
La costruzione del consenso interno e internazionale di Gerone tramite la partecipazione ai giochi panellenici, aveva lo scopo di giustificare la politica espansionistica di Siracusa, sia in Sicilia, sia nel Tirreno.
In Sicilia, seguì una politica diversa da quella del fratello Gelone: se questo cercava di trasformare Siracusa nel polo demografico dell’isola, Gerone si rese conto di come la “desertificazione” delle altre polis, oltre a impattare sui commerci e sulla produttività agricola, avrebbe complessivamente diminuito il controllo del territorio e al contempo, diminuita la capacità di reazione nel caso di rivolte indigene o di eventuali guerre contro Cartagine e i suoi alleati.
Per cui, riprese l’abitudine di fondare colonie militari, sotto il suo diretto controllo. La principale di queste fu Katané, la nostra Catania. Secondo quanto racconta Diodoro Siculo
Ierone, dopo aver cacciato dalle loro città i Nassii e i Catanesi, vi inviò propri coloni, raccolti cinquemila dal Peloponneso e altrettanti da Siracusa. Catania la ribattezzò in Áitna e assegnò in lotti non solo il suo territorio, ma anche molto di quello limitrofo sia perché voleva disporre di una forza di intervento pronta e numerosa, sia perché mirava a ottenere onori eroici da una città di diecimila abitanti. Trasferì poi in Lentini i Nassii e i Catanesi scacciati dalle loro città, obbligandoli a coabitare con gli indigeni.
L’operazione fu favorita da una eruzione dell’Etna: il processo di ripopolamento definisce tre centri del dominio di Gerone: la capitale Siracusa, Lentini, dove i Calcidesi potevano essere controllati, e Aitna (che è Katane ribattezzata), dove risiedevano i mercenari. La zecca di Aitna adottò il tipo della quadriga, ma sulle monete appare anche Zeus Etneo, divinità preposta all’attività del vulcani.
Tale rifondazione fu celebrata sia da Pindaro in una delle sue odi Pitiche, sia dalla tragedia di Eschilo, che fu recitata nel teatro greco di Siracusa; opera di cui, per le sue peculiarità, parlerò in futuro in un post a parte.
La situazione, nel Tirreno, per Siracusa era assia più complicata, dovendosi confrontare con la tradizionale alleanza tra Cartaginesi, Rhegion ed Etruschi. Gerone, però ebbe la fortuna di trovarsi davanti un momento assai favorevole.
Cartagine era ancora impegnata a leccarsi le ferite della battaglia di Imera, mentre la situazione politica a Rhegion, dopo la morte di Anassilao era cambiata profondamente. Secondo quanto racconta Diodoro Siculo
E poi morì anche Anassilao, il tiranno di Rhegion e Zancle, dopo aver governato per diciotto anni, e Micito assunse la tirannide, confidando che l’avrebbe ridata ai figli di quello morto, quando questi, essendo ancora troppo giovani, avrebbero avuto l’età giusta
Però, da altre fonti, sembrerebbe come l’ascesa al potere di Micito non fosse stata poi così lineare, per cui, per consolidare il suo potere, rovesciò la tradizionale politica estera della polis calabrese, alleandosi con Siracusa. Rimaneva il nodo degli etruschi, che occupate le isole Lipari, con la loro pirateria, erano diventati una problema per i commerci greci. Per cui, dopo avere riconquistato l’arcipelago, Gerone decise di risolvere il problema alla radice, intervenendo nelle vicende campane.
Per capire la vicenda, dobbiamo fare un piccolo passo indietro: il tiranno di Cuma, Aristodemo il Malacos, l’effeminato, credo sia il primo capo di stato dichiaratamente gay della Storia, si era reso conto che la sua politica espansionistica aveva provocato più problemi di quelli che aveva risolto. Il caos che aveva scatenato a Roma, dopo la cacciata del ramo principale dei Tarquini, con le diverse fazioni che si scannavano con entusiasmo e i colpi di stato che si susseguivano con una frequenza degna di una repubblica delle banane, aveva messo in crisi i commerci tra la Campania e l’Etruria, provocando una grossa crisi economica nelle polis campane. Per ovviare a questo casino, Aristodemo cambiò la sua politica, trasformandosi da nemico ad alleato degli etruschi.
Mediò un accordo tra le parti a Roma, portando forse a una sorta di gestione collegiale del potere tra i rami cadetti dei Tarquini e i capi dei sodales, come Publicola, imponendo una sorta di protettorato sull’Urbe, riuscì a ricondurre con le buone a miti propositi il ramo principale dei Tarquini e stabilì una serie di accordi politici e commerciali con le città etrusche.
Però, nel 490 a.C. Aristodemo cadde vittima di una congiura: nelle successive lotte di potere a Cuma, prevalse la fazione anti etrusca. Di conseguenza, nel Tirreno si scatenò una sorta di guerra fredda, che mise in grave difficoltà i commerci dell’Etruria marittima. È molto probabile che in quegli anni fosse re di Caere Thefarie Velianas che era salito al trono grazie anche all’appoggio dei cartaginesi con i quali il re aveva rinnovato l’alleanza. Il re, mosso dall’urgenza dettata dalla gravità del momento, concordò un congiunto piano di attacco a Cuma tra gli etruschi delle città settentrionali e gli etruschi campani (certamente di Capua, ma molto probabilmente anche di Pontecagnano e di Fratte). L’obiettivo, ovviamente non era conquistare o distruggere Cuma: si trattava solo di sostituire la fazione dominante con una filo etrusca, in modo da ripristinare l’equilibrio raggiunto ai tempi di Aristodemo. Solo che i ceti dominanti di Cuma, non avevano proprio voglia di cedere la poltrona… Per cui, chiesero aiuto a quella che sembrava la potenza in ascesa tra le colonie greche d’Occidente. Sempre basandosi sul Diodoro Siculo
Nell’ anno terzo della già accennata olimpiade, Acestoride fu arconte in Atene, e a Roma furono consoli Cesone Fabio e T. Verginio. In quell’ anno Jerone, re di Siracusa, essendo giunti presso di lui ambasciatori di Cuma d’Italia per chiedergli aiuto contro gli Etruschi padroni del mare, dai quali era loro fatta aspra guerra, egli mandò in loro soccorso una numerosa flotta di triremi. I capi della quale giunti a Cuma, e ingaggiata battaglia con i Tirreni, affondarono molte navi di questi, e riportarono una vittoria tale che, vinte le forze etrusche, e liberati i Cumani dal pericolo, poterono ritornare gloriosamente a Siracusa
Proprio quando gli Etruschi stavano iniziando l’operazione di accerchiamento da terra e dal mare spuntò, inattesa, la flotta da guerra di Siracusa che gettò nello scompiglio le navi etrusche che furono costrette a cambiare rotta e a dirigersi verso il vicino capo Miseno. Qui, ai piedi della scogliera alta 160 metri a picco sul mare, s’accese una sanguinosa battaglia con un corpo a corpo tra navi che penalizzava fortemente i legni etruschi, temibili in mare aperto con i loro rostri, ma inoffensivi nei piccoli spazi. I siracusani affondarono e catturarono numerose navi, costringendo alla fuga le poche superstiti. L’esercito di terra, intimorito e scoraggiato, tolse l’assedio a Cuma e se ne tornò in patria.
Un’altra testimonianza della battaglia, oltre che dall’elmo con l’iscrizione greca, ci è giunta dal poeta greco Pindaro che celebra, naturalmente con toni trionfalistici, la vittoria dei suoi compatrioti. Ecco come, nella sua Prima Ode Pitica:
“ Ti supplico, Zeus, dammi un cenno: si tenga tranquillo il grido di guerra fenicio, e ammutolisca quello dei tirreni! Essi videro la flotta gemente espiare dinanzi a Cuma il crimine, costretti dal signore di Siracusa, che scagliava dalle navi veloci il fiore della gioventù guerriera dei tirreni, a liberare l’Ellade dal giogo di una gravosa servitù”.
Il riferimento ai Fenici fa supporre che nella battaglia furono impegnate anche navi cartaginesi, alleati degli Etruschi contro i Greci. Nel santuario di Zeus ad Olimpia sono stati trovati tre elmi presi agli etruschi nella battaglia; i tre cimeli recano iscrizioni che presentano tra loro solo piccole differenze e il cui tono è il seguente:
“Hierone figlio di Deinomene e i siracusani (dedicano questo elmo) tirrenico da Cuma”
Contrariamente a quanto sostenuto da Diodoro Siculo, i siracusani non fecero subito ritorno in patria ma, conformemente alle mire espansionistiche di Gerone che era desideroso di avere parte nelle vicende della nuova Italia nata dagli sconvolgimenti politici legati alla fine della monarchia a Roma, stabilirono un loro presidio nell’isola di Pitekoussa (Ischia). Un ulteriore motivo di questo nuovo stanziamento va visto anche come la creazione di una base dalla quale lanciare altri attacchi alle città etrusche tirreniche, alla Corsica e all’isola d’Elba, principale fonte del prezioso metallo che era il ferro.
Le conseguenze della battaglia furono disastrose per gli etruschi. I centri campani, isolati ormai dal resto del mondo etrusco, si avviarono ad un lento declino; la stessa Capua, il più importante centro etrusco campano, non molto tempo dopo fu sottomessa dai sanniti. Contemporaneamente Atene, vedendo interdetti i suoi rapporti commerciali con l’Etruria, si rivolse, attraverso l’Adriatico, alle città dell’Etruria Padana. È in questo periodo, infatti, che si assiste ad una notevole fioritura dei centri padani di Adria, Spina, Felsina (Bologna) e Marzabotto.
Dinanzi a questo mutamento delle rotte commerciali, le città dell’Etruria vera e propria, iniziarono quel processo di conversione economica che la portò da essere un’aristocrazia di commercianti ad un’aristocrazia latifondista. Processo che avvenne anche a Roma, che si trovò improvvisamente marginalizzata nel Tirreno: da una parte, se ne avvantaggiarono le antichi clan di proprietari terrieri, che ne approfittarono per cacciare dalla gestione collegiale del potere gli ultimi eredi dei Tarquini e i “signori della guerra”, dando origine al graduale processo di definizione istituzionale della Repubblica Romana, dall’altra, per l’Urbe, a cui era diventato anche difficile comprare grano dall’estero, era diventato fondamentale difendere i propri campi dai popoli vicini, specie da quelli che li consideravano ottimi pascoli per la loro transumanza, e possibilmente espanderli.
Tornando a Gerone, a breve termine, la sua ambiziosa politica estera non colse i risultati che si era posta, anche per eventi inaspettati. Racconta Strabone, parlando di Ischia
L’isola è infatti soggetta a tali emanazioni, per cui anche i nuovi coloni mandati da Ierone, tiranno di Siracusa, abbandonarono sia la fortezza da essi costruita, sia l’isola. Vi giunsero poi e l’occuparono i Napoletana
L’archeologia ha infatti confermato che la fortezza siracusano fu travolta da una colata lavica durante una violentissima eruzione. Ancora più complicata fu situazione in Magna Grecia: Micito, invece di starsene buono e tranquillo, come si aspettava Gerone, decise di approfittare dell’alleanza con Siracusa per riprendere l’antica ambizione di Rhegion di diventare la potenza dominante della Calabria e della Puglia. Per cui, dopo avere imposto un tributo a Locri e fondata la colonia di Pissunte nel Cilento, come prima mossa per conquistare Elea, si alleò con Taranto, per spartirsi le spoglie di Crotone.
Gerone era in grossa difficoltà: da una parte non voleva che nascesse nessuna grande potenza in Calabria, dall’altra non poteva violare l’alleanza. A togliergli le castagne dal fuoco, fa l’irrisolto rapporto tra colonie della Magna Grecia e popolazioni italiche. Scoppiò infatti l’ennesima guerra tra Tarantini e Iapigi, in cui, per la precedente alleanza, di malavoglia dovette partecipare anche Rhegion… Ma lascio la parola al buon Erodoto
Si racconta infatti che Minosse, giunto in Sicania (oggi detta Sicilia) alla ricerca di Dedalo, vi perì di morte violenta. Tempo dopo i Cretesi, indotti da un dio, tutti tranne quelli di Policne e di Preso, arrivarono in Sicania con una grande flotta e strinsero d’assedio per cinque anni la città di Camico (ai tempi miei abitata dagli Agrigentini). Infine, non potendo né conquistarla né rimanere lì, oppressi com’erano dalla carestia, abbandonarono l’impresa e se ne andarono. Quando durante la navigazione giunsero sulle coste della Iapigia, una violenta tempesta li spinse contro terra: le imbarcazioni si fracassarono e giacché non vedevano più modo di fare ritorno a Creta, fondarono sul posto una città, Iria, e vi si stabilirono cambiando nome e costumi: da Cretesi divennero Iapigi Messapi e da isolani continentali. Muovendo da Iria fondarono altre città, quelle che molto più tardi i Tarantini tentarono di distruggere subendo una tale sconfitta da causare in quella circostanza la più clamorosa strage di Greci a nostra conoscenza, di Tarantini appunto e di Reggini. I cittadini di Reggio, venuti ad aiutare i Tarantini perché costretti da Micito figlio di Chero, morirono in tremila; i Tarantini caduti, poi, non si contarono neppure. Micito, che apparteneva alla casa di Anassilao era stato lasciato come governatore di Reggio ed è lo stesso che, scacciato da Reggio e stabilitosi a Tegea in Arcadia, consacrò a Olimpia numerose statue.
Per cui, approfittando della batosta dell’alleato, Gerone organizzò un colpo di stato a favore dei figli di Anassilao, i quali a loro volta, si divisero i domini del padre: uno divenne il tiranno di Rhegion, l’altro di Messina. Per cui, spacciandosi per difensore del diritto e senza sporcarsi troppo le mani, risolse l’annoso problema della concorrenza geopolitica della polis calabrese.
Purtroppo, questo attivismo politico ebbe un effetto inaspettato. Ad Akragas, a Terone era succeduto il figlio Trasideo, il quale si rese conto come la politica di Gerone stava avendo danneggiando notevolmente i suoi domini: da una parte, la sua polis agrigentina era sempre più marginale, nella politica siciliana, dall’altra i suoi commerci con gli etruschi e con la Magna Grecia erano sempre più in crisi. Per cui, approfittando dei problemi di salute del tiranno siracusano, arruolò un esercito, per marciare sulla polis rivale e defenestrarlo.
Tentativo che, come racconta sempre Diodoro Siculo, fu però fallimentare
«[Trasideo], dopo la morte del padre Terone, raccolti molti mercenari, e aggiuntivi contingenti agrigentini e imeresi, radunò un esercito di oltre ventimila uomini fra cavalieri e fanti. Prevalsero i Siracusani. Trasideo, sfiduciato, fu deposto e privato delle sue prerogative. Esule riparò a Megara Nisea, dove fu condannato a morte. Gli Agrigentini, instaurata la democrazia, rivoltisi con un’ambasceria a Ierone, ottenero la pace.
In realtà la vittoria, assai sanguinosa, scosse le fondamenta del potere di Gerone. Al ritorno a Siracusa, fu vittima di un colpo di stato e morì lapidato. Si narra che la statua scolpita in suo onore cadde nel medesimo giorno in cui morì. Viene sepolto in Aitna, la nostra Catania, ma la polis etnea non sopravviverà molto al “rifondatore”: gli esuli calcidesi rientrano e scacciano i coloni di Gerone, che si rifugiarono a Inessa, forse la nostra Paternò. Ad Aitna viene restituito il nome “Katane”, mentre Inessa venne ribattezzata a sua volta Aitna. Il monumento funebre a Gerone a Katane fu così distrutto.
A Siracusa, prese il potere il fratello minore di Gerone, Trasibulo: da una parte si mostrò incapace di fronteggiare il collasso del potere siracusano in Sicilia, dall’altra aveva un carattere violento e sanguinario, alieno dal compromesso e privo delle capacità diplomatiche e affabulatorie dei fratelli Gelone e Ierone. In più, data la sempre maggiore importanza dei ceti commerciali e artigianali, che volevano dire la loro nella gestione della polis, in linea con quanto stava accadendo ad Akragas, la fazione democratica stava acquisendo sempre più consenso.
Per cui, Trasibulo, le 465 a.C. si trovò davanti a una rivolta generale a Siracusa. Per domare la rivolta, il trianno raccolse le sue forze militari, facendo leva sui mercenari e sugli alleati da Aitna, raggiungendo il numero di 15.000 uomini armati. I siracusani mandarono ambasciatori alle città vicine e ricevettero l’aiuto sperato sia dai sicelioti che dai siculi, che non vedevano l’ora di reiequilibrare i rapporti di forza in Sicilia, in più potevano contare sull’armata nazionale che si pose contro il tiranno.
Il dinomenide tentò un primo scontro frontale in mare, ma ebbe la peggio perdendo molte delle sue galee. Allora tentò di avere maggior fortuna sulla terraferma ma anche lì fu sconfitto e dovette venire alla resa, concordando la pace con i siracusani in cambio del definito esilio che venne stabilito a Locri. Così terminò il potere della dinastia dei Dinomenidi in Sicilia.
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