
La costruzione dell’identità dell’antica Grecia passava, senza dubbio, per i quattro giochi panellenici, gli olimpici, nemei, pitici e istmici, ognuno dei quali aveva la propria peculiarità: i giochi di Nemea erano famosi per la loro durezza e difficoltà; i pitici, per la loro dimensione artistica e musicale, essendo legati al culto di Apollo; gli istmici erano noti per la loro scenografia che attirava a Corinto una folla immensa.
I principali, ovviamente, erano quelli di Olimpia: da quanto riusciamo a dedurre dagli scavi archeologici e dall’interpretazione critica del mito, ai tempi micenei, questi erano legati ai rituali funebri del Gran Re elladico e all’incoronazione del suo successore. Con la crisi dell’età del bronzo e la relativa decentralizzazione del potere, i giochi realizzarono il paradosso di celebrare la dimensione sacrale della Regalità, il suo essere epifania del Divino, axis mundi vivente e custode del ripetersi ciclico del Tempo, senza un re.
Dimensione sacra, legata proprio all’universo simbolico di tali: i vincitori delle gare ricevevano in premio la corona, attributo della regalità e venivano equiparati alla divinità che, nell’età del Bronzo, fungeva da compagno della Potnia Theron. Ciò era ulteriormente accentuato dal fatto che tale corona fosse realizzate con le piante sacre legate al ciclo di rinascita e morte della Natura, controllato da tale divinità.
Partecipare ai giochi olimpici e vincerli era ancora più importante per le colonie greche d’Occidente: ribadiva il loro essere parte dell’Ellade e non essere greci di seconda classe e la loro identità rispetto a popoli barbari che li circondavano.
A ciò si aggiunse, nell’età dei tiranni, sia la loro necessità di costruire consenso interno, incarnando nel concreto tutti i valori dell’etica dei ceti dominanti della polis e fungendo da aggregazione carismatica per quelli subalterni, si per costruirsi una decente immagine internazionale: per questo le loro vittorie, furono pubblicizzate ai quattro venti dai poeti che vivevano alla loro corte.
Questa esigenza, probabilmente per l’origine peloponnesiaca dei primi coloni, che condizionerà spesso e volentieri la sua politica estera, era particolarmente sentita a Siracusa. A riprova di questo legame, vi è ad esempio il mito di Alfeo e Aretusa.
il dio Alfeo, figlio di Oceano, si innamorò della ninfa Aretusa spiandola mentre faceva il bagno nuda. Questa però fuggì dalle sue attenzioni, scampando sull’isola di Ortigia, a Siracusa, chiedendo soccorso alla dea Artemide, che la tramutò in una fonte. Zeus, commosso dal dolore di Alfeo, lo mutò nel principale fiume del Peloponneso, concedendogli di percorrere tutto il Mar Ionio per unirsi all’amata fonte. Forse in ragione di questa unione simbolica tra le due sponde dello Ionio Strabone afferma:
Ogni volta che a Olimpia si celebrava un sacrificio – si diceva –, le acque della fonte Aretusa si macchiavano di rosso; e se a Olimpia si gettava una coppa nel fiume Alfeo, questa riemergeva nelle acque del mare di Siracusa.
Il che molto più concretamente indicava come un ramo cadetto degli Iamidi, il potente ghenos di sacerdoti e custodi del tempio di Zeus Olimpio, avesse contribuito alla fondazione della polis siciliana.
La prima vittoria siracusana alle Olimpiadi avvenne nella trentatreesima edizione, nel 648 a.C. in una disciplina appena introdotta, il famigerato Pancrazio, che spiegarla in termini moderni, era una sorta di wrestling dove ci menava per davvero e tanto.
Gli incontri di pancrazio venivano effettuati a mani nude, sotto il sole cocente dell’estate greca, con il corpo coperto d’olio. Non c’erano né riprese né limiti di tempo, si combatteva fino alla resa di uno dei due che poteva essere per cedimento, per il classico KO, o dichiarata dallo stesso atleta che onorava, quando poteva fisicamente, il vincitore mostrando la sconfitta alzando l’indice in su verso l’arbitro. A volte, uno dei contendenti moriva durante il combattimento. Nel pancrazio tutto era ammesso, tranne dare morsi all’avversario, tranne che a Sparta dove era lecito, come il graffiare l’avversario, infliggergli colpi ai genitali e accecargli gli occhi con le dita.
Ora, la prima edizione del Pancrazio olimpico fu vinta dal siracusano Lygdamis, che secondo quanto racconta Pausania, si diceva che avesse piedi grandi un cubito (circa mezzo metro), ossa compatte, senza midollo, per cui non era soggetto a sete o sudorazione. Fu paragonato all’Ercole Tebano e alla sua morte i siracusani, riconoscenti, gli eressero un monumento sepolcrale, sempre a detta di Pausania, nei pressi delle Latomie.
Fu poi il turno, tra i vincitori siracusani di Olimpia, Astilo, che nel 488 a. C. (73° olimpiade) trionfò nello “stadio” (corsa a piedi di circa 193 metri) e nel “diaulo” (distanza doppia) e nella corsa con le armi. Vittoria che però, portò a tante polemiche, dato che era nativo era nativo di Crotone e solo nella 74° e nella 75° olimpiade si dichiarò siracusano. I crotoniati, ovviamente, non gradirono questo cambio di campo, distrussero il monumento che gli avevano eretto e adibirono la sua casa a prigione.
Infine, fu il turno di Gerone, che, per le faide famigliari, aveva necessità una vitale necessità di ottenere un minimo di legittimazione rispetto ai suoi concittadini. Per sua fortuna, era un ottimo auriga e cavaliere. Ora, negli antichi agoni equestri il vero vincitore non era il fantino o l’auriga, bensì il proprietario dei cavalli: colui che se ne occupava allevandoli e nutrendoli. Ora, nonostante questo, Gerone non ebbe alcun problema a partecipare in prima persona, tanto vinse 6 volte ai giochi panellenici: 3 volte alle Olimpiadi e 3 volte ai giochi Pitici.
La sua prima vittoria avvenne ai giochi Pitici nel 482 a.C., come corsiero (cavallo montato), quando ancora portava sul capo la corona di tiranno per la polis di Gela, e una seconda volta, sempre come corsiero, nell’anno 478 a.C., anno della sua incoronazione come secondo tiranno della polis di Siracusa.
Il Siracusano vinse nuovamente nell’Olimpiade dell’anno 472 a.C.; la 77ª edizione, trionfando ancora a cavallo. Pindaro e Bacchilide, tramite le loro opere, hanno conservato il nome del cavallo del tiranno aretuseo: l’animale si chiamava Ferenico, e pure a lui sono stati dedicati dei versi.
Questi sono quelli di Bacchilide
Aurora dalle braccia d’oro ha visto vincere Ferenico dalla fulva criniera, puledro veloce come il turbine, presso l’Alfeo dall’ampia onda e nella divina Pito.Lo proclamo poggiando a terra la mano: in una gara non lo ha mai imbrattato la polvere di un cavallo che lo precedesse nell’impeto verso il traguardo. Simile a raffica di Borea si slancia, attento a chi lo governa, e per Ierone amico degli ospiti segna la vittoria subito salutata dall’applauso.
Mentre questi sono quelli di Pindaro
Sù, coraggio, prendi dal piolo la dorica lira se il successo di Pisa e Ferenico un pensiero t’insinuò tra le cure dolcissime, quando si slanciò lungo l’Alfeo, stazza senza sperone offrendo nella corsa, ed al trionfo unì il proprio padrone, siracusano re, cavalleggero: e gloria gli rifulge nella maschia colonia di Pelope lidio; si innamorò di lui il possente Auriga della Terra, Posidone, dacché lo trasse Cloto dal puro bacile con la spalla lucente orna d’avorio.
L’aristotelico Teofrasto, riportato da Plutarco, asserisce che quando Ierone si iscrisse alle sue prime Olimpiadi – quelle del 476 a.C. – per gareggiare con i cavalli, incontrò l’opposizione Temistocle, il vincitore di Salamina, dato che Siracusa si era rifiutata di fornire aiuti militari alla Grecia che era minacciata dall’invasione dei Persiani di Serse.
Temistocle, aggiunge Claudio Eliano, avrebbe affermato che chi non aveva voluto condividere con la Grecia il più grande pericolo non poteva adesso avere l’ardire di prendere parte ai più grandi convegni dell’Ellade e dividere con i Greci tali piaceri. Per cui l’ateniese avrebbe ordinato di distruggere la tenda del tiranno di Siracusa e di impedire ai suoi cavalli di gareggiare. I presenti alla scena, essendo d’accordo con il principio che generava la suddetta critica, lodarono le parole di Temistocle. Ciononostante, com’è noto, Ierone partecipò ugualmente e vinse la corsa con il suo cavallo. E’ probabile che non ci sia nulla di vero in questa storiella e che, per biechi motivi propagandistici, giustificare l’ingerenza ateniese nelle vicende siciliane, sia stata costruita ad arte ai tempi della guerra del Peloponneso.
Sei anni dopo i fatti della 76ª Olimpiade, e 2 anni dopo aver trionfato anche nella 77ª edizione olimpica, nel 470 a.C. Gerone torna a gareggiare e a vincere con i cavalli: lo fa a Delfi, durante i giochi Pitici, nei quali consegue la sua terza e ultima vittoria negli agoni apollinei. Stavolta però la vittoria del siracusano è conquistata nel più ambito degli agoni: la corsa con il carro da guerra trainato da quattro cavalli; la quadriga. Corsa che aveva uno straordinario valore simbolico, perché era l’arma prediletta sia del wanax miceneo, sia degli eroi ellenici.
Gerone conquistò poi una seconda vittoria con la quadriga nelle Olimpiadi del 468 a.C.; la 78ª edizione, che rappresenta la sua ultima partecipazione ai giochi panellenici. Nella stessa edizione, trionfò un altro siracusano Agesia, nella corsa del corsa con il carro trainato da mule; a differenza di Gerone, Agesia era l’allevatore e proprietario degli animali, tanto che conosciamo anche il nome del suo auriga, Finti
Pindaro dedica ad Agesia la sua sesta opera olimpica, e rende noto che egli era un generale di Gerone ed anche un suo amico e indovino, dato che apparteneva alla famiglia sacerdotale degli Iamidi di cui ho accennato prima. Da quel momento, da quel momento fu incaricato dagli Olimpi di presiedere l’altare di Zeus nel più sacro dei santuari elidi, almeno secondo il verso di Pindaro
Agesia ha vinto in Olimpia: è ministro, in Olimpia stessa, dell’ara di Giove: è figlio di Siracusa
A titolo di curiosità, data la superiorità dei loro allevamenti di muli rispetto alla madrepatria, il predominio delle colonie della Magna Grecia e della Sicilia era tale, che i greci, da buoni rosiconi, decisero di abilire tale gara.
Sempre nell’ottica di costruzione del consenso, Gerone, oltre a pagare profumatamente i poeti affinché celebrassero le sue gesta sportive, per non essere da meno del fratello, riempì di ex voto e statue i santuari ellenici, ad esempio donò un tripode d’oro e una Nike a Delfi. Nel testamento, incaricò il figlio Dinomede, di donare al tempio di Zeus di Olimpia un monumento realizzato da Calamide, lo scultore dell’Afrodite Sosandra, e da Onata, celebre per il donario degli Achei, sempre ad Olimpia, che rappresentava un episodio della guerra di Troia, i nove eroi greci che avrebbero dovuto combattere contro Ettore e, di fronte ad essi, Nestore pronto a sorteggiarne i nomi.
Monumento, quello del tiranno siracusano, simile nelle linee generali all’Auriga di Delfi: un carro di bronzo sul quale sale un uomo, fiancheggiato da due cavalli montati da bambini.
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