Atene contro Siracusa (Parte IV)

Dopo che l’assemblea ateniese sentì le parole degli ambasciatori di Segesta, l’assemblea popolare si trovò così a decidere sull’invio in Sicilia, a scopo dissuasivo nei confronti di Siracusa, di un corpo di spedizione di 60 Triremi.

La fazione contraria all’intervento, che riteneva come il principale obiettivo geopolitico di Atene fosse il consolidamento della sua posizione in Grecia e il logoramento degli alleati di Sparta era capitanata da Nicia. Nato nel 470 ad Atene da Nicerato del demo di Cidantide, questi apparteneva ad una casata aristocratica ed era uno dei cittadini più in vista di Atene con un patrimonio di oltre 100 talenti d’argento, dal momento che la sua famiglia aveva diritti di sfruttamento delle assai redditizie miniere d’argento del Laurio che gestiva mediante l’impiego di schiavi il cui numero superava il migliaio.

Collega di Pericle, dopo la morte di questi, nel 428 a.C., divenne stratego grazie al forte appoggio da parte dei ricchi e degli aristocratici che ne fecero il proprio baluardo contro la politica demagogica di Cleone; nonostante questo, fu popolare anche presso i ceti più poveri, grazie alla sua capacità di gestire le pubbliche relazioni, ben descritta da Plutarco

Il suo portamento dignitoso non era né aspro né odioso: era mescolato ad una sorta di timidezza per cui sembrava temere la moltitudine e ciò lo rendeva popolare. Per natura era timoroso e pessimista; in guerra, però, riusciva a celare la sua viltà con la sorte grazie alla quale aveva un costante successo come stratego. Invece, nella vita politica, il suo timore e la facilità per cui si turbava innanzi ai sicofanti lo facevano sembrare democratico e gli derivarono non poca forza dalla simpatia del popolo il quale teme i superbi ed esalta chi lo teme. Infatti, il massimo onore che i potenti possono rendere alle masse è di non disprezzarle

In realtà, Nicia era tutt’altro che vile: come Bernard Law Montgomery, riteneva che le guerre si vincessero con la pazienza, la saggezza e la prudenza. Per questo evitava di prendere rischi inutili e agiva solo quando era certo di avere piena superiorità di mezzi e di uomini, minimizzando il rischio e massimizzando il risultato

Nicia, essendo ricco sfondato, sapeva anche lavorare molto bene alla promozione della sua immagine, facendo, per usare un termine moderno, da sponsor a numerose iniziative culturali: delle sue numerose offerte votive è nota una statua dorata di Pallade, collocata sull’Acropoli e l’edicola nel recinto sacro di Dioniso sormontata dai tripodi ottenuti nelle gare teatrali in cui fu corego e in cui non fu mai sconfitto.

Di lui si ricordano le splendide cerimonie organizzate a Delo. Infatti, a differenza delle delegazioni delle altre città, quando guidò la processione, sbarcò a Renea con il coro, le vittime sacrificali ed il resto del corredo portando un ponte da lui fatto costruire ad Atene adorno di pitture, drappi, festoni con cui, durante la notte, congiunse il breve tratto di mare tra Renea e Delo. La mattina attraversò il ponte in testa alla processione diretta al tempio per poi piantare una palma di bronzo come offerta al dio.

La carriera militare di Nicia, cominciò nel 427 a.C., quando condusse una spedizione contro l’isola di Minoa, arida ma strategicamente importante, posta di fronte a Megara e la conquistò poi, l’anno seguente, con una flotta di 60 triremi e 2.000 opliti, devastò e saccheggiò le campagne dell’isola di Milo, la Locride e tornò ad Atene.

Due anni dopo, quando gli spartani attaccarono per terra e mare la piazzaforte ateniese di Pilo, fortificata poco tempo prima da Demostene, nella battaglia che divampò, un contingente di 400 opliti spartani, rimase tagliato fuori sull’isola di Sfacteria. Gli ateniesi, ritennero che la cattura sarebbe stata un grande successo, ma l’assedio presentava forti difficoltà sia per la scarsità d’acqua sia per la necessità di trasportare i rifornimenti da lontano e con viaggio dispendioso che d’inverno risultava estremamente pericoloso. Gli spartani, in perenne carenza di uomini, per salvare i loro compatrioti chiesero un armistizio. Nicia, che valutava più i costi della guerra che i fantomatici guadagni, colse la palla al balzo per intraprendere delle trattative di pace.

Il suo tentativo, però, fu sabotato dal famigerato Cleone, tanto inviso ad Aristofane, che lo spernacchiò in tante delle sue commedie. Questo tizio, passato alla storia come il prototipo del demagogo, non avendo né il cinico genio di Alcibiade, né il suo fascino, figlio di Cleneto, apparteneva per nascita alla classe media dal momento che deteneva l’attività di conciatore di pelli finché, poco dopo la morte di Pericle, non salì alla ribalta come leader del partito popolare radicale che più di tutti era fautore di una politica bellicosa e anti-spartana.

Cleone è menzionato dagli storici per la prima volta nel 430 a.C. quando fu tra i principali accusatori di Pericle per la condotta da questi tenuta durante il conflitto e la pestilenza. Il processo fu un completo successo e si concluse, per Pericle, con la condanna al pagamento di una multa valutabile tra i 15 ed i 50 talenti. La sua posizione bellicista, oltre che a rispondere a numerose istanze presenti nella società ateniese, la democrazia, con i sussidi pagati ai cittadini più poveri affinché partecipassero alla vita politica, non era gratis e i costi dovevano essere in qualche modo coperti sottraendo risorse agli altri stati greci, era legata al suo personale interesse economico. Le pelli che lavorava, infatti, erano un materiale indispensabile per gli eserciti greci.

Insomma, Cleone non sarebbe sfigurato nel cast di Finché c’è guerra, c’è speranza di Alberto Sordi: ora, dato che la possibile pace avrebbe tagliato le sue entrate economiche, fece fuoco e fiamme all’assemblea pubblica, mandando a ramengo tutte le trattative. Agli emissari lacedemoni giunti ad Atene fu infatti garantita la restituzione degli opliti, ma solo in cambio della restituzione pubblica dei territori di cui Sparta era garante e che Atene era stata costretta ad abbandonare in passato, in occasione di precedenti tregue. Il che, minando il prestigio di Sparta e di conseguenza la coesione della lega peloponnesiaca, non era accettabile dalla controparte.

Per cui, Nicia, di malavoglia, consapevole che gli assedianti erano in condizione altrettanto difficile degli assediati, riprese la campagna, con scarsi risultati: nonostante il blocco i lacedemoni continuavano a essere riforniti, da singoli nuotatori, che si spostavano dietro una corda otri piene di provviste, o da piccole imbarcazioni che approfittavano delle occasioni in cui i venti da ponente spingevano le navi avversarie a ripararsi.

Pare che gli Spartani avessero promesso la libertà a ogni ilota del Peloponneso che si fosse arrischiato a raggiungere l’isola con «grano macinato, vino, cacio e ogni altro genere di alimenti che potesse giovare per l’assedio» (IV.26,5).

In compenso gli ateniesi dovevano sudare le sette camicie per rifornirsi d’acqua ed erano ostretti a mantenere parte delle navi – che nel frattempo erano diventate settanta – a terra, per mancanza di ormeggi a sufficienza per tutte. Né era facile mandare i rifornimenti alle truppe circumnavigando ogni volta il Peloponneso; se poi, approfittando di una giornata di brutto tempo, gli spartani fossero riusciti a darsela a gambe, beh, la figura meschina avrebbe indebolito la posizione ateniese dinanzi alla lega di Delo.

Andando le cose così per lunghe, gli ateniesi si adirarono con Cleone il quale in un’assemblea riversò la colpa su Nicia accusandolo di lasciarsi sfuggire i nemici con la sua fiacchezza e millantò che al suo posto avrebbe conquistato l’isola in venti giorni. A Nicia brillarono gli occhi: dato che Cleone non era noto per questa grande esperienza militare, fece il bel gesto di cedergli il comando dell’assedio.

Cleone, resosi conto della sola in arrivo fece il vago, Nicia gli impose di prendere il mare con tutte le truppe che desiderava mentre l’assemblea popolare lo prendeva a pernacchioni: di fatto, così pensavano i conservatori ateniesi, qualunque fosse stato l’esito, loro ci avrebbero guadagnato. Se Cleone avesse fatto una pessima figura, il demagogo avrebbe smesso di essere un problema politico; in caso di suoi improbabile successo, la posizione contrattuale di Atene con Sparta si sarebbe ulteriormente rafforzata.

Ma Cleone, ebbe il proverbiale colpo di fortuna: A Sfacteria, infatti, la situazione era cambiata. Un incendio provocato da un soldato affamato nel tentativo di cucinare, aveva ridotto in cenere gran parte dei boschi dell’isola. Gli assediati – più numerosi di quanto inizialmente ritenuto- non avevano più dove nascondersi e ripararsi.

Demostene di Afidia, il secondo di Nicia, e Cleone riunirono l’esercito, intimano agli Spartani di arrendersi e, ricevuto un netto rifiuto, sbarcarono sull’isola ottocento opliti, prendendosi un grosso rischio: da una parte i spartani erano meglio addestrati, dall’altro, il terreno accidentato dell’isola favoriva di certo i difensori. Ma all’alba, la guarnigione posta a difesa dell’estremità meridionale dell’isola era ancora tra le braccia di Morfeo; in più erano appena trenta opliti. Per gli ateniesi fu facile averne ragione.

Conquistata la testa di ponte, fu facile sbarcare il resto del contingente, costituito da arcieri, frombolieri e truppe armare alla leggera. Ora, gli spartani si aspettavano il tradizionale scontro tra falangi, in cui avrebbero ridotto a mal partito gli avversari: ma il gatto e la volpe ateniesi li sorpresero, utilizzando una tattica inaspettata. Disposero arcieri, lanciatori di giavellotti sulle alture dell’isola e invece di impegnare i loro opliti in un corpo a corpo, si misero a fare il tiro a segno sugli avversari, che più di insultare loro e loro madri, poco potevano fare.

Per citare Tucidide

Sicché adesso gli Spartani si vedevano in una dura situazione. Gli elmi non li proteggevano dalle frecce, e sotto i colpi di molti mozziconi di giavellotti erano rimasti infissi negli scudi, sicché non sapevano dove volgere il capo; quanto a vedere, era tolta la vista; nel crescente frastuono delle grida nemiche non arrivavano a sentire i comandi dei loro capi; erano minacciati da ogni parte, e non sapevano come dovessero difendersi per salvarsi

Per cui, viste le brutte, gli spartani si decisero per una ritirata strategica, nelle fortificazioni all’altro lato dell’isola: la situazione era diventata di nuovo complicata per gli ateniesi, visto che i nemici potevano essere stanati solo con un sanguinoso attacco frontale. A togliere le castagne dal fuoco a Cleone e Demostene, furono gli alleati della Messenia, che agili come scimmie, si arrampicarono lungo scogliera, ponendosi alle spalle degli spartani, che stanchi e affamati, non avevano nessuna intenzione di fare la fine di Leonida alle Termopili e si arresero a discrezione.

Cleone, che aveva mantenuto la promessa, si ritrovò a essere l’eroe del giorno e si autoconvinse di essere un grande generale. Nicia fece un’inaspettata figura di palta, ma ebbe modo di rifarsi, quando, nello stesso anno, coadiuvato da due colleghi, ottenne il comando della spedizione contro Corinto. La battaglia, a lungo incerta, si risolse dopo molte ore quando gli ateniesi caricarono con l’intera cavalleria infliggendo pesanti perdite ai nemici e tra di essi lo stesso comandante, Licofronte. Ottenuta tale vittoria proseguì verso Crommione di cui devastò il territorio e si diresse fino al territorio di Epidauro, approdò a Metana a mezza via tra Epidauro e Trezene, conquistò l’istmo della penisola, fece erigere un forte da cui per un certo periodo fece partire scorribande nelle contrade di Trezene, Ali ed Epidauro. Infine, dopo aver perfezionati i dispositivi di difesa, ricondusse l’esercito in patria.

Nel 424, Nicia, riottenne la strategia e condusse con due colleghi una spedizione contro le coste della Laconia durante la quale occupò facilmente l’isola di Citera essendosi messo in contatto con alcuni degli abitanti. Poi, posta una guarnigione, devastò le coste della Laconia per sette giorni, conquistò Terea ove gli si erano rifugiati gli abitanti di Egina e la distrusse; quanto agli abitanti, furono condannati a morte. Obiettivo di tali incursione era indebolire politicamente Sparta, dimostrando quanto fosse incapace di difendere i suoi alleati, istigando al contempo gli iloti alla rivolta.

Nel frattempo, però gli spartani avevano cambiato strategia, decidendo di attaccare la penisola calcidica, il cuore degli interessi geopolitici dell’Attica: era infatti una base per il rifornimento di oro e di grano proveniente dal Ponto Eusino, la nostra Crimea. In più, boschi di tale penisola proveniva il legname necessario per la flotta. Con una lunga marcia, il generale spartano Brasida condusse un contingente militare composto da 1000 opliti mercenari e 700 iloti fino in Tracia, presso la città di Anfipoli, che assediò con l’appoggio macedone e tracio.

Il generale spartano ebbe la meglio sugli ateniesi solo in seguito ad un lungo ed estenuante assedio durato alcuni mesi, durante il quale Brasida fece innalzare un’enorme muraglia di legno grazie alla quale riuscì a superare le fortificazioni cittadine.

La città cadde nel 424 a.C. in mano agli Spartani insieme al centro di Eione e la sconfitta ateniese provocò l’esilio di Tucidide, che in quell’occasione agiva da stratego nella zona di Anfipoli e non era stato in grado di difendere l’importante base ateniese e che capì di essere più tagliato come storico, che come generale.

Brasida inoltre promosse la defezione dei calcidesi, promettendo la libertà e l’autonomia che Atene aveva loro negato. Nicia fu incaricato di mettere una pezza a questo casino; giunta nelle penisola calcidica, rinsaldò il possesso di Mende e pose sotto assedio Scione ed avviò trattative diplomatiche con Perdicca, re di Macedonia. La sua strategia temporeggiatrice era basata su un calcolo abbastanza cinico: Sparta non si sarebbe potuto permettere a lungo tale contingente mercenario, né l’avrebbe potuto sostituire con gli spartiati, pena ulteriori ribellione ilote. Appena fosse arrivato l’ordine a Brasida di congedare i mercenari, gli ateniesi avrebbero potuto riconquistare tutto senza grosse perdite.

Ma non aveva tenuto conto di Cleone, che come accennato in precedente, si era autoconvinto di essere un genio militare: così tanto ruppe le scatole all’assemblea, che gli fu affidato il comando delle operazioni militari ad Anfipoli. Sulla relativa battaglia, la descrizione di Tucidide è assai confusa e condizionata dalla sua antipatia per Cleone. Gli spartani vinsero, rimanendo padroni del campo, ma persero numerosi soldati, tanto che i mercenari, stanchi, entrarono in sciopero. In più, tra i caduti, vi erano Cleone e lo stesso Brasida, i principali sostenitori, in entrambe le polis della guerra a oltranza.

In più Sparta e Atene avevano i loro problemi: la prima con la moria degli spartiati, doveva affrontare i tentativi iloti di alzare la testa. A questo si aggiungeva la minaccia di Argo, pronta a scendere in guerra contro i vicini e i malumori di Corinto e Megara, i cui commerci, a causa della guerra, erano crollati. La seconda, oltre alle casse vuote, doveva confrontarsi anche con la nuova minaccia di Tebe.

Per cui fu facile, per il re spartano Plistoanatte e per Nicia, convincere i loro concittadini a deporre le armi e firmare la pace. Come dice sempre Tucidide

Nicia voleva salvaguardare il suo successo visto che non aveva subito sconfitte ed era stimato; inoltre voleva porre fine subito alle fatiche sue e dei suoi concittadini e, per l’avvenire, lasciare la fama di non aver mai danneggiato in vita la città, essendo convinto che ciò fosse possibile se c’era sicurezza e se ci si esponeva il meno possibile alla sorte e che la sicurezza nasce dalla pace

Obiettivi, che rischiavano di essere messi in crisi dalla mania di voler mettere il naso nelle vicende siciliane..

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