Eschilo a Siracusa

Che nome dunque i
mortali daranno loro?
Zeus ordina che siano
appellati sacri Palici.
E sarà il nome Palici come
se dato con giustezza?
certamente perché essi
vogliono tornare indietro
dalle tenebre alla presente luce

E’ uno dei pochi frammenti che abbiamo, grazie al buon Macrobio, di un’opera perduta di Eschilo, le Etnee, scritta a Siracusa su commissione del tiranno Gerone. Quando il grande drammaturgo sia giunto in Sicilia, è un tema di discussioni feroci tra gli studiosi di letteratura greca: se devo dire il mio parere di lettore, senza alcuna pretesa di autorevolezza, a naso, per un ragionamento che descriverò di seguito nel post, sarei tentato di datarlo tra il 474 a.C. e i 472 a.C.

Il racconto di Plutarco, che nella vita di Cimone racconta come nel 468 a.C. Eschilo scelga la via dell’esilio per la sconfitta subita nel festival teatrale delle Grandi Dionisio, dovuta al Triptolemus dell’esordiente Sofocle, lo trovo più un divertente aneddoto letterario, che una testimonianza attendibile.

Anche perché nel 467 a.C. Eschilo era sicuramente ad Atene, dato che vinse le Grandi Dionisie con I Sette contro Tebe: di conseguenza, diventerebbe difficile comprimere la sua attività letteraria siciliana in pochi mesi.

Attività, il cui primo passo fu la rappresentazione nel teatro greco di Siracusa del dramma I Persiani, in cui si celebrava la vittoria di Salamina e la sconfitta di Serse, di cui Eschilo, per usare un termine moderno, curò la regia e fu finanziata da Gerone

Rappresentazione che aveva un duplice significato: da una parte la celebrazione del valore greco contro i barbari, ricordiamo che Siracusa aveva sconfitto ad Imera nel 480 e gli Etruschi a Cuma nel 474. Ricordiamo che all’epoca, tra gli eruditi greci andava per la maggiore la tesi della provenienza anatolica dei Tirreni, come testimonia ad esempio Erodoto

Poiché la carestia non diminuiva, anzi infuriava ancora di più, il re, divisi in due gruppi tutti i Lidi, ne sorteggiò uno per rimanere, l’altro per emigrare dal paese e a quello dei gruppi cui toccava di restare lì mise a capo lui stesso come re, all’altro che se ne andava pose a capo suo figlio, che aveva nome Tirreno. Quelli di loro che ebbero in sorte di partire dal paese scesero a Smirne e costruirono navi e, posti su di esse tutti gli oggetti che erano loro utili, si misero in mare alla ricerca di mezzi di sostentamento e di terra, finché, oltrepassati molti popoli, giunsero al paese degli Umbri, ove costruirono città e abitano tuttora. Ma in luogo di Lidi mutarono il nome prendendolo dal figlio del re che li guidava, e si chiamarono Tirreni.

Per cui, per i siracusani, era abbastanza immediato, equiparare etruschi e persiani: il che sarebbe un indizio per la presenza di Eschilo intorno alla data della battaglia di Cuma. Dall’altra, era un modo per i Siracusani rispondere a tutte le accuse di non avere contribuito alla difesa dell’Ellade, ribadendo la loro comunanza spirituale con chi combatté a Salamina ed esaltando il loro passo.

Il secondo passo, fu proprio la scrittura delle Etnee, che fu una celebrazione della politica interna di Gerone, basata sia sulla ridistribuzione della popolazione sul territorio e la rifondazione delle antiche polis, sia nella creazione di un sinecismo culturale e religioso tra coloni e siculi, in modo da favorirne l’integrazione e ridurre così i motivi di potenziali ribellioni.

Ora, Gerone, che ricordiamolo, apparteneva a una famiglia di sacerdoti di Kore e di Demetra, si era reso forse conto delle somiglianze tra i riti misterici greci e quelli dei locali: lo stesso avvenne per Eschilo, che era stato iniziato ai misteri eleusini. Somiglianze dovute alla lunga tradizione di scambi commerciali e culturali tra la Sicilia e il mondo elladico, risalenti almeno alla prima età del Bronzo.

Per cui, decise di sfruttare tale somiglianza a suo vantaggio, inglobando le tradizioni religiose locali nel pantheon ellenico: l’Etnee di Eschilo, assieme alla costruzione di santuari in stile ellenico, doveva fungere da strumento per questa appropriazione culturale. Il mito prescelto per tale operazione fu quello dei fratelli Palici, coppia di divinità ctonie, citati nelle Metamorfosi di Ovidio e nell’Eneide di Virgilio, che venivano venerati presso Paliké, oppidum siculo nei pressi della nostra Palagonia.

Tale culto aveva come fulcro un lago naturale di natura sulfurea composto da due specchi d’acqua quasi identici fra loro; dalla sua superficie sgorgavano costantemente bolle di anidride carbonica, idrogeno e metano mentre si innalzavano due o tre getti d’acqua trascinata in alto dalla pressione dei gas, la colorazione dell’acqua era giallo-verdastra e un forte e nauseante odore di gas petroliferi esalava dall’acqua pervadendo l’ambiente circostante. Si trattava di uno spettacolo talmente spaventoso e misterioso che i siculi collocarono proprio in quel luogo la dimora delle due divinità sino a una totale identificazione dei due specchi d’acqua con le divinità stesse.

Probabilmente, i due gemelli divini, equivalente dei Dioscuri greci, erano figli del dio Adranos, la personificazione dell’Etna, signore del fuoco e protettore dei fabbri, e della versione locale della Potnia Theron.

Nel santuario si esercitavano il giuramento ordalico, l’oracolo e l’asilo. Il giuramento avveniva attorno alle cavità da cui sgorgavano getti d’acqua. Ivi si poteva stabilire un contatto con la divinità a condizione che il chiamato in giudizio rispettasse un rituale. Il giurante si avvicinava alle cavità e pronunciava la formula del giuramento, iscritta su una tavoletta, che veniva gettata in acqua, se questa non galleggiava l’uomo veniva ritenuto spergiuro e punito con la morte o la cecità. L’oracolo indicava la divinità e il tipo di sacrificio necessario ad ottenere il favore. All’interno del santuario potevano trovare rifugio gli schiavi maltrattati da padroni crudeli. Questi ultimi non potevano portar via con la forza i loro servi, se non dopo aver garantito con un giuramento ai Palici di trattarli umanamente.

Eschilo, per venire incontro alle esigenze del committente, divennero Zeus, che prese il posto di Adranos, e della ninfa Talia, che sostituì la Terra Madre; da quello che possiamo intuire dai pochi frammenti rimasti, la ninfa, per sfuggire la quale per sfuggire all’ira di Era, topos tipico del mito greco, si fece nascondere sottoterra dallo stesso Zeus ove partorì. Da qui infatti la denominazione di Palici ovvero nati due volte, dalla terra e dal ventre di Talia.

Oltre che alla fatica di riscrivere un mito, di cui aveva poca familiarità, e che, per la tradizione orale dei siculi, poteva essere anche non codificato, Eschilo, per venire incontro alla richiesta di Gerone di rafforzare l’identità comune della Sikelia, fece una cosa che avrebbe provocato parecchi mal di pancia al buon Aristotele: se ne fregò bellamente delle tre unità di spazio, tempo e azione.

La prima parte dell’opera era infatti ambientata ad Aitna, la Catania rifondata da Gerone nel 476 a.C., altro indizio a favore della datazione alta del soggiorno siciliano di Eschilo, la seconda a Xuthia, che non abbiamo la più pallida idea di dove sia, ma secondo Diodoro Siculo

Xutho regnò sul territorio intorno a Leoninoi, che da lui fino ad oggi viene chiamato Xuthia

dove Xutho è un eroe mitologico siculo, che i greci trasformarono in uno dei figli di Eolo, la terza nuovamente ad Aitna, mentre il resto dell’opera era ambientato dapprima a Leontini, poi a Siracusa, infine sul colle Temenite, proprio tra il teatro greco della polis e la grotta del Ninfeo. Alcuni studiosi, hanno anche ipotizzato come la scena finale dell’opera, nella sua prima rappresentazione, non venisse recitata dentro il teatro, ma nel luogo effettivo dove è ambientata, sulla terrazza del colle, tempo si trovava un porticato chiuso a forma di lettera “L”.

Idea suggestiva, di straordinaria modernità, ma su cui ho qualche dubbio, per la difficoltà logistica di spostare tutti gli spettatori e per i problemi di acustica. Tornato ad Atene da Siracusa, Eschilo scrisse una tetralogia, dedicata a Prometeo, il titano che rubo il fuoco agli dei e lo donò agli uomini, di cui è rimasto solo il Prometeo Incatenato, in cui appare il seguente brano

e ora corpo inutile disteso giace vicino allo stretto marino, oppresso sotto le radici dell’Etna, mentre Efesto, posto sulle alte cime, forgia il ferro rovente. Ma un tempo da lì eromperanno fiumi di fuoco divorando con ferine mascelle gli ampi campi della Sicilia dai bei frutti. Siffatta ribolle ira di Tifeo con infuocati dardi di insaziabile tempesta spirante fuoco, sebbene carbonizzato dal fulmine di Zeus

Una profezia post eventum, che descrive una famosa eruzione dell’Etna avvenuta ai tempi di Gerone. Ora grazie a Tucidide che nella sua Guerra del Peloponneso, registrando una avvenuta nel 426 a.C. scrive

intorno alla stessa primavera un torrente di fuoco dall’Etna, come anche prima, e devastò una striscia di terra dei Catanesi, che abitano sotto il monte Etna, che è il più grande monte della Sicilia. Si dice che questa eruzione sia colata cinquanta anni dopo la prima, in tutto tre eruzioni sono avvenute da quando la Sicilia è colonizzata dagli Elleni

Per cui, dovette avvenire intorno al 476 a.C., dando il terzo indizio sulla possibile data della permanenza di Eschilo a Siracusa, che dovette essere testimone oculare dell’eruzione o dei suoi effetti immediati.

Dopo il suo ultimo grande successo, l’Orestea, del 458 a.C., Eschilo decise di ritirarsi in Sicilia a Gela. A un processo per un’empietà involontaria, ch’egli avrebbe commesso divulgando senz’intenzione certi riti dei misteri eleusini e che avrebbe provocato il suo esilio, alludono già Aristotele ed Eraclide Pontico, e tuttavia è probabile, poiché il più antico testimonio, Aristofane, non ne sa nulla, che anche questa sia invenzione. E’ più probabile che il drammaturgo, resosi conto del fatto che il gusto del pubblico ateniese stesse mutando, avesse deciso di trasferirsi in un’ambiente artistico dove la sua arte poteva essere ancora apprezzata.

Però, anche in Sicilia le cose erano cambiate: i grandi tiranni erano tramontati e il loro posto era stato preso da turbolenti e litigiosi democrazie. Probabilmente, per farsi ben volere, scrisse un dramma satiresco, che da una parte costituiva una parodia delle precedenti Etnee, dall’altra, se consideriamo valida l’attribuzione attualmente in voga del cosiddetto frammento della Dike.

Opera in cui Eschilo invitava i coloni greci a non risolvere le loro dispute con la violenza, ma ad affidarsi alla Legge e alla Giustizia, che paradossalmente, ebbe più successo delle Etnee originali, tanto che fu una delle fonti di ispirazione della Pace di Aristofane.

A Gela, Eschilo morì: Valerio Massimo, che cita Ermippo di Smirne, al cui confronto Svetonio è un paludato e serioso storico, racconta la storiella, ovviamente falsa, che sarebbe morto per colpa di un gipeto, che avrebbe lasciato cadere, per spezzarla, una tartaruga sulla sua testa, scambiandola, data la calvizie, per una pietra.

Sull’epitaffio della sua tomba siciliana, non furono ricordate le vittorie in ambito teatrale, ma i meriti come combattente a Maratona, dove aveva combattuto coraggiosamente anche suo fratello Cinegiro, morto in quell’occasione

Codesta tomba Eschilo ricopre,
d’Atene figlio, padre fu Euforione:
vittima di Gela dalle ricche messi.
Il suo valor potrebber ben ridirlo
di Maratona il piano e il Medo chiomato

Cinegiro, a cui fu eretta una statua in suo onore nella stoa poikile di Atene, fu un badass della epoca: Erodoto narra che, mentre i Persiani fuggivano verso le loro navi ancorate sulla spiaggia, Cinegiro si aggrappò colla mano destra ad una di esse per trattenerla, morendo poi quando la mano gli venne tranciata, continuando però a lottare come un animale selvatico rabbioso

Villa Castelnuovo

Qualche tempo fa, quando ho parlato della mia ricerca del Monumento Nazionale perduto di Palermo, la casa natale di Francesco Ferrara che leggendo il decreto del 1928, sembrerebbe ancora in piedi e da valorizzare, ho accennato alla figura di Carlo Cottone, principe di Castelnuovo, a cui è dedicato un monumento nell’omonima piazza davanti a Politeama.

Figura, quella di Carlo, che meriterebbe un maggiore approfondimento, sui libri di storia, dato che le sue vicende aiuterebbero a capire meglio tutte le stranezze sociali e politiche della Sicilia dell’Ottocento, che sia i Borboni, sia l’Italia postunitaria ebbero enormi difficoltà a gestire: ancora oggi, in fondo, paghiamo le conseguenze dei loro errori e contraddizioni.

Carlo era l’unico figlio del principe Gaetano Cottone e della contessa Lucrezia Cedronio: il padre, nella strana architettura istituzionale della Sicilia dell’epoca, svolgeva un ruolo paragonabile a quello di un ministro del Commercio Estero. Come regio caricatore del commercio marittimo, il Principe di Castelnuovo, era responsabile dell’imposizione dei dazi, della lotta al contrabbando, delle attività degli arsenali regi e della definizione delle quote di esportazione dei cereali, che era il principale prodotto dell’agricoltura siciliana dell’epoca.

Questo lo portò a studiare a fondo i testi degli illuministi, più che altro per trovare delle idee, per razionale la sua attività, dato che giornalmente si doveva confrontare con un manicomio di regole strampalate e contraddittorie.

Di conseguenza, Carlo si trovò a crescere in ambiente culturale molto più “progressista” di quello del nobile siciliano medio. Nel 1802, Carlo succede al padre nel diritto a far parte del braccio baronale del Parlamento, convocato dai Borboni con la scusa di votare, fra l’altro, un donativo annuale di onze 150.000 per il mantenimento a Palermo della corte di un principe reale.

Prima di lapidare i Borboni, accusandoli di malgoverno e di dissipare i soldi dei contribuenti, bisogna specificare che questo era un bieco trucco, per cercare di aggirare sia l’annosa propensione all’evasione fiscale da parte dei nobili locali, sia per cercare di equiparare i due differenti sistemi fiscali del Regno di Napoli e di quello di Sicilia. Mediamente, un siciliano, quando pagava le imposte, aveva un’imposizione fiscale del 18% più bassa del resto dei sudditi borbonici. Per motivi di prestigio, i nobili locali abboccarono: così il donativo in parte finì nelle casse statale, in parte fu utilizzato per la manutenzione delle infrastrutture siciliane.

Approfittando della pace d’Amiens, Carlo, che, aveva preso sul serio il suo compito di parlamentare, per approfondire gli studi fatti in famiglia, cominciò a girare come una trottola per l’Europa, visitando la Svizzera, la Francia Rivoluzionaria e la Gran Bretagna: durante i suoi viaggi, come testimonia il suo diario, si interessò particolarmente ai diversi sistemi educativi e agli effetti economici e sociali dell’industrializzazione.

Tornato a Palermo, Carlo comincia ad affrontare, in una serie di saggi, quelli che erano i principali problemi all’ordine del giorno nella politica palermitana dell’epoca: la riforma fiscale, la riforma istituzionale, come regolare al meglio l’estrazione e l’esportazione dello zolfo, con i relativi impatti sull’economia locale, le modifiche dell’agricoltura locale, che si stava convertendo dalla cerealicoltura alla produzione vinicola e a quella degli agrumi, e la questione delle proprietà ecclesiastiche e degli usi civici.

Per capire l’importanza di tali questioni, basta dare qualche numero: ad esempio, parlando dello zolfo, nel 1832 v’erano già 190 miniere in piena produzione. Nel 1838 se ne contano 415. Le cifre dei registri di esportazione, verso la Francia e l’Inghilterra, sono impressionanti: nel 1838 vengono imbarcati 87 milioni di chili di solfo, metà finiscono in Inghilterra. Di fatto, se vogliamo fare un paragone, un poco forzato, la Sicilia dell’epoca poteva essere paragonato a uno degli stati del Golfo Persico, con l’improvviso arrivo di fiume di denaro dovuto all’estrazione di una materia prima: chi deve gestire questi soldi ? Come utilizzarli al meglio?

Passandro all’agricoltura, circa un terzo della superficie agricola e forestale della Sicilia era nel controllo della Chiesa: una quota consistente vi era determinata dai donativi ai figli che “prendevano i voti”. La sola Compagnia di Gesù disponeva di 45.000 ettari; quasi quanto la potente Mensa arcivescovile di Monreale: 27.590 salme, di cui circa metà coltivabili.

Preti parassiti e mangiapane a tradimento ? Non proprio: le proprietà ecclesiastiche erano gestite meglio dei latifondo nobiliari. Parte dei guadagni dovuti alle esportazioni veniva ridistribuita ai contadini e parte serviva a mantenere il welfare state, che l’amministrazione statale aveva delegato alle istituzioni ecclesiastiche.

Insomma, una realtà complessa: le sfide che poneva aveva suddiviso la nobiltà palermitana in due partiti: il primo, i whigs, guidati da Carlo e i tory, che avevano come leader suo nipote,Giuseppe Emanuele Ventimiglia Cottone principe di Belmonte. Parlare di progressisti e di conservatori, in realtà è una forzatura.

I whigs palermitani sostenevano l’adozione di una costituzione modellata sull’esempio inglese, l’armonizzazione fiscale con il Regno di Napoli, l’abolizione dei dazi di importazione e di esportazione, l’abolizione degli usi civici e della manomorta ecclesiastica. I Tory, invece, convinti che i Borbone non avrebbero mai accettato una costituzione all’Inglese, proponeva di riformare il vecchio meccanismo parlamentare palermitano, il mantenimento dei privilegi fiscali siciliani, dazi a favore delle industrie locali, riforma graduale degli usi civici e della manomorta ecclesiastica, visti gli impatti positivi che avevano sulla vita dei più poveri.

La crisi scoppiò nel febbraio 1810, il Medici, ministro delle Finanze, aveva proposto l’ennesimo donativo “straordinario” alla Corte napoletana: ben 360.000 onze all’anno. Carlo si mostrò possibilista, chiedendo però che fossero resi pubblici i rendiconti sull’utilizzo di tale somma: l’idea era di mostrare come questi soldi, come effettivamente era, non servissero a far fare la bella vita alla Corte, ma servissero, ma all’amministrazione del Regno. Per cui, si impegnò su due fronti: da una parte a un’opposizione legalista e istituzionale alla richiesta, dall’altra a una trattativa sottobanco con i Borboni, per fare accettare la sua proposta.

Sia il re, sia il Medici, si mostrarono possibilisti: se questo avesse reso i sudditi siciliani più propensi ad aprire il portafoglio, l’avrebbero fatto ben volentieri. Per mostrare la loro buona fede, in più, il 14 febbraio 1811 presentarono tre decreti che accoglievano le proposte whigs: l’incameramento nel demanio dei beni ecclesiastici, la loro vendita tramite un meccanismo analogo a quello degli assegnati francesi, l’imposizione di una sorta di IVA dell’1%.

L’opposizione di Carlo, dinanzi a questi decreti, fu assai blanda: ma ne lui, né i Borboni avevano considerato l’opposizione dei Tory. Ventimiglia, come detto, non solo guardava come fumo negli occhi tali decreti, ma era fermamente contrario al donativo, tanto da proporre di sostituirlo con un’imposta fondiaria basata su un catasto da preparare e solo in seguito una eventuale imposta indiretta per coprire il gettito eventualmente insufficiente.

Una bella riforma moderna? No, in realtà, il tentativo di mollare una colossale sola ai Borboni: i tempi di organizzazione del catasto avrebbero rimandato la definizione dell’imposta fondiaria alle calende greche. In più, questa sarebbe stata per buona parte dalla Chiesa, piuttosto che dai Nobili. E i preti, altrettanto poco entusiasti come contribuenti dei nobili, istigando la popolazione contro la Corte, avrebbero fatto fallire il tutto.

I Borboni, che scemi non erano, risposero con un pernacchione al Ventimiglia, il quale, invece di dedicarsi come Carlo all’opposizione parlamentare, cominciò a organizzare un colpo di stato. I Borboni sarebbero stati arrestati e spediti nelle patrie galere di Castello a Mare; al loro posto, come re di Sicilia, sarebbe stato nominato Luigi Filippo d’Orleans, all’epoca in esilio a Palermo. Per evitare che la flotta inglese, prendesse a cannonate i ribelli, Ventimiglia cominciò una serrata trattativa con il Primo Ministro inglese Lord Horwick. Dato che sembrava che sembrava come i Borboni, che in fondo non si trovavano così male a Palermo, stessero per accordarsi con Murat e Napoleone, Londra si mostrò possibilista sul golpe. Qualcuno però, in Inghilterra, fece la spia. Così i Borboni decisero di anticipare i congiurati. Così, tra la notte tra il 19 ed il 20 luglio del 1811, i principali esponenti nobiliari del parlamento siciliano furono arrestati, compreso Carlo.

Ora i Borboni lo spedirono al confino a Favignana, assieme a Ventimiglia: ma se il nipote fu rinchiuso a fare compagnia ai topi nel castello di San Giacomo, Carlo fu costretto a una sorta di vacanza forzata, servito e riverito. L’idea era passata la buriana, di farlo ritornare a Palermo per formare un governo di coalizione e di pacificazione nazionale.

Ad aiutare tale operazione gattopardesca, forse inconsapevolmente, fu, il 20 gennaio 1812, lord Bentinck, che, ministro plenipotenziario dell’Inghilterra in Sicilia e comandante di tutte le forze britanniche nel Mediterraneo, era giunto nell’isola il 23 luglio: tanto protestò che furono liberati tutti i prigionieri, compreso Ventimiglia, principe di Belmonte.

Bentick, con la sua mediazione, ottenne che il re Ferdinando, malridotto per la sua epilessia, nominasse suo vicario il figlio Francesco, il quale, nella ricomposizione del governo, chiamò a farne parte anche come ministro delle Finanze Carlo, che avanzò la proposta di presentare al Parlamento il suo progetto di Costituzione all’inglese, con la separazione dei poteri legislativo ed esecutivo e la responsabilità dei ministri di fronte al Parlamento.

Il primo passo del nuovo governo fu l’abolizione del regime feudale e dei relativi annessi e connessi, cosa che, come previsto da Ventimiglia, si trasformò in una sorta di colossale esproprio dei ricchi ai danni dei poveri, mentre Carlo, abbastanza ingenuamente, si aspettava diventasse come in Inghilterra in un volano per la nascita di più vasto e dinamico ceto di agricoltori, che fosse anche incentivo alle industrie e al commercio.

Il risultato immediato di tale riforma, fu l’ampliarsi del solco tra whigs e tory: nelle prime elezioni politiche, primavera del 1813, i primi furono sconfitti clamorosamente e Carlo dovette ritirarsi dalla vita politica attiva. Decisione che fu rafforzata sia dalla morte dell’amico rivale Ventimiglia, sia dall’evoluzione politica siciliana, con la progressiva eliminazione della Costituzione.

Per evitare di annoiarsi, Carlo decise di cambiare approccio: se la nascita del nuovo ceto agricolo siciliano non avveniva dall’alto, con le riforma, beh, sarebbe accaduta dal basso, tramite l’educazione. Suo padre, in linea con i nobili palermitani dell’epoca, aveva fatto costruire sulla Piana dei Colli la sua dimora estiva, prossima a villa Bordonaro, a poca distanza da quello che nei decenni seguenti, per volere di Ferdinando III di Sicilia, sarebbe divenuto il Parco della Favorita.

A differenza degli altri nobili, però, il Principe di Castelnuovo decise di mantenere la vocazione agricola della tenuta: frazionò tutti in sei aree, un frassineto, un agrumeto, un oliveto, un pistacchieto, un vivaio e un giardino ornamentale, in cui era presente un teatro di verzura, dato il suo amore per la commedia dell’arte.

Ovviamente, le esigenze di rappresentanza dovettero essere mantenute: furono realizzati tre grandi viali contornati da cipressi e due nuovi padiglioni, una foresteria ed una seconda abitazione oltre la villa principale, tutti in stile neoclassico, tanto per essere alla moda. Tra le opere d’arte presenti, spiccava la Fontana della Musica scolpita da Ignazio Marabitti.

Carlo, che comunque restava l’uomo moderno e attivo che era stato nella vita pubblica, decise di realizzare, all’interno della villa, un Seminario agricolo, diventato poi Istituto agricolo, che aveva il compito di studiare e introdurre nuovi tipi di macchine irrigue e coltivazioni e di diffondere metodi più razionali e produttivi di conduzione agricola anche tramite l’educazione dei figli dei contadini e dei giovani agricoltori

Determinato a portare a compimento il suo progetto filantropico, Carlo vi destinò ingenti risorse provenienti dal suo patrimonio personale, ottenendo anche l’autorizzazione del governo con un decreto datato 5 ottobre 1819: i Borboni erano assai contenti del fatto che si dedicasse all’agricoltura, piuttosto che alla politica.

Carlo pianificò tutto, fin nei minimi particolari. Dispose che la moglie, sua erede universale versasse all’esecutore testamentario “once 100 annue per l’acquisto di uno o più poderi in contrada dei Colli da dare in premio a quei seminaristi che avranno dato prova di maggiore intelligenza e che appartengano a famiglie povere”. La coltivazione delle terre dell’Istituto servivano sia per istruire gli alunni sia come rendita per l’autofinanziamento. Per questo all’inizio fu necessario disboscare l’area e insieme ai cipressi scomparvero carrubbi, corbezzoli, ginestre, rosmarino, solo risparmiati gli ulivi. Il terreno fu dissodato per accrescere la superficie coltivabile.

Il principe di Castelnuovo pensò anche ai libri per la biblioteca agraria, da acquistare con il ricavato della vendita dei “pochi libri” di sua proprietà che sarebbero stati rinvenuti dopo la sua morte “in città e in campagna”. La stessa biblioteca che ancora conserva in grandi vetrine centinaia di volumi.

Durante i moti indipendentisti scoppiati a Palermo nel 1820, tuttavia, le risorse che Cottone aveva destinato alla fondazione dell’Istituto furono incamerate dalla Giunta Rivoluzionaria e non più restituite al legittimo proprietario. Malgrado ciò, con ulteriori sacrifici, il principe commissionò all’architetto Antonino Gentile la progettazione e la costruzione del Gymnasium, ispirato a quello dell’Orto Botanico, la cui cupola fu decorata da Giuseppe Varrica con quattro affreschi a tema mitologico-agreste.

Nel frattempo, la tenuta fu divisa in due aree, una riservata all’istituto ed alle sue attività didattiche e una destinata al giardino ornamentale, sono poi soppressi i due viali trasversali, aboliti il frassineto ed il pistaccheto e ridisegnate le aiuole. Contemporaneamente, a supporto delle esigenze didattiche sono costruiti anche nuovi edifici: a “Cantina”, a pianta rettangolare con pronao dorico e tetto a padiglione, la “Scuola” e altre strutture (stalle, cisterne, magazzini) allineate lungo la via del Fante.

Inoltre vennero riorganizzati, secondo la moda dei tempi, sia gli edifici già esistenti (casena e foresteria) che gli ingrassi alla villa. Quello principale che era ed è tutt’ora su via San Lorenzo fu ornato con le allegorie dell’Agricoltura e dell’Abbondanza, quello su viale del Fante, oggi accesso al Teatro di Verdura, fu ornato con satiri, piramidi gradinate e canopi egiziani, il terzo ingresso, che si trova anch’esso su Viale del Fante, permetteva di accedere direttamente, tramite un viale alberato, al Ginnasio.

Morto nel 1829 senza aver visto sorgere il suo istituto, Cottone aveva precedentemente nominato suo esecutore testamentario l’amico Ruggero Settimo. Sarà proprio quest’ultimo, dopo non poche difficoltà, ad inaugurare l’apertura dell’Istituto Agrario Castelnuovo il 14 novembre 1847. Appena due mesi dopo a Palermo scoppierà la Rivoluzione siciliana capeggiata dallo stesso Settimo, erede politico di Cottone. Primo direttore dell’Istituto fu l’agronomo e botanico Giuseppe Inzenga, che ne resterà alla guida per molti anni.

Nel secondo dopoguerra Villa Castelnuovo divenne proprietà della Regione Siciliana, sotto la gestione dell’IPAB Istituto Principe di Castelnuovo e Villaermosa. Cessate le attività educative verso la fine degli anni cinquanta, il parco è oggi adibito a varie destinazioni.

Dal 1963 il Teatro di Verdura è utilizzato durante l’estate per le rappresentazioni del Teatro Massimo e per numerosi concerti di celebrità italiane ed internazionali. Una parte dei terreni è stata affidata all’Università di Palermo, che vi ha installato alcune serre. Nei terreni della villa hanno inoltre sede gli impianti del Circolo del Tennis di Palermo ed il Club Ippico Siciliano. Negli ultimi anni l’attenzione nei confronti della riqualificazione e del recupero della memoria storica del parco è cresciuta, tanto che il parco sta diventando sede di tante iniziative culturali.

La Grotta di Cocceio

Il fatto che conosciamo pochissimi nomi di architetti e ingegneri romani, sospetto che dipenda più dalla iella, che un ipotetico disprezzo per gli esponenti di tale professione. A riprova di questa tesi, il fatto che i pochi di cui c’è giunto il nome, sono ricoperti di tali elogi, che farebbero morire d’invidia parecchie archistar contemporanee.

Uno di questi è Lucio Cocceio Aucto, nato a Cuma ai tempi di Silla e morto a Roma poco prima dell’era Volgare, apparteneva all’antica gens Cocceia di origine plebea, tanto che se ne hanno cenni fin dalla repubblica, da cui proverrà poi l’imperatore Nerva.

Entrato alle dipendenze di Marco Vipsanio Agrippa, stratega di Augusto, realizzò su sua commissione importanti opere di ingegneria militare e civile. La prima di cui abbiamo notizia, nel 37 a.C., fu il Portus Julius, nell’ambito della guerra sul mare contro Sesto Pompeo un imponente complesso portuale sul golfo di Pozzuoli, collegato con canali artificiali al lago di Lucrino destinato all’ormeggio e all’addestramento dei soldati della flotta navale, al lago d’Averno, con funzione di cantiere e al porto di Cuma, cittadella fortificata e punto di vedetta sul litorale domizio-flegreo.

Secondo Strabone, Cocceio scavò anche un tunnel, detto Grotta di Cocceio, di cui parlerò in dettaglio tra poco, per collegare l’infrastruttura portuale con la città di Cuma. Ma questo non fu il suo unico traforo: nel territorio tra Cuma e Napoli realizzò, sempre secondo la testimonianza di Strabone, la Crypta Neapolitana, una galleria lunga circa 711 metri scavata nel tufo della collina di Posillipo, tra Mergellina (salita della Grotta) e Fuorigrotta (via della Grotta Vecchia), a Napoli, e probabilmente la cosiddetta Grotta di Seiano, un traforo lungo 770 m, scavato anch’esso nella pietra tufacea della collina di Posillipo, che congiunge la piana di Bagnoli (via Coroglio) con il vallone della Grotta.

Fu probabilmente, date le somiglianze strutturali e stilistiche, il progettista e il capo cantiere della cosidetta Crypta Romana un tunnel scavato nel tufo sotto la collina di Cuma, che attraversa in direzione est-ovest l’acropoli di Cuma, con una curva sotto il Tempio di Apollo, collegando l’area del foro con il mare. Crypta che ci da tra l’altro indicazioni sugli strumenti utilizzati per scavare tali gallerie: nella sua volta vi sono infatti scolpite asce a doppia lama, cunei e magli. Sappiamo anche, sempre tramite Strabone, che tali lavori non furono eseguiti da schiavi, ma da maestranze locali, che l’autore greco, per dare un tocco di colore e aumentare l’interesse dei sui lettori, dice essere discendenti dei mitici Cimmeri che avrebbero abitato la zona secoli prima, vivendo in dimore sotterranee. Storia che fu fraintesa da un mio compagno di università, che aveva le idee un pochino confuse sulla differenza tra mitologia classica e fantasy, che si era autoconvinto di come Conan il barbaro fosse vissuto, nella lontana antichità, a Napoli. Il che portò diede origine all’epoca a sessioni di ruolo di Dungeons & Dragons al limite del demenziale, in cui il muscoloso eroe di Howard aveva a che fare, spesso e volentieri, con le versioni dell’era hyboriana dei protagonisti di Così parlò Bellavista…

Ritornando a parlare di Lucio Cocceio, questi non si interessò solo alla costruzione di infrastrutture perché nel 27 a.c., ancora per volere di Agrippa, edificò a Roma il primo Pantheon, distrutto poi da un incendio. Durante alcuni scavi condotti alla fine del XIX secolo sono stati rinvenuti dei resti che ci permettono di conoscerne l’originaria struttura: questo primo tempio era rivolto verso sud e aveva pianta rettangolare. Venne costruito in blocchi di travertino rivestiti da lastre di marmo e con un semplice tetto di legno a falde sporgenti. Era insomma, uno dei tanti e comuni templi utilizzati per pregare ed onorare le divinità pagane fino ad allora conosciute. Il pronao che lo precedeva, sul lato lungo, si affacciava su una piazza circolare, ora occupata dalla rotonda adrianea, che separava il tempio dalla basilica di Nettuno, recintata da un muretto. Le fonti antiche ci informano che i capitelli erano realizzati in bronzo e che il tempio era ornato da statue e cariatidi, sia sulla fronte che all’interno.

Cassio Dione Cocceiano, nelle sue Istorie Romane, afferma che il Pantheon aveva questo nome proprio perché accoglieva le statue di molte divinità e perché la cupola richiamava la volta celeste alludendo alle sette divinità planetarie. Secondo lo storico, l’edificio venne decorato dall’artista neoattico Diogenes di Atene e, per volere di Agrippa, furono poste all’interno una statua di Cesare divinizzato e, nel pronao, una di Ottaviano e una di se stesso, a celebrazione della loro amicizia e del loro comune interesse per il bene pubblico.

Inoltre nel 20 a.c., a Pozzuoli, su commissione del ricco mercante Lucio Calpurnio, si occupò del rifacimento del Capitolium, su cui poggia l’attuale duomo della città, altra costruzione di enorme responsabilità: questo tempio era un pseudoperiptero esastilo, con nove colonne scanalate sui lati lunghi, di ordine corinzio con due rampe laterali ascendenti al basamento del pronao. La cella era di forma quadrata e fu costruita con blocchi di marmo bianco, connessi tra loro senza l’impiego di malta. In questa maniera fu realizzato anche il resto dell’edificio.

Come dicevo la Grotta di Cocceio, nomen omen, fu la prima galleria che realizzò, scavandola sotto il monte Grillo, per collegare Cuma con la sponda occidentale del lago d’Averno. Questo tunnel è interamente scavato nel tufo per poco meno di un chilometro, con sezione trapezoidale e andamento rettilineo leggermente in salita verso Cuma (il dislivello è circa 40 m). L’entrata orientale, sul lago, presenta un breve tratto con volta a tutto sesto in opus reticulatum ed era preceduta da un vestibolo ornato da colonne e statue, andato distrutto. La galleria, abbastanza larga da permettere il passaggio di due carri, prendeva luce ed aria da sei pozzi scavati nella collina (il più lungo dei quali era alto oltre trenta metri).

Infatti, dall’ingresso occidentale (lato Cuma), s’incontrano prima due spiragli obliqui, l’uno opposto all’altro che proiettano, a ventaglio, un lungo fascio di luce sulle pareti e sulla volta della galleria, con un suggestivo effetto di luci e di ombre. Poi un terzo pozzo di luce, aperto di lato sul fianco del monte ed in seguito tre altri pozzi verticali, a taglio quadrato, svasati verso il basso, rivestiti in “opus reticulatum” e che perforano tutta l’altezza della collina.

Parallelamente alla galleria carrabile, sul lato settentrionale, correva un acquedotto sotterraneo, anch’esso dotato di nicchie e pozzi verticali, per l’approvvigionamento idrico del Portus Julius. L’uso militare della galleria, fu limitato nel tempo: già all’ epoca di Augusto è convertita a uso civile. In questa fase si apre un diverticolo, in prossimità dell’ingresso da Cuma, che conduceva probabilmente all’Anfiteatro della città.

L’opera, per la sua imponenza colpì senza dubbio la fantasia dei contemporanei, tanto che probabilmente ispirò la descrizione che Virgilio da della grotta che Enea attraversa, guidato dalla Sibilla, per accedere all’Ade

C’era una grotta profonda e mostruosamente slabbrata
sulla roccia, difesa da un lago nero e dal buio dei boschi:
sopra di lei nessun uccello impunemente poteva
dirigere il volo, tale il fetore che sprigionandosi
dalla tetra voragine saliva sino alla calotta del cielo

Una prova del fatto che la grotta fosse molto trafficata, è nelle incisioni lasciate dai viaggiatori sulle sue pareti, tra cui i simboli dei primi cristiani, come la corona e la palma. Sappiamo come la Grotta di Cocceio fosse usata sino al VI secolo d.C. quando, a causa della distruzioni dovuti alla guerra gotica, fu abbandonata.

Progressivamente interrata nel Medioevo, tornò alla ribalta nel Rinascimento, grazie agli scavi del cavaliere spagnolo Pietro della Pace: secondo la leggenda locale, questi dilapidò i propri beni nella ricerca di un presunto tesoro lì nascosto, seguendo le indicazioni di maghi e chiromanti. In verità, Pietro, che era una sorta di tombarolo in grande stile, che si arricchì senza ritegno grazie alle spoliazioni effettuate nelle rovine di Cuma antica, ricche ancora di reperti preziosi, rivendute ai collezionisti di tutta Europa, tra la fine del 1508 e gli inizi del 1509, si improvvisò speleologo, percorrendola da un estremo all’altro.

Immagino che nella sua testa siano risuonati i versi di Virgilio, sempre per rimanere in tema

Andavano oscuri nell’ombra della notte solitaria …
com’è il cammino per boschi sotto una luce maligna per l’incerta luna

Il complesso fu riscoperto nel 1844 dal canonico Giovanni Scherillo, studioso di antichità pompeiane, che scrisse un resoconto della sua esplorazione; la sua relazione ebbe così successo che i Borboni decisero di ripristinare la galleria, per riutilizzarla come percorso stradale. I lavori, però, andarono per le lunghe, tanto che l’inaugurazione si svolse nel 1861, alla presenza di Vittorio Emanuele II, diventato da poco re d’Italia.

Durante la seconda guerra mondiale fu utilizzata come deposito di esplosivi prodotti sul vicino isolotto di San Martino e nel 1944, l’esercito tedesco, in ritirata, fece esplodere le riserve lì conservate, che generò una gigantesca cavità alta 37 metri, nota come “camera di scoppio”; negli anni i detriti sono stati rimossi, ma il rischio di nuovi crolli ha continuato a rendere inaccessibile la grotta, tanto che è stata riaperta dopo ben 73 anni.

Un’altra peculiarità del monumento è quella di ospitare una colonia di pipistrelli di grande valore, costituita da cinque specie in pericolo di estinzione: per cui, i lavori di restauro hanno dovuto tenere conto anche delle loro esigenze.

La vendetta dello Sciamano: GameStop, Reddit e la Teoria del Caos

Benché i media italiani lo stiano trattando con sufficenza, quello che sta succedendo a Wall Street su GameStop, che sembra essere tratto da un romanzo cyberpunk, in futuro potrebbe essere fonte di parecchi problemi.

Per chi non conoscesse GameStop, questa è un’azienda texana che gestisce circa 5.000 negozi di videogiochi in tutto il mondo, anche in Italia. Come Blockbuster in precedenza, il suo core business è in crisi per la concorrenza spietata dei negozi online, tanto che nel 2019 ha perso 795 milioni di dollari, ha dovuto licenziare centinaia di dipendenti e chiudere molti negozi. Decadenza che appare irreversibile e che ha avuto un ulteriore spinta dalla pandemia e dai relativi lock down. Questo lento declino ha fatto sì che il titolo di GameStop, che nel 2015 ancora valeva circa 45 dollari, fosse arrivato a valere 3-4 dollari all’inizio del 2020.

Dinanzi a tali incontestabili fatti, i fondi speculativi hanno, senza neppure troppo sforzarsi, individuato una fonte di facili guadagni, investendo sulle vendite allo scoperto del titolo, lo short selling, che permette di guadagnare quando il valore del titolo diminuisce. Il meccanismo, per chi non lo conosce, è il seguente: il venditore allo scoperto (o short seller) prende in prestito da un broker una certa quantità di azioni nella speranza che queste perderanno di valore. Immaginiamo che lo short seller prenda in prestito da un broker 100 azioni e le venda sul mercato a 10 euro l’una, ottenendo quindi 1.000 euro. Se il valore delle azioni scende, diciamo a 8 euro l’una, lo short seller le ricompra per 800 euro e le restituisce al broker, guadagnandoci 200 euro. Se invece il valore delle azioni sale, lo short seller è comunque obbligato contrattualmente a ricomprarle e a restituirle al broker, in questo caso perdendo dei soldi. Il broker guadagna un certo interesse sulle azioni prestate.

Date le pessime acque in cui si trova GameStop, secondo un’analisi di Dow Jones Market Data riportata dal Wall Street Journal, il titolo, grazie ai fondi di investimento, che hanno scommesso sul suo crollo, è diventato il secondo con più vendite allo scoperto di tutta la borsa americana.

Ma i fondi di investimento non hanno fatti i conti con il cigno nero, che, in questo caso, prende il nome di Reddit, un social media poco bazzicato in Italia, ma molto diffiso negli USA, che sotto molti aspetti ha molto in comune con il nostro defunto Splinder, i cui investitori non ebbero la lungimiranza di capirne il potenziale business.

Gli utenti di Reddit vi possono infatti pubblicare contenuti sotto forma di post testuali o di collegamenti ipertestuali (link). Onoltre, possono attribuire una valutazione, “su” o “giù” (comunemente chiamati in inglese “upvote” e “downvote”), ai contenuti pubblicati: tali valutazioni determinano, poi, posizione e visibilità dei vari contenuti sulle pagine del sito. I contenuti del sito sono organizzati in aree di interesse chiamate subreddit.

Aree, che possiamo canali, in cui si discute di tutto: dal superbowl alla geopolitica, da quando Martin si deciderà a terminare The Wind of Winter al mercato azionario. In particolare, quest’ultimo è sviscerato da R/wallstreetbets, che gode di tre peculiarità. Il primo è che ha milioni di iscritti, dall’età media alquanto bassa: secondo le stime di Google Ad Planner, l’utente medio di Reddit è in prevalenza, di sesso maschile (59%), con un’età compresa fra 25 e 34 anni. Il che significa un enorme bacino di investitori a scarsa liquidità, ma con elevata propensione al rischio e notevole volatilità, favorita dalla diffusione di app che rendono molto facile operare in borsa, come Robinhood.

Il secondo, è che estremamente politicizzato: gli utenti sono spesso e volentieri filo trumpiani e più meno simpatizzanti i Qanon. Il terzo è che gli “influencer” hanno una solida formazione economica e matematica e vi sono diffuse analisi che spesso e volentieri sono al limite dell’insider trading. Ora, gli utenti di R/wallstreetbets di contrastare in tutti i modi le vendite allo scoperto su Gamenet, per tre motivi.

Il primo, biecamente ideologico: dare una lezione ai fondi speculativi che, finanziando la campagna elettorale di Biden, hanno, secondo le bislacche idee dell’utente medio, rubato agli americani il legittimo esito delle elezioni, ossia Trump presidente. Il secondo, la convinzione che le azioni di GameStop siano sottovalutate e che la società si possa trasformare in una sorta di Netflix del gaming. Il terzo, biecamente speculativo, cercando di rigirare a loro vantaggio i meccanismi che stanno dietro alle vendite allo scoperto.

Queste permettono un guadagno se il valore del titolo diminuisce: ma che se questo aumenta, per una domanda inaspettata, che succede?

I venditori allo scoperto sono costretti a ricomprarle in breve tempo per limitare i danni (ricopertura), acquistando le azioni a un prezzo maggiore di quanto anticipato. In questo modo si riduce la disponibilità di azioni allo scoperto, il cui valore al tempo stesso si rilancia: il fenomeno è chiamato “short squeeze”, la “strizzatina” che a ogni passaggio spinge la quotazione in alto.

Per cui, gli “influencer” di R/wallstreetbets hanno diffuso le parole d’ordine “buy GameStop” e i milioni di iscritti lo hanno seguito, dando origine a una corsa a comprare le azioni di quella società e a una spirale rialzista, che ha messo in serie difficoltà gli hedge fund Melvin e Citron.

Quindi tutto bene ? La solita storia da film americano, in cui Davide umilia Golia e il buon mister Smith sconfigge il malvagio speculatore privo di scrupoli?

No, è in realtà una sorta di follia collettiva, analoga all’assalto a Capitol Hill. Per capirlo, ci aiuta la matematica: il prezzo di un’azione può essere modellizzato tramite l’equazione di Black-Scholes, molto simile a quella di Navier-Stokes, che descrivono il comportamento dei fluidi. Questa somiglianza si evidenzia sia a livello formale, avendo entrambe le equazioni una forma simile, sia per quanto concerne i metodi di risoluzione.

Senza entrare nel merito matematico, esse sono entrambe PDE (Partial Differential Equations), il ramo di equazioni più difficili da risolvere; avendo una struttura simile si può osservare nei due casi una corrispondenza di termini. Se in Navier-Stokes vi è una variazione nel tempo della velocità di un fluido, in Black-Scholes è il prezzo di un’opzione a variare; in Navier-Stokes vi è un termine che descrive la viscosità del fluido, avente forma e posizione alquanto simile alla volatilità, o rischio, in Black-Scholes.

Per entrambe non è stata determinata una loro soluzione analitica in forma chiusa, tanto che la relativa dimostrazione, per la Navier-Stokes, è uno dei famigerati Problemi del Millennio. Per generare soluzioni particolari, per entrambe le soluzioni, si usa il metodo Montecarlo. In entrambi i casi, il fulcro di tutto è la generazione di numeri casuali, che risulta essere anche l’aspetto più critico di tale metodologia, in quanto bisogna individuare un algoritmo che permetta di generare numeri casuali coerenti con il possibile fluido o del prezzo dell’azione.

Inoltre, le due equazioni sono entrambe non lineari, con un potenziale comportamento caotico: i metodi numerici permettono di determinare l’attrattore strano, che anche se non è proprio così, per semplicità possiamo definire come l’intervallo cui più variare l’evoluzione del sistema. Se questo va per benissimo per gli ingegneri, come soluzione approssimata, per i giocatori di borsa invece questo serve a ben poco.

In più i sistemi non lineari hanno tre interessanti proprietà: la prima è che gli andamenti dei mercati non sono indipendenti o browniani, bensì subiscono l’influenza degli eventi passati, in grado di alterare le quotazioni future dei titoli. Per cui, ci porteremo dietro gli impatti di questi giorni per parecchio tempo.

La seconda, è il cosiddetto effetto farfalla, che impedisce di fare previsioni a lungo termine: sappiamo che Reddit ha cambiato il mercato, non cosa accadrà nel futuro prossimo.

La terza è che vale la regola di Hurst, ossia che le serie storiche dei mercati dei azionari non siano casuali, come afferma la teoria dei mercati efficienti, ma seguino una tendenza precisa, ricondubile a

chi troppo in alto sal cade sovente
precipitevolissimevolmente

Ossia, nonostante l’illusione di una crescita continua delle azioni di GameStop, sia per motivi matematici, sia perché l’azienda sempre quella è, la relativa bolla prima poi esploderà. A peggiorare questo casino, già per sé epocale, è l’annuncio del pacchetto di stimolo da 1,9 triliardi appena annunciato da Joe Biden, il tutto alla luce di una voce relativa ai risparmi totali in eccesso degli statunitensi che entro la primavera è già attesa in area 2 triliardi, stando a calcoli appena pubblicati da Credit Suisse. In funzione di quanto questa liquidità sarà dirottata in operazioni analoghe a quelle di Reddit, l’esplosione della bolla sarà sempre più dirompente.

Il rischio è meno teorico di quanto si pensi,sia perchè i redditor, gli utenti di reddit, hanno una componente metarazionale ed ideologica che non è presente in un investitore normale, parecchi si stanno esaltando al grido

“Fuck the system”

o si paragonano ai partecipanti al Boston Tea Party, sia perchè, visto il successo dell’operazione speculativa, stanno replicando la battaglia su altri titoli di aziende decotte, come BlackBerry, Nokia e AMC, la più grande catena di multisale al mondo. Poi, dato che

Pecunia non oleat

alla speculazione rialzista si stanno accodando investitori più tradizionali, come Musk e il fondo Blackrock

Per cui Biden è a un bivio: o interviene contro questo trading bottom-up, però facendo la figura del difensore dei poteri forti e degli speculatori finanziari contro i cittadini, aumentanto l’astio che parte della società americana prova nei suoi confronti o si troverà a gestire gli effetti di un pesante crollo di Wall Street.

Il Quinto Miglio dell’Appia Antica

Il V miglio all’inizio non sembra spiccare per grandi monumenti: infatti, nei primi metri, non si incrocia nulla più che un paio di iscrizioni, una poco leggibile, che dovrebbe celebrare la a gens Anicia, mentre l’altra ricorda un Caio Acurio, di cui sappiamo assai poco, e una statua togata.

Poco più avanti, sulla destra, compare l’alto nucleo in calcestruzzo di un sepolcro a torre, al quale sono stati rubati i blocchi di materiale nobile, le sculture, i fregi, le iscrizioni che celebravano il personaggio che qui aveva la sua sepoltura.

Il calcestruzzo è fatto a strati, perché l’architetto preparava prima una cassaforma con il primo filare di blocchi della cornice esterna, poi colava all’interno il calcestruzzo, poi aspettava che si solidificava e quindi alzava il secondo ordine di blocchi, e così man mano veniva alzato il monumento.

Qui è stata ritrovata l’epigrafe dei liberti ebrei Baricha, Zabda e Achiba, della gens Valeria, divenuti ricchi sfondati con il commercio degli schiavi, che forse erano proprietari proprio del sepolcro. Liberti il cui ceto sociale, all’epoca di Claudio e Nerone, in rapidissima ascesa, tanto da essere satireggiato da Petronio nel Satyricon.

Pochi lo evidenziano, ma il buon Trimalchione era di origine ebraica: gli indizi sono numerosi, dai semitismi presenti nel brano della Caena ai calchi del vangelo di Marco. Il principali sono tre: il primo è proprio il nome del personaggio, composto da elementi di diversa provenienza linguistica: il prefisso greco tri, ovviamente tre e la radice semitica mel nella sua forma occidentale malchio o malchus, che significa ‘re’. Il nome “Trimalchio” significherebbe quindi “Tre volte re” o “Grande re”.

Il secondo è la battuta che fa a un certo punto

“Io sono figlio di re! “Ma allora perché hai fatto lo schiavo?”, mi dirai: perché mi sono fatto schiavo di mia iniziativa e ho preferito essere cittadino piuttosto che tributario di Roma

Al di là del poco probabile calco della lettera dei Filippesi di San Paolo e la citazione di una truffa che sappiamo andare in voga in Siria, Palestina ed Egitto, dove gli abitanti di bassa condizione sociale, si fingevano schiavi, per poi con una falsa manumissio diventare liberti e acquisire la cittadinanza romana è ancha una parodia degli appellativi messianici ebraici, come bar enash

Il terzo è nella questione biblioteche. Sempre durante il banchetto, Trimalcione se ne esce con

“E’ vero che non faccio l’oratore, ma una cultura ad uso mio me la sono fatta. E non credere che disprezzi gli studi: ho tre biblioteche, una greca, l’altra latina

Per anni è stata interpretata come uno dei tanti suoi strafalcioni: in realtà, come ogni ricco ebreo della diaspora, anche se ellenizzato e poco osservante, più che per tradizione che per uso effettivo, ne aveva anche una nella lingua dei padri.

Tornando all’Appia, poco più avanti c’è l’epigrafe di un tal Tito FIDICLANIVS Apella, e accanto un ritratto di defunti che faceva parte di un monumento funerario; è il pezzo originale, così rovinato da non correre il rischio di essere trafugato e quindi è stato lasciato sul posto.

A questa, seguono due sepolcri a tempietto, risalenti al II secolo d.C. in laterizio policromo con due camere sovrapposte: la seminterrata, si mettevano i sarcofagi o le urne cinerarie che accoglievano i morti, mentre la superiore era dedicata ai riti funebri. Il primo sepolcro ha le due pareti laterali sporgenti, e la facciata doveva alloggiare delle colonne, forse laterizie, che essendo l’elemento più debole con il tempo sono cadute; per questo oggi non vediamo la facciata, bensì l’interno del pronao e il retro, ben conservato, con le cornici e le finestrelle in cotto. Probabilmente, Canina provvide a ricostruire la facciata posteriore e a murare numerosi frammenti marmorei, oggi quasi del tutto scomparsi.

La lapide che spunta sulla destra del sepolcro non è la tomba di un cane, bensì un segnale posto dalla Soprintendenza Archeologica di Roma per ricordare il restauro del 1999. Il secondo sepolcro è leggermente arretrato rispetto al primo, perché doveva lasciare uno spazio per altri sepolcri. Di struttura analoga al precedente, è un esempio del riutilizzo dei monumenti romani durante l’età medievale, spesso trasformati in torri di vedetta: alla muratura romana in laterizio, pertinente a un sepolcro a camera su podio, si addossa, sul fronte della strada, la tipica tecnica edilizia medievale in tufelli e blocchetti di peperino.

A destra vi sono due nuclei in calcestruzzo appartenevano a due sepolcri a pilastro. Qui le iscrizioni ci svelano anche particolari di vita quotidiana, oppure contengono degli errori interessanti che ci attestano come il Latino ciceroniano, quello che abbiamo studiato a scuola, era differente da quello di uso comune e non per niente avrebbe portato alle lingue neolatine. Ad esempio, in questa epigrafe a destra troviamo:

LARELLIO GABRAI.L
DIOPHANTO
TITINIAI NOBILI
UXSORI

ossia

A Lucio Arellio Diofanto, liberto di Glabra, e a Titinia Nobile, sua consorte.

C’è scritto “TITINIAI” anziché “TITINIAE”, forse perché il dittongo era pronunciato come è scritto, e con la “e” che era abbastanza chiusa.

Subito dopo incontriamo un mausoleo formato da un cilindro su basamento quadrangolare, che in origine doveva naturalmente essere rivestito di blocchi. In genere queste tombe sopra il cilindro hanno un monte di terra a forma di cono rovesciato dove si piantavano cipressi o altra vegetazione. Nel Medioevo hanno tolto dal cilindro la terra che doveva sostenere il cono, lasciando la torre il cui ingresso è sul lato opposto alla strada.

Segue a sinistra il nucleo di un sepolcro a cuspide e un colombario un po’ più grande di quelli precedenti. Si vede il piano superiore, privo di nicchie e coperto con una volta a botte, mentre il piano inferiore è quasi del tutto otturato; il paramento è in laterizio, che fa pensare alla tipologia di età antonino – severiana con alto podio e camera sotterranea per l’alloggiamento dei sarcofagi.

Siamo quindi giunti alle Fossae Cluiliae furono un grande trincea che circondava la città di Roma a circa 6 ~ 8 km dalle mura della città. Secondo la tradizione, fu scavata dall’armata di Alba Longa verso la metà del VII secolo a.C. durante la prima fase della guerra contro Roma. Prende il nome da Gaio Cluilio, re di Alba Longa al tempo del re di Roma Tullo Ostilio.

Probabilmente, era un canale, realizzato in epoca arcaica, Romani compirono un’opera di bonifica (cluere) dell’area, consacrandola a qualche divinità. Certamente le fossae cluiliae si ricollegano a una delle memorie più antiche di Roma, perché qui, come in un altro sito poco più oltre, la via Appia, rettilinea fino ad Albano, compie eccezionalmente una curva, rispettata fino nel tardo Impero,

Probabilmente, vi poteva essere un santuario dedicata a Terminus, il signore dei confini, i cui luoghi sacri, per la loro arcaicità, non dovevano essere coperti da un tetto. Plutarco ci tramanda che Termine era l’unica divinità romana che rifiutava i sacrifici animali e accettava in dono solo foglie e petali di fiori per ornare i suoi simulacri. Di Termine parla Ovidio nel secondo dei Fasti, spiegando le feste in suo onore e ripetendo in forma poetica la preghiera che gli si innalzava

O Terminus, sei tu che delimiti i popoli, le città, i vasti regni; senza di te, ogni lembo di terra susciterebbe contrasti. Tu non conosci intrighi, non sei corrotto dall’oro, conservi con legittima lealtà le terre a te affidate

Il 23 febbraio, ultimo mese dell’anno nell’antico calendario, si celebravano le Terminalia, festa dei termini, cioè delle pietre terminali, su cui si ponevano una corona e una focaccia offerta al dio.

Il re Numa Pompilio, scrive Dionigi di Alicarnasso, ordinò a tutti i cittadini di delimitare i confini dei propri campi ponendovi delle pietre e consacrandole a Zeus Horios (Giove Terminus), e stabilì che “se qualcuno avesse tolto o spostato i confini (horoi) fosse sacer al dio, ossia era colpevole di avere violato la pax deorum; giuridicamente, comportava la perdita della protezione che la civitas garantiva ad ogni cittadino e, quindi, la possibilità per chiunque di uccidere il trasgressore.

Sempre a riprova del significato religioso arcaico dell’area, la tradizione vi poneva il sacer campus Horatiorum, in ricordo della famosa battaglia degli Orazî e Curiazî. Di fatto, questo era una sorta di dramma sacro, che rappresentava lo scontro, centrale nella religione dei prisci latini, tra l’eroe civilizzatore e il suo doppio, simbolo del caos primigenio, che gli storici successivi, scambiarono per una vicenda reale.

Le Fossae Cluiliae sono menzionate di nuovo da Tito Livio e da Plutarco in una guerra della metà del IV secolo a.C. In quella circostanza il generale Coriolano, passato ai Volsci e vittorioso in una serie di battaglie contro i romani, marciò su Roma e vi si accampò. Qui, dopo avere respinto gli ambasciatori romani, fu convinto a ritirarsi madre Veturia e della moglie Volumnia, accorsa con i due figlioletti in braccio. Come racconta Livio

Coriolano saltò giù come una furia dal suo sedile e corse incontro alla madre per abbracciarla. Lei però, passata dalle suppliche alla collera, gli disse: «Fermo lì, prima di abbracciarmi: voglio sapere se qui ci troviamo da un nemico o da un figlio e se nel tuo accampamento devo considerarmi una prigioniera o una madre.

Ovviamente, Coriolano non è mai esistito, dato che non è citato neppure di sfuggita nei Fasti Consolari: fu una costruzione a posteriori, per dare un’interpretazione sensata al caos interno a Roma seguito alla cacciata del ramo principali dei Tarquini, in cui vari signori della guerra tentarono di prendere il potere e la crisi del potere della città nel Latium e nel Tirreno, dovuto al collasso della talassocrazia etrusca.

Teodeberto e la guerra gotica

E’ accennato di sfuggita, sui libri di testo, ma i Franchi ebbero un ruolo assai importanti nelle guerre gotiche, provocando diversi problemi sia a Belisario, sia a Narsete. Il primo a mettere bocca nelle vicende italiane fu un personaggio che di certo per le sue abilità di guerriero, per il suo amore per il vino, il cibo e le belle donne e per la sua capacità di provocare, anche inconsapevolmente, casini epocali, farebbe apparire Robert Baratheon un noioso e bigotto moralista: si tratta di Teodeberto I, nipote di Clodoveo

Come sue padre Teodorico, era un figlio illegittimo, ma i merovingi, su queste cose, erano molto più liberal di noi: in compenso, a differenza del resto della famiglia, che non perdeva occasione per spaccarsi la teste a mazzate per le discussioni sull’eredità, Teodeberto andava d’amore e d’accordo con i suoi fratellastri, che in fondo, preferivano bisbocciare con lui, piuttosto che litigare per un cosa, il Potere, di cui avevano i vantaggi, senza gli svantaggi.

Il suo esordio, fu senza ombra di dubbio, epico: intorno al 515, i goti e i dani, secondo quanto racconta Gregorio di Tours, misero a ferro e fuoco la Frisia: Teodeberto, appena adolescente, fu messo a capo di un grande esercito di franchi. Non solo sconfisse e disperse i predoni, ma uccise in duello il loro capo, Chlochilaicus.

Chi era costui? Ebbene è uno dei primi tizi che si studia nella storia della letteratura inglese: si tratta di Hygelac, nonno di Beowulf, che prese anche lui la sua dose di randellate da Teodeberto, che si può vantare tranquillamente d’aver malmenato un eroe di poemi epici e massacratore di draghi, per dare una giusta misura alla sua ignoranza.

Da quel momento in poi, Teodeberto divenne braccio destro del padre. Nel 524, partecipò alla fallimentare tentativo di conquista della Borgundia, dove lo zio Clodomiro perse letteralmente la testa, che fu posta sopra una picca dai nemici e alle complesse vicende legate alla sua successione.

I tre figli di Clodomiro, Teobaldo, Guntario e Clodoaldo, vennero affidati alla custodia della nonna, santa Clotilde, moglie di Clodoveo e il suo regno venne diviso tra i fratelli Clotario I (che aveva preso in moglie la vedova di Clodomiro, Gunteuca) e Childeberto I, nell’attesa che i legittimi eredi avessero raggiunto la maggiore età. Ma Clotario I e Childeberto I si accordarono per spartirsi il regno e fecero sopprimere i due nipoti più grandi: solo Clodoaldo scampò all’eccidio e riuscì a nascondersi fino alla età adulta, accettando poi di farsi monaco.

Ma i due compari cominciarono subito a litigare tra loro, Childeberto, per diventare unico re, tenta di eliminare in battaglia Clotario. In questo groviglio sanguinoso, Clotilde lottò con le suppliche ai figli, con notti di preghiera sulla tomba di san Martino. E proprio al santo attribuì l’evento risolutore: un nubifragio che impedisce il combattimento, quando Clotario era già circondato. Clotilde resta l’unica a ostacolare l’autodistruzione della famiglia. A dire il vero, una grossa mano la diede anche Teodeberto: mentre il padre applicava il principio

“Io sono meticcio e di questi affari non mi impiccio”

Teodeberto minaccio di spaccare a mazzate la teste dei due litigiosi zii, se non avessero trovato un accordo: conoscendo il pessimo carattere del nipote, i due accettarono di buon grado una riconciliazione.

Se Clotilde passò alla storia come santa, Gregorio di Tours dice

“Non era più considerata regina, ma un’ancella di Dio, lei che non fu portata alla rovina dall’ambizione, ma che dall’umanità fu innalzata alla grazia”

Teodeberto, convinto sostenitore del fatto che la violenza non è una soluzione a tutti i problemi, ma spesso aiuta, diede una mano al padre Teodorico nella lunga e faticosa conquista della Turingia. In quello stesso periodo Teodeberto fu fidanzato con la principessa longobarda, Visigarda, figlia del re Vacone.

All’epoca, i longobardi, a tutto pensavano tranne che a migrare in Italia, sfruttando l’alleanza con Giustiniano avevano messo in piedi un grande regno, esteso dalla Boemia alla Pannonia: Teodorico, sperava di sfruttarne l’alleanza, per espandersi ulteriormente in Germania. Ma Teodeberto gliene fece una delle sue.

Sempre secondo Gregorio di Tours, Teodeberto, l’erede del re dei Franchi d’Austrasia, fece un’incursione contro i Visigoti della Settimania, arrivando a Biterris, la nostra Beziers, dove risiedeva Deoteria, una donna gallo-romana, vedeva di un funzionario locale, la quale fungeva da governatrice della città. Deoteria, di fronte alle minacce del condottiero franco, che chiedeva la resa della città, lo invitò ad entrare in pace. Ed a seguito del loro incontro, Teodeberto si invaghì della donna e ne fece la sua amante, mandando a ramengo il fidanzamento con Visigarda e i sogni di gloria del padre.

Il quale non diseredò Teodeberto, semplicemente perché gli altri figli erano ancora peggio: quando Teodeberto seppe che suo padre Teodorico, era gravemente malato, si precipitò al suo capezzale lasciando Deoteria e la figlia (che aveva avuto dal precedente matrimonio) in Alvernia. Dopo la morte del padre, i due si sposarono e Deuteria partorirà, Teobaldo, che erediterà il trono e i difetti del padre, senza i pregi.

Nel 534, assieme agli zii, Childeberto e Clotario I, invase la Burgundia e, dopo la conquista, se la spartì con gli zii. Lo zio, Childeberto, che non aveva figli lo adottò, nominandolo suo erede; nel frattempo, Teodeberto si godeva la vita, scandalizzando anche il buon Procopio di Cesarea, che, a Costantinopoli, ne aveva di certo viste di tutti i colori. Queste sono le cose più morigerate e meno censurabili di cui lo accusava

Ed eccoli ora ad Arles a guardare le gare ippiche, eccoli battere una moneta d’oro con il metallo delle miniere galliche e imprimere in quello statere non già secondo la consuetudine l’effigie dell’imperatore romano, bensì la loro.

Insomma, oltre a gozzovigliare, Teodeberto si atteggiava a basileus: tanto che il sant’uomo Aureliano d’Arles, d’incredibile pazienza, gli scrisse un’elegante epistola in latino, in cui lo elogiava per le sue virtù e lo esortava a seguire i principi della morale cristiana

a christiano principe inxstimabilis ratio Deo reddenda est.

Esortazione che capitò a fagiolo, visto che nella corte di Teodeberto, di scandali ne succedevano a iosa. Il più eclatante coinvolse Deoteria, che, per la paura che il marito fosse preso dal desiderio per la figliastra, Deoteria, nei pressi di Viridunum, la fece accomodare su una portantina, che, trainata da buoi selvatici, attraversando un ponte, precipitò nel fiume sottostante, provocando la morte della fanciulla.

Dinanzi a tale evento, a malincuore dovette ripudiare Deoteria e sposarsi la vecchia fidanzata longobarda: dato che nel frattempo, Teodeberto si annoiava a morte, decise di mettere il becco nelle vicende d’Italia, nella speranza di guadagnarci qualcosa. Il problema è che il nostro eroe aveva appena stipulato un accordo di alleanza con Giustiniano a fronte di un ricco sussidio, che non aveva nessuna intenzione di perdere: per cui diede la guerra in outsourcing, arruolando un contingente di 10000 borgundi, che sarebbero stati messi a disposizione del goto Vitige. Metà del bottino di questo esercito, sarebbe finito, secondo l’accordo, nelle tasche reali.

Il massimo successo di questo contingente fu la conquista e il saccheggio di Milano, così descritto da Procopio.

Milano quindi fu agguagliata al suolo, e massacrato ogni suo abitatore di sesso maschile, non risparmiandosi età comunque, e per lo meno aggiugnevane il numero a trecento mila; le femmine custodite in ischiavitù spedironsi poscia in dono ai Burgundioni, guiderdonandoli con esse del soccorso avutone in questa guerra.

Oltre di che rinvenuto là entro Reparato prefetto del Pretorio lo fecero a pezzi e gittaronne le carni in cibo ai cani. Gerbentino, pur egli quivi di stanza, poté co’ suoi trasferirsi per la veneta regione e pe’confini delle vicine genti nella Dalmazia, e passato in seguito a visitare l’imperatore narrogli a suo bell’agio quell’immensa effusione di sangue. Quindi i Gotti, occupate per arrendimento tutte le altre città guernite dalle armi imperiali, dominarono l’intera Liguria. Martino ed Uliare coll’esercito si restituirono in Roma.

Visto il successo dell’impresa, Teodeberto, visto l’indebolimento dei Goti e dei Bizantini, guidò direttamente l’invasione dell’Italia. Così i Franchi valicarono le Alpi senza trovare resistenza armata da parte dei Goti, convinti che fossero venuti in loro aiuto. Una volta attraversato il Po nei pressi di Pavia, tuttavia, i presunti alleati svelarono le loro reali intenzioni aggredendo proditoriamente i Goti di Pavia, le cui mogli e figli furono rapiti e sacrificati alle divinità pagane. L’esercito goto così fu costretto a ripiegare in direzione di Ravenna; nel corso della ritirata attirarono l’attenzione di un esercito bizantino che, convinto che fossero stati messi in rotta da Belisario, avanzò senza volerlo verso i Franchi, venendo poi anch’esso sconfitto dall’esercito di Teodeberto.

Quando Belisario fu informato dell’invasione dei Franchi, scrisse una lettera a re Teodeberto, accusandolo di aver violato i trattati precedenti e intimandogli di ritirarsi dall’Italia. Lui, con il massimo della faccia tosta, evidenziò come in realtà stesse combattendo contro i goti, rispettando l’alleanza con Giustiniano… La battaglia con l’esercito bizantino, sempre secondo Teodeberto, era stato banale incidente, nato da un equivoco linguistico: i suoi soldati, che non conoscevano né il greco, né il latino, li avevano scambiati per nemici.

Per fortuna di Belisario, i Franchi furono colpiti da un’epidemia di dissenteria, che sterminò un terzo del loro esercito, costringendoli a lasciare l’Italia, cosa che fecero non prima di aver messo a sacco Genova. Ma Teodeberto non era un tipo da arrendersi per così poco: durante l’assedio bizantino di Ravenna, mandò un’ambasciata a Vitige e a Belisario, proponendo a entrambi un’alleanza, in cambio di cessioni territoriali in Nord Italia. Sia Goti, sia Bizantini furono concordi nel mandare al diavolo gli ambasciatori.

Dato che non c’è due senza tre, Teodeberto, approfittando dell’offensiva di Totila in Sud Italia, invase e occupò la Pianura Padana e la Venetia, tanto che il re goto, esasperato, propose la pace a Giustiniano: in cambio della cessione della Sicilia e della Dalmazia all’Impero e di un tributo annuale, le truppe bizantine avrebbero collaborato nel cacciare i Franchi oltre le Alpi. Giustiano rifiutò e inviò un ambasciatore, Leonzio, presso i Franchi al fine di persuaderli ad allearsi con l’Impero contro i Goti, ma senza risultato.

Anche perché Teodeberto aveva altre cose a cui pensare: Visigarda era morta all’improvviso e il nostro eroe si sposò per la terza volta con una donna sconosciuta, prendendosi Deoteria come amante, nonostante Gregorio di Tours faccia il vago sulla questione.

Teodeberto si ammalò a seguito di una ferita ricevuta durante una battuta di caccia, sarebbe il massimo se fosse stata al cinghiale, e morì 37 anni dopo Clodoveo, avendo regnato per circa quattordici anni. Così se ne andò colui che potremmo definire così

Non è il re che i Franchi si meritano, ma è il re di cui i Franchi hanno bisogno.

Atene contro Siracusa (Parte IV)

Dopo che l’assemblea ateniese sentì le parole degli ambasciatori di Segesta, l’assemblea popolare si trovò così a decidere sull’invio in Sicilia, a scopo dissuasivo nei confronti di Siracusa, di un corpo di spedizione di 60 Triremi.

La fazione contraria all’intervento, che riteneva come il principale obiettivo geopolitico di Atene fosse il consolidamento della sua posizione in Grecia e il logoramento degli alleati di Sparta era capitanata da Nicia. Nato nel 470 ad Atene da Nicerato del demo di Cidantide, questi apparteneva ad una casata aristocratica ed era uno dei cittadini più in vista di Atene con un patrimonio di oltre 100 talenti d’argento, dal momento che la sua famiglia aveva diritti di sfruttamento delle assai redditizie miniere d’argento del Laurio che gestiva mediante l’impiego di schiavi il cui numero superava il migliaio.

Collega di Pericle, dopo la morte di questi, nel 428 a.C., divenne stratego grazie al forte appoggio da parte dei ricchi e degli aristocratici che ne fecero il proprio baluardo contro la politica demagogica di Cleone; nonostante questo, fu popolare anche presso i ceti più poveri, grazie alla sua capacità di gestire le pubbliche relazioni, ben descritta da Plutarco

Il suo portamento dignitoso non era né aspro né odioso: era mescolato ad una sorta di timidezza per cui sembrava temere la moltitudine e ciò lo rendeva popolare. Per natura era timoroso e pessimista; in guerra, però, riusciva a celare la sua viltà con la sorte grazie alla quale aveva un costante successo come stratego. Invece, nella vita politica, il suo timore e la facilità per cui si turbava innanzi ai sicofanti lo facevano sembrare democratico e gli derivarono non poca forza dalla simpatia del popolo il quale teme i superbi ed esalta chi lo teme. Infatti, il massimo onore che i potenti possono rendere alle masse è di non disprezzarle

In realtà, Nicia era tutt’altro che vile: come Bernard Law Montgomery, riteneva che le guerre si vincessero con la pazienza, la saggezza e la prudenza. Per questo evitava di prendere rischi inutili e agiva solo quando era certo di avere piena superiorità di mezzi e di uomini, minimizzando il rischio e massimizzando il risultato

Nicia, essendo ricco sfondato, sapeva anche lavorare molto bene alla promozione della sua immagine, facendo, per usare un termine moderno, da sponsor a numerose iniziative culturali: delle sue numerose offerte votive è nota una statua dorata di Pallade, collocata sull’Acropoli e l’edicola nel recinto sacro di Dioniso sormontata dai tripodi ottenuti nelle gare teatrali in cui fu corego e in cui non fu mai sconfitto.

Di lui si ricordano le splendide cerimonie organizzate a Delo. Infatti, a differenza delle delegazioni delle altre città, quando guidò la processione, sbarcò a Renea con il coro, le vittime sacrificali ed il resto del corredo portando un ponte da lui fatto costruire ad Atene adorno di pitture, drappi, festoni con cui, durante la notte, congiunse il breve tratto di mare tra Renea e Delo. La mattina attraversò il ponte in testa alla processione diretta al tempio per poi piantare una palma di bronzo come offerta al dio.

La carriera militare di Nicia, cominciò nel 427 a.C., quando condusse una spedizione contro l’isola di Minoa, arida ma strategicamente importante, posta di fronte a Megara e la conquistò poi, l’anno seguente, con una flotta di 60 triremi e 2.000 opliti, devastò e saccheggiò le campagne dell’isola di Milo, la Locride e tornò ad Atene.

Due anni dopo, quando gli spartani attaccarono per terra e mare la piazzaforte ateniese di Pilo, fortificata poco tempo prima da Demostene, nella battaglia che divampò, un contingente di 400 opliti spartani, rimase tagliato fuori sull’isola di Sfacteria. Gli ateniesi, ritennero che la cattura sarebbe stata un grande successo, ma l’assedio presentava forti difficoltà sia per la scarsità d’acqua sia per la necessità di trasportare i rifornimenti da lontano e con viaggio dispendioso che d’inverno risultava estremamente pericoloso. Gli spartani, in perenne carenza di uomini, per salvare i loro compatrioti chiesero un armistizio. Nicia, che valutava più i costi della guerra che i fantomatici guadagni, colse la palla al balzo per intraprendere delle trattative di pace.

Il suo tentativo, però, fu sabotato dal famigerato Cleone, tanto inviso ad Aristofane, che lo spernacchiò in tante delle sue commedie. Questo tizio, passato alla storia come il prototipo del demagogo, non avendo né il cinico genio di Alcibiade, né il suo fascino, figlio di Cleneto, apparteneva per nascita alla classe media dal momento che deteneva l’attività di conciatore di pelli finché, poco dopo la morte di Pericle, non salì alla ribalta come leader del partito popolare radicale che più di tutti era fautore di una politica bellicosa e anti-spartana.

Cleone è menzionato dagli storici per la prima volta nel 430 a.C. quando fu tra i principali accusatori di Pericle per la condotta da questi tenuta durante il conflitto e la pestilenza. Il processo fu un completo successo e si concluse, per Pericle, con la condanna al pagamento di una multa valutabile tra i 15 ed i 50 talenti. La sua posizione bellicista, oltre che a rispondere a numerose istanze presenti nella società ateniese, la democrazia, con i sussidi pagati ai cittadini più poveri affinché partecipassero alla vita politica, non era gratis e i costi dovevano essere in qualche modo coperti sottraendo risorse agli altri stati greci, era legata al suo personale interesse economico. Le pelli che lavorava, infatti, erano un materiale indispensabile per gli eserciti greci.

Insomma, Cleone non sarebbe sfigurato nel cast di Finché c’è guerra, c’è speranza di Alberto Sordi: ora, dato che la possibile pace avrebbe tagliato le sue entrate economiche, fece fuoco e fiamme all’assemblea pubblica, mandando a ramengo tutte le trattative. Agli emissari lacedemoni giunti ad Atene fu infatti garantita la restituzione degli opliti, ma solo in cambio della restituzione pubblica dei territori di cui Sparta era garante e che Atene era stata costretta ad abbandonare in passato, in occasione di precedenti tregue. Il che, minando il prestigio di Sparta e di conseguenza la coesione della lega peloponnesiaca, non era accettabile dalla controparte.

Per cui, Nicia, di malavoglia, consapevole che gli assedianti erano in condizione altrettanto difficile degli assediati, riprese la campagna, con scarsi risultati: nonostante il blocco i lacedemoni continuavano a essere riforniti, da singoli nuotatori, che si spostavano dietro una corda otri piene di provviste, o da piccole imbarcazioni che approfittavano delle occasioni in cui i venti da ponente spingevano le navi avversarie a ripararsi.

Pare che gli Spartani avessero promesso la libertà a ogni ilota del Peloponneso che si fosse arrischiato a raggiungere l’isola con «grano macinato, vino, cacio e ogni altro genere di alimenti che potesse giovare per l’assedio» (IV.26,5).

In compenso gli ateniesi dovevano sudare le sette camicie per rifornirsi d’acqua ed erano ostretti a mantenere parte delle navi – che nel frattempo erano diventate settanta – a terra, per mancanza di ormeggi a sufficienza per tutte. Né era facile mandare i rifornimenti alle truppe circumnavigando ogni volta il Peloponneso; se poi, approfittando di una giornata di brutto tempo, gli spartani fossero riusciti a darsela a gambe, beh, la figura meschina avrebbe indebolito la posizione ateniese dinanzi alla lega di Delo.

Andando le cose così per lunghe, gli ateniesi si adirarono con Cleone il quale in un’assemblea riversò la colpa su Nicia accusandolo di lasciarsi sfuggire i nemici con la sua fiacchezza e millantò che al suo posto avrebbe conquistato l’isola in venti giorni. A Nicia brillarono gli occhi: dato che Cleone non era noto per questa grande esperienza militare, fece il bel gesto di cedergli il comando dell’assedio.

Cleone, resosi conto della sola in arrivo fece il vago, Nicia gli impose di prendere il mare con tutte le truppe che desiderava mentre l’assemblea popolare lo prendeva a pernacchioni: di fatto, così pensavano i conservatori ateniesi, qualunque fosse stato l’esito, loro ci avrebbero guadagnato. Se Cleone avesse fatto una pessima figura, il demagogo avrebbe smesso di essere un problema politico; in caso di suoi improbabile successo, la posizione contrattuale di Atene con Sparta si sarebbe ulteriormente rafforzata.

Ma Cleone, ebbe il proverbiale colpo di fortuna: A Sfacteria, infatti, la situazione era cambiata. Un incendio provocato da un soldato affamato nel tentativo di cucinare, aveva ridotto in cenere gran parte dei boschi dell’isola. Gli assediati – più numerosi di quanto inizialmente ritenuto- non avevano più dove nascondersi e ripararsi.

Demostene di Afidia, il secondo di Nicia, e Cleone riunirono l’esercito, intimano agli Spartani di arrendersi e, ricevuto un netto rifiuto, sbarcarono sull’isola ottocento opliti, prendendosi un grosso rischio: da una parte i spartani erano meglio addestrati, dall’altro, il terreno accidentato dell’isola favoriva di certo i difensori. Ma all’alba, la guarnigione posta a difesa dell’estremità meridionale dell’isola era ancora tra le braccia di Morfeo; in più erano appena trenta opliti. Per gli ateniesi fu facile averne ragione.

Conquistata la testa di ponte, fu facile sbarcare il resto del contingente, costituito da arcieri, frombolieri e truppe armare alla leggera. Ora, gli spartani si aspettavano il tradizionale scontro tra falangi, in cui avrebbero ridotto a mal partito gli avversari: ma il gatto e la volpe ateniesi li sorpresero, utilizzando una tattica inaspettata. Disposero arcieri, lanciatori di giavellotti sulle alture dell’isola e invece di impegnare i loro opliti in un corpo a corpo, si misero a fare il tiro a segno sugli avversari, che più di insultare loro e loro madri, poco potevano fare.

Per citare Tucidide

Sicché adesso gli Spartani si vedevano in una dura situazione. Gli elmi non li proteggevano dalle frecce, e sotto i colpi di molti mozziconi di giavellotti erano rimasti infissi negli scudi, sicché non sapevano dove volgere il capo; quanto a vedere, era tolta la vista; nel crescente frastuono delle grida nemiche non arrivavano a sentire i comandi dei loro capi; erano minacciati da ogni parte, e non sapevano come dovessero difendersi per salvarsi

Per cui, viste le brutte, gli spartani si decisero per una ritirata strategica, nelle fortificazioni all’altro lato dell’isola: la situazione era diventata di nuovo complicata per gli ateniesi, visto che i nemici potevano essere stanati solo con un sanguinoso attacco frontale. A togliere le castagne dal fuoco a Cleone e Demostene, furono gli alleati della Messenia, che agili come scimmie, si arrampicarono lungo scogliera, ponendosi alle spalle degli spartani, che stanchi e affamati, non avevano nessuna intenzione di fare la fine di Leonida alle Termopili e si arresero a discrezione.

Cleone, che aveva mantenuto la promessa, si ritrovò a essere l’eroe del giorno e si autoconvinse di essere un grande generale. Nicia fece un’inaspettata figura di palta, ma ebbe modo di rifarsi, quando, nello stesso anno, coadiuvato da due colleghi, ottenne il comando della spedizione contro Corinto. La battaglia, a lungo incerta, si risolse dopo molte ore quando gli ateniesi caricarono con l’intera cavalleria infliggendo pesanti perdite ai nemici e tra di essi lo stesso comandante, Licofronte. Ottenuta tale vittoria proseguì verso Crommione di cui devastò il territorio e si diresse fino al territorio di Epidauro, approdò a Metana a mezza via tra Epidauro e Trezene, conquistò l’istmo della penisola, fece erigere un forte da cui per un certo periodo fece partire scorribande nelle contrade di Trezene, Ali ed Epidauro. Infine, dopo aver perfezionati i dispositivi di difesa, ricondusse l’esercito in patria.

Nel 424, Nicia, riottenne la strategia e condusse con due colleghi una spedizione contro le coste della Laconia durante la quale occupò facilmente l’isola di Citera essendosi messo in contatto con alcuni degli abitanti. Poi, posta una guarnigione, devastò le coste della Laconia per sette giorni, conquistò Terea ove gli si erano rifugiati gli abitanti di Egina e la distrusse; quanto agli abitanti, furono condannati a morte. Obiettivo di tali incursione era indebolire politicamente Sparta, dimostrando quanto fosse incapace di difendere i suoi alleati, istigando al contempo gli iloti alla rivolta.

Nel frattempo, però gli spartani avevano cambiato strategia, decidendo di attaccare la penisola calcidica, il cuore degli interessi geopolitici dell’Attica: era infatti una base per il rifornimento di oro e di grano proveniente dal Ponto Eusino, la nostra Crimea. In più, boschi di tale penisola proveniva il legname necessario per la flotta. Con una lunga marcia, il generale spartano Brasida condusse un contingente militare composto da 1000 opliti mercenari e 700 iloti fino in Tracia, presso la città di Anfipoli, che assediò con l’appoggio macedone e tracio.

Il generale spartano ebbe la meglio sugli ateniesi solo in seguito ad un lungo ed estenuante assedio durato alcuni mesi, durante il quale Brasida fece innalzare un’enorme muraglia di legno grazie alla quale riuscì a superare le fortificazioni cittadine.

La città cadde nel 424 a.C. in mano agli Spartani insieme al centro di Eione e la sconfitta ateniese provocò l’esilio di Tucidide, che in quell’occasione agiva da stratego nella zona di Anfipoli e non era stato in grado di difendere l’importante base ateniese e che capì di essere più tagliato come storico, che come generale.

Brasida inoltre promosse la defezione dei calcidesi, promettendo la libertà e l’autonomia che Atene aveva loro negato. Nicia fu incaricato di mettere una pezza a questo casino; giunta nelle penisola calcidica, rinsaldò il possesso di Mende e pose sotto assedio Scione ed avviò trattative diplomatiche con Perdicca, re di Macedonia. La sua strategia temporeggiatrice era basata su un calcolo abbastanza cinico: Sparta non si sarebbe potuto permettere a lungo tale contingente mercenario, né l’avrebbe potuto sostituire con gli spartiati, pena ulteriori ribellione ilote. Appena fosse arrivato l’ordine a Brasida di congedare i mercenari, gli ateniesi avrebbero potuto riconquistare tutto senza grosse perdite.

Ma non aveva tenuto conto di Cleone, che come accennato in precedente, si era autoconvinto di essere un genio militare: così tanto ruppe le scatole all’assemblea, che gli fu affidato il comando delle operazioni militari ad Anfipoli. Sulla relativa battaglia, la descrizione di Tucidide è assai confusa e condizionata dalla sua antipatia per Cleone. Gli spartani vinsero, rimanendo padroni del campo, ma persero numerosi soldati, tanto che i mercenari, stanchi, entrarono in sciopero. In più, tra i caduti, vi erano Cleone e lo stesso Brasida, i principali sostenitori, in entrambe le polis della guerra a oltranza.

In più Sparta e Atene avevano i loro problemi: la prima con la moria degli spartiati, doveva affrontare i tentativi iloti di alzare la testa. A questo si aggiungeva la minaccia di Argo, pronta a scendere in guerra contro i vicini e i malumori di Corinto e Megara, i cui commerci, a causa della guerra, erano crollati. La seconda, oltre alle casse vuote, doveva confrontarsi anche con la nuova minaccia di Tebe.

Per cui fu facile, per il re spartano Plistoanatte e per Nicia, convincere i loro concittadini a deporre le armi e firmare la pace. Come dice sempre Tucidide

Nicia voleva salvaguardare il suo successo visto che non aveva subito sconfitte ed era stimato; inoltre voleva porre fine subito alle fatiche sue e dei suoi concittadini e, per l’avvenire, lasciare la fama di non aver mai danneggiato in vita la città, essendo convinto che ciò fosse possibile se c’era sicurezza e se ci si esponeva il meno possibile alla sorte e che la sicurezza nasce dalla pace

Obiettivi, che rischiavano di essere messi in crisi dalla mania di voler mettere il naso nelle vicende siciliane..

La politica estera di Gerone di Siracusa

La costruzione del consenso interno e internazionale di Gerone tramite la partecipazione ai giochi panellenici, aveva lo scopo di giustificare la politica espansionistica di Siracusa, sia in Sicilia, sia nel Tirreno.

In Sicilia, seguì una politica diversa da quella del fratello Gelone: se questo cercava di trasformare Siracusa nel polo demografico dell’isola, Gerone si rese conto di come la “desertificazione” delle altre polis, oltre a impattare sui commerci e sulla produttività agricola, avrebbe complessivamente diminuito il controllo del territorio e al contempo, diminuita la capacità di reazione nel caso di rivolte indigene o di eventuali guerre contro Cartagine e i suoi alleati.

Per cui, riprese l’abitudine di fondare colonie militari, sotto il suo diretto controllo. La principale di queste fu Katané, la nostra Catania. Secondo quanto racconta Diodoro Siculo

Ierone, dopo aver cacciato dalle loro città i Nassii e i Catanesi, vi inviò propri coloni, raccolti cinquemila dal Peloponneso e altrettanti da Siracusa. Catania la ribattezzò in Áitna e assegnò in lotti non solo il suo territorio, ma anche molto di quello limitrofo sia perché voleva disporre di una forza di intervento pronta e numerosa, sia perché mirava a ottenere onori eroici da una città di diecimila abitanti. Trasferì poi in Lentini i Nassii e i Catanesi scacciati dalle loro città, obbligandoli a coabitare con gli indigeni.

L’operazione fu favorita da una eruzione dell’Etna: il processo di ripopolamento definisce tre centri del dominio di Gerone: la capitale Siracusa, Lentini, dove i Calcidesi potevano essere controllati, e Aitna (che è Katane ribattezzata), dove risiedevano i mercenari. La zecca di Aitna adottò il tipo della quadriga, ma sulle monete appare anche Zeus Etneo, divinità preposta all’attività del vulcani.

Tale rifondazione fu celebrata sia da Pindaro in una delle sue odi Pitiche, sia dalla tragedia di Eschilo, che fu recitata nel teatro greco di Siracusa; opera di cui, per le sue peculiarità, parlerò in futuro in un post a parte.

La situazione, nel Tirreno, per Siracusa era assia più complicata, dovendosi confrontare con la tradizionale alleanza tra Cartaginesi, Rhegion ed Etruschi. Gerone, però ebbe la fortuna di trovarsi davanti un momento assai favorevole.

Cartagine era ancora impegnata a leccarsi le ferite della battaglia di Imera, mentre la situazione politica a Rhegion, dopo la morte di Anassilao era cambiata profondamente. Secondo quanto racconta Diodoro Siculo

E poi morì anche Anassilao, il tiranno di Rhegion e Zancle, dopo aver governato per diciotto anni, e Micito assunse la tirannide, confidando che l’avrebbe ridata ai figli di quello morto, quando questi, essendo ancora troppo giovani, avrebbero avuto l’età giusta

Però, da altre fonti, sembrerebbe come l’ascesa al potere di Micito non fosse stata poi così lineare, per cui, per consolidare il suo potere, rovesciò la tradizionale politica estera della polis calabrese, alleandosi con Siracusa. Rimaneva il nodo degli etruschi, che occupate le isole Lipari, con la loro pirateria, erano diventati una problema per i commerci greci. Per cui, dopo avere riconquistato l’arcipelago, Gerone decise di risolvere il problema alla radice, intervenendo nelle vicende campane.

Per capire la vicenda, dobbiamo fare un piccolo passo indietro: il tiranno di Cuma, Aristodemo il Malacos, l’effeminato, credo sia il primo capo di stato dichiaratamente gay della Storia, si era reso conto che la sua politica espansionistica aveva provocato più problemi di quelli che aveva risolto. Il caos che aveva scatenato a Roma, dopo la cacciata del ramo principale dei Tarquini, con le diverse fazioni che si scannavano con entusiasmo e i colpi di stato che si susseguivano con una frequenza degna di una repubblica delle banane, aveva messo in crisi i commerci tra la Campania e l’Etruria, provocando una grossa crisi economica nelle polis campane. Per ovviare a questo casino, Aristodemo cambiò la sua politica, trasformandosi da nemico ad alleato degli etruschi.

Mediò un accordo tra le parti a Roma, portando forse a una sorta di gestione collegiale del potere tra i rami cadetti dei Tarquini e i capi dei sodales, come Publicola, imponendo una sorta di protettorato sull’Urbe, riuscì a ricondurre con le buone a miti propositi il ramo principale dei Tarquini e stabilì una serie di accordi politici e commerciali con le città etrusche.

Però, nel 490 a.C. Aristodemo cadde vittima di una congiura: nelle successive lotte di potere a Cuma, prevalse la fazione anti etrusca. Di conseguenza, nel Tirreno si scatenò una sorta di guerra fredda, che mise in grave difficoltà i commerci dell’Etruria marittima. È molto probabile che in quegli anni fosse re di Caere Thefarie Velianas che era salito al trono grazie anche all’appoggio dei cartaginesi con i quali il re aveva rinnovato l’alleanza. Il re, mosso dall’urgenza dettata dalla gravità del momento, concordò un congiunto piano di attacco a Cuma tra gli etruschi delle città settentrionali e gli etruschi campani (certamente di Capua, ma molto probabilmente anche di Pontecagnano e di Fratte). L’obiettivo, ovviamente non era conquistare o distruggere Cuma: si trattava solo di sostituire la fazione dominante con una filo etrusca, in modo da ripristinare l’equilibrio raggiunto ai tempi di Aristodemo. Solo che i ceti dominanti di Cuma, non avevano proprio voglia di cedere la poltrona… Per cui, chiesero aiuto a quella che sembrava la potenza in ascesa tra le colonie greche d’Occidente. Sempre basandosi sul Diodoro Siculo

Nell’ anno terzo della già accennata olimpiade, Acestoride fu arconte in Atene, e a Roma furono consoli Cesone Fabio e T. Verginio. In quell’ anno Jerone, re di Siracusa, essendo giunti presso di lui ambasciatori di Cuma d’Italia per chiedergli aiuto contro gli Etruschi padroni del mare, dai quali era loro fatta aspra guerra, egli mandò in loro soccorso una numerosa flotta di triremi. I capi della quale giunti a Cuma, e ingaggiata battaglia con i Tirreni, affondarono molte navi di questi, e riportarono una vittoria tale che, vinte le forze etrusche, e liberati i Cumani dal pericolo, poterono ritornare gloriosamente a Siracusa

Proprio quando gli Etruschi stavano iniziando l’operazione di accerchiamento da terra e dal mare spuntò, inattesa, la flotta da guerra di Siracusa che gettò nello scompiglio le navi etrusche che furono costrette a cambiare rotta e a dirigersi verso il vicino capo Miseno. Qui, ai piedi della scogliera alta 160 metri a picco sul mare, s’accese una sanguinosa battaglia con un corpo a corpo tra navi che penalizzava fortemente i legni etruschi, temibili in mare aperto con i loro rostri, ma inoffensivi nei piccoli spazi. I siracusani affondarono e catturarono numerose navi, costringendo alla fuga le poche superstiti. L’esercito di terra, intimorito e scoraggiato, tolse l’assedio a Cuma e se ne tornò in patria.

Un’altra testimonianza della battaglia, oltre che dall’elmo con l’iscrizione greca, ci è giunta dal poeta greco Pindaro che celebra, naturalmente con toni trionfalistici, la vittoria dei suoi compatrioti. Ecco come, nella sua Prima Ode Pitica:

“ Ti supplico, Zeus, dammi un cenno: si tenga tranquillo il grido di guerra fenicio, e ammutolisca quello dei tirreni! Essi videro la flotta gemente espiare dinanzi a Cuma il crimine, costretti dal signore di Siracusa, che scagliava dalle navi veloci il fiore della gioventù guerriera dei tirreni, a liberare l’Ellade dal giogo di una gravosa servitù”.

Il riferimento ai Fenici fa supporre che nella battaglia furono impegnate anche navi cartaginesi, alleati degli Etruschi contro i Greci. Nel santuario di Zeus ad Olimpia sono stati trovati tre elmi presi agli etruschi nella battaglia; i tre cimeli recano iscrizioni che presentano tra loro solo piccole differenze e il cui tono è il seguente:

“Hierone figlio di Deinomene e i siracusani (dedicano questo elmo) tirrenico da Cuma”

Contrariamente a quanto sostenuto da Diodoro Siculo, i siracusani non fecero subito ritorno in patria ma, conformemente alle mire espansionistiche di Gerone che era desideroso di avere parte nelle vicende della nuova Italia nata dagli sconvolgimenti politici legati alla fine della monarchia a Roma, stabilirono un loro presidio nell’isola di Pitekoussa (Ischia). Un ulteriore motivo di questo nuovo stanziamento va visto anche come la creazione di una base dalla quale lanciare altri attacchi alle città etrusche tirreniche, alla Corsica e all’isola d’Elba, principale fonte del prezioso metallo che era il ferro.

Le conseguenze della battaglia furono disastrose per gli etruschi. I centri campani, isolati ormai dal resto del mondo etrusco, si avviarono ad un lento declino; la stessa Capua, il più importante centro etrusco campano, non molto tempo dopo fu sottomessa dai sanniti. Contemporaneamente Atene, vedendo interdetti i suoi rapporti commerciali con l’Etruria, si rivolse, attraverso l’Adriatico, alle città dell’Etruria Padana. È in questo periodo, infatti, che si assiste ad una notevole fioritura dei centri padani di Adria, Spina, Felsina (Bologna) e Marzabotto.

Dinanzi a questo mutamento delle rotte commerciali, le città dell’Etruria vera e propria, iniziarono quel processo di conversione economica che la portò da essere un’aristocrazia di commercianti ad un’aristocrazia latifondista. Processo che avvenne anche a Roma, che si trovò improvvisamente marginalizzata nel Tirreno: da una parte, se ne avvantaggiarono le antichi clan di proprietari terrieri, che ne approfittarono per cacciare dalla gestione collegiale del potere gli ultimi eredi dei Tarquini e i “signori della guerra”, dando origine al graduale processo di definizione istituzionale della Repubblica Romana, dall’altra, per l’Urbe, a cui era diventato anche difficile comprare grano dall’estero, era diventato fondamentale difendere i propri campi dai popoli vicini, specie da quelli che li consideravano ottimi pascoli per la loro transumanza, e possibilmente espanderli.

Tornando a Gerone, a breve termine, la sua ambiziosa politica estera non colse i risultati che si era posta, anche per eventi inaspettati. Racconta Strabone, parlando di Ischia

L’isola è infatti soggetta a tali emanazioni, per cui anche i nuovi coloni mandati da Ierone, tiranno di Siracusa, abbandonarono sia la fortezza da essi costruita, sia l’isola. Vi giunsero poi e l’occuparono i Napoletana

L’archeologia ha infatti confermato che la fortezza siracusano fu travolta da una colata lavica durante una violentissima eruzione. Ancora più complicata fu situazione in Magna Grecia: Micito, invece di starsene buono e tranquillo, come si aspettava Gerone, decise di approfittare dell’alleanza con Siracusa per riprendere l’antica ambizione di Rhegion di diventare la potenza dominante della Calabria e della Puglia. Per cui, dopo avere imposto un tributo a Locri e fondata la colonia di Pissunte nel Cilento, come prima mossa per conquistare Elea, si alleò con Taranto, per spartirsi le spoglie di Crotone.

Gerone era in grossa difficoltà: da una parte non voleva che nascesse nessuna grande potenza in Calabria, dall’altra non poteva violare l’alleanza. A togliergli le castagne dal fuoco, fa l’irrisolto rapporto tra colonie della Magna Grecia e popolazioni italiche. Scoppiò infatti l’ennesima guerra tra Tarantini e Iapigi, in cui, per la precedente alleanza, di malavoglia dovette partecipare anche Rhegion… Ma lascio la parola al buon Erodoto

Si racconta infatti che Minosse, giunto in Sicania (oggi detta Sicilia) alla ricerca di Dedalo, vi perì di morte violenta. Tempo dopo i Cretesi, indotti da un dio, tutti tranne quelli di Policne e di Preso, arrivarono in Sicania con una grande flotta e strinsero d’assedio per cinque anni la città di Camico (ai tempi miei abitata dagli Agrigentini). Infine, non potendo né conquistarla né rimanere lì, oppressi com’erano dalla carestia, abbandonarono l’impresa e se ne andarono. Quando durante la navigazione giunsero sulle coste della Iapigia, una violenta tempesta li spinse contro terra: le imbarcazioni si fracassarono e giacché non vedevano più modo di fare ritorno a Creta, fondarono sul posto una città, Iria, e vi si stabilirono cambiando nome e costumi: da Cretesi divennero Iapigi Messapi e da isolani continentali. Muovendo da Iria fondarono altre città, quelle che molto più tardi i Tarantini tentarono di distruggere subendo una tale sconfitta da causare in quella circostanza la più clamorosa strage di Greci a nostra conoscenza, di Tarantini appunto e di Reggini. I cittadini di Reggio, venuti ad aiutare i Tarantini perché costretti da Micito figlio di Chero, morirono in tremila; i Tarantini caduti, poi, non si contarono neppure. Micito, che apparteneva alla casa di Anassilao era stato lasciato come governatore di Reggio ed è lo stesso che, scacciato da Reggio e stabilitosi a Tegea in Arcadia, consacrò a Olimpia numerose statue.

Per cui, approfittando della batosta dell’alleato, Gerone organizzò un colpo di stato a favore dei figli di Anassilao, i quali a loro volta, si divisero i domini del padre: uno divenne il tiranno di Rhegion, l’altro di Messina. Per cui, spacciandosi per difensore del diritto e senza sporcarsi troppo le mani, risolse l’annoso problema della concorrenza geopolitica della polis calabrese.

Purtroppo, questo attivismo politico ebbe un effetto inaspettato. Ad Akragas, a Terone era succeduto il figlio Trasideo, il quale si rese conto come la politica di Gerone stava avendo danneggiando notevolmente i suoi domini: da una parte, la sua polis agrigentina era sempre più marginale, nella politica siciliana, dall’altra i suoi commerci con gli etruschi e con la Magna Grecia erano sempre più in crisi. Per cui, approfittando dei problemi di salute del tiranno siracusano, arruolò un esercito, per marciare sulla polis rivale e defenestrarlo.

Tentativo che, come racconta sempre Diodoro Siculo, fu però fallimentare

«[Trasideo], dopo la morte del padre Terone, raccolti molti mercenari, e aggiuntivi contingenti agrigentini e imeresi, radunò un esercito di oltre ventimila uomini fra cavalieri e fanti. Prevalsero i Siracusani. Trasideo, sfiduciato, fu deposto e privato delle sue prerogative. Esule riparò a Megara Nisea, dove fu condannato a morte. Gli Agrigentini, instaurata la democrazia, rivoltisi con un’ambasceria a Ierone, ottenero la pace.

In realtà la vittoria, assai sanguinosa, scosse le fondamenta del potere di Gerone. Al ritorno a Siracusa, fu vittima di un colpo di stato e morì lapidato. Si narra che la statua scolpita in suo onore cadde nel medesimo giorno in cui morì. Viene sepolto in Aitna, la nostra Catania, ma la polis etnea non sopravviverà molto al “rifondatore”: gli esuli calcidesi rientrano e scacciano i coloni di Gerone, che si rifugiarono a Inessa, forse la nostra Paternò. Ad Aitna viene restituito il nome “Katane”, mentre Inessa venne ribattezzata a sua volta Aitna. Il monumento funebre a Gerone a Katane fu così distrutto.

A Siracusa, prese il potere il fratello minore di Gerone, Trasibulo: da una parte si mostrò incapace di fronteggiare il collasso del potere siracusano in Sicilia, dall’altra aveva un carattere violento e sanguinario, alieno dal compromesso e privo delle capacità diplomatiche e affabulatorie dei fratelli Gelone e Ierone. In più, data la sempre maggiore importanza dei ceti commerciali e artigianali, che volevano dire la loro nella gestione della polis, in linea con quanto stava accadendo ad Akragas, la fazione democratica stava acquisendo sempre più consenso.

Per cui, Trasibulo, le 465 a.C. si trovò davanti a una rivolta generale a Siracusa. Per domare la rivolta, il trianno raccolse le sue forze militari, facendo leva sui mercenari e sugli alleati da Aitna, raggiungendo il numero di 15.000 uomini armati. I siracusani mandarono ambasciatori alle città vicine e ricevettero l’aiuto sperato sia dai sicelioti che dai siculi, che non vedevano l’ora di reiequilibrare i rapporti di forza in Sicilia, in più potevano contare sull’armata nazionale che si pose contro il tiranno.

Il dinomenide tentò un primo scontro frontale in mare, ma ebbe la peggio perdendo molte delle sue galee. Allora tentò di avere maggior fortuna sulla terraferma ma anche lì fu sconfitto e dovette venire alla resa, concordando la pace con i siracusani in cambio del definito esilio che venne stabilito a Locri. Così terminò il potere della dinastia dei Dinomenidi in Sicilia.

Villa Sofia

Villa Sofia, uno dei principali presidi ospedalieri di Palermo, rispecchia pienamente tutte le contraddizioni di questa città, capace di porre punte di eccellenza e casini epocali gli uni accanto agli altri. Persino la storia è assai diversa, rispetto a quella di un normale ospedale e si collega con quella del vino Marsala.

John Woodhouse nel 1773 aveva cominciato a esportarlo in Gran Bretagna come alternativa a basso costo dello Sherry e del Porto: dopo qualche anno, il vino liquoroso siciliano ebbe una sorta di boom, sia per l’adozione del metodo soleras, che ne equiparava la qualità a quella dei concorrenti iberici, sia per il blocco continentale voluto da Napoleone, che mise in crisi le esportazioni da Spagna e Portogallo.

La Sicilia borbonica non ne era soggetta, di conseguenza il Marsala si trovò senza concorrenti: i vini siciliani divennero una potenziale miniera e d’oro e ci fu una sorta di corsa da parte degli investitori inglesi per approfittarne. Tra questi vi era Benjamin Ingham, che, oltre ad ampliare i suoi interessi commerciali anche nel campo dell’olio, dell’ortofrutta e delle stoffe pregiate, si trascinò dietro i nipoti, prima William e poi Joseph Whitaker, che diedero origine alla seconda grande famiglia imprenditoriale panormita, dopo i Florio, che animò la Palermo Liberty.

Nel 1850 Joseph Whitaker senior acquista dai marchesi di Mazzarino un lotto di terreno con un fabbricato nella Piana dei Colli, confinante con la tenuta Real Favorita, con la proprietà dei Bordonaro e col parco del principe di Castelnuovo, che chiamò “Villa Sofia” ; un romantico omaggio all’amata moglie Eliza Sofia Sanderson.

La tenuta dei marchesi di Mazzarino, però, era a uso agricolo: per renderla una villa di rappresentanza, Joseph Whitaker senior decise di ristrutturarne il baglio, trasformandolo in un fastoso edificio con prospetto loggiato neopalladiano. Finiti i lavori, i Whitaker presero armi e bagagli e trasferirono la residenza della sua famiglia da Via Bara, dove abitava sopra l’ufficio della ditta Ingham a Villa Sofia.

Nel frattempo, Joseph si appassionò al giardinaggio e decise di trasformare l’agrumeto e il vigneto della tenuta in un giardino all’inglese, affidandone il progetto, la creazione e la cura al tedesco Emilio Kunzmann, straordinario paesaggista, cui si deve anche l’impianto degli altri giardini dei Whitaker, a Via Bara, a Malfitano e a villa Sperlinga.

Kunzmann concepì un parco con forme irregolari e sinuose, vaste aiuole con cipressi, palmizi, essenze esotiche, importate appositamente dall’oriente, che verranno poi adottate in tante altre ville patrizie palermitane e che diverranno in epoca liberty una delle cifre distintive della città.

Alla morte di Joseph ed Elisa Sophia, si stabiliscono nella villa il figlio Robert (detto Bob) (1856-1923) e la moglie Clara Maude Bennet (1860-1929). Ed è sotto la loro gestione che l’edificio si arricchisce di una torre neomedievale, progettata da William Beaumont Gardner e di una “cavallerizza”, pregevole opera di gusto prettamente anglosassone. Mentre all’interno Ernesto Basile dà forma aulica al vestibolo e allo scalone principale, con decori attribuiti a Salvatore Gregorietti e Francesco Naselli Flores e vi aggiunge un corpo basso di servizio con bifore neorinascimentali.

Una vetrata al sommo dello scalone raffigura Robert in veste di guerriero medievale. Il parco continua ad essere curato da Kunzmann, che vi impianta serre per la coltivazione dei fiori, fra cui un delizioso giardino di inverno di architettura neonormanna, che simula la fontana del grande vestibolo della Zisa, anch’esso attribuito a Naselli Flores. Divengono famose alcune specie di orchidee che vi vengono coltivate.

Con le tre signore Euphrosine Manuel di Via Cavour, Tina Scalia di Malfitano e Maude Bennet di Villa Sophia alla fine dell’Ottocento le tre dimore dei Whitaker divengono il centro della vita mondana palermitana, tanto da accogliere come ospiti il re d’Inghilterra Eduardo VII, sua moglie Alessandra e la principessa Vittoria il 24 aprile 1907. L’evento è ricordato da una lapide affissa sul muro della terrazza che recita

“HERE, ON APRIL 24, 1907, KING EDWARD VII, QUEEN ALEXANDRA, AND PRINCESS VICTORIA, HAD TEA AND RESTED FOR A SHORT HOUR.”

Purtroppo, tra le dimore dei Whitaker, questa fu la più sfortunata: nel 1953, alla Croce Rossa Italiana, per trasformarla in una sede di rappresentanza. Poco dopo la compravendita, fu invece destinata a ospedale. Erano gli anni del Sacco di Palermo, in cui la Mafia, utilizzando gli stessi slogan con cui oggi si riempie la bocca Roma fa Schifo, radeva al suolo la Palermo liberty per costruirvi sopra pessimi palazzoni: villa Sofia non si salvò da questo massacro.

Nel 1963, grazie alla donazione di Luigi Biondo (1872 – 1967), all’interno della proprietà della Villa ebbero inizio i lavori per la costruzione di un “ospedale geriatrico per i vecchi di ambo i sessi, cronici, incurabili, paralitici, che negli ospedali non li accettano”, come lui stesso annotò. Questo fabbricato a cinque piani, dedicato ad “Ospedale Geriatrico”, oggi è denominato Padiglione Geriatrico”, è un pugno in occhio, che turba i volumi dell’edificio liberty.

Ed ancora grazie ad una donazione di Luigi Biondo, si deve la costruzione dell’edificio a due piani, all’interno della proprietà della Villa, sorto come “Ospedale Pediatrico e Traumatologico”, oggi “Padiglione Pediatrico Luigi Biondo”. Negli anni successivi, seguirono altri padiglioni, il parco fu trasformato in un parcheggio e furono abbandonate a se stesse abbandonati al degrado i manufatti di servizio, fra cui la preziosa serra neonormanna e la coffee-house.

Solo negli ultimi anni, si procedento a un lento, ma graduale recupero…

Grotta della Dragonara

Sulla spiaggia di Miseno si trova una delle grotte più suggestive del territorio campano, scavata all’interno di una parete di tufo e rivolta verso l’isola di Procida. Questa vasta cavità è nota come “Grotta della Dragonara”, la cui etimologia deriverebbe proprio dal termine tracon, roccioso, di origine latina.

Grotta che è visitabile grazie a una passerella in ferro, poiché a causa del bradisismo è attualmente quasi sommersa ed è di origine artificiale: si tratta infatti di una cisterna romana a pianta quadrangolare divisa in cinque navate da quattro file di piloni ricavati nel tufo,foderati in opera reticolata e rivestita dal tipico intonaco idraulico che impermeabilizzava questo tipo di strutture. La cisterna, lunga circa m 60 e larga m 6, è coperta da una volta a botte con tre grandi aperture dotati di scale, oggi parzialmente visibili, e utilizzati per l’immissione dell’acqua e per le manutenzioni ordinarie. Contiene gallerie laterali che si diramano e si intrecciano tra loro formando un labirinto che per il visitatore, insieme all’effetto dell’acqua che invade il monumento, diviene assai suggestivo.

Diversi archeologici, in passato, la collegavano al rifornimento idrico della flotta miliare romana di stanza a Miseno, ma questo era già abbondantemente soddisfatta nell’approvvigionamento idrico da quello straordinario monumento noto come Piscina Mirabile, per cui, è più probabile a uso privato, servendo la grande villa, i cui resti sono situati più a sud e visibili sul costone.

La villa disposta a terrazzamenti con ambienti che digradano fino al mare, attualmente insabbiati, aveva avuto una storia degna di un romanzo. In origine era di proprietà di Cornelia, la mamma dei Gracchi, che vi ritirò dopo la tragica morte dei figli, così come racconto Plutarco

Si dice anche che Cornelia, per il resto, sopportò nobilmente e con grandezza d’animo la sventura, e riguardo ai luoghi sacri nei quali erano stati uccisi, si dice che affermò che i morti avevano sepolture degne di loro. Quanto a lei, viveva presso il capo denominato Miseno, senza aver cambiato nulla dello stile di vita consueto. Aveva molti amici e, a causa della sua indole ospitale, era splendida nei banchetti, e sempre erano intorno a lei Greci e uomini di lettere, mentre tutti i re ricevevano da lei doni e gliene inviavano. Dunque per coloro che venivano da lei e per coloro che si intrattenevano con lei era molto piacevole mentre narrava la vita e il modo di vivere del padre Africano, ed assolutamente straordinaria quando ricordava senza dolore e senza lacrime il destino e il dramma dei figli, raccontando di loro come di personaggi antichi a coloro che ne chiedevano notizie.

Mentre era ancora viva le venne eretta nel Foro una statua bronzea: fu la prima donna romana ad essere onorata in pubblico a Roma. Sia Plinio sia lo stesso Plutarco ricordano la statua a lei dedicata, rappresentata seduta, con calzari senza lacci, esposta nella Porticus Metelli e poi nella Porticus Octaviae. Nel 1878 venne scoperta nei propilei di questa Porticus, in prossimità del luogo ove sorge la chiesa di Sant’Angelo in Pescheria, una base di forma rettangolare, di dimensioni pari a m 1,20×1,75 ed alta m 0,80, in marmo pentelico con due iscrizioni incise, relative a periodi diversi. Quella principale, posta al centro della base, riporta il nome di Cornelia:

Cornelia Africani F. Gracchorum (“Cornelia, figlia dell’Africano, madre dei Gracchi”)

In base alla tipologia dei caratteri l’iscrizione è databile ad epoca augustea e dovrebbe quindi trattarsi del basamento della statua presente nel Portico di Ottavia. La seconda iscrizione si trova nella parte alta del basamento e riporta semplicemente Opus Tisicratis (Opera di Tisicrate): non si sa chi sia questo artista, ma probabilmente in un periodo successivo.

Cornelia fu una delle sole quattro donne romane di cui sopravvive uno scritto: una lettera scritta a Gaius Gracchus, il più giovane figlio di Cornelia, citata in da Cornelio Nepote

Tu dirai che è una bella cosa prendere la propria vendetta sui nemici. A nessuno appare cosa più grande o più bella di come appare a me, ma solo se è possibile perseguire questi fini senza agire contro il nostro paese. Ma vedendo come ciò non possa essere fatto, i nostri nemici non periranno per lungo tempo e per molte ragioni, e saranno come sono ora, e in più avremo un paese morto e distrutto. . .

Giurerei solennemente che, ad eccezione di quelli che hanno ucciso Tiberio Gracco, nessun nemico si è imposto con tanta difficoltà e disagio su di me quello quanto quello che hai tu a causa delle questioni: ci si dovrebbe avere sulle spalle le responsabilità di tutti di quei bambini che io ho avuto in passato, e per fare in modo che io possa avere la minima ansia possibile nella mia vecchiaia, e che, qualunque cosa hai fatto, si vorrebbe farmi piacere più grande, e che si considerano un sacrilegio di fare qualcosa di contrario ai miei sentimenti, tanto più che io sono una persona con davanti solo un breve tratto di vita.

Impossibile anche questo lasso di tempo, breve, come si è, essere voi opposti da me distruggendo il nostro paese? In ultima analisi, che fini ci saranno?

Quando sarà la nostra sola famiglia a comportarsi follemente? Quando smettiamo insistendo sulla difficoltà, di causare loro sofferenza?

Quando cominciamo a sentire vergogna per i danni al nostro paese? Ma se questo è del tutto in grado di prendere posto, cercano la carica di tribuno, quando sarò morta, per quanto mi riguarda, non quello che vi piace, quando non è percepire ciò che si sta facendo.

Quando mi sono morti, si sacrifica per me come un genitore e invitare il Dio di un genitore. A quel tempo non si vergogna di chiedere preghiere di questi Dei, che voi considerate abbandonata e deserta quando erano vivi ed a portata di mano?

Ma non Giove per un solo istante consente di continuare in queste azioni, né permettere che una simile follia di entrare nella tua mente. E se persistono, temo che, per colpa tua, si può incorrere in problemi del genere per tutta la vita che in nessun momento sarebbe in grado di farti felice.

Il proprietario successivo fu Caio Mario, che però, essendo alquanto sociopatico, poco se le godè, tanto che la rivendette per la ragguardevole cifra d’oltre dieci milioni di sesterzi a quello straordinario personaggio che era Lucio Licinio Lucullo. Console nel 74 e nel 63 ebbe un trionfo per i meriti acquisiti nella campagna d’Asia. Egli combatté a più riprese, dal 74 al 65 a.C., contro Mitridate, re del Ponto, ed importò a Roma il ciliegio coltivato (cerasus) già conosciuto in Grecia. Lucullo fu anche uno dei primi a dotare le ville campane di piscinae per la coltivazione di diverse specie di pesci. Per meglio alimentare d’acqua marina le peschiere della sua villa napoletana, egli tagliò una montagna e aprì un canale che si congiungeva al mare.

Di tale villa, Fedro scrisse:

“…Quae monte summo posita Luculli manu prospectat Siculum et prospicit Tuscum mare…”

ossia

“ Posta sull’alto del colle dalla mano di Lucullo, affacciata da un lato sulla Sicilia e dall’altro sul mare Tirreno”

Dopo la sua morte di Lucullo, ricordato dai posteri non per le sue capacità militari, solo per il gusto e lo sfarzo che riuscì a dare alla sua esistenza, i pesci dei suoi vivai i pesci di quel vivaio furono venduti per 4.000.000 di sesterzi. Ora Lucullo non era certo inferiore a Cesare né per il genio, né per la capacità militare, né per la capacità di sopportate gli strali di un’incerta fortuna: il raggiungere le vette del divo Giulio gli fu impedito sia mancanza di carisma, non riusciva a farsi obbedire dai suoi uomini e di cinismo, era troppo rispettoso delle leggi repubblicane, sia per, diciamolo pure, una pigrizia ancora più accentuata di quella del sottoscritto: per lui, il Potere non era nulla più che una pesante catena dorata, che non valeva tutta la fatica che sarebbe stata necessaria per ottenerlo.

Ai tempi di Augusto, la villa fu incamerata nel demanio imperiale: qui vi fu assassinato Tiberio. Lascio dunque la parola a Tacito, a cui Martin non è degno di pulire i calzari.

Il fisico, ogni altra energia, ma non la dissimulazione abbandonavano Tiberio. Identica la freddezza interiore; circospetto nelle parole e nell’espressione, mascherava, a tratti, con una cordialità manierata il deperimento pur evidente. Dopo spostamenti più frenetici, si stabilì da ultimo in una villa, vicino al promontorio di Miseno, appartenuta in passato a Lucio Lucullo. Che lì si stesse approssimando la sua fine, lo si seppe con un espediente.

Si trovava là un dottore valente, di nome Caricle, il quale, pur non occupandosi direttamente dello stato di salute del principe, era però solito offrirgli tutta una serie di consigli. Costui, fingendo di accomiatarsi per badare a questioni personali, presagli la mano, come per ossequio, gli tastò il polso. Ma non lo ingannò, perché Tiberio, forse risentito e tanto più intenzionato a nascondere l’irritazione, ordinò di riprendere il banchetto e vi si trattenne più del solito, quasi intendesse rispettare la partenza dell’amico.

Ciononostante Caricle confermò a Macrone che Tiberio si stava spegnendo e che non sarebbe durato più di due giorni. Da allora tutto fu un rapido intrecciarsi di colloqui tra i presenti e un susseguirsi di missive ai legati e agli eserciti. Il sedici di marzo Tiberio rimase privo di respiro e si credette concluso il suo corso terreno; e già Gaio Cesare, accompagnato da una folla di persone plaudenti, usciva a gustare la prima ebbrezza dell’impero, nel momento in cui arrivò la notizia che a Tiberio tornava la voce, che aveva riaperto gli occhi e che chiedeva che gli portassero del cibo, per rimettersi dallo sfinimento.

Si diffuse il panico in tutti, e si dispersero gli altri, fingendosi ognuno affranto oppure sorpreso; Gaio Cesare, in un quiete di pietra, aspettava, dopo codesta vertiginosa speranza, la definitiva rovina. Macrone, senza perdere la testa, fece soffocare il vetusto sotto un mucchio di coperte e allontanare tutti dalla soglia. Così finì la vita di Tiberio a settantotto anni

Abbandonata in epoca tardo antica, la Grotta della Dragonara era nota nel Medioevo come “Bagno del Finocchio” per le abbondanti coltivazioni che lo circondavano. Raffigurata nelle incisioni settecentesche e quindi tappa nei viaggi di cultura fra le antichità, dove ancora appare sviluppata fin sopra l’arenile.