sua anima in cielo, il trasporto sul monte Sinai del corpo di Santa Caterina ad opera degli angeli.
Particolarmente prezioso è lo scanno ligneo di mogano riservato ai Superiori della Compagnia addossato alla controfacciata, in legno dorato intarsiato con avorio e madreperla. Lo splendido pavimento in marmi policromi con disegni di figure geometriche con al centro una stella ad otto punte, similare a quelli di Santa Cita e San Lorenzo, realizzato dai maestri Gioacchino Vitagliano e Nicolò Vitagliano nel 1730.
Il complesso di Capo di Bove non si ferma alla tomba di Cecilia Metella, ma si estende per un altro mezzo chilometro, in un’area che, anticamente, era sempre parte del Pago Tropio e che per lungo tempo, ne seguì le vicissitudini.
Inizilmente parte Patrimonium Appiae (vasta tenuta agricola di proprietà ecclesiastica). In età medievale la zona apparteneva al “Casale di Capo di Bove e di Capo di Vacca”, acquistato nel 1302 dal Cardinale Francesco Caetani, nipote di papa Bonifacio VIII, fondatore del Castrum costruito a ridosso del mausoleo di Cecilia Metella. L’organismo del Casale, anche dopo la trasformazione in fortilizio, mantenne le caratteristiche agricole “..con tutte le difese, le vigne, i vivai, …”che rimasero tali fino ai tempi recenti. Il toponimo “Capo di Bove” è originato dai bucrani che ancora oggi ornano il fregio posto alla sommità del sepolcro di Cecilia Metella.
Nel 1660 l’area, censita nel Catasto Alessandrino, era parte del “Casale di Capo di Bove Grande”, di proprietà dell’Ospedale del SS. Salvatore ad Sancta Sanctorum; nel 1709 l’Ospedale la concesse in enfiteusi perpetua a Pietro de’ Vecchi, nell’ambito di una “Vigna” più vasta. Nel Catasto Pio Gregoriano (1812-1835) la proprietà è del Monastero di S. Paolo fuori le Mura, l’edificio principale è censito come “casa ad uso della vigna”, costruito sopra una cisterna romana.
L’area, in proprietà privata dal 1870, ha mantenuto l’uso agricolo fino al 1945, momento in cui è avvenuta la trasformazione per l’uso residenziale. Nel dopo guerra avvenne invece una trasformazione importante, e il complesso venne trasformato per uso residenziale ad opera di una famiglia di mercanti ortofrutticoli, i Romagnoli. Successivamente il Casale fu investito dalla moda del tempo, che vedeva una committenza ricca e famosa protagonista di molte acquisizioni lungo l’Appia Antica. Avere una villa immersa nel verde di quella zona rappresentava uno status symbol a cui non si poteva rinunciare, specie per i produttori cinematografici che negli anni Cinquanta lavoravano nell’Hollywood sul Tevere. Fu così che Sauro Streccioni acquistò la villa e commissionò il progetto di recupero ad un architetto ( probabilmente seguace della scuola di Busiri Vici ) che riprodusse il Casale con un aspetto antico. Nell’ambito di queste trasformazioni, con un gusto estroso, il paramento murario dell’edificio è stato realizzato come una rivisitazione della tecnica “spolia” diffusa in epoca medievale utilizzando interamente reperti antichi recuperati dalla distruzione di diversi monumenti (mattoni, elementi architettonici e decorativi, sarcofagi, transenne, battelli). Per l’importanza di questi reperti l’edificio si configura esso stesso come una “mostra”.
Il progettista quindi enfatizzò la struttura della cisterna esistente, ma di sicuro la rispettò. Negli anni 70/80 poi nuovi ricchi si interessarono all’area e ci furono ulteriori trasformazioni, che riguardarono anche i limiti del parco archeologico, il tutto ovviamente al di fuori della legge e nel segno dell’abusivismo. Quando però si cercò di vendere la villa Capo di Bove dichiarando un prezzo evidentemente troppo basso, un funzionario statale, rendendosi conto dell’accaduto, esercitò il diritto di prelazione sul bene vincolato, bloccò la frode in corso e incamerando il complesso nel demanio, per 3 miliardi del vecchio conio, insieme a tutto il terreno ad essa pertinente, di ben 8500 metri quadrati.
Da quel momento in poi, la valorizzazione del complesso è proceduta lungo due binari paralleli: da una parte è stata restaurata la villa padronale nel 2006 e destinata a ospitare, in memoria dello studioso Antonio Cederna, il “Centro di Documentazione dell’Appia” e l’Archivio che porta il suo nome, che la famiglia ha di recente donato allo Stato. Tale archivio, precedentemente conservato presso Palazzo Altemps, contiene un tesoro di carte, articoli e libri appartenuti al grande giornalista e strenuo difensore a tutela della “regina viarum”.
Il fondo si compone di materiali che coprono un arco cronologico che va dagli anni Quaranta agli anni Novanta del Novecento:
circa 1500 unità archivistiche ordinate in fascicoli e buste contenenti: corrispondenza ufficiale e personale, appunti manoscritti, prime stesure di pubblicazioni, materiale a stampa di vario genere, documentazione di lavoro, articoli etc.;
il materiale riguarda: argomenti di tutela paesaggistica, speculazione edilizia, battaglie ambientalistiche,legislazione su temi storico-artistici-ambientali; mappe e planimetrie; collezione fotografica;documentazione cartacea e fotografica di Cederna.
E’ anche conservata la biblioteca di Antonio Cederna composta da circa 4.000 volumi di diverso argomento (archeologia, storia di Roma, Storia dell’Arte, urbanistica, architettura, ambiente, legislazione sulla salvaguardia di beni storico-artistici e paesaggistici). L’Archivio è stato dichiarato di interesse storico particolarmente importante ai sensi degli artt. 13 e 14 del d. lgs. 42/2004.
In parallelo, è stata realizzato uno schiavo archeologico, che ha portato alla scoperta Lo scavo archeologico ha portato alla scoperta di un impianto termale inedito la cui prima fase costruttiva si data alla metà del II secolo d.C. La struttura era con ogni probabilità di proprietà privata ad uso di una villa o di un gruppo di persone facenti capo ad una corporazione o ad un collegium che frequentava la zona. Il ritrovamento di una lastra di marmo, riutilizzata nel pavimento, con l’iscrizione a caratteri greci che menziona Annia Regilla, consorte di Erode Attico, definita secondo la formula ΤO ΦΩC ΤΗC ΟΙΚΙΑC (= luce della casa), potrebbe indurre a credere che l’impianto possa essere pertinente ai vasti possedimenti che Erode Attico aveva nella zona proprio nella metà del II secolo.
Il complesso termale fu utilizzato almeno fino al IV secolo, come attestano la tipologia delle murature ed i materiali archeologici recuperati (ceramica, monete, bolli laterizi, lucerne). Il ritrovamento di mosaici, di numerosi frammenti di marmi policromi, alcuni ancora in situ, e di porzioni di intonaco dipinto rivela la particolare eleganza e raffinatezza degli ambienti L’ingresso principale dell’impianto termale doveva probabilmente aprirsi, in forme monumentali, lungo la via Appia; da qui si accedeva agli spogliatoi, di cui si conservano le pavimentazioni a mosaico con disegno geometrico bianco e nero. Lasciati i propri abiti, presi asciugamano e sandali ed oramai lontani dal frastuono della strada, i frequentatori delle terme accedevano ai vari ambienti, frigidarium, tepidaria, calidarium. L’itinerario, percorso anche a ritroso, poteva essere arricchito con una sosta nella sudatio, dove era possibile farsi massaggiare il corpo o completato da una rigenerante sauna nel laconicum.
All’approvvigionamento idrico contribuivano due grandi cisterne su una delle quali è stata impiantata la villa; lo smaltimento delle acque avveniva attraverso un complesso ed ingegnoso impianto fognario di cui lo scavo archeologico ha portato in luce alcuni tratti perfettamente conservati. Nell’area sono stati rinvenuti, fra l’altro anche oggetti minuti che era facile smarrire in un simile contesto, come un dado da gioco in osso, una spatola in bronzo per il trucco femminile, aghi crinali in osso per le acconciature delle signore, monete in bronzo, un dado da gioco fatto in osso
Questo impianto, verosimilmente a uso privato, probabilmente fu in utilizzato fino al IV d.C., forse con varie modifiche e ridimensionamenti. Alcuni studiosi hanno calcolato che le terme si sviluppavano su trentaquattro ambienti; infine nella parte posteriore delle terme si è conservato il canale che raccoglieva lo scarico delle acque, una condotta a “Cappuccina” che arrivava alla fognatura.
Piano piano, cominciano ad arrivare i primi pareri e reazioni a Io,Druso. Il posto d’onore, ovviamente, spetta a Davide Del Popolo Riolo, che è il padre spirituale di questo romanzo
Sono diversi i motivi per cui non dovrei parlare pubblicamente di questo libro, immagino. Ne elenco almeno quattro:
1) Alessio è un mio caro amico; 2) il romanzo è, se non un seguito diretto, comunque ambientato nel medesimo universo in cui si svolge il mio De Bello Alieno; 3) prima di iniziare a scriverlo e anche mentre lo scriveva Alessio mi ha chiesto qualche indicazione sulle mie idee circa gli eventi successivi alla fine del mio romanzo; 4) il libro contiene in appendice un mio raccontino.
Per tutti questi motivi potete pensare che il mio giudizio non sia obiettivo, e se lo pensate amen, ne avete diritto.
In ogni caso, secondo me il libro è divertente e molto piacevole.
Il protagonista, il Druso del titolo, altri non è che quello che noi conosciamo come l’imperatore Claudio che, anche per sfuggire alla famiglia che non lo stima, se ne va in America, dove si sono installate piccole colonie romane.
Qui, con una strana combriccola che comprende anche Saulo di Tarso, vive bizzarre avventure che lo conducono verso sud dove trova resti di tripodi marziani e di altre misteriose civiltà tecnologiche. Al di là della storia e dei protagonisti, però, ciò che rende affascinante il romanzo di Alessio è l’incredibile cultura (storica, antropologica, letteraria e tantissimo altro) che vi si scorge e l’intrico di citazioni che lo contrappunta.
Tra quelle che ho identificato (a parte il titolo, che richiamo Io Claudio di Graves) vi sono per esempio il Satyricon, L’ultimo dei mohicani, Moby Dick mescolate ad altre provenienti dalla cultura pop come X-Men o Star Wars.
Un verso spasso, insomma!
Il secondo parere è di una delle più colte e brave scrittrici di fantascienza italiane, Franci Conforti
L’ho giusto assaggiato per goloseria e una cosa la posso già dire. Non fatevi fuorviare dal titolo o dalla copertina: è una chicca per gente colta, un divertissement per adulti
Io, Druso è un’opera colta? Senza dubbio, dato che il protagonista era degli uomini più eruditi della sua epoca: fu autore di una storia del principato di Augusto, di alcuni trattati sul gioco dei dadi del quale era un grande appassionato, in cui trattò quella che oggi chiamiamo la teoria della probabilità, della Tirrenikà, una storia della civiltà etrusca in venti libri, di una Storia di Cartagine in otto volumi, e un dizionario di lingua etrusca. Opere che, sinceramente, sarei stato tanto curioso di leggere.
Claudio scrisse anche una sua autobiografia, che essendo seria, non piacque al buon Svetonio, che si divertiva a collezionare storie curiose e bizzarre: autobiografia, che in gioco letterario, fu ricostruita da Graves in Io, Claudio e ne Il Divo Claudio
Io, Druso è pieno di infodump ? Sì, perchè fa il verso dei Commentarii latini, che, senza dubbio, erano strapieni di divagazioni geografiche ed etnografiche. Probabilmente, qualche criticone contemporaneo, stroncherebbe anche il De Bello Gallico di Cesare.
Io, Druso fa metaletteratura? Un poco esegerato, usare questo parolone. Gioca, cita e ironizza su opere e generi precedenti, il che non è abitudine solo di noi (post)moderni: basti pensare a cosa combinavano Plauto e Terenzio, mischiando e deformando le opere della Nuova Commedia Attica, oppure a quello straordinario mix di generi letterari che era la Fabula Milesia, con la fusione fra trama romanzesca e digressione novellistica, mediante l’espediente dell’io narrante che ascolta a volte da personaggi occasionali i vari racconti..
Una delle fonti di ispirazione di Io, Druso è sicuramente il Satyricon: per una volta, per una serie di motivi archeologici, linguistici e storici, mi sento di accodarmi alla tradizione, datando l’opera ai tempi di Nerone: che l’autore sia il buon Petronio Arbitro, citato da Quo Vadis e da Tacito, o come sostengono altre filologi, l’omonimo liberto di Nerone, che finanziò gli spettacoli dell’Anfiteatro minore di Pozzuoli, non sono in grado di dirlo: la seconda ipotesi, ad esempio, permetterebbe di spiegare i capitoli campani del romanzo e renderebbe Trimalcione una sorta di autoritratto dell’autore.
Però, una cosa è certa: Petronio è il Thomas Pynchon dell’antichità classica, per la sua straordinaria capacità di mischiare generi e linguaggi. Per ognuno dei personaggi si possono distinguere le specifiche varietà di latino che l’autore ha utilizzato per preservare e/o per potenziare l’effetto retorico , individualizzando i personaggi in relazione alla loro provenienza, alla loro funzione narrativa, ai loro modelli culturali di riferimento e al loro status sociale: nell’ambito di questa accentuata eterogeneità di forme e linguaggi, allora, il narratore Encolpio parla da scholasticus, il poeta Eumolpo poeticamente, il retore Agamennone retoricamente, i liberti parlano la lingua dei liberti e così via, sino al trionfo del sermo plebeius di Trimalcione.
Sperimentazione linguistica, che non significa realismo: il testo petroniano vive di una continua e strisciante antinomia tra verità e illusione, ovvero di una contrapposizione tra storicità ed artificio nell’ambito della quale i confini tra realtà e finzione appaiono sempre incerti e mutabili.
Petronio non vuole riprodurre in maniera pedissequa la realtà, ma al contrario quello di ritrarre in modo riflesso ed indiretto il reale attraverso la coscienza e la percezione che di esso hanno i personaggi sulla scena: processo amplificato sia dall’inserimento nella trama del romanzo di elementi di metaletteratura, sia alta, con la parodia dell’epica, della lirica amorosa e del romanzo alessandrino, sia bassa, con elementi di derivazione popolare e folklorica all’interno del tessuto narrativo, sia dalla costante frizione tra ciò che i protagonisti credono (e riportano verbalmente) e ciò che realmente loro accade.
Se questo attrito tra realtà e artificio soggiace all’intera costruzione narrativa petroniana, ciò è dovuto prevalentemente al fatto che tutta la vicenda è convogliata attraverso il filtro parziale e deformante del narratore Encolpio, dal greco “che sta nel grembo”, ingenuo,opposto all’astuto Odisseo,
Figura di scholasticus disadattato, caratterizzato dallo statuto palesemente antieroico di améchanos, egli appare assolutamente predisposto a vivere, prima, e a rileggere, dopo, la sua storia attraverso la lente di tutte quelle fonti letterarie che tende compulsivamente a richiamare alla memoria. Di conseguenza, proiettando le sue azioni su quelle dei più celebri eroi greco-latini che gli si offrono come paradigmi etici e culturali, il giovane protagonista interpone tra lui e il mondo la letteratura, ovvero il bisogno irrefrenabile di replicare le gloriose imprese dei suoi modelli mitici (e non). Essendo sempre in preda alle sue vacue e smodate smanie letterarie, Encolpio, con la sua innata propensione ad un atteggiamento sublimizzante, distorce la realtà, trasformandola in una mera costruzione culturale poco sensibile ad un’adeguata e veritiera valutazione dei fatti.
Purtroppo di questa complessa e parodica rappresentazione del mondo, ne abbiamo perduto la maggior parte, in un periodo antecedente al IX dopo Cristo, epoca a cui si possono far risalire i dati più antichi della tradizione manoscritta: secondo i calcoli moderni il Satyricon doveva constare di almeno 20 o di 24 libri, numero canonico della narrazione epica.
Tuttavia, con enorme fatica, i filologi, con un impegno degno di Sherlock Holmes, sono riusciti a ricostruire a grandi linee la sua trama complessiva: il romanzo probabilmente cominciava con un preludio ambientato a Marsiglia, probabile città di origine di Petronio, in cui si presentava Encolpio e si raccontava il motivo dell’ira di Priapo, legato probabilmente alla profazione di un rito in suo onore o alla distruzione accidentale di un suo simulacro.
A riprova di questo abbiamo la testimonianza, alquanto criptica di Sidonio Apollinare, che, prima di trovarsi per caso vescovo e santo, era un altro funzionario della burocrazia imperiale e un ottimo critico letterario: Sidonio definì Petronio
“emulo dell’ellespontiaco Priapo, coltivatore del sacro palo attraverso i giardini di Marsiglia”
L’ira di Priapo probabilmente scatenò sulla città un’epidemia: se dobbiamo fare riferimento a un topos della tragedia greca, i marsigliesi dovettero rivolgersi a un oracolo, per capire il motivo dello sdegno divino. Ricevuta una risposta criptica, dopo una serie di investigazioni, che come Edipo dovettero coinvolgere anche Encolpio, ne scoprirono la colpa.
Di conseguenza, il protagonista sarebbe stato cacciato a pedate dalla città, come capro espiatorio: a tale senso, abbiamo una testimonianza di Servio, il commentatore dell’Eneide
Ogni qual volta gli abitanti di Marsiglia erano colpiti da una pestilenza, uno dei cittadini poveri si offriva di farsi mantenere per un anno con cibi di qualità a spese pubbliche. A fine anno, costui veniva condotto in giro per la città adorno di verbene e vesti sacre: bersaglio di maledizioni, perché ricadessero su di lui i mali di tutti, da ultimo veniva espulso. Questo si è letto in Petronio
Con l’esilio avrebbe inizio il viaggio di Encolpio verso sud, parte per terra e parte per mare. Durante il viaggio verso l’Italia Meridionale l’incontro e l’inizio della relazione omosessuale con lo schiavetto Gitone, il cui nome significa “vicino di letto”. Questi, all’incirca, sarebbero gli avvenimenti narrati nei primi 10 libri. Nei quattro libri successivi la narrazione, fattasi più serrata, dovrebbe comprendere un tratto del viaggio su nave e il primo incontro con la prostituta Trifena e il suo amante Lica di Taranto, le cui strade si dividono in maniera assai burrascosa, l’incontro con il comprimario, il rozzo Ascilto, dal greco “instancabile” nel letto, e la formazione di un instabile triangolo erotico non alieno da furti e misfatti, infine l’arrivo in una Graeca urbs dell’Italia del Sud, forse Pozzuoli.
Qui Encolpio, per guadagnarsi da vivere, si improvvisa maestro di retorica e per attirare nuovi allievi, comincia declama sulla decadenza dell’eloquenza, imputandola alla scuola dalla quale nulla i giovani apprendono di quel che offre la vita vera; ma vengono trasportati in un mondo fittizio di pirati, di tiranni, di pestilenze scongiurate da sacrifici umani. La declamazione è interrotta dalla contraria discorso di un altro retore di professione, Agamennone, che ha come assistente un certo Menelao, il quale a sua volta riconosce il male, ma ne vuole far ricadere la colpa sulle esigenze delle famiglie.
Mentre Encolpio sta tutt’orecchi a sentire, Ascilto, scompare. Sospettando qualche fregatura, Encolpio lo pedina, sino all’albergo dove dimorano assieme a Gitone, che tra le lacrime gli racconta che Ascilto ha tentato di violentarlo.
Encolpio e Ascilto attaccano a litigare di brutto, ma ricordandosi come abbiano difficoltà a pagare la pigione, si rappacificano alla meno peggio e si accordano per vendere al mercato un pallio rubato. Alla mercanzia s’accosta un compratore, un villano, accompagnato da una donna velata: egli vende a sua volta una lacera tunica perduta dai nostri messeri, che avevano cucito nella fodera di quello straccio (e il villano non se n’è accorto) un bel gruzzolo, evidentemente di non pulita provenienza.
Riconosciuta la tunica, essi vogliono recuperarla, e ne nasce una zuffa tra le due compagnie che si danno reciprocamente del ladro, poi, fattasi gente, per timore del peggio, si affrettano a restituirsi vicendevolmente gli oggetti contesi. Encolpio e Ascilto ritornano con la preziosa tunica all’albergo, dove trovano da Gitone preparata la cena. Ma, appena finito di rimpinzarsi, si picchia alla porta, la porta prima ancora di essere aperta cede, ed entra la donna velata di prima, che si rivela per ancella della sacerdotessa di Priapo, Quartilla. E anche Quartilla è lì, accompagnata da una bambina.
Il trio, ha assistito, senza permesso, a un rito priapeo e la sacerdotessa è angosciata dal pensiero che il mistero possa essere svelato. Molto rumore anche questa volta per nulla. Encolpio, però, non volendo ripetere gli errori del Passato, convince Quartilla del fatto che i segreti siano mantenuti: così seguono due o tre giorni di baldoria con la sacerdotessa e le sue ancelle: celebrate le nozze precoci tra Gìtone e la giovanissima servetta Pannichide, con relativa orgia, i nostri eroi si accodano al retore Agamennone, per infilarsi a scrocco dal buon Trimalcione, tappa consacrata alle avventure dello sguardo e della parola, come vivace spaccato sociale in cui si intrecciano fortune personali e comportamenti di classe, conflitti culturali e antagonismi linguistici, il tutto nella cornice spettacolare di fastose esibizioni di ricchezza e di miserie morali.
La cena è pantagruelica; ma l’abbondanza e la ricchezza dell’apparato vi fanno a gara con la sguaiataggine e la presunzione ignorante dei convitati, liberti rifatti come il padrone di casa, che entra nel triclinio, quando gli ospiti sono già intenti all’antipasto, portato a suon di musica e carico di gioielli, e vi seguita il solitario che aveva incominciato. Le pietanze vengono presentate nelle forme più inaspettate. Con il lusso s’accompagna lo spreco. E come di ricchezza, così quel bestione fa pompa di letteratura e di dottrina, poiché possiede due biblioteche, una greca e una latina e professa la massima che a tavola non si deve dimenticare la cultura. Un discorso astrologica secondo il gusto del tempo gli è suggerita da una teglia, che viene in tavola ornata dei segni dello zodiaco.
Invasato di erudita mania, cita Virgilio, dichiara Mopso, scambiato forse per Museo, il sommo dei poeti, istituisce tra Cicerone e Publilio un confronto, che si conclude definendo il primo più eloquente, il secondo più morale. Spropositando a tutto spiano, fa sapere di possedere un servizio di bicchieri d’argento, nei quali è effigiata Cassandra (e voleva dire Medea) che sgozza i suoi figli, e un boccale, nel quale si vede Dedalo, scambiato con Epeo, che chiude Niobe dentro il cavallo di legno. Commentando un’azione pantomimica che viene rappresentata durante il banchetto, ci dice che Elena era sorella di Diomede e di Ganimede, e Agamennone la rapì sostituendole una cerva. Onde scoppiò la guerra fra Troiani e Parentini, terminata con la vittoria di Agamennone che diede sua figlia Ifigenia in moglie ad Achille, provocando così la pazzia d’Aiace Né la sua geografia è più solida delle sue conoscenze storiche; certo suo buon vinetto che, fa venire l’acquolina in bocca ai convitati, viene da un podere suburbano, che Trimalcione non ha ancora mai visto, ma opina si trovi ai confini di Taranto e Terracina.
Per queste e simili corbellerie e per la mala creanza, di cui ha frequente occasione di fare sfoggio il padrone di casa, sino a gettare un bicchiere in faccia alla moglie gelosa , i nostri eroi ne avevano abbastanza di quel manicomio, ma non sapevano in che modo potersi mettere in salvo. Un’ultima trovata di Trimalcione li aiuta, dato che si getta come morto sulla sponda del letto e fa intonare una marcia funebre; ma la marcia è sonata con tanta forza, che è intesa dai vigili come un appello al soccorso; essi penetrano d’un tratto nella casa per spegnere il supposto incendio. Nel subbuglio i nostri guadagnano l’uscita.
Tornati all’albergo, Ascilto ed Encolpio tornano ad azzuffarsi per il ragazzo; sicché questa volta si dividono. Gitone preferisce seguire Ascilto e abbandona Encolpio; rimasto solo, il nostro eroe, come Arianna a Nasso, recita il ruolo dell’amante abbandonato, per poi cercare conforto alla sua disperazione in una pinacoteca, dove incontra una sorprendente figura di anziano poetastro dal nome antifrastico: Eumolpo (“bravo cantore”). Il nuovo arrivato dà subito un saggio delle sue capacità affabulatorie, narrando dapprima la piccante vicenda del “Fanciullino di Pergamo” (esempio di fabula Milesia), poi recitando uno spezzone di poema sulla Presa di Troia; la recita ha come risultato le sassate dei presenti.
Partono dunque i tre, ma per i casi della vita, si imbarcano sulla nave di Lica di Taranto e di Trifena: i due malcapitati, resosi conto del casino, per evitare di essere buttati in mare, come Totò e Peppino, si travestono da schiavi fuggiti del vecchio, venendo però scoperti. Così sulla nave si susseguono pericolosi incontri e riconoscimenti, contese e pacificazioni, momenti distensivi occupati dalla narrazione – per bocca di Eumolpo – della novella della “Matrona di Efeso” (altra fabula Milesia)
Se non che, quando tutto pare andare per il meglio, ecco una tempesta: la nave va alla deriva, Encolpio, Gitone ed Eumolpo naufragano così su una spiaggia presso Crotone, città dove si vive con quell’industria di far la corte ai vecchi senza figliuoli, che doveva essere abbastanza diffusa, se ripresa più d’una volta da Cicerone, la ritroviamo satireggiata da Orazio e poi da Giovenale e da Luciano.
Durante il cammino si discute di poesia ed Eumolpo recita 295 esametri epici sul tema del Bellum civile tra Cesare e Pompeo, pieno di citazioni virgiliane, in una sorta di comica polemica letteraria con Lucano.
Scoperta l’abitudine locale , i tre malandrini ordiscono un geniale complotto. I due giovani tornano a fingersi schiavi di Eumolpo e questi un ricco signore, che, viaggiando per distrarsi della perdita dell’unico figlio, sia stato sorpreso da un naufragio e abbia perduto quanto aveva con sé, ma gli restino ancora in Africa trenta milioni di sesterzi e tanto esercito di servi nei latifondi di Numidia, da poter espugnare Cartagine. Così riescono a passarsela bene in Crotone alle spalle dei gonzi che credono a cotesta finzione; ma Encolpio, richiesto d’amore da una bellissima signora del luogo, di nome Circe, non riesce con suo grande scorno a soddisfarla, nonostante il ricorso ai sortilegi di una vecchia maliarda. Impotenza attribuita all’ira di Priapo (parodia di tema epico, l’ira di Poseidone per Odisseo o l’ira di Giunone per di Enea) e sanata in extremis per divino intervento divino
Il testo per noi si interrompe col testamento di Eumolpo, il quale escogita un intrigante espediente per liberarsi dei cacciatori d’eredità; a coloro che sperano di diventare suoi eredi pone l’obbligo di cibarsi del suo cadavere, in una sorta di parodia dell’Ultima Cena evangelica.
Con gli episodi ambientati a Crotone si giunge alla fine del XVI o, tutt’al più, al XVII libro. Ma il Satyricon originario continuava per altri tre o sette libri. Per via d’ipotesi, si può immaginare che dal XVIII libro Eumolpo esca di scena, mentre Encolpio e Gitone si imbarcherebbero per l’Egitto, patria di dottrine religiose ed esoteriche. Durante il viaggio o in terra egiziana è pensabile che alla coppia si unisca un terzo personaggio, amico e rivale, col risultato di ricostituire così il terzetto omoerotico che sembra tema portante dell’opera, come parodia delle convenzionali storie d’amore.
L’Egitto, però, non sarebbe l’ultima tappa, in quanto sono ipotizzabili un passaggio in Grecia e infine un ultimo tragitto verso l’imboccatura orientale dell’Ellesponto, alla volta di Lampsaco, la città nota per il culto di Priapo, dove Encolpio potrebbe espiare le colpe commesse ed essere iniziato ai rituali del dio: finale che così fungerebbe da ispirazione alle Metamorfosi di Apuleio.
Raccontando le vicende di Akragas, come la storia della Sicilia Greca, anche per colpa dei nostri programmi scolastici, che la trattano come se fosse una nota a margine della Classicità, è ben poco nota ai più… Molti miei amici, mi hanno ad esempio chiesto lumi su chi fosse Gelone di Siracusa: per cui, prima di continuare con la mia storia, mi conviene fare una piccola divagazione, per raccontarne la storia.
Gelone il primogenito di Dinomene, che secondo la tradizione, discendeva dai fondatori della polis di Gela. Racconta il solito erodoto Erodoto che a fondare Gela, insieme ad Antifemo, fosse stato un Gelone, originario dell’isola di Telos, ecista dei Rodii. Discendente del Gelone ecista sarebbe stato Teline, ierofante di Demetra e Kore, sommo sacerdote di un culto misterico dedicato alla Potnia theròn, una delle tante eredità lasciate nel mondo classico dalla complessa e sciamanica religiosità micenea.
Funzione sacra ereditata proprio da Dinomene e che passò poi al suo primogenito Gelone. Narra Plutarco come Dinomene chiedesse all’oracolo di Delfi il futuro dei propri figli e la Pizia rispose dicendo che sarebbero tutti divenuti principi. Al che Dinomene volle sapere se questo futuro, all’apparenza glorioso, fosse stato la loro rovina. La Pizia, direttamente ispirata da Apollo, gli predisse la morte dei suoi figli e di lui stesso.
Il consiglio della divinità fu quello di fuggire e andare
«dove il corno è dal cervo gettato via»
Dinomene non ne capì il senso: dopo qualche giorno, fu ucciso a tradimento da un conoscente, che per nascondere le prove, gettò il suo corpo in mare, dando così ragione alle profezia. Ora, Gela, all’epoca, essendo stata fondata da coloni provenienti sia da Rodi, sia da Creta, si trovava in una situazione analoga a quella di Akragas, ossia sull’orlo di una guerra civile, dato che i due etnos non riuscivano a mettersi d’accordo né sulla spartizione delle cariche pubbliche, né su quella delle terre ai coloni.
Come Falaride ad Akragas, da questo continuo caos emerse la figura di Cleandro, figlio di Pantare, che prese il potere con un colpo di stato, tra il 505 e il 504 a.C. Sembrerebbe che Teline, il nonno di Gelone, in quella vicenda appartenesse alla fazione sconfitta, dato che dovette andare in esilio nella polis di Maktorion, di cui abbiamo perso le tracce: secondo alcuni eruditi, dovrebbe trattarsi della nostra Butera, secondo altri delle rovine archeologiche del Monte Bubbonia, situato nel territorio del comune di Mazzarino.
Aristotele, abbastanza informato delle vicende siciliano associa Cleandro a Panezio di Lentini, identificandoli come aristocratici che divergono dai propri interessi di classe, in che implica, come in molte altre polis siciliane, l’esistenza di un regime oligarchico antecendente la sua tirannia. La testimonianza di Aristotele sembra confermata da una placca di bronzo, che dovette servire da basamento per una statuetta, probabilmente di soggetto equestre.
Tale placca, rinvenuta a Olimpia, contiene una dedica, che recita: “Pantare di Gela, figlio di Menecrate”: è assai probabile che tale Pantare sia il padre di Cleandro, citato da Erodoto. La dedica, databile alla settantottesima olimpiade (512-508 a.C.), intende ricordare una vittoria olimpica alla quadriga e rinvia ad una famiglia aristocratica, dedita all’allevamento di cavalli (e la Piana di Gela, assieme a quelle di Gela era ai tempi una delle migliori zone per questa attività, tant’è che le prime monete coniate di questa polis raffiguravano un cavaliere nudo in groppa ad un cavallo). Il dato pare riscontrare un precoce interesse della nobiltà isolana alla partecipazione ai giochi panellenici, certamente in un’ottica di prestigio e autorappresentazione. Pantare è il primo magnate siceliota di cui siamo a conoscenza che abbia partecipato alla quadriga.
La tradizione indica in sette anni la durata della permanenza di Cleandro al potere, il quale viene poi ucciso nell’ambito di una congiura, probabilmente orchestrata dall’elemento aristocratico, nel 498 o 497 a.C. Ma il moto restauratore non ebbe successo, perché il posto di Cleandro viene preso dal fratello Ippocrate.
In questa congiura, però, la famiglia di Gelone, o si mantenne neutrale o schierò dalla parte del tiranno, dato che Ippocrate concesse loro l’amnistia e il ritorno dall’esilio