
Teodebaldo, rispetto al padre Teodeberto, colpisce assai meno la fantasia, perché, diciamola tutta, non è che fosse questo grande guerriero: al contempo, definirlo un imbelle è forse assai riduttivo, perché, cosa rara tra i Merovingi, fu anche un ottimo politico.
Governò, senza troppi problemi, un grande regno che comprendeva gran parte dell’Austrasia, l’Aquitania e parte della Burgundia e del Nord Italia ed aveva sovranità sulla Turingia. Sempre nell’ottica di espandere il suo potere in Germania, rafforzò la tradizionale alleanza con i longobardi, sposò Valdrada, sorella della sua maligna Visigarda, sì le genealogie tendono a essere molto più complicate di quelle delle soap opera e con la diplomazia trasformò la Baviera in un suo stato vassallo.
In più, riuscì più con le cattive che con le buone, a convincere vescovi e abati franchi a pagare le tasse: cosa che ahimè ha contribuito alla sua cattiva fama presso i posteri: il vescovo Mario di Avenches gli diede del dissoluto, quando in fondo ebbe una vita famigliare molto più tranquilla di quella del padre e non riempì l’Austrasia di figli illegittimi e Gregorio di Tours gli diede senza mezzi termini del malvagio.
Nel 553 degli ambasciatori goti giunsero alla corte di re Teodebaldo, chiedendo aiuto contro i Bizantini comandati dal generalissimo Narsete che avevano ucciso in battaglia gli ultimi re goti Totila e Teia e sembravano ormai aver vinto la guerra; così il nostro eroe si trovò dinanzi a un dilemma.
Da una parte, vi era la possibilità di nuove conquiste e parecchio bottino ai danni dei vicini: dall’altra, l’alleanza con Bisanzio, che gli forniva parecchi sussidi in oro. In più c’era il rischio concreto che un Narsete trionfante potesse scacciare i Franchi dai loro possessi in Nord Italia. Per cui, imitando quanto fatto anni prima dal padre, per salvare capra e cavoli, Teodebaldo adottò la soluzione della guerra in outsourcing.
In pratica incaricò due suoi generali, che avevano già combattuto in Italia con Teodeberto e conoscevano bene o male con chi avevano a che fare e il contesto operativo, Butilino e Leutari, che le fonti dell’epoca definiscono duces degli Alemanni, di arruolare un contingente, traversare le Alpi e dare manforte ai Goti. In cambio i due avrebbero ceduto alle casse reali parte del bottino e se fossero riusciti a cacciare i bizantini e conquistare un loro dominio, si sarebbero riconosciuti vassalli del re franco.
Narsete, vinto Teia in una battaglia nei pressi di Pompei, che era morto da eroe, uccidendo decine di nemici, era impegnato nell’assedio di Cuma, dove era custodito il tesoro del regno goto: assedio, che per avere sottovalutato le capacità e la determinazione di Aligerno, fratello di Teia, che, abile arciere, aveva eliminato numerosi ufficiali bizantini, andava per le lunghe.
Per mettere fine a una situazione che stava diventando ridicola, quattro gatti in mezzo a delle rovine antiche tenevano bloccato un intero esercito, Narsete, avendo notato che parte della fortezza era stata costruita sulla sommità dell’Antro della Sibilla, escogitò un espediente. Inviò quanti più uomini possibile nei recessi dell’antro, con strumenti di scavo e in questo modo minò gradualmente quella sezione del soffitto dell’antro sulla quale le mura erano state costruite. Escogitò anche un espediente per impedire agli Ostrogoti di accorgersene, facendo collocare a intervalli regolari delle travi di legno come sostegno per impedire alla struttura di crollare durante i lavori, cosa che avrebbe messo in allarme i Goti.
Per impedire inoltre alla guarnigione ostrogota di udire il rumore delle operazioni di scavo delle pietre e quindi di insospettirsi, l’esercito bizantino assaltò le mura urlando e facendo rumore con le armi. Quando l’intera sezione delle mura sulla sommità della grotta era rimasta sospesa a mezz’aria con solo le travi di legno a sostenerle, diedero loro fuoco uscendo subito dalla grotta. Quando le travi di legno si ridussero in cenere quella parte delle mura che poggiava su di esse crollò improvvisamente. Il piano però fallì, in quanto la breccia apertasi era dirupata, e un ulteriore assalto alle mura fu così respinto.
A peggiorare l’umore del generale bizantino, gli arrivò la notizia dell’invasione di Butilino e Leutari; per prima cosa, mandò una lettera di fuoco a Teodebaldo, che rispose con un
Ma chi li conosce a quei due, hanno fatto tutti da soli
poi, lasciato un contingente a continuare l’assedio di Cuma, brontolando dovette dirigere a nord il grosso dell’esercito, per fronteggiare i nuovi invasori. Inviò parte del suo esercito verso il Po per impedire al nemico di avanzare verso Sud, convinto che, essendo più interessato al bottino che alla conquista, alla prima opposizione seria se ne sarebbe tornato in Austrasia, mentre con il grosso delle truppe si spostò Etruria, dove alcune fortezze gote ancora resistevano.Tutte, tranne Lucca, si arresero spontaneamente. Narsete iniziò quindi l’assedio di Lucca nel settembre 553; anche in questo caso, però arrivarono pessime notizie dal Nord.
L’esercito bizantino, guidato dall’erulo Fulcari, se l’era presa comando: i franchi avevano avuto il tempo di traversare il Po e di conquistare Parma. A peggiorare le cose, Fulcari, nel tentativo di sloggiare il nemico dall’Emilia, era stato clamorosamente battuto e in rotta, si era rintanato a Faenza. Per Narsete, il rischio di fare la fine del topo in trappola era diventato improvvisamente concreto.
Per evitarlo inviò il suo braccio destro Stefano a Faenza, per mettere ordine nelle truppe e tentare di riprendere Parma, occupata da una guarnigione alemanna. Per suo fortuna, Stefano se la cavò decentemente, rioccupando la città emiliana, e Narsete poté riprendere l’assedio di Lucca con una certa tranquillità. Il problema è che, mentre lui era bloccato in Etruria, i franchi se ne andavano in giro in Nord Italia, saccheggiando a destra e manca. Per cui, alla fine, dovette chiudere la pratica con la diplomazia: i lucchesi, furono praticamente pregati di arrendersi, ottenendo uno sproposito di favori e concessioni. Dopo tre mesi di indegno mercanteggiare, Narsete ottenne finalmente la resa della città.
Lasciata una forte guarnigione a Lucca, Narsete ordinò ai suoi soldati di ritirarsi nei propri quartieri invernali per poi ricongiungersi a Roma nella primavera successiva e si diresse a Ravenna, dove risiedette a Classe, sede principale della flotta bizantina in Occidente. Qui, finalmente, ebbe una buona notizia. Aligerno, poco fidandosi di Butilino e Leutari, dato che la loro preannunciata marcia su Cuma sembrava più orientata al rubare il tesoro di stato goto che a combattere i bizantini e rassicurato dalle vicende di Lucca, si era deciso alla resa.
Comunicò agli assedianti che intendeva conferire con il loro comandante Narsete: ottenuto da essi il permesso di uscire dalle mura, si recò a Classe, dove Narsete si trovava in quel momento, e una volta conferito con lui, gli consegnò le chiavi della città e promise che lo avrebbe servito fedelmente. Narsete lo lodò per essere passato dalla parte imperiale e gli assicurò che i suoi servigi sarebbero stati ampiamente ricompensati, per poi ordinare alle truppe accampate nei pressi di Cuma di entrare nella città per occuparla, di impadronirsi di tutte le sue ricchezze, e di difenderla da eventuali attacchi nemici. Ordinò poi al resto delle truppe di ritirarsi nelle altre fortezze per svernarvi.
Narsete inviò poi Aligerno a Cesena nella speranza che i Franchi e gli Alemanni, una volta scoperto che Aligerno era passato dalla parte dell’Impero, avrebbero rinunciato all’idea di marciare su Cuma per impadronirsi dei suoi tesori e anzi si sarebbero addirittura ritirati dall’Italia. Aligerno dall’alto delle mura si rivolse ai Franchi e agli Alemanni comunicando loro di abbandonare ogni speranza di impadronirsi dei tesori di Cuma, dato che erano già in mano imperiale. I Franchi per tutta risposta gli diedero del traditore e decisero comunque di portare avanti la loro campagna militare.
Narsete, tra l’altro, fu di parola: Aligerno ottenne un ricco stipendio e un palazzo a Costantipoli, vicino a un convento, i cui monaci dovettero sopportare con enorme pazienza sia le bisbocce, sia gli scherzi che gli combinava il goto.
La notizia dello stipendio di Aligerno ebbe un altro effetto collaterale: Teodobaldo, comandante dei Varni, una popolazione germanica suddita dei franchi, era in lite con Butilino e Leutari, per questioni relative alla spartizione del bottino. Saputo del trattamento di favore ricevuto dal goto, decise, in cambio delle stesse condizioni di passare al servizio dei bizantini: ovviamente, i franchi non la presero sportivamente, tanto che Teodobaldo fu assediato a Rimini. Narsete incaricò Stefano di organizzare una spedizione di soccorso, che sconfisse un contingente di 2000 franco-alamanni, liberando così il neo alleato.
Dopo questa paziale vittoria, Narsete ritornò a Ravenna e da qui si diresse a Roma, dove rimanse, con tutto l’esercito, sino all’estate del 554, intensificando l’addestramento dei suoi uomini per aumentarne il livello qualitativo.Nel frattempo i Franco-alamanni, giunti nel Sannio, si erano divisi in due gruppi: uno, condotto da Leutari, raggiunse Otranto per poi ritornare in Nord Italia; l’altro invece, condotto da Butilino, raggiunse Rhegion. Entrambi gli eserciti compirono saccheggi e stragi. I Franchi, tuttavia, a differenza degli Alamanni, non saccheggiavano gli edifici religiosi in quanto cristiani.
In estate, Leutari propose a Butilino, che era si era spinto fino allo stretto di Messina, di ritornare verso nord per mettere al sicuro il bottino nella Venetia, allora sotto il controllo dei Franchi, ma Butilino rifiutò, determinato com’era a sconfiggere Narsete e a sottomettere l’Italia intera, con la precisa aspirazione di governarla come re dei Goti. Leutari decise di trasferirsi a Nord, anche perché Teodebaldo brontolava, lamentandosi per non avere ottenuto la sua quota di bottino.
La sua colonna, appesantita dalle prede e resa meno efficiente, venne affrontata e sconfitta presso Fano dalla guarnigione bizantina di stanza a Pesaro, guidata da Artabane e dall’unno Uldach, perdendo l’oro, gli oggetti preziosi saccheggiati nelle chiese e un gran numero di prigionieri; tuttavia, Leutari riuscì però, con buona parte dei suoi, a mettersi in salvo, attraversando a fatica il Po e, puntando a nord-est, a raggiungere quella parte della Venetia in mano ai franchi, fermandosi nella nostra Vittorio Veneti, dove però il suo esercito fu sterminato da un’epidemia.
A sentire Agazia Scolastico, fonte tutt’altro che credibile, la morte di Leutari fu orripilante
Per quel che concerneva lo stesso capo [Leutari] era del tutto evidente che lo colpivano castighi inviati allora da dio. Infatti gridava, fuori di sé, e manifestamente smaniava al modo dei dementi e dei furiosi. Lo presero incessanti attacchi convulsivi e lanciava in continuo strepiti lamentosi; ora cadeva prostrato bocconi a terra, ora supino con gran quantità di schiuma che gli sgorgava attorno alla bocca ed entrambi gli occhi apparivano decisamente gonfi e innaturalmente deviati. In un parossismo di folle furia, l’infelice cominciò addirittura a divorare le sue stesse membra mordendosi le braccia, lacerando, divorando le carni e, come un animale selvaggio, leccando il liquido infetto che ne usciva. E così, pascendosi della sua stessa carne, un po’ per volta si consumò e morì della morte più penosa
All’inizio dell’autunno del 554 Butilino, si decise di marciare in direzione della Campania con l’intenzione di confrontarsi in uno scontro risolutore con l’armata di Narsete prima che la dissenteria, che aveva già colpito alcuni suoi soldati, decimasse la sua armata. Il comandante franco-alemanno si accampò a Capua rimanendo in vana attesa dei rinforzi che Leutari gli aveva promesso, ancora ignaro della sua morte. I due eserciti si scontrarono nella battaglia del Volturno: Butilino disponeva di 30000 uomini, seppur colpiti in parte dalla dissenteria, mentre Narsete, con 18 000 soldati, era in inferiorità numerica. Inoltre, poco prima della battaglia, Narsete aveva fatto giustiziare un capitano degli Eruli reo di aver ucciso un servo, provocando la reazione indignata del resto degli Eruli che annunciarono il loro rifiuto di prendere parte alla battaglia.Nonostante questa defezione, Narsete non rinunciò allo scontro ma schierò le proprie truppe, riproponendo la tattica vincente della Battaglia di Tagina: fanteria al centro, con gli arcieri disposti dietro, e cavalleria alle ali.
Lo stesso Narsete assunse il comando dell’ala destra, mentre Artabane e Valeriano furono posti al comando dell’ala sinistra. Parte dell’ala sinistra fu inoltre nascosta in un bosco in modo da poterne uscire al momento opportuno per attaccare il nemico da entrambi i lati. In seguito alla promessa del generale erulo Sinduald che avrebbe convinto i suoi uomini a combattere, Narsete lasciò uno spazio vuoto nel mezzo della fanteria, dove intendeva schierare gli Eruli nel caso cambiassero idea. I Franchi, disposti in una formazione a “cuneo” o a “delta”, avanzarono e penetrarono al centro, ma Narsete comandò ai suoi arcieri a cavallo di disporsi ai lati del nemico e di attaccarlo.
I Franchi, già impegnati nel combattimento contro la fanteria bizantina, non furono in grado di opporre resistenza all’attacco da parte dei loro nemici maggiormente mobili. Quando Sinduald e i suoi Eruli decisero di unirsi alla battaglia, la sconfitta dei Franchi, già certa, si trasformò in annientamento completo: Butilino trovò la morte sul campo di battaglia insieme alla quasi totalità del suo esercito, mentre le perdite subite dagli imperiali furono irrisorie
Nonostante la vittoria, il Nord Italia era ancora fuori del controllo bizantino: da una parte, era ancora sotto il controllo franco, dall’altra, il goto Widin si era costituito un suo staterello, comprendente Verona e Brescia, da cui però fomentava la guerriglia e la ribellione contro Narsete. Però, una campagna nella Pianura Padana era troppo rischiosa per Narsete.
Alla morte dell’ehm fido alleato Teodebaldo, i suoi domini erano stati ereditati dallo zio Clotario I, cinico, violento e feroce guerriero: Clotario, a causa dell’improvvisa e inaspettata moria dei suoi parenti, stava riunendo nelle sue mani l’intero regno di Clodoveo, impresa che terminerà nel 558, con la morte del fratello Childeberto, non aveva intenzione di cedere neppure un’unghia di quanto era in suo possesso. Per cui, a Costantinopoli, per evitare un’altra guerra sanguinosa, fecero buon viso a cattivo gioco.
Le cose cambiarono nel 561: Clotario morì di polmonite, i suoi domini furono spartiti tra i quattro figli che, come tradizione dei Merovingi, cominciarono a litigare selvaggiamente tra loro. Narsete ne approfittò, sconfiggendo nella battaglia dell’Adige Widin, alleato con il governatore franco Amingo e concludendo così la conquista dell’Italia.
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