Settembre 1940. Benché da qualche mese l’Italia sia entrata in guerra, continuano a pieno regime i lavori di sbancamento per la costruzione della Via Imperiale, l’odierna Cristoforo Colombo, che dovrà unire il centro di Roma con il quartiere fieristico dell’E42, l’Esposizione Universale di Roma; è ancora presente, in Mussolini e nei suoi gerarchi, l’illusione che la vittoria, grazie all’alleato germanico, sia prossima e che nel 1942 si possa festeggiare in pompa magna il ventennale della Marcia su Roma.
Così, nei pressi della Garbatella, si comincia a demolire un vecchio casale medioevale, così descritto in documento del Settecento
“.. una casetta di due stanze, una terrena per comodo d’attrezzi ed una superiore per uso de lavoranti…una casa per uso del vignarolo composta di due piani, uno terreno viene formato di tre stanze, due delle quali con cisterna servono per uso di tinello…e l’altra per il torchio ed altr’uso di una grotta…il piano coperte a tetto…”.
Casale che era di proprietà del senatore Roberto De Vito, sottosegretario alle Poste, fondatore dell’Istituto Postelegrafonici, che aveva fatto dono all’ente previdenziale della attigua Villa 9 Maggio, convitto per le figlie dei dipendenti postali.
Tra una picconata e l’altra, però emergono i ruderi di epoca romana, che fanno impazzire gli archeologi. Inizialmente si ipotizza come siano i resti di un tempio a pianta circolare, poi si parla di un mausoleo; i lavori vengono interrotti a causa delle guerra e il mistero rimane. Solo nel 1946, quando gli archeologi riescono a penetrare dentro l’edificio, finalmente se ne chiarisce la natura.
Si tratta infatti di un’enorme cisterna: lo prova il rivestimento interno in cocciopesto, un impasto di calce e terracotta tritata fine, la malta idraulica che i romani usavano per impermeabilizzare le murature destinate a contenere acqua. Appurato questo, la cisterna di via Cristoforo Colombo, cade nel dimenticatoio, anche perché all’epoca, la sua posizione è alquanto periferica.
Le cose cambiano però nel 1961, quando cominciano i lavori di costruzione dell’edificio alle sue spalle, che, per decenni, sarà un ufficio prima della Sip, poi della Telecom, infine della TIM, per essere poi lasciato da qualche a seguito del piano di razionalizzazione degli spazi.
In tale occasione, si provvede sia al restauro, sia allo svuotamento del rudere: tali lavori terminano nel 1969 infine, nei primi anni ’90, sponsor la Sip, viene attuata un’opera generale di studio, di restauro conservativo e di sistemazione monumentale affidata all’archeologa Anna Maria Ramieri, attività che mio papà, che lavorava proprio lì accanto, dovrebbe ricordare molto bene.
La cisterna aveva all’esterno un diametro che misurava circa 20 metri e a giudicare dai bolli impressi nei mattoni (i romani usavano bollare il materiale laterizio col nome o la sigla del fabbricante o del proprietario dell’opera), fu eretta poco prima del 120 d.C., nel periodo compreso tra la morte di Traiano e l’inizio dell’impero di Adriano.
Il suo interno si presenta come una sorta di vestibolo trapezoidale, che fungeva da fossa di decantazione e che immette in un corridoio anulare coperto a volta e suddiviso in dieci vani comunicanti tramite archi. In origine c’erano solo due aperture verso un secondo corridoio concentrico, sempre coperto a volta ma senza divisioni interne, dal quale, attraverso un percorso si entrava nell’ambiente centrale che ha un diametro di quasi 3 metri ed è chiuso da una cupola.
Come accennato, tutta la cisterna era rivestita di cocciopesto ed infatti presenta ancora i cordoli atti ad eliminare gli spigoli vivi. A seguito del cambiamento d’uso della struttura è probabilmente scomparso l’acquedotto che doveva provvedere alla sua alimentazione idrica, mentre si è conservato un condotto di scarico che dal vestibolo portava all’esterno in prossimità della scala moderna di accesso.
Secondo ricostruzioni ed ipotesi, la cisterna doveva essere parzialmente interrato o del tutto ipogeo: la sua capienza è valutata in diverse centinaia di migliaia di litri d’acqua. Si è potuto stabilire che è rimasta in funzione almeno fino al IV secolo e che alla fine di questo secolo o all’inizio del V sulla sua copertura fu realizzato un ambiente destinato alla pigiatura di prodotti agricoli (uva? olive?), sicuramente anteriore all’edificazione del casale, all’interno del quale venne inglobato.
Alla cisterna è addossato un secondo edificio circolare, non comunicante con questa, che conserva internamente quattro pilastri. E’ costruito in opera laterizia e datato alla prima metà del III sec. d.C. Era una sorta di ambiente di servizio di un sistema idrico per lo sfruttamento agricolo.
Inizialmente, si era stato ipotizzato che fornisse acqua per vaste coltivazioni floreali, legata alle necropoli della zona: rose e viole in particolare, i fiori più usati per onorare i defunti. Recentemente, però, sono stati rinvenuti ra via P. Seteria e via P. Giuliani ( II – IV secolo d.C.) i resti di una villa rustica, per cui, il complesso doveva irrigare i suoi vigneti.
Nell’area era presente anche un sepolcreto , visto il frammento di un sarcofago riutilizzato nella copertura della cisterna ed altre epigrafi funerarie.
Ma come si svolgevano le lezioni, nelle università medievali ? Ce lo racconta, in uno splendido brano, Léo Moulin
I corsi iniziavano con una lezione pubblica (principium) che era inframmezzata da “dispute” (disputatio temptatoria) incentrate su diversi temi delle Sentenze [raccolte da Pietro Lombardo], seguite da una “disputa generale su un qualsiasi argomento” (“de quodlibet”) e proposta da “chiunque”, in cui l’estro aveva libero sfogo. Poiché si dava per acquisito il sapere, restavano la sottigliezza dell’analisi, la sua profondità, la sua intelligenza e anche la maniera, più o meno brillante, di difendere la tesi proposta alla riflessione. Nessuno poteva essere ammesso a un esame preparatorio alla licenza se non aveva frequentato dispute di maestri per un anno “o per la maggior parte dell’anno” e partecipato “attivamente” (“respondebit”) a due dispute, in presenze di qualche maestro (statuto di Parigi, 1366). Altre “dispute” avevano luogo nel pomeriggio (le “meridiane”) o anche alla sera (le “vespertine”). Il successo di queste disputationes era grande. Ci vengono descritti ascoltatori appassionati che assistono alle finestre. A Parigi sono pressoché giornaliere. Un cronista arriva a scrivere che Parigi è simile a “un alveare di api industriose, avide di sapere”, che sono attive “notte e giorno”. A Padova si proibisce agli studenti di far rumore durante le “dispute”, di intervenire contro i disputanti o i loro avversari, di accordarsi con l’uno o con l’altro di loro prima del dibattito.
L’obiettivo dell’Università dell’epoca, era diverso dal nostro: non il puro nozionismo, ma, in un’ottica di tipo socratico, la capacità di pensare e di narrare le proprie conclusioni, il problem solving e lo storytelling, per usare termini che vanno tanto di moda oggi.
Realisticamente, l’approccio medievale, specie nelle facoltà tecniche, non è applicabile in toto nel mondo moderno, basti pensare alle lezioni di matematica e fisica, per il contenuto, o allo sproposito di studenti che vi sono in alcuni corsi di laurea: però, è utile tenerne conto nei percorsi formativi, perché in un mondo che sta cambiando, sempre più liquido, frammentato e digitale, c’è sempre meno bisogno di omologazione e sempre più di “eresia”, intesa come capacità di rimettere in discussione, in modo costruttivo, lo status quo, e di usarlo come punto di partenza, per percorrere nuovi sentieri.
Chiusi questa parentesi, riprendo a parlare del percorso universitario medioevale: è ovvio che i goliardi, nonostante la loro pessima fama di perditempo, prima o poi, dovessero lasciare le aule universitarie e laurearsi. Dato che la Storia è alquanto monotona, già all’epoca era presente una suddivisione tra una laurea di primo livello, che si otteneva dopo circa cinque anni, che abilitava alla libera professione, concedendo il titolo di licentiatus, e una di secondo livello, che prevedeva ulteriori tre anni di studio, e che permetteva di ottenere la facultas docendi, la possibilità di insegnare nell’Universitas.
In entrambi gli esami di laurea, come oggi, lo studente era accompagnato da un relatore: anche a quell’epoca, trovarlo era un’impresa epica. Il Magister, per accettare di presentare l’aspirante laureato, lo sottoponeva a un colloquio serrato e approfondito, per valutarne le competenze e che spesso e volentieri si concludeva con un fallimento per il candidato, da qui il nome tentamen, tentativo.
Superato questo scoglio, l’esame di primo livello, il privatus, si svolgeva davanti al corpo completo dei magistri, che sceglievano a caso un brano di libro, che il candidato doveva commentare, rispondendo per ore alle obiezioni e alle domande dei presenti.
Dopo questa prova, spesso e volentieri, la carriera universitaria dello studente si fermava qui: l’esame di secondo livello, il publicus, prevedeva uno sproposito di spese, come regali a tutti i magistri, ricche mance ai bidelli, pubblici banchetti e sfilate. Solo il costo della cerimonia era equivalente a quello di cinque anni di frequenza universitaria.
In compenso, l’esame era assai meno faticoso: il candidato doveva pronunciare una serie di orazioni, sul contenuto dei suoi studi, a un pubblico numeroso, la cui attenzione era diretta più alla prossima bisboccia che ai contenuti delle perorazioni.
Al termine di tale presentazione, le autorità locali, sia civili, sia ecclesiastiche, consegnavano al candidato i simboli del suo nuovo status di magister, l’anello, la toga e il berretto. Il tutto si concludeva con l’abbraccio e il bacio accademico, del suo rector…
Mentre a Siracusa, al seguito delle discussioni, si cominciava a organizzare la difesa, la grande flotta ateniese si mosse da Corfù, traversando l’Adriatico e raggiungendo, in ordine sparso, le coste pugliesi, dando apparentemente ragione ad Ermocrate.
Le città della Magna Grecia, infatti, decisero per un atteggiamento neutrale, con le eccezione di Locri, che nonostante la diplomazia attica degli anni precedenti, temeva una replica in grande stile di quanto accaduto nella guerra di Leontini, e Taranto, che, ricordiamolo, era una colonia spartana, fondata, secondo Eusebio di Cesarea, nel 706 a.C.
L’ottavo secolo a.C. è un periodo di forte crescita demografica per Sparta, dovuta sia all’introduzione di nuove tecniche agricole, sia allo sfruttamento intensivo degli Iloti. Per mettere una pezza a tale boom demografico, che, moltiplicando i cadetti senza terra, rischiava di mettere in crisi i suoi equilibri interni, occupò la pianura della Messenia.
Però, lo stato di guerra continua non era sostenibile a lungo dalla Polis: per interromperlo, nacque il complesso meccanismo costituzionale della Lega Peloponnesiaca. Ovviamente, ci furono degli scontenti, che si organizzarono sotto la guida di Falanto, in un movimento di opposizione, detto dei Partheni. La situazione deve essere stata parecchio complicata per Sparta, perchè, invece di risolvere la questione a mazzate, si preferì raggiungere un compromesso, organizzando e spesando la migrazione dei Partheni in Puglia.
Secondo la leggenda, prima di partire, Falanto consultò l’Oracolo di Delfi alla ricerca di un responso circa il proprio futuro. L’oracolo di Apollo, tramite la Pizia, così sentenziò:
“Vi concedo di abitare Saturo e siate la rovina degli Iapigi.”
Falanto chiese anche un segno con cui capire quando sarebbe giunto il momento opportuno, e l’oracolo sentenziò:
“Quando vedrai piovere dal ciel sereno, conquisterai territorio e città.”
Raggiunte le terre degli Iapigi, i Parteni non riuscirono ad avere la meglio sugli indigeni, ma si limitarono a prendere possesso del promontorio di Saturo. Venne un giorno in cui le ambizioni e le delusioni di Falanto, lo videro sedere per terra con il capo poggiato sulle ginocchia della moglie, la quale stanca e scoraggiata, cominciò a piangere e a bagnarlo con le sue lacrime. Ma il nome della moglie Etra (in greco antico Αἴθρα) ha proprio il significato di “cielo sereno”, per cui Falanto, ricordandosi dell’oracolo, ritenne giunto il momento di fondare una città: guidando i suoi uomini verso l’entroterra fondò così Taranto, richiamandosi all’eroe greco-iapigio del luogo chiamato Taras.
Mentre gli indigeni riparavano a Brindisi, Falanto poté finalmente costituire in Italia una colonia lacedemone, retta dalle leggi di Licurgo. In seguito a contrasti con i concittadini (per seditionem), Falanto venne scacciato con ingratitudine da Taranto e si rifugiò a Brindisi, proprio presso gli Iapigi che aveva sconfitto. In quel luogo morì e ricevette un’onorata sepoltura dai suoi ex nemici.
Sul letto di morte, tuttavia, Falanto volle far del bene ai suoi ingrati concittadini: convinse i brindisini a spargere le sue ceneri nell’agorà di Taranto, perché così facendo si sarebbero assicurati la conquista della città. In realtà, l’oracolo aveva predetto a Falanto che Taranto sarebbe rimasta inviolata se le sue ceneri fossero rimaste entro le mura. Così Falanto, ingannando i brindisini, fece un favore ai tarantini che da allora gli resero l’omaggio dovuto ad un ecista
Tornando alla spedizione ateniese, le altre città italiote, decisero di mantenersi neutrali, anche per i problemi con le popolazioni sabelliche, che avrebbero approfittato di un loro indebolimento in caso di una guerra fratricida. Al momento opportuno, si sarebbero schierate con il vincitore. Anche Reghion avrebbe voluto adottare lo stesso approccio, ma purtroppo, sempre per la questione delle vicende della guerra di Leontini, in cui aveva cercato di sfruttare a suo vantaggio la potenza ateniese, per usare un termine della Seconda Guerra Mondiale, dovette, invece che scegliere la neutralità, adottare la non belligeranza. Così racconta la vicenda Tucidide
Di fianco al convoglio veleggiava un centinaio di battelli da carico requisiti: liberamente s’era invece aggregato un nutrito gruppo di legni mercantili e altri bastimenti, per ragioni di traffico. Salpata da Corcira, tutta questa folla di navi passava compatta il golfo Ionico. E la flotta al completo prese terra chi a capo Iapigio, chi a Taranto, chi altrove, come si trovava comodo. Poi iniziarono il giro dell’Italia, seguendo la costa. Ma le città non offrivano alle truppe né il mercato né ospitalità dentro la cinta: si limitavano all’acqua e all’attracco.
Anzi Taranto e Locri negarono anche questi servizi essenziali. Finché furono in vista di Reggio, estremo capo d’Italia. In questa base finalmente l’armata serrò le file e all’esterno della città (dentro non fu permesso) nel santuario di Artemide, i reparti allestirono un campo dove si consentì anche all’apertura di un mercato. Trassero in secco le navi, e respirarono. Poco dopo gli Ateniesi intavolarono con quelli di Reggio un colloquio esigendo che, in quanto d’origine calcidese, soccorressero Leontini, colonia anch’essa di Calcide.
Ma gli interlocutori protestarono la propria neutralità, anticipando che si sarebbero attenuti alla politica fissata in comune con le altre genti greche d’Italia. Quindi gli Ateniesi si applicarono a esaminare e delineare il progetto operativo più adatto alle condizioni attuali della Sicilia.
Frattanto si attendevano le navi inviate per le indagini a Segesta, con l’ansia di conoscere se corrispondevano a verità le gran lodi che, in Atene, l’ambasceria aveva tessuto dei propri tesori.
Ovviamente tutta questa flotta, non passò inosservata a Siracusa: nonostante il parere di Atenagora, gli ateniesi erano così folli da impegnarsi in un’impresa che non impattava i loro diretti interessi strategici. D’altra parte, visto il numero delle navi, l’attacco preventivo di Ermocrate, sembrava sempre più inattuabile, per cui, ci si orientò a rafforzare le difese della città, in una sorta di corsa contro il tempo
Da varie fonti ormai, e particolarmente dai loro emissari in esplorazione, affluivano a Siracusa notizie sempre più indubitabili sulla comparsa a Reggio della flotta, e in ordine a queste informazioni i Siracusani si dedicavano anima e corpo ad allestire un apparato di protezione: le diffidenze erano sfumate. Ogni giorno partivano per le località circonvicine della Sicilia ora un’ambasceria, ora una scolta armata: intanto rafforzavano con corpi freschi di presidio la fascia di installazioni difensive già esistenti a copertura del paese. Nella cinta urbana si susseguivano le revisioni delle armature e dei cavalli, per star sicuri che ogni particolare funzionasse in perfetto ordine, mentre si prendevano tutte le altre misure atte a fronteggiare un conflitto ormai imminente, per non dire già aperto.
Nel frattempo, da Segesta arrivavano pessime notizie. Come sosteneva Nicia, i segestani erano una manica di truffatori e non avevano le risorse per pagare i costi di spedizione. Tra l’altro, il fatto che in questo loro imbroglio fossero stati aiutati dalle città puniche dell’epicrazia e gli eventi successivi, con la guerra d’Agrigento, fa sospettare che Cartagine, tradizionale alleato di Segesta, fosse dietro a questa spregiudicata manovra, per indebolire Siracusa, mettendo Greco contro Greco
Intanto le tre navi di vedetta in arrivo da Segesta raggiungono gli Ateniesi a Reggio, con l’avviso che in fatto di tesori le promesse risultavano totalmente infondate: di solido restavano si e no trenta talenti. Quel colpo avvilì subito gli strateghi: l’impresa s’era avviata appena, ed ecco il primo intralcio. Reggio, poi, non era disposta ad associarsi nella spedizione: proprio quelli di Reggio, i primi con cui s’era aperto il dialogo, e sui quali si poteva contare ad occhi chiusi, affini com’erano di ceppo alla gente di Leontini e da sempre in cordiali rapporti con Atene. Nicia era pronto, e per lui l’esito dell’inchiesta non fu una novità; ma i due colleghi non sapevano trovarne un’interpretazione. I Segestani, quando si erano presentati i primi ambasciatori ateniesi incaricati dell’inchiesta finanziaria, avevano attuato questo espediente.
Avevano accompagnato i commissari nel santuario di Afrodite in Erice, per far mostra delle offerte votive, delle coppe, brocche, incensieri e tutto un assortimento di corredi sacri che per esser d’argento offrivano agli occhi un aspetto prezioso, non corrispondente al valore autentico, assai modesto. Per di più, in sede privata i Segestani invitavano a banchetto i membri d’equipaggio della nave visitatrice e incettato il vasellame e le suppellettili d’oro e d’argento reperibile in città, arricchendo gli ambienti con preziosi fatti venire a prestito dal vicinato, e perfino dai centri fenici e greci, li esponevano nelle mense come fossero di loro proprietà. In tutti i casi erano sempre gli stessi oggetti di lusso a compiere il servizio, a turno, e in tutte le case, una volta qui, l’altra là se ne poteva ammirare il dovizioso fulgore: e l’impressione sui marinai ateniesi fu profonda. Approdati ad Atene costoro presero subito a magnificare a destra e a sinistra le mille meraviglie di cui erano stati spettatori. Allora quell’illusione aveva sedotto anche gli altri, che li ascoltavano: ma quando prese corpo la notizia che a Segesta i fondi erano favole, un acre malumore sorse tra i soldati contro di loro. Gli strateghi, preoccupati dalle circostanze, tennero consulto.
Insomma, Mussolino con gli aerei e la Raggi con i bus presentati più volte, non si sono inventati nulla.
Come detto in un altro post, la pace che ne seguì tra Dionisio I di Siracusa e i Cartaginesi (405-404 a.C.) sancì, a favore di quest’ultimi, il dominio sulla Sicilia occidentale (insediamenti punici, elimi e sicani), nonché il diritto della popolazione di Selinunte, Akragas, Himera, Gela e Camarina di far ritorno nelle proprie città senza, tuttavia, potervi ricostruire le mura e sotto il pagamento di un tributo a Cartagine
Dioniso I, dopo avere salvato Siracusa dall’assedio cartaginese, tentò più volte di ribaltare il rapporto di forza con i punici, senza riuscirci. Dopo la sconfitta del Cronio, fu costretto a firmare un un trattato di pace che sanciva il dominio punico fino al fiume Alico (oggi Platani). Dionisio pagò un’indennità di 1000 talenti e dovette cedere Terme, presso Imera e il territorio di Akragas ad ovest del fiume Alico.
Anche l’ultimo suo tentativo, culminato nell’assedio e nella sconfitta di Lilibeo, fu fallimentare: così il figlio Dioniso II, da una parte resosi conto che i cartaginesi di fatto, volevano solo difendere l’epicrazia e i loro commerci, piuttosto che imporre i loro dominio, pure labile, ai greci, dall’altra preoccupato dall’opposizione interne della fazione popolare a Siracusa, che voleva defenestrarlo, mise da parte tutte le velleità di rivincita e accettò lo status quo con i punici.
Le cose cambiarono con Timoleonte, personaggio da romanzo, di cui parlerò diffusamente in un altro posto: corinzio, aveva sventato un colpo di stato nella sua polis del fratello Timofane, uccidendolo a tradimento.
I suoi concittadini, però, poco si fidavano delle sue buone intenzioni, dato che Timoleonte era a capo del movimento pro riforma agraria, diventando una sorta di convitato di pietra della politica locale. Così, alla prima occasione utile, i corinzi se ne le liberarono, spedendolo in Sicilia, dove era successo di tutto e di più.
Dioniso II, che era una sorta di dittatore del libero stato di Bananas, era stato cacciato a pedate da Siracusa dallo zio Diocle e si rifugiato a Locri, dove aveva preso il potere, per essere a sua volta defenestrato: più testardo di un mulo, invece di starsene tranquillo, aveva riconquistato con le armi la patria d’origine, provocando però la dissoluzione del dominio paterno. In ogni polis siciliana, ognuno che potesse permettersi di pagare una torma di mercenari, si autoproclamava tiranno.
Per cui, i siracusani, stanchi di questo caos, chiesero aiuto a Corinto, che mandò un corpo di spedizione, guidato proprio da Timoleonte, che divenne una sorta di castigamatti, cacciando tiranni e tirannelli e imponendo una sorta di democrazia moderata alle varie polis siciliane.
Ovviamente, i vari capetti locali, non erano molto d’accordo: per cui, non solo si organizzarono in una lega, ma chiesero aiuto a Cartagine, la quale, preferendo avere a che fare con tanti staterelli in lite tra loro, che non avrebbero messo in discussione il suo dominio, piuttosto che con un forte stato locale con ambizioni egemoni, intervenne al loro fianco, mettendo sotto assedio Siracusa.
Cosa successe poi, è assai poco chiaro, data l’ambiguità delle fonti: probabilmente, Cartagine in cambio dell’assicurazione di Timoleonte a non danneggiare i suoi interessi, accettò la riorganizzazione della Sicilia greca e la nuova cacciata di Dioniso II e degli altri tiranni. Consolidato il suo potere, Timoleonte cercò di rilanciare economicamente la Sicilia greca, prostrata da decenni di guerre.
Per prima cosa, rilanciò l’immigrazione della madrepatria, favorita anche dal caos scatenato dalla politica espansionistica di Filippo II di Macedonia: i nuovi arrivati, però, dovevano essere aiutati nell’avviare le loro attività imprenditoriali. Per cui Timoleonte provvide a una capillare opera di redistribuzione della chora, con la vendita a condizioni agevolate di immobili demaniali e con sussidi ai meno abbienti, che favorirono anche i contadini poveri sicilioti. Al contempo, il corinzio si dedicò a una politica, che oggi definiremmo keynesiana, di investimenti nella costruzione di opere pubbliche, finanziata con la coniazione di una nuova moneta d’argento, il pegaso.
Tra le varie conseguenze, vi fu un incremento della popolazione di Akragas, cosa che però portò un peggioramento dei rapporti con Cartaginese, che la interpretò come una violazione della sua sfera di influenza: i rapporti furono ulteriormente peggiorati dalla simmachia, l’alleanza che Timoleonte, con le buone o con le cattive, aveva imposto alle altre polis siciliane, caratterizzata dalla garanzia della libertà dei contraenti, ma anche dalla condivisione della politica estera siracusana.
L’obiettivo di tale alleanza era interno, ossia isolare i tiranni greci che si opponevano alla normalizzazione corinzia: Cartagine, però, la interpretò come potenziale minaccia all’epicrazia. Timoleonte, consapevole come la guerra fosse inevitabile e visti i risultati disastrosi dei precedenti scontri con i punici, si decise per un attacco preventivo.
Nell’estate del 342 a.C., Timoleonte, dopo avere eliminato un paio di tiranni locali, attaccò la sfera d’influenza punica, occupando Entella: questo provocò una crisi istituzionale a Cartagine, dove l’ambizioso Annone tentò il colpo di stato. Dinanzi a questi eventi, i punici decisero di chiudere definitivamente la questione corinzia, arruolando un esercito di oltre 70.000 uomini, reclutati in Libia, Penisola iberica, Gallia e Liguria, tra cui circa 10.000 cavalieri e 2500 componenti il «Battaglione Sacro», composto solo da nobili. Posta al comando di Amilcare e Asdrubale e appoggiata da 200 navi da guerra, l’armata cartaginese fu trasportata in Sicilia da una flotta, che sbarcò le truppe nei pressi di Lilibeo, verso la fine di maggio del 341.
Nel giugno del 341 a.C., Timoleonte, comandante dell’esercito siracusano, si trovava a otto giorni di cammino da Siracusa e devastava le campagne delle città filo-puniche. Al suo contingente si era unito quello dei suoi ufficiali Demareto e Dinarco, contingente costituito da soldati delle città strappate dai due ufficiali al dominio punico, al comando di circa 12.000 uomini, di cui 1.500 cavalieri.
‘esercito cartaginese, appena sbarcato ebbe notizie dell’incursione di Timoleonte e decise di attaccarlo immediatamente, e mentre stava lasciando le zone dell’incursione si mise in marcia verso i Siracusani e li raggiunse, il 9 giugno in prossimità del fiume Crìmiso (o Crimìsso). Nel frattempo Timoleonte aveva raccolto un esercito di circa 13.000 uomini, composto da 3.000 Siracusani, qualche migliaio di mercenari ed alcuni gruppi di volontari, tra cui Siculi e Sicani raccolti in fretta, tra cui circa 1500 cavalieri, e con coraggio si mise in marcia, in territorio nemico, contro i Cartaginesi. Durante la marcia alcune truppe mercenarie si ribellarono, e Timoleonte fu costretto a congedare un migliaio di mercenari
uando l’esercito siracusano, protetto dalla foschia, arrivò al Crimiso, nei pressi di Segesta, sorprese i Cartaginesi all’attraversamento del fiume, in un terreno paludoso che non permetteva di muoversi liberamente: particolarmente svantaggiato dalla morfologia del terreno fu il Battaglione Sacro, reso lento dalle ingombranti armature e dal pesante armamento.
Timoleonte affidò a Demareto la cavalleria ordinandogli di aggirare le quadrighe nemiche e di attaccare sui fianchi l’esercito che si stava ancora schierando.
Guidò quindi personalmente i suoi opliti all’attacco al centro dello schieramento cartaginese disponendo i sicelioti ai lati: iniziato lo scontro corpo a corpo, un improvviso e violento temporale fece aumentare il livello dell’acqua e trasformò l’area in una vera palude. Per le truppe scelte puniche, impantanate e poste più in basso rispetto ai nemici, fu un disastro: la prima fila di quattrocento uomini fu sgominata dall’impeto dei Siracusani avvantaggiati anche dalla direzione della pioggia mista a grandine. Gli altri combattenti, in gran parte mercenari, sgomenti nel vedere le truppe d’élite in grande difficoltà, cedettero a loro volta e finirono per ostacolarsi a vicenda nel tentativo di fuga.
Ufficialmente, questa fu spacciata come grande vittoria greca: in realtà, la questione fu assai meno definitiva. I punici combatterono per un altro paio d’anni e Timoleonte fu costretto a una pace di compromesso, che portò al riconoscimento da parte greca che la provincia cartaginese arrivasse al fiume Alico, confermando tutti i vecchi trattati con Dioniso, mentre i Cartaginesi riconobbero l’indipendenza di tutte le città greche ad oriente di quel fiume. I Cartaginesi inoltre si impegnarono ad astenersi da qualsiasi alleanza con eventuali tiranni della zona greca ed infine ogni cittadino greco della provincia cartaginese, se lo avesse desiderato, era libero di trasferirsi a Siracusa.
Trattato che portò un poco di pace ad Agrigento, tanto che tornò ad essere attiva e vitale, permettendosi di ricostruire le mura abbattute, pur accettando di essere neutrale nelle dispute tra greci e punici.
Come citato altro volte, l’attuale palazzo dei Normanni sorge sul Castrum punico della Paleapolis, anche se non proprio corretto, possiamo paragonare all’acropoli delle città greche, che doveva essere il cuore amministrativo e commerciale della città.
Cartagine, tra l’altro, aveva un dominio molto lasco sulle sue colonie siciliane: i suffeti, gli equivalenti dei consoli romani, non erano nominati dalla città africana, ma eletti dal senato cittadino, il locale consiglio degli anziani, dei commercianti più ricchi e dei grandi proprietari terrieri.
In cambio della protezione militare essa garantiva a Cartagine soltanto un dazio del 5% sul valore delle merci che transitavano dal suo porto. Un porto dal quale passavano enormi quantità di prodotti africani (olio e vino, soprattutto), destinati al mercato interno ed all’esportazione, e dal quale partiva il grano, prodotto in abbondanza nell’entroterra, grazie anche al massiccio impiego di schiavia
L’arsenale, forse situato all’altezza del nostro palazzo Butera, era talmente attivo (le foreste dei dintorni erano allora ricchissime) che nel 406, durante la guerra contro Agrigento, insieme a Mozia poté apprestare una flotta di 40 triremi
I suffeti e il senato si riunivano forse in una sorta di Bouleuteria, per usare un termine greco, un’aula rettangolare, in cui probabilmente i sedili di legno si disponevano lungo le pareti, e da un secondo ambiente che fungeva da archivio. Alcuni studiosi hanno ipotizzato come fosse la famigerata aula viridis, ma questa sembrerebbe essere stata di dimensione molto più ampia di un Bouleuteria, dato che nel Medioevo era utilizzata per le assemblee cittadine palermitane, che dalle cronache, sappiamo essere state assai frequentate.
A causa degli sbancamenti, delle demolizioni e delle ricostruzioni effettuate da Arabi, Normanni e Spagnoli, dei resti cartaginesi è rimasto ben poco: al piano inferiore delle Sale Duca di Montalto, in seguito ad una campagna archeologica effettuata nel 1984, sono tornati alla luce elementi architettonici appartenenti all’antica cinta muraria punica della città di Palermo, risalenti circa al V secolo a. C.; tra tali testimonianze spiccano una postierla che ha mantenuto inalterato il suo aspetto originario, i resti di una delle antiche porte della città e parte dei conci realizzati con cura e perfettamente squadrati.
Purtroppo, si sa poco della Panormos in età romana, alcuni accenni delle fonti coeve, tutti comunque di carattere per lo più economico e poco inerenti la topografia della città e qualche ritrovamento saltuario: però non è da escludere che vi sia stata una continuità di utilizzo del Palazzo dei Normanni, in cui poteva esservi la sede dei decurioni locali, i membri del consiglio dei municipi e delle colonie romane (ordo decurionum o anche senatus). In molte città il loro numero era nominalmente 100; la designazione avveniva generalmente da parte dei quinquennales, e la carica era a vita e conferiva onori e privilegi. La funzione del consiglio, in origine solo consultiva, divenne presto deliberativa. Dal 2° sec. d.C. l’istituzione incominciò a decadere, tanto che lo Stato ne impose l’obbligatorietà e l’ereditarietà delle cariche.
Dati i ritrovamenti delle domus ellenistiche e romane di Villa Bonanno, è possibile che l’area della Paleopoli, adiacente probabilmente al Foro e al Capitolium, dovette essere occupata da un quartiere di gran lusso, abitato dai ricchi commercianti, tra cui forse il curator portensis kalendarii, il funzionario curatore del porto cittadino, responsabile registro del traffico navale, dei dazi dovuti alla città di Palermo, dei prestiti marittimi concessi con fondi cittadini ad alto tasso ai naviganti, talmente prospero, da pagare di tasca sua le venationes nell’Anfiteatro locale, ancora non identificato dagli archeologi.
L’area fu parzialmente abbandonata a causa del terremoto cretese del 21 luglio 365 d.C., che Ammiano Marcellino, testimone oculare degli avvenimenti, chiamò il giorno dell’orrore. Fu il terremoto più forte registrato nel mar Mediterraneo con una magnitudo ricostruita compresa tra 8.3 e 8.5 e che provocò anche uno tsunami onde di 9 m di altezza sulla costa meridionale di Creta, che arrivarono fino a Cipro e in Palestina verso est, sulle coste della Calabria e della Sicilia verso ovest e che provocarono grandi danni verso sud in Tunisia, in Tripolitania a Leptis Magna e a Sabratha , in Cirenaica, ad Apollonia (con onde di 15 m di altezza), a Cirene e ad Alessandria d’Egitto (onde di 12 m che penetrarono nell’interno per almeno 2 km).
A titolo di curiosità, ecco la descrizione dello storico, che fa ancora venire i brividi
Il 21 Luglio improvvisamente orrendi fenomeni si verificarono in tutto il mondo, quali non sono descritte né nelle leggende né nelle opere degli storici degni di fede. Poco dopo il sorgere del giorno un terremoto scosse tutta la stabilità della terra, il mare si disperse lontano e si ritirò volgendo indietro le onde in modo che, scoperte le profondità del mare, apparvero alla vista vari tipi di animali conficcati nel fango ed estese valli e montagne che erano state relegate sotto immensi flutti dalla natura primigenia e che vedevano per la prima volta i raggi del sole. Molte navi si conficcarono sull’arida terra e moltissime persone si aggiravano liberamente tra quel che rimaneva delle onde del mare per catturare pesci ed altri animali simili. Ma in quel momento i flutti mugghianti del mare si sollevarono e scagliandosi violentemente su isole e tratti di terraferma spianarono numerosi edifici nelle città e ovunque si trovassero. La massa delle acque causò la morte di migliaia di uomini che rimasero sommersi. Alcune navi furono trovate circondate dal cadavere dei naufraghi. Altre navi, scagliate fuori dal mare, finirono sulla sommità dei tetti, come ad Alessandria. Altre furono scagliate fino a 2 miglia dentro la terra. Io stesso di passaggio in Messenia vidi una nave spartana in disfacimento per la lunga putrefazione
Benché la zona fosse utilizzata in parte come necropoli, le mura e il castrum dovette essere in qualche modo tenuto operativo e restaurato, tanto che Belisario preferì attaccare la città lato mare, dalla parte della Cala, almeno come racconta Procopio di Cesarea
Accorgendosi di non poter espugnare la città per via di terra, Belisario ordinò alla flotta di entrare nel porto giusto al di sotto delle possenti mura. Quando fu proprio sotto le mura gli uomini sugli spalti iniziarono ad urlargli contro. Accadde però che, invece di scappare, quelli iniziarono ad attaccare le navi. A quel punto Belisario fece riempire tutte le scialuppe di arcieri ed ordinò che fossero sollevate sopra gli alberi maestri, sicché gli arcieri tempestarono di frecce i difensori. A quel punto, avendo subito molte perdite ed essendo profondamente impauriti, cedettero la città a Belisario.
Il generale bizantino, oltre a restaurare la vecchia cattedrale, che sarà ricostruita dal vescovo Vittore nel 592, per poi diventare la grande moschea e tornare a essere poi la nostra Santa Maria Assunta, e fare erigere come ex voto Santa Maria la Pinta, mise mano al vecchio castrum, che ospiterà un presidio militare, e ai relativi edifici amministrativi, dato che la città, secondo Gregorio Magno, la cui mamma era palermitana e che ebbe parecchi mal di testa, a causa delle strampalate iniziative dei vescovi locali, era governata da due defensores, sempre eletti dai maggiorenti locali.
Le cose cambiarono con la conquista araba, i cui racconti, debbono però essere presi con le molle. Basti pensare che la prima narrazione è la storia scritta da Ibn al-Aṯir, che fu al servizio dei governatori di Aleppo e Mossul, be quattro secoli dopo. Si tratta sostanzialmente di un’opera di ta’rīḫ, cioè di un’opera annalistica scritta per la celebrazione del potere, dipendente da fonti a noi spesso non giunte e per di più non sempre citate dall’autore; la sua prima versione fu completata alla fine del XII secolo e rivista e aggiornata tra il 1223 e il 1231, in cui probabilmente le vicende siciliane servivano come metafora delle irrisolte questioni dell’epoca in Siria e Palestina.
Il nostro tardo cronista, con parecchia fantasia, così racconta
I musulmani si diressero allora contro la città di Palermo e la assediarono e la strinsero. Il principe (ṣāḥib) chiese allora la salvezza (’amān) per se stesso, per la sua gente e per i suoi beni, e avendola ottenuta, se ne andò per mare al paese dei rūm. I musulmani entrarono nella città nel mese di rağab dell’anno 216 [agosto-settembre 831] e non vi trovarono altro che tremila uomini, mentre ve ne erano stati durante l’assedio settantamila ed erano morti tutti. Ebbero luogo tra i musulmani di Ifrīqiya e quelli di al-Andalus dissensi e contestazioni, ma poi giunsero a un accordo e rimasero così sino all’anno duecentodiciannove [dal 16 gennaio 834 al gennaio 835]
I numeri citati sono di certo, per i dati archeologici, esagerati: probabilmente, i due defensores, appena si trovarono fuori dalle mura l’esercito musulmano, invece che combattere, decisero di evacuare la città, approfittando di un salvacondotto, facendo trasferire parte di cittadini nei territori ancora sotto il dominio dei rum, i rhomanoi, i romani, così si facevano chiamare i bizantini, lasciando gli arabi spagnoli e i berberi tunisini a scannarsi tra loro.
Palermo, Balarm o Madīna, la città per eccellenza, divenne subito il centro amministrativo della Ṣiqiliyya, tanto che nell’845, la sua zecca era già attiva: i governatori aglabiti, inizialmente, posero la loro dimora nel castrum, ma gliene incolse.
Balarm, città multietnica e multireligiosa, era ahimé, politicamente un manicomio: ai contrasti etnici tradizionali tra arabi e berberi, si aggiungero anche quelli con i burocrati bizantini che si erano convertiti, per non perdere la poltrona e che si sentivano, a torto o a ragione, discriminati. A questi si aggiungevano contrasti economici, i siciliani non volevano pagare le tasse a Tunisi e, ai tempi dei fatimidi, religiosi. Gli sciiti, pur avendo ottimi rapporti con cristiani ed ebrei, cacciarono a pedate i sunniti dall’isola, i quali si rifugiarono in massa nella Calabria bizantina, costringendo a tripli salti mortali i governatori di Rhegion, i quali in maniera pragmatica dovettero gestire problemi inaspettati relativi alla tolleranza religiosa e ai matrimoni misti.
Ora il fatto che nei trattati di pace tra Balarm e Rhegion si citasse la questione moschea nella città calabrese, non era per tentare di convertire i cristiani locali o per umiliarli, ma per imporre la dottrina sciita agli espatriati sunniti, che da questo orecchio non ci volevano proprio sentire, tanto che nelle guerre tra i due lati dello stretto di Messina, si schierano sempre dalla parte dei bizantini. Paradossalmente, l’esercito di invasione normanno era costituito, per una buona parte, di sunniti che volevano tornarsene a casa in Sicilia.
Per cui, a Balarm, ribellioni erano quotidiane: ora il castrum bizantino era ben difeso contro i nemici esterni, ma poco rispetto a quelli interni. Nel 909-910 i palermitani si ribellarono in massa contro l’emiro al-Hasan perché i suoi funzionari gravavano i cittadini di eccessive imposte. I cittadini si erano affollati intorno al palazzo incendiandone le porte, tanto che l’emiro, per salvarsi, si era gettato dal proprio edificio su quello di un vicino rompendosi una gamba. La facilità d’ingresso della popolazione e la caduta dell’emiro su una costruzione vicina lascia supporre la presenza di un palazzo emirale con circostanti edifici civili nella città vecchia, anche se non chiarisce dove esattamente ubicare questi edifici rispetto al successivo palazzo dei re normanni . Nell’autunno del 937 i Palermitani sollevatisi contro l’emiro Sàlim Ibn Rasid erano stati assediati nel Cassaro vecchio. Il luogotenente Halìl ‘ibn ‘Ishàq ‘ibn al-Ward, entrato in città con un grosso esercito, aveva ripristinato l’ordine e per risolvere il problema alla radice, fece costuire un nuovo palazzo alla Kalsa, meglio difeso.
Supposto che Palazzo dei Normanni fosse il centro del potere degli Aghlabiti (830-910) e dei primi Fatimiti, del periodo non è rimasto molto, se non i ritrovamenti di ceramiche con colori sovrapposti chiamate jaspé o splashed ware del X secolo, considerate le invetriate dipinte più antiche del mondo islamico.
Non ci sono neppure tracce del periodo successivo alla caduta dell’emirato kalbita, quando Balarm fu oggetto di un esperimento istituzionale unico, nel mondo arabo. Lo sciismo locale era ovviamente convinto che nell’attesa dell’epifania dell’ultimo Imam, nessun potere politico fosse pienamente legittimo.
Però, nel frattempo, qualcuno doveva pure governare, in questo basso mondo… Però, questo ingrato compito, piuttosto che a qualche più lontano discendente del profeta Muhammad, che la pace sia con lui, doveva toccare all’Umma dei fedeli, che avrebbero eletto i loro rappresentanti nel consiglio cittadino. Per cui, inizialmente, questi erano eletti dai maschi musulmani adulti: ora, però, le donne musulmane evidenziarono come anche loro fossero parte dell’Umma e che quindi avessero diritto di voto. Dopo qualche discussione, tale tesi fu accettata dagli imam locali.
Questo provocò un ulteriore problema: a Balarm i matrimoni misti erano comuni, tanto che i maschi ereditavano la religione del padre e le figlie quella madre. Ora le moglie cristiane ed ebree cominciarono a protestare vivacemente, sentendosi discriminate rispetto a quelle musulmani, evidentemente rompendo l’anima in quantità industriale ai loro mariti, che concessero anche a loro il diritto di voto. Ulteriore effetto valanga: i maschi cristiani ed ebrei si inalberarono, dicendo perché le donne possono votare e noi no ? Così, nacque in sistema elettorale complicatissimo, in cui c’era sì il suffragio universale, ma c’era un peso differente a seconda della categoria del votante.
Il voto del maschio musulmano valeva 1. Il voto di un maschio cristiano o ebreo e di una donna musulmana valeva 1/2. Il voto di una donna cristiana valeva un 1/4. Il voto di uno schiavo, un 1/8. Fortuna l’elettorato passivo era molto più semplice: per essere elegibile, dovevi essere uomo, musulmano e ricco.
Questo accrocco, oltre a concentrare il potere nelle mani di un consiglio (giamà‘a) di sceicchi (shuyùkh) costituito da imam, da giuristi e dai ricchi armatori che si dedicavano al commercio tra l’Italia e il Mediterraneo orientale, isolò Balarm dal resto del mondo islamico, che preferì vedere la città governata da infedeli, ma protettori dei sunniti, piuttosto da eretici e piuttosto strampalati sciiti.
Ora, nonostante la mancanza di resti, possiamo formulare delle ipotesi su come dovesse apparire il Palazzo dei Normanni all’epoca islamica, basandosi sia su edifici successivi, come la Zisa, la Cuba, la Torre Pisana, il palazzo degli emiri berberi ziriti ad Ashir e le contemporanee rovine della Qal’a dei Banu Hammàd in Algeria.
Edifici bassi, estesi in larghezza, con le pareti decorate con arcate cieche, i cui ambienti sono disposti secondo un asse di simmetria, che può essere longitudinale o latitudinale ne definisce sempre il rapporto gerarchico e cerimoniale, decorati con iu muqarnas, i quali non creano nessuna spaziale dilatazione illusionistica con la loro geometrica composizione tridimensionale a carattere essenzialmente isolante, ma provocano ricercati effetti di ambiguità materica e strutturale, uniti da portici e circondati da un ampio parco.
Proseguendo la nostra visita sull’Acropoli di Cuma si sale uno scalone che conduce verso la sommità dell’acropoli e si arriva alle fortificazioni e alla cosiddetta Torre Bizantina, uno dei bastioni della porta monumentale dell’acropoli, così denominata perché l’aspetto che ha attualmente è frutto di una ristrutturazione del periodo bizantino, quando l’acropoli diventa castrum, in funzione della guerra Greco-Gotica (535-553 d.C.), che nelle sue ultime fasi si ambienta proprio a Cuma, quando i Goti si difesero con le unghie e con i denti.
Le fortificazioni che avvolgono l’intera acropoli sono realizzate già nel VI secolo a.C.: di questa fase cronologica restano ancora visibili alcune porzioni in grandi blocchi di tufo che sorreggono le basi della Torre. La porta subisce in seguito importanti interventi di ristrutturazione in età romana ma soprattutto, come già accennato, in età bizantina.
Salendo al livello superiore si gode di una visuale amplissima da una parte sul golfo e dall’altra sulla piana della città: la veduta a est si estende fino al confine della città greca, costituito dal Monte Grillo, tagliato nel varco dell’Arco Felice Vecchio, Porta orientale della città.
Oltrepassata la Torre, la terrazza panoramica del Belvedere, edificata sulle strutture di un’antica masseria che ingloba a sua volta importanti resti romani, offre un momento di piacevole sosta al visitatore e un osservatorio privilegiato delle isole di Ischia e Procida e del paesaggio a sud di Cuma, fino al lago Fusaro, a Torregaveta e, più oltre, fino a Miseno.
Questa ampia terrazza, situata sul fronte est della strada basolata che risale la collina fino alla sommità, ospita una serie di edifici sacri che nel complesso formavano un grande santuario dotato di un tempio principale, di un edificio circolare (tholos), di un naiskos e di una serie di strutture correlate, tra le quali la cosiddetta “cisterna greca” e alcune piccole vasche, forse funzionali all’utilizzo dell’acqua nel santuario.
Benché alcuni autori affermino il contrario, riferendo la leggenda secondo la quale Apollo abbia indicato, sotto forma di bianca colomba, la rotta ai coloni calcidesi e che quindi la dedica del complesso a tale dio risalga alle fondazione della colonia, l’archeologia sostiene una tesi differente.
Iscrizioni e materiale votivo indicano, infatti, come il tempo in origine fosse dedicato ad Hera. Questo edifici , aveva un orientamento nord-sud, era periptero in ordine ionico, con sei colonne sul fronte minore e poggiante su uno stereobate in tufo lungo trentaquattro metri e largo diciotto; durante la dominazione sannita, l’area sacra fu abbandonata, per essere ricostruito, per biechi motivi di propaganda, durante l’età augustea, quando per volere di Ottaviano tutti i luoghi ricordati nell’Eneide vennero restaurati.
Infatti, il buon Virgilio, parlando della visita a Cuma di Enea, si inventò una leggenda, legata alla presenza di Dedalo nella città, che avrebbe realizzato le porte bronzee del tempio, che il poeta, che il poeta, per arruffianarsi il princeps, attribuì ad Apollo.
Questo perchè Ottaviano, nella sua propaganda ufficiale, evidenziava la devozione a tale dio, tanto da proclamarsene figlio. Secondo il nostro solito Svetonio, Azia, madre di Ottaviano, figlia di Marco Azio Balbo e della sorella di Gaio Giulio Cesare, Giulia minore, dopo essersi recata a una cerimonia in onore di Apollo, si appisolò nella cella del tempio, mentre le altre donne facevano ritorno a casa. Un serpente, allora, strisciò intorno alle sue membra, per poi andarsene.
Quando Azia si risvegliò, si accorse che sul suo corpo era rimasta una macchia a forma di serpente. Nove mesi dopo quell’insolito evento, nacque Ottaviano, che da allora fu considerato figlio di Apollo. La sera prima delle doglie, si dice che Azia sognò che le sue viscere si estendevano fino alle stelle, coprendo tutto lo spazio tra terra e cielo, mentre Gaio Ottavio, padre di Ottaviano, la stessa sera sognò che dal ventre di Azia nasceva un raggio di sole, simbolo di Apollo.
Questa fake news ebbe talmente tanto successo, da entrare nel design, chiamiamolo così, degli oggetti d’arredamento di lusso delle domus romane, come il cosiddetto vaso Portland, più famoso esempio di vetro a cammeo dell’antichità, che tra l’altro, ebbe una vita alquanto avventurosa: da strumento di propaganda dell’età dell’oro augustea, regalato da un membro della gens Iulio-Claudia a un ricco senatore, si trasformò in un dono di nozze, per poi diventare parte del corredo funebre dell’imperatore Alessandro Severo.
In realtà, la storia del legame tra Augusto e Apollo è molto più terra terra: Antonio, come ho raccontato nel mio romanzo Io,Druso, per la prestanza fisica si identificava con Ercole e per il suo desiderio di conquistare l’Oriente, con Dioniso. Secondo il mito, questo dio, dopo avere sconfitto i Titani in Egitto si diresse in oriente, verso l’India, sconfiggendo numerosi avversari lungo il suo cammino (tra cui il re di Damasco, che scorticò vivo) e fondando numerose città: dopo aver sconfitto il re indiano Deriade, Dioniso ottenne l’immortalità.
Durante la guerra civile, Ottaviano, sempre in termini di propaganda, contrappose a questa identificazione di Antonio la sua con Apollo, sia perché il dio rappresentava l’ordine e la ratio in opposizione alla superstitio dionisiaca, sia perché, aveva sconfitto Ercole in una disputa sul possesso dell’oracolo di Delfi. Per cui, quando la sua ascesa al potere fu completata, come ex voto cominciò a riempiere Roma e province di templi dedicati al suo protettore, tra cui quello sul Palatino, che fungeva anche da accesso monumentale alla sua domus.
L’invenzione di Virgilio, oltre ad assecondare questa mania di Ottaviano, rafforzava l’immagine di Cuma e della sua Sibilla come corrispettivo italico dell’oracolo di Delfi. Proprio per ribadire l’antichità di questo culto oracolare, il poeta inventò anche una seconda storiella, quella di Dedalo, di cui cito i versi nella traduzione di Annibal Caro.
Quando avanti di marmo ornato e d’oro il bel tempio si vide. È fama antica Che Dedalo, di Creta allor fuggendo Ch’ebbe ardimento di levarsi a volo Con più felici e con più destre penne Che ’l suo figlio non mosse, il freddo polo Vide più presso; e per sentier non dato A l’uman seme, a questo monte alfine Del Calcidico seno il corso volse. Qui giunto e fermo, a te, Febo, de l’ali L’ordigno appese, e ’l tuo gran tempio eresse, Ne le cui porte era da l’un de’ lati D’Andrògëo la morte, e quella pena Che di Cècrope i figli a dar costrinse Sette lor corpi a l’empio mostro ogn’anno: Miserabil tributo! e v’era l’urna, Onde a sorte eran tratti. Eravi Creta Da l’altro lato, alto dal mar levata, Ch’avea del tauro istorïata intorno E di Pasífe il bestïale amore, E la bestia di lor nata biforme, Di sì nefando ardor memoria infame. Eravi l’intricato laberinto: Eravi il filo, onde gl’intrighi suoi E le sue cieche vie Dedalo stesso, Per pietà ch’ebbe a la regina, aperse.
E tu, se ’l pianto del tuo padre e ’l duolo Nol contendea, saresti, Icaro, a parte Di sì nobil lavoro. Ma due volte Tentò ritrarti in oro, ed altrettante Sì l’abborrì, che l’opera e lo stile Di man gli cadde
Secondo il mito originale, Dedalo era ateniese di nascita. I genitori che la tradizione gli attribuisce segnalano tutti il suo intimo legame con la sfera delle téchnai: come padre si ricordano Metion, che richiama nel nome la metis, l’intelligenza pratica e astuta, ovvero Eupalamos (= ‘quello dalle mani buone’), che richiama l’arte manuale; come madre si ricorda Iphinoe (= ‘quella dai forti pensieri’) , Metiadousa (= ‘quella che ama la metis’) o Phrasimede (= ‘quella che concepisce piani’). Sarebbe stato cugino di Teseo. La tradizione ateniese ne cita il nipote e allievo Talos, figlio di una sorella nota in qualche tradizione anche lei come Perdix.
L’attività ateniese di Dedalo è soprattutto legata alla scultura: Socrate, figlio di uno scultore, provocatoriamente si riteneva discendente di Dedalo, ma di fatto apparteneva al demo attico dei Daidalidai, propriamente ‘i discendenti di Dedalo’, di cui appunto Dedalo era l’eponimo. Dedalo, peraltro, era noto per la costruzione di statue semoventi, veri e propri automi (autómatoi), come quelli che costruiva il dio Efesto.
Un’altra caratteristica eccezionale che si manifesta ad Atene è l’invenzione degli strumenti che lo aiutano nella sua opera di scultore e carpentiere e di cui Plinio il Vecchio dà un elenco:
Dedalo fu inventore degli strumenti che consentono di lavorare la materia, tra cui la sega, l’ascia, il filo di piombo, il trapano, la colla, la colla di pesce
Dedalo ben presto si trova a dover competere con il nipote che a sua volta inventa il compasso e la ruota da vasaio. Non può farsi a meno di notare la complementarità delle rispettive invenzioni: quella dello zio-maestro Dedalo insiste sulla nozione della linearità, quelle del nipote-allievo sulla nozione della circolarità. Lo scontro è inevitabile quando il nipote, ispirandosi alla mascella di un serpente, inventa la sega per tagliare il legno tenero. L’invidia dello zio lo spinge a una reazione spropositata: una mattina Dedalo si reca con Talos sull’Acropoli, sul tetto del Tempio di Atena e lo spinge giù dal cornicione.
Dopo aver spinto il ragazzo nel vuoto, Dedalo si precipita ai piedi dell’Acropoli e chiude il cadavere in un grosso sacco, proponendosi di seppellirlo in un luogo deserto. Gli ateniesi, nel vederlo trasportare tale peso, ne sono incuriositi, ma per sviarne i sospetti, l’inventore risponde di avere raccolto un serpente morto, come previsto dalla legge. Ben presto sul sacco appaiono macchie di sangue ed il folle delitto è scoperto e nessuno crede alla bugia di Dedalo, di una caduta accidentale del nipote.
Così, tre generazioni prima di Oreste, Dedalo è giudicato dall’Areopago e da questo condannato all’esilio; per questo si trasferisce a Creta, al servizio di Minosse, dove conosce e sposa Naucrate, da cui avrà Icaro, e dove costruisce sia il Labirinto, e un gigantesco automa di bronzo, a cui da il nome del nipote ucciso.
Talos è incaricato da Minosse di sorvegliare l’isola, mettendo in fuga i nemici che tentano di sbarcarvi, o di fermare i cittadini senza il consenso del re. Ogni giorno fa il giro dell’isola armato e pronto per scagliare enormi pietre e non esita a buttarsi nel fuoco fino ad una elevatissima temperatura per poi schiantarsi sui suoi nemici stritolandoli e bruciandoli.
L’automa è invincibile, tranne in un punto della caviglia, dove era visibile l’unica vena che contiene il suo sangue. La leggenda vuole che quando la spedizione degli Argonauti giungr sull’isola, sia reso pazzo da Medea ed ucciso dall’argonauta Peante che trafigge la sua vena con un colpo di freccia.
Però Dedalo, su richiesta di Arianna, figlia di Minosse, decide di aiutare il cugino Teseo contro il Minotauro: per cui, come punizione di questo tradimento, lui e Icaro sono imprigionati nel Labirinto. Per evadere, Dedalo costruisce due paia di ali, uno per sé e l’altro per il figlio. Si raccomanda con Icaro di restargli sempre dietro durante il volo, di non strafare e soprattutto di stare attento a non avvicinarsi troppo ai raggi del sole perché, le ali, attaccate alle spalle con della cera, possono staccarsi. Come non detto, Icaro durante il volo, non gli da retta, precipitando in mare e affogando.
Secondo la versione originale del mito, Dedalo atterra ad Agrigento, dove è ospite del re sicano Cocalo. Al suo servizio Dedalo gli costruisce una diga, fortica una cittadella per proteggere i tesori del re, edifica su una roccia a picco le fondamenta di un tempio ad Afrodite, installa uno stabilimento termale. Questo racconto, probabilmente, serviva ai coloni greci a spiegarsi le somiglianze, che di certo avevano notato, tra le tholos micenee e le tombe della cultura di Thapsos.
Minosse, venuto a conoscenza della fuga di Dedalo in Sicilia, organizza una spedizione e sbarca a Minoa, e per trovare Dedalo si serve del suo particolare stratagemma: promette una grossa ricompensa a chi riesce a far passare un filo attraverso le spirali di una conchiglia di una chiocciola.
Cocalo allettato dall’oro, propone la soluzione a Dedalo che lega il filo ad una formica spingendola in quel nuovo labirinto. Quando Cocalo fa portare la conchiglia a Minosse, questo capisce che Dedalo deve essere nei paraggi e invia degli ambasciatori al re sicano, per ottenere la restituzione del fuggitivo.
Però Dedalo aveva sposato una delle figlie di Cocalo: il loro figlio, Iapyx, diventerà re in Puglia, dove tutti i popoli, dal Salento fino alla Daunia, sarebbero stati chiamati, dal suo nome, Iapigi. Per cui Cocalo, tutt’altro che intenzionato a perdere tale genero, invita Minosse e, dopo aver promesso di assecondare le sue richieste, concede l’uso delle sue terme, costruite da Dedalo a Minosse, ma mentre il re cretese, per nulla insospettito, si lava servito, secondo il costume di quei tempi, dalle figlie di Cocalo, le cognate di Dedalo, violando le leggi dell’ospitalità, lo affogano.
Per espiare questa colpa, Dedalo entra al servizio del mitico Iolao, figlio di Ificle e nipote di Eracle, per fondare in Sardegna una colonia greca: le nuraghe furono considerati dai greci come resti di questo mitico stanziamento. Mito che serviva a giustificare le velleitarie rivendicazioni coloniali sull’isola, saldo possesso punico.
Virgilio, ovviamente, butta via tutta questa parte del mito, in cui Dedalo fa la parte dell’intrigante e che rivendica il ruolo demiurgico della technè: secondo il poeta, ricordiamolo, Dedalo sarebbe arrivato direttamente sulla rocca di Cuma, dove avrebbe dedicato le ali ad Apollo e in suo onore avrebbe eretto un immenso tempio, sulle cui porte d’oro aveva istoriato la sua storia, particolarmente il suo soggiorno cretese, la sua opera tecnica a favore di Minosse e della regina Pasifae, l’aiuto fornito ad Arianna innamorata; abortiti per il dolore e la commozione erano i tentativi di rievocare la triste vicenda di Icaro.
Nei versi virgiliani prevale un Dedalo pius, corrispettivo di Enea, rispettoso della divinità e visceralmente legato al ricordo straziante di suo figlio caduto; la sua abilità tecnica è solo sullo sfondo della sua amara e tragica esperienza cretese; il prodotto ultimo e straordinario della sua “scienza”, le ali umane, non avvia un progresso, non celebra una riuscita, ma rimanda prevalentemente a un doloroso insuccesso patito dal figlio. Sulla rocca di Cuma c’è Dedalo solitario che, proprio quando recupera la fede in un dio, denuncia l’inanità e la pericolosità della scienza e del progresso, mostrando i pregiudizi di un poeta che in fondo, non voleva essere nulla più che un piccolo proprietario terriero, con i suoi tre o quattro schiavi e la sua vita comoda e abitudinaria, lontana dalle diavolerie della res novae.
In ogni caso, l’Eneide, come accennato, convinse Augusto ad aprire i cordoni della borsa e a ricostruire il complesso templare di Cuma. Viene ricavata, tagliando parte delle fortificazioni greche, una grande rampa di accesso alla terrazza dal piazzale appena oltre la porta dell’acropoli; il tempio stesso viene demolito fino al basamento e riedificato con l’aggiunta di un monumentale pronao sul lato lungo, simile a quello del tempio della Concordia a Roma, che prospettava sulla città bassa ed era così imponente da potersi vedere da ogni punto della piana cumana.
Il nuovo tempio, a differente del precedente, aveva un orientamento est-ovest: il pronao presentava delle colonne doriche, eccetto quelle agli angoli che avevano una particolare forma trilobata. Tutte le colonne erano in laterizio rivestite in stucco, che in parte ancora si conserva, poggianti su basi attiche e sormontate da capitelli ionici; la trabeazione, di cui sono stati ritrovati alcuni frammenti, era decorata in terrecotte, raffiguranti elementi zoomorfi ed antropomorfi. La cella, realizzata in opus reticolatum ma di cui non rimane alcun rivestimento murario, misurava ventidue metri di lunghezza e nove di larghezza con ingresso sul lato orientale ornato da due colonne in laterizi: internamente era divisa in tre navate con aperture ai lati intercalati da pilastri in trachite e doveva contenere una grossa statua raffigurante Apollo. A completare il tutto, la pavimentazione dell’intera struttura era in travertino.
Tra il VI ed l’VIII secolo il tempio venne trasformato in basilica cristiana, ritornando paradossalmente all’orientamento arcaico, con la conseguente costruzione di un fonte battesimale e di alcune tombe nel pavimento: venne quindi abbandonato a seguito dello spopolamento della città di Cuma nel XIII secolo e ritrovato solamente nel 1912, immediatamente identificato tramite un’epigrafe in marmo che faceva chiaro riferimento all’Apollo Cumano
Come detto altre volte, il culto di Dioniso risale all’età del Bronzo e all’antica religiose elladica. Il suo nome appare nelle tavolette in Lineare B di Tebe, come Di-wo-nu-so. Se noi consideriamo la sua forma in genitivo, Di-wo-nu-so-jo, sembrerebbe come il nome sia in realtà una sorta di appellativo, riconducibile a giovane figlio di Zeus.
Se partiamo dall’ipotesi che Minoici e Micenei adorassero una sorta di triade divina, costituita dalla Potnia Theron, la Natura nelle sue diverse forme, il suo consorte divino, i cui attributi di signore del Cielo, dell’Abisso e del regno dei Morti, portarono all’età classica alla nascita delle figure di Zeus, Poseidone ed Ade, e da un fanciullo, il cui mito di nascita e morte simboleggiava il Divenire e lo scorrere dello stagione, allora Dioniso è riconducibile a tale figura.
A riprova di tale tesi, vi sono diversi indizi. Negli Inni Orfici, che sono una rappresentazione razionalizzata dell’antica religiosità arcaica, Dioniso è definito
l’ultimo re degli dei, investito da Zeus; il padre lo pone sul trono regale, gli dà lo scettro e lo fa re di tutti gli dei
proprio ad evidenziare la sua natura di erede divino. Vi è poi l’incertezza dei mito classico della sua paternità: a seconda delle versioni, viene considerato o figlio di Giove o di Ade, incertezza risolvibile se si considerano le due figure come diverse manifestazioni di un’unica divinità originaria, che rappresentava il principio maschile.
Infine, vi è il mito di Zagreo. Zeus aveva deciso di fare di tale divinità il suo successore nel dominio del mondo, provocando così l’ira di sua moglie Era: così, per evitare problemi affidò il piccolo ai Cureti affinché lo allevassero. Allora Era si rivolse ai Titani, i quali attirarono il piccolo Zagreo offrendogli giochi, lo rapirono, lo fecero a pezzi e divorarono le sue carni. Le parti rimanenti del corpo di Zagreo furono raccolte da Apollo, che le seppellì sul monte Parnaso; Atena invece trovò il cuore ancora palpitante del piccolo e lo portò a Zeus, che lo fece rinascere come Dioniso e punì i Titani fulminandoli, e dal fumo uscito dai loro corpi in fiamme sarebbero nati gli uomini.
Mito, che come accennato all’inizio, rispecchia questa idea ciclica del Tempo. L’arcaicità di Dioniso è testimoniata anche dal suo culto, che incorporava l’antica ritualità sciamanica, dall’uso delle maschere, che simboleggiava il trasformarsi in altro e l’ebbrezza, provocata dal vino e dall’uso di sostanze psicotrope, in modo da ottenere un mutamento dello stato di coscienza e trasformarsi in entheos, in “pieni di dio”, identificandosi con la divinità.
Questo complesso mondo religioso, dati i contatti abbastanza stretti tra micenei e civiltà appennica, arrivò in Italia nella tarda età del Bronzo e fu riadattato al contesto locale: il ciclo temporale legato all’attività agricola fu sostituito a quello della transumanza, accentuando così la componente sessuale del rito. Un’ulteriore fu aggiunta dagli etruschi che forse nel culto introdussero forme più o meno velate, di sacrifici umani. Nacquerò così i Baccanali, poco graditi al Senato Romano, viste le vicende del 186 a.C.
Per raccontarle, ci affidiamo al buon Tito Livio, il quale sostiene che la prima forma della festività era aperta alle sole donne e si svolgeva durante tre giorni dell’anno, alla luce del giorno; mentre nella vicina Etruria, a nord di Roma, un “greco di umili origini, versato nei sacrifici e negli auguri” aveva stabilito una versione notturna che comprendeva celebrazioni che facevano uso di vino, il che acquisì un seguito entusiasta di donne e uomini.
Sempre secondo lo storico, in questa versione notturna dei baccanali, quando il vino e la mescolanza dei sessi creavano una miscela propria alla dissolutezza, avvenivano anche omicidi sacri. Il periodo dei baccanali sarebbe stato, secondo Livio, il momento migliore per commettere delitti per il fatto che le molte grida e il suono degli strumenti facilitavano nascondere un crimine.
Continuando con la sua narrazione, lo storico padovano riferisce di un grave incidente politico che coinvolse Paculla Annia, una sacerdotessa campana di Bacco, fondatrice di un culto privato e non ufficiale dei baccanali a Roma, con sede presso il boschetto di Stimula, laddove il versante occidentale dell’Aventino scende verso il Tevere.
L’Aventino era un quartiere etnicamente misto, fortemente identificato con la classe plebea di Roma e che era la porta d’entrata privilegiata di nuovi culti forestieri. Il dio del vino e della fertilità Liber Pater, divino patrono dei diritti dei plebei, delle libertà e degli auspici, aveva un culto ufficiale consolidato da tempo nel vicino tempio che condivideva con Cerere e Proserpina e viene descritto da molte fonti come l’equivalente di Dioniso e Bacco a Roma. Paculla aveva modificato il culto, avvicinandolo a quello praticato in Etruria, aumentò la loro frequenza a cinque al mese, li aprì a tutte le classi sociali e ad entrambi i sessi – a cominciare dai suoi stessi figli, Minio ed Errenio Cerrino – e favorì l’abuso di vino e la promiscuità sessuale fra gli iniziati, al grido
“Il male non esiste”
Gli uomini, come in preda ad un’inspiegabile follia, davano oracoli, mentre le matrone, in abiti succinti, correvano al Tevere per spengere nelle sue acque fiaccole accese: poiché impregnati di zolfo e calce, i lumi tornavano a galla ancora fiammanti.
Livio racconta come un giovane chiamato Ebuzio fosse innamorato di una liberta, Ispala Fecenia, nota per aver esercitato il meretricio. Il patrigno del ragazzo, uno scialacquatore, voleva eliminarlo o assoggettarlo al suo volere con qualunque mezzo. La madre degenere, pronta ad assecondare il marito, decise per la via più breve: introdurre il figlio al culto di Dioniso.
Con fare materno disse al ragazzo che, quando era stato ammalato, aveva formulato per la sua pronta guarigione un voto al dio del vino. Una volta cessato il male, la donna aveva promesso che, per ringraziamento, lo avrebbe iniziato al suo culto. Ebuzio doveva astenersi per dieci giorni da rapporti sessuali e, dopo una cena ed un bagno purificatorio, sarebbe stato condotto al sacrario di Bacco. Il giovane informò l’amata di tale decisione, ma Ispala lo ammonì a non farlo, poiché conosceva quel luogo come “l’officina di ogni depravazione”. La giovane gli spiegò quel che sapeva.
Era stata lì da schiava, dovendo accompagnare la sua padrona. Da quando era stata liberata non vi era più entrata, ma conosceva bene la sorte degli sventurati che vi si recavano: appena introdotto al suo interno, il nuovo adepto era consegnato come una vittima nelle mani dei sacerdoti. Questi lo accompagnavano in un locale che risuonava di ululati, canti e del fracasso di timpani e cembali, l’unico modo per nascondere le urla disperate ed imploranti di chi veniva violentato. Ebuzio, sconvolto, su consiglio di una zia decise di denunciare tutto al console Postumio che prese gli opportuni provvedimenti.
Gli accusati furono ben 7000, fra uomini e donne; capi della setta risultarono due plebei romani, Marco e Gaio Atinio, un Lucio Opiterio di Falerii e il campano Minio Cerrinio; coloro che furono riconosciuti soltanto iniziati ai misteri, ma innocenti di qualunque altra turpitudine o delitto, furono lasciati in prigione, quelli invece – e furono i più – che si erano macchiati di stupri, di omicidi, o di frodi, furono puniti di pena capitale, non escluse le donne.
Racconto affascinante, peccato che probabilmente Livio si sia inventato buona parte della storia: la vicenda di Ispala ed Ebuzio ricorda troppo le vicende di una commedia plautina, a sua volta scopiazzate senza ritegno dalla Commedia Nuova dell’Attica. Contestualizziamo il tutto: siamo in piena restaurazione augustea, in cui il Princeps negli antichi dei e nel loro culto voleva trovare il sostegno per dare legittimità al suo potere. Per cui bisognava ribadire ad ogni costo la bontà del mos maiorum e allontanare i cives dalle suggestioni di strani culti orientali, che cominciavano ad andare di moda, e che ne minavano le basi ideologiche e dovevano essere delegittimati. Per cui, Livio, in buona fede, costruì un exempla utile a tale causa, usando la questione Baccanali, gonfiando i numeri e calcando tinte e toni. Tra l’altro, se ci fate caso, le stesse nefandezze dei seguaci di Dioniso furono attribuite anche ai primi cristiani.
Il dato certo, è la repressione del Senato. La religione romana, politeista e universalista, cercava per quanto possibile, di integrare nel suo universo rituale le divinità dei popoli sconfitti, sia per integrarli meglio, sia perché, in fondo, nella vita non si sa mai: meglio un sacrificio in più, che trovarsi un a che fare con il pessimo umore di un dio poco noto.
Perciò, anche se gli dei stranieri non erano considerati altrettanto potenti, tutti erano considerati veri e quindi degni di essere rispettati e venerati. Questa concezione politeista e multi religiosa dello ius sacrum Romanum è ben sintetizzata da Cicerone quando afferma che “sua cuique civitati religio …est, nostra nobis”
Il limite di tale tolleranza era nella superstitio, la religione che comportavano un eccessivo timore degli dei e suscitavano emozioni eccessive (morbus animi), soprattutto i fedeli si riunivano in privato o di notte. Per i Romani tutto doveva avvenire alla luce del sole e tramite riti codificati: essi avevano un sacro terrore per tutto quello che essi non potevano controllare, dato che, se non fossero rispettate le opportune formalità, si sarebbe violata la pax deorum e scatenato il caos nel mondo.
Il culto dionisiaco era proprio, secondo la mentalità romana, la superstitio per eccellenza… A questo aggiungiamoci due fattori contingenti: il primo, è che il Senatore medio romano dell’epoca, avrebbe visto con il fumo negli occhi qualsiasi riunione segreta di plebei, che poteva avere anche risvolti politici. Il secondo è che Catone il Censore aveva preso sul personale la questione repressione Baccanali, per cui, per farlo stare zitto e buono, sempre il senatore medio avrebbe approvato qualsiasi sua proposta, anche la più strampalata.
Così fu promulgato il Senatus consultum de Bacchanalibus, di cui è stata ritrovata una copia in latino arcaico risalente al 186 a.C., ritrovata nel 1640 a Tiriolo, in provincia di Catanzaro e ora conservata al Kunsthistorisches Museum di Vienna. Questa è la sua traduzione in italiano
I consoli Q. Marcio figlio di Lucio e S. Postumio figlio di Lucio hanno consultato il senato alle none di Ottobre presso il tempio di Bellona. Hanno svolto le funzioni di segretari M. Claudio, figlio di Marco, L. Valerio, figlio di Publio, Q. Minucio, figlio di Gaio. (I senatori) hanno consigliato che bisognava emettere un editto a quelli che nell’ambito dei Baccanali avessero fatto accordi tra di loro con queste disposizioni: Nessuno di loro volesse tenere un baccanale; nel caso vi fossero alcuni che affermassero che fosse necessario mantenere un baccanale, (hanno consigliato) che essi venissero a Roma dal pretore urbano e su tali questioni decidesse il senato, dopo aver ascoltato le loro parole, purché fossero presenti non meno di cento senatori, quando tale questione venisse discussa. Nessun uomo volesse avvicinarsi alle baccanti, né un cittadino romano, né uno di diritto latino né un alleato, se non si fosse presentato dal pretore urbano ed egli avesse dato l’autorizzazione, conforme al parere del senato, purché fossero presenti non meno di cento senatori, quando tale questione venisse discussa. Nessun uomo fosse sacerdote. Nessun uomo o donna fosse capo. Nessuno di loro fosse tesoriere di denaro comune né volesse nominare uomo o donna magistrato o vice magistrato. Né d’ora in poi volesse vincolarsi con giuramenti, con voti, con promesse, con obblighi, né volesse stabilire rapporti reciproci di fiducia. Nessuno volesse celebrare riti sacri in segreto. Nessuno volesse celebrare riti sacri né in pubblico né in privato né fuori città, se non si fosse presentato dal pretore urbano ed egli avesse dato l’autorizzazione conforme al parere del senato, purché fossero presenti non meno di cento senatori, quando tale questione venga discussa. Hanno deciso. Nessuno volesse celebrare riti sacri se fossero presenti più di cinque persone, uomini e donne, e tra di essi non volessero essere presenti più di due uomini e più di tre donne, qualora non vi fosse l’autorizzazione del pretore urbano e del senato, come sopra è stato scritto.
La loro decisione è stata questa, che rendiate pubbliche queste decisioni nell’assemblea di non meno di tre mercati consecutivi e conosceste il parere del senato: “Se vi fosse qualcuno che agisse in modo contrario a queste prescrizioni, nei limiti di quanto è stato scritto sopra, hanno deciso che bisognasse intentare loro un processo capitale”. Il senato ha giustamente deciso che incideste questo decreto su una tavola di bronzo, e che lo facciate affiggere dove con molta facilità possa essere conosciuto e che, come sopra è stato scritto, facciate rimuovere, entro dieci giorni dalla consegna delle tavolette, i baccanali, se ve n’è qualcuno, tranne quelli in cui c’è qualcosa di venerabile.
Ovviamente, questa normalizzazione cambiò la natura dei Baccanali, che si formalizzarono, acquisendo forme rituali analoghe a quelle degli altri culti, con libagioni e offerte di frittelle al miele, che furono ereditate nella nostra festa di San Giuseppe
Molti romani amanti della musica conoscono la Casa del Jazz, per i concerti di grande qualità che vi si tengono: molto meno nota, però la sua storia di gran fascino, a cominciare dal committente, Arturo Osio, uno dei fondatori del Partito Popolare italiano e uno dei padri nobili del movimento cooperativo.
Nel 1924 Arturo conosce un personaggio diversissimo da lui per cultura, carattere e ideologia, il famigerato Roberto Farinacci e stranamente i due diventano amici, tanto che il ras di Cremona fa stalking a Mussolini, per nominare il nostro eroe direttore generale dell’Istituto nazionale di credito per la cooperazione, un ente pubblico voluto da Luigi Luzzatti e Francesco Saverio Nitti che dal 1913 opera nel campo del credito cooperativo, che era in crisi a causa dell’impossibilità di recuperare i crediti per decine di milioni di lire, a causa della crisi economica provocata sia dalla riconversione dell’economia di guerra, sia dall’epidemia di Spagnola, che anche se trascurata dagli storici, ebbe impatti molto simili alla nostra pandemia.
In teoria, Arturo, scelto per tranquillizzare il Vaticano, che aveva fornito parecchi soldi nel Credito Cooperativo, avrebbe dovuto guidare l’istituto verso una liquidazione “morbida”, a tutela dei maggiori investitori.
Però, in collaborazione con Farinacci, Arturo fa partire un’azione di lobbying su Mussolini, che porta nella riforma del credito attuata nel 1926, una serie di decreti poi riuniti nella prima legge bancaria italiana che, pur mantenendo il modello tedesco della banca mista, introduce la differenziazione tra “azienda di credito” (la banca di depositi, erogatrice di credito a breve termine), e “istituto di credito” (la banca di affari che finanzia piccola e grande industria e investe al medio e lungo periodo); la prima è la tradizionale banca dei piccoli risparmiatori, che in base alla nuova normativa reinveste i depositi in operazioni a basso rischio di breve durata e ha l’obbligo di accantonare un fondo di riserva per poter restituire in qualsiasi momento il denaro depositato dai clienti.
Arturo sfrutta al meglio questa opportunità legislativa, assicurando i clienti che i propri capitali non sono immobilizzati in imprese industriali col rischio di sfumare in caso di fallimento, bensì impiegati per finanziare operazioni di sicuro ritorno come le produzioni cinematografiche, una delle fissazioni del fascismo, il piccolo artigianato, l’agricoltura e le casse di mutuo soccorso per categorie di lavoratori. La sicurezza di poter riavere in ogni momento il proprio denaro, senza i problemi frapposti dalle banche miste che si trovano spesso a corto di liquidità, fa crescere l’istituto a danno di queste ultime al punto che dopo poco meno di due anni, nel 1929, il ministero delle finanze accorda la costituzione della Banca Nazionale del Lavoro e della Cooperazione e la fondamentale qualifica di Istituto di Credito di Diritto Pubblico (ICDP), sotto il diretto controllo del Ministero del Tesoro, che sancisce la nascita della prima grande banca di depositi italiana slegata dal settore dell’industria. Nel “nuovo” istituto confluiscono undici piccole banche cattoliche che si uniscono nella Banca delle Marche e degli Abruzzi (le regioni in cui operano), controllata al 100% dalla BNLC, che nel decennio degli anni ’30 conosce una tale espansione da farla diventare la prima banca di credito italiana per numero e valore dei depositi.
La crescita di quella che sarà la nostra BNL e la sua opposizione alla svolta filo tedesca della politica mussoliniana, porta prima a una campagna di denigrazione nei suoi confronti, accusandolo
uomo più che corruttibile, corruttore, chiacchierone e depravato, nonché il tacito, sollecito e pressante finanziatore di bagordi e di orge a cui volutamente riusciva a farvi partecipare gerarchi e personalità
e poi alla sua epurazione. Per consolarsi di questa progressiva eclissi, Arturo si dedicò alla sua villa romana in viale di Porta Ardeatina 55. Nel 1936, infatti, aveva comprato a prezzo di favore un vecchio casale seicentesco abbandonato: per ristrutturarlo, diede l’incarico all’ingegner Cesare Pascoletti, lo strutturalista di Piacentini, progettista del ponte Testaccio, le più importanti sedi della Banca Nazionale del Lavoro a Roma e in Italia e del Museo della Civiltà romana, che prima op poi riaprirà e direttore dei lavori della demolizione della Spina di Borgo.
Cesare, utilizzando materiali e accostamenti cromatici della tradizione romana antica, ideò un edificio di struttura sobria ed elegante, dal corpo allungato, scandito sul lato orientale da un portico d’ingresso ad archi. La decorazione degli interni fu affidata a Amerigo Bartoli, amico di Bottai, all’epoca pittore assai alla moda, che dipinse una veduta di Piazza Navona, mentre all’esterno, rimangono di incerta attribuzione i rivestimenti pavimentali del portico posteriore, a mosaico bianco e nero, con soggetti marini tratti dal repertorio romano di età imperiale.
Nel 1939 l’architetto paesaggista Pietro Porcinai, all’epoca non ancora famoso, riprendendo l’impianto planimetrico presentato nel progetto di Pascoletti del 1937, propose per la sistemazione del giardino schemi di piantagioni con essenze arboree e arbustive che delimitavano il perimetro dell’intero complesso e accompagnavano i percorsi nella villa.
A fine anni Settanta, la villa fu comprata da Enrico Nicoletti, il cassiere della Banda della Magliana, er Secco di Romanzo Criminale. Benché, nel curare il suo look, Enrico fosse ancora più fissato der Dandy, era solito vestirsi di bianco dal panama alle scarpe, utilizzando anche un bastone come appoggio, i suoi gusti in termini di architettura e decorazione erano mediocri, tanto che la villa divenne un tempio del pacchiano e del pessimo gusto, insomma, cringe, per usare un termine che sta andando tanto di moda sui social.
Villa Osio è stata confiscata e nel 2001 assegnata al Comune di Roma grazie alla legge 109/96, la legge Pio La Torre che regola le disposizioni in materia di gestione e destinazione di beni sequestrati o confiscati alle mafie. Una lapide con i nomi delle vittime di mafia è ben in vista all’ingresso a testimonianza della vittoria rappresentata dalla restituzione del bene ai cittadini.
L’inaugurazione avviene nell’aprile del 2005, la direzione è affidata a Luciano Linzi e la gestione all’Azienda speciale Palaexpo, che in nome e per conto del Comune di Roma gestisce inoltre le Scuderie del Quirinale, il palazzo delle Esposizioni e la Casa del cinema, trasformandola nella nostra Casa de Jazz, che, certo, l’amministrazione Raggi potrebbe curare un poco meglio.
All’interno della villa patronale si trova un auditorium multifunzionale da 150 posti, progettato per concerti, proiezioni, guide all’ascolto e conferenze; un sistema di registrazione consente di salvare e diffondere gli eventi in programmazione. Nella stessa struttura vi sono una mediateca ed una biblioteca aperte al pubblico, una libreria e una caffetteria. I due edifici secondari ospitano sale di prova e registrazione, una foresteria a disposizione dei musicisti e un ristorante.
Come molti sanno, la più antica università occidentale è quella di Bologna. Secondo un comitato di storici istituito e guidato dal famoso poeta Giosuè Carducci lo Studium nacque nell’anno 1088, quando gli studendi che seguivano i corsi dei famosi giuristi Pepone e Irnerio detto “lucerna iuris”, i primi a studiare approfonditamente il codice di Giustiniano, per semplificarsi la vita, si organizzarono in una serie di associazioni su base etnica, le nationes, i cui membri erano legati tra loro da un giuramento d’appartenenza, i quali si dotavano di capi riconosciuti definiti rectores. Ognuna di queste nationes, forniva ai propri membri varie forme di protezione e privilegi ed era incaricata del processo di reclutamento dei docenti e al loro pagamento, con una offerta detta collectio, poiché la cultura essendo dono di Dio non poteva essere pagata.
I capo delle nationes assumevano il titolo di rectores: le nationes erano due, i citramontani (quelli che provenivano dal di qua delle Alpi, ovvero dalle regioni della penisola italiana) e gli ultramontani, provenienti da oltralpe (ad esempio, gli studenti da territori come le attuali nazioni di Germania e Francia). Allo stesso modo, ognuna delle nationes era suddivisa in sub-nazioni, rispettivamente 17 per gli intramontani e 14 per gli ultramontani. A testimonianza di tutto ciò, nel palazzo dell’Archiginnasio, la storica sede dell’Università, è presente un complesso araldico di quasi 6000 stemmi studenteschi e iscrizioni in onore dei professori.
Parigi, invece, nacque come universitas magistrorum ossia come associazione dei maestri, i quali si occupavano di regolare gli studi dei propri scolari ponendosi come principali interlocutori presso le istituzioni del periodo.
In entrambi i casi, però, a differenza dell’attuale Università, gli Studium non avevano una sede fissa, con aule dedicate all’insegnamento: le lezioni si tenevano dove capitava. A Bologna, i magistri gli antichi dottori tenevano le loro letture nelle proprie Case o in sale prese in affitto dal Comune o nella Chiesa di San Procolo.
Ovviamente, tenere dentro il salone di casa un’orda di goliardi vocianti e cialtroni non era la massima aspirazione di un dotto medievale: per cui fin da subito, si cominciò a sognare e a ipotizzare la nascita di un edificio specifico per l’insegnamento e lo studio
Così descriveva il suo sogno d’Università ai suoi colleghi, a cui probabilmente brillavano gli occhi nell’ascoltarlo, mentre maledicevano i loro studenti.
Un edificio scolastico deve essere costruito in un luogo aperto, dove ci sia aria pura. Deve essere lontano dai luoghi frequentati dalle donne, dai clamori della piazza, dallo strepito dei cavalli, dai canali, dai cani che abbiano, dai rumori nocivi, dal cigolio e dal cattivo odore. La larghezza e la lunghezza dell’edificio devono avere le stesse dimensioni.
Circa le finestre devono essere né più né meno di quante ne occorrono per una corretta illuminazione. E’ bene che l’alloggio stia al piano superiore. Il soffitto non deve essere né troppo alto, né incombere sul pavimento, perché in entrambi i casi le capacità della memoria diminuiscono. La scuola va pulita dalla polvere e da qualsiasi sporcizia. Va tenuta sgombra da immagini e da pitture a meno che non siano particolarmente efficaci per l’esercizio della memoria nelle varie materie studiate dai ragazzi.
Tutte le pareti vanno dipinte esclusivamente di verde, ci deve essere un solo ingresso e le scale non devono essere faticose da salire. Il professore sieda più in alto degli studenti, a un altezza tale che possa controllare chi entra. Si dispongano due o tre finestre attraverso le quali di tanto in tanto, specialmente quando è bel tempo, il professore possa guardare fuori e ammirare gli alberi, gli orti e i giardini: la vista delle cose gradevoli rafforza la memoria.
Bisogna disporre i posti degli studenti in ordine, così si possono ricordare i loro nomi, e anche in modo che tutti riescano a vedere il viso del professore. Gli studenti nobili e di rango elevato siano messi a sedere nei posti migliori. Tutti quelli di una stessa provincia o di una stessa nazione siedano insieme, ma nel rispetto dell’onore che si deve tributare a ciascuno secondo le cariche, la nobiltà e i meriti personali. Non si cambi mai l’ordine dei posti e nessuno osi prendere il posto di un altro, ma ciascuno si tenga quello che gli è stato assegnato.
Io non ho mai avuto una scuola così e non credo che da qualche parte ne esita una simile. Ma forse, un giorno, questi consigli saranno utili ai posteri
Come si può facilmente immaginare, il discorso di Ermocrate scatenò una ridda di reazioni, che trasformarono l’assemblea cittadina di Siracusa in una sorta di colossale pollaio
Qui Ermocrate concluse il suo discorso. All’assemblea in Siracusa le fazioni opposte si fronteggiarono con violente polemiche: chi sconfessava con energia che ci fosse possibilità per gli Ateniesi di una invasione in Sicilia, attribuendo ad Ermocrate tutta una serie di menzogne; chi poi si domandava, supponiamo che passino, che offese potrà infliggere quest’attacco senza subirne di più serie in cambio? Per qualche altro non era neppure il caso di considerare l’evenienza di un’invasione, e tutto finiva in ridere senz’altro. In pochi l’avviso di Ermocrate suscitava credito e il futuro apprensione. Finché si fece innanzi Atenagora, personalità del partito popolare e, di quei tempi, la voce più ascoltata.
Il portavoce di perplessi dinanzi alle tesi del leader dei popolari Atenagora, il cui discorso è stato spesso frainteso e ridotto a una semplice dichiarazione di scetticismo, nei confronti dell’invasione ateniese, quando invece è molto più complesso, nella sua analisi sia strategica, sia politica.
Poichè, una guerra, non cambia solo i rapporti di forza al di fuori dello Stato, ma anche al suo interno. La propaganda, la paura del nemico, la militarizzazione spinta della società sono uno dei veleni della Democrazia. Una guerra, anche se vincente, mina lo spirito stesso della collettività, favorendo l’interessi di pochi, a scapito del bene comune: nulla potrà mai rimanere come prima
Ecco i suoi argomenti:
Quanto agli Ateniesi, chi non desidera che agiscano spinti da una tale follia e vengano qui spontaneamente a gettarsi nelle nostre mani, o è un codardo, o è un pessimo soggetto, sleale verso la propria città. Quanto a coloro che vanno diffondendo avvertimenti di quella specie, con il proposito di provocare in voi uno stato di allarme, non mi sorprende la loro fiducia di non vedersi infine, strappata la maschera. Gente che sul proprio conto ha la coscienza poco limpida e preferisce seminare in città lo sgomento per occultare meglio il proprio all’ombra del pubblico spavento. E hanno proprio questo senso le notizie di cui ci si riferisce, non sorte da sole ma contraffatte ad arte dai soliti che hanno la passione di sconvolgere con questi mezzucci la vita politica cittadina.
Per prima cosa, con parecchio buon senso, Atenagora riteneva un’eventuale azione in Sicilia come contraria ai concreti interessi strategici ateniesi, sprecando risorse che sarebbero state molto più utili per concludere lo scontro con Sparta… Ovviamente aveva sopravvalutato la polis attica.
Quanto a voi, se delibererete con preveggenza, non trarrete le conseguenze dell’analisi dei dati forniti da costoro, ma prevedendo con esame approfondito quale potrebbe essere la tattica futura di gente abile, politici consumati quali personalmente stimo gli Ateniesi. Poiché è inconcepibile che lasciandosi alle spalle i nemici del Peloponneso e quel teatro d’operazioni, con un conflitto non ancora giunto a una svolta risolutiva, costoro si dispongano spontaneamente ad aprire un secondo fronte non meno ampio e infuocato. Se fossi in loro mi direi piuttosto soddisfatto di non essere ancora esposto al nostro urto, di un’intesa così numerosa di città potenti.
Nel caso gli ateniesi fossero stati così ottusi da non sapere riconoscere i loro effettivi interessi strategici, non era il caso di preoccuparsi troppo: Atenagora, sin da subito, aveva chiari i limiti tattici, la mancanza di una cavalleria, che avrebbe garantito copertura e mobilità a supporto dei opliti e logistici della spedizione ateniese, che l’avrebbe portata alla rovina
E se proprio venissero, e le novità fossero vere, ritengo che la Sicilia sia, più del Peloponneso, adatta a sgominarli del tutto. Essa, in ogni campo strategico, possiede risorse più efficienti. Da sola la nostra città è militarmente molto più preparata della spedizione ateniese che le ultime notizie darebbero come ormai prossima al suo bersaglio, anche se comparisse con forze doppie. Mi pare certo che gli Ateniesi non possano far passare qui al loro seguito la cavalleria, né che, una volta sbarcati, sarà loro facile procurarsene, se eccettuiamo i pochi reparti che fornirà Segesta. Neppure saranno in grado di trasportare fanterie pesanti di potenza numerica pari alle nostre, almeno impiegando la marina (poiché una traversata così lunga verso la Sicilia sarebbe di per sé, con bastimenti senza carico, un’impresa critica): problemi analoghi per tutto il resto dell’armamento pesante, il cui utilizzo è indispensabile se si intende offendere un paese agguerrito come il nostro. Cosicché (di tanto in tanto differisce il mio giudizio) mi parrebbe già singolare, pur nell’ipotesi che l’invasore vibri l’offensiva da una città potente quanto Siracusa, sita alle nostre frontiere e a sua disposizione, che possa sottrarsi a un totale disastro: sorte cui non sfuggirà certamente, quando vedrà irta d’armi e unanime la Sicilia (che farà quadrato), e premuto in quel suo campo eretto con il materiale di bordo, confinato dalle incursioni della nostra cavalleria dovrà ridurre a brevissimo raggio le puntate all’esterno delle sue tende di fortuna e delle sue fortificazioni sommarie. Insomma io credo che sul nostro suolo gli riuscirà impossibile anche il puro sbarco: di tanto stimo superiore l’apparato protettivo di cui disponiamo.
In ogni caso, oltre al nemico esterno, la democrazia deve tutelarsi dal nemico interno, che per ambizione e sete di potere, mira prima a svuotare di senso, poi ad abbattere le sue istituzioni, sfruttando lo stato di emergenza.
Ma, come ripeto, di questi particolari tecnici gli Ateniesi sono maestri e sono del tutto tranquillo sul fatto che sanno egregiamente tutelare i propri interessi, mentre tra noi c’è gente che spaccia fantasie astratte, prive della minima consistenza. Li conosco bene: non è la prima provocazione che mettono in atto; aspirano da anni con avvertimenti dello stesso timbro minaccioso, anzi anche più catastrofici, e con i fatti a disorientare voi, il nerbo della cittadinanza, per dominare lo stato. Perciò non mi sento sereno; tenta oggi, tenta domani, un giorno o l’altro il colpo può riuscire.
Ma noi siamo troppo vili per premunirci con tempestivo vigore, prima di cadere vittime del loro intrigo e, scopertolo, per perseguirne fino all’ultimo gli artefici. Realmente è di costoro la colpa se la nostra città non gode mai la pace, squarciata da frequenti scosse, in armi più spesso contro se stessa che per respingere nemici esterni, più di una volta preda di tiranni e di colpevoli oligarchie. Basta che voi mi assecondiate, e io mi prodigherò per soffocare la rinascita, ai nostri giorni, di questo triste fenomeno, esigendo da voi, che siete l’elemento più forte della compagine cittadina, il castigo immediato di chi muove le redini del complotto, non solo se sorpreso in flagrante (è rara la fortuna di coglierli) ma anche per quanto concerta sott’acqua, e non ha ancora il potere di convertire in realtà (poi ché è doveroso non limitarsi a spezzare le iniziative già in atto di un avversario, ma precorrerne con risolutezza i disegni: se non ci si mette in guardia a tempo si è i primi ad accusare il colpo).
In quanto alle frange oligarchiche m’impegno a confonderle, a tenerle d’occhio, talvolta a toccarle con un avvertimento: mi pare la condotta più consigliabile per dissuadere costoro da ogni perfida tentazione. E invero, tra me e me, ho formulato spesso questa domanda: gioventù, che pretendete adesso? Subito il potere? Vietato per legge. E la legge s’è stabilita più in previdenza della vostra inettitudine ad esercitarlo, che per spogliarvi di un diritto, nell’ipotesi che foste adatti. Sicché non vi piace spartire con la maggioranza gli identici privilegi? È giustizia secondo voi che tra uguali non siano comuni anche le posizioni sociali?
Così Atenagora se ne uscì con un elogio della democrazia, degno di Pericle, in cui questa forma di governo non garantisce solo l’uguaglianza politica dei cittadini, ma anche sociale, favorendo un’equa distribuzione delle risorse.
Mi si contesterà che il governo popolare non obbedisce alla ragione, e non è equanime, mentre chi possiede i capitali è anche il più idoneo a praticare il potere. E io obietto: in primo luogo, con il termine popolo s’intende la collettività statale, con oligarchia un solo ramo di essa; secondariamente, i possidenti sono senza dubbio gli amministratori più adatti ma del potere finanziario; mentre la politica più avveduta è privilegio di chi usa il cervello, e la più adatta a distinguere i propositi di più alta utilità è la maggioranza, dopo che su di essi ha seguito il dibattito, infine queste tre componenti della vita politica cittadina godono senza distinzioni, sia singolarmente considerate sia in seno all’organismo della comunità, la perfetta uguaglianza di diritti che è peculiare dei regimi democratici.
Per contro l’oligarchia trascina con sé la maggioranza nei pericoli, mentre dei profitti non solo inghiotte la miglior parte, ma se li appropria in blocco, e non li cede. E tra voi s’inebriano, alla speranza di questo regime, i facoltosi e i giovani: esso però non si potrà mai imporre in una città popolosa. Ma tuttora, o gente la più scriteriata del mondo, se vi ostinate a non capire che questo vuol dire mettervi di puntiglio per rovinarvi, o siete i Greci più incoscienti che io sappia, o i più abietti, se, pur capendolo ve la sentite di insistere con il vecchio contegno.
Ebbene no, ora è tempo o di notare i fatti con mente realistica o di rivedere le vostre risoluzioni, per elevare i destini della città, a comune beneficio di tutti. Considerate che, tra voi, agli onesti ne toccherà una fetta uguale o anche più ricca in confronto alla moltitudine dell’altra cittadinanza; se covate propositi diversi, pesate il rischio di una perdita integrale. Delle solite profezie, vi dico solo: tagliate corto, che s’è capito dove mirate, e state in pace che vi manderemo a vuoto l’idea. Poiché questa città, l’assalgano pure gli Ateniesi, potrà sempre opporre una replica degna di sé: disponiamo dei nostri strateghi che vorranno ben provvedere. Se poi nulla è vero di queste voci, ed io ne dubito fieramente, Siracusa non diverrà preda dello sconforto ai vostri annunci, né sperate che consegnandovi il potere curvi il capo spontaneamente al giogo. Porrà da se stessa oculato riparo alle minacce e vedrà di giudicare il rumore da voi diffuso come se avesse valore di un vero e concreto attentato: né si lascerà strappare, da poche voci correnti, la libertà di cui ora va fiera, ma si adoprerà a preservarla, vigile per sventare le vostre trame, con l’energia più strenua.
Di fatto Atenagora, viste le successive vicende di Ermocrate e di Dioniso, fu facile profeta. Siracusa fu una sorta di Weimar dell’antichità, la cui democrazia fu travolta dalla sfida della guerra, prima contro Atene, poi contro Cartagine.
Dinanzi a questo confronto, gli strateghi siracusani, pur evitando di sbattere al gabbio Ermocrate come potenziale golpista, considerarono il suo piano troppo avventato, accettando l’approccio più cauto di Atenagora, nella convinzione di sconfiggere gli invasori giocando in casa, con il vantattio di agire per linee interne
Sostanzialmente Atenagora espresse queste idee. A questo punto uno degli strateghi si levò e vietando ormai a chiunque la parola, si pronunciò sulle circostanze con avvertimenti di questo tenore:
«Non è saggio scagliarsi l’un l’altro attacchi di questa forza, né per voi pubblico, prestarvi orecchio. Meglio concentrarsi sulle notizie che continuano ad arrivare, e prepararsi, ciascuno nel suo piccolo e la città come corpo unitario, a respingere con efficacia gli invasori. Se più avanti, non ci sarà urgenza, non vedo il danno se lo stato si sarà provvisto di cavalli e armamenti e d’ogni altra attrezzatura che fa l’orgoglio della guerra. Sarà cura di noi strateghi organizzare e ispezionare le forze, e inviare nelle varie città, a scopo d’indagine o per gli altri uffici che parranno utili i nostri agenti. Del resto, parte dell’operazione difensiva s’è già messa a punto: quando disporremo di accertamenti più completi, ve li renderemo noti.»
Dopo questi concisi chiarimenti dello stratego, l’assemblea siracusana si sciolse