
Come detto altre volte, il culto di Dioniso risale all’età del Bronzo e all’antica religiose elladica. Il suo nome appare nelle tavolette in Lineare B di Tebe, come Di-wo-nu-so. Se noi consideriamo la sua forma in genitivo, Di-wo-nu-so-jo, sembrerebbe come il nome sia in realtà una sorta di appellativo, riconducibile a giovane figlio di Zeus.
Se partiamo dall’ipotesi che Minoici e Micenei adorassero una sorta di triade divina, costituita dalla Potnia Theron, la Natura nelle sue diverse forme, il suo consorte divino, i cui attributi di signore del Cielo, dell’Abisso e del regno dei Morti, portarono all’età classica alla nascita delle figure di Zeus, Poseidone ed Ade, e da un fanciullo, il cui mito di nascita e morte simboleggiava il Divenire e lo scorrere dello stagione, allora Dioniso è riconducibile a tale figura.
A riprova di tale tesi, vi sono diversi indizi. Negli Inni Orfici, che sono una rappresentazione razionalizzata dell’antica religiosità arcaica, Dioniso è definito
l’ultimo re degli dei, investito da Zeus; il padre lo pone sul trono regale, gli dà lo scettro e lo fa re di tutti gli dei
proprio ad evidenziare la sua natura di erede divino. Vi è poi l’incertezza dei mito classico della sua paternità: a seconda delle versioni, viene considerato o figlio di Giove o di Ade, incertezza risolvibile se si considerano le due figure come diverse manifestazioni di un’unica divinità originaria, che rappresentava il principio maschile.
Infine, vi è il mito di Zagreo. Zeus aveva deciso di fare di tale divinità il suo successore nel dominio del mondo, provocando così l’ira di sua moglie Era: così, per evitare problemi affidò il piccolo ai Cureti affinché lo allevassero. Allora Era si rivolse ai Titani, i quali attirarono il piccolo Zagreo offrendogli giochi, lo rapirono, lo fecero a pezzi e divorarono le sue carni. Le parti rimanenti del corpo di Zagreo furono raccolte da Apollo, che le seppellì sul monte Parnaso; Atena invece trovò il cuore ancora palpitante del piccolo e lo portò a Zeus, che lo fece rinascere come Dioniso e punì i Titani fulminandoli, e dal fumo uscito dai loro corpi in fiamme sarebbero nati gli uomini.
Mito, che come accennato all’inizio, rispecchia questa idea ciclica del Tempo. L’arcaicità di Dioniso è testimoniata anche dal suo culto, che incorporava l’antica ritualità sciamanica, dall’uso delle maschere, che simboleggiava il trasformarsi in altro e l’ebbrezza, provocata dal vino e dall’uso di sostanze psicotrope, in modo da ottenere un mutamento dello stato di coscienza e trasformarsi in entheos, in “pieni di dio”, identificandosi con la divinità.
Questo complesso mondo religioso, dati i contatti abbastanza stretti tra micenei e civiltà appennica, arrivò in Italia nella tarda età del Bronzo e fu riadattato al contesto locale: il ciclo temporale legato all’attività agricola fu sostituito a quello della transumanza, accentuando così la componente sessuale del rito. Un’ulteriore fu aggiunta dagli etruschi che forse nel culto introdussero forme più o meno velate, di sacrifici umani. Nacquerò così i Baccanali, poco graditi al Senato Romano, viste le vicende del 186 a.C.
Per raccontarle, ci affidiamo al buon Tito Livio, il quale sostiene che la prima forma della festività era aperta alle sole donne e si svolgeva durante tre giorni dell’anno, alla luce del giorno; mentre nella vicina Etruria, a nord di Roma, un “greco di umili origini, versato nei sacrifici e negli auguri” aveva stabilito una versione notturna che comprendeva celebrazioni che facevano uso di vino, il che acquisì un seguito entusiasta di donne e uomini.
Sempre secondo lo storico, in questa versione notturna dei baccanali, quando il vino e la mescolanza dei sessi creavano una miscela propria alla dissolutezza, avvenivano anche omicidi sacri. Il periodo dei baccanali sarebbe stato, secondo Livio, il momento migliore per commettere delitti per il fatto che le molte grida e il suono degli strumenti facilitavano nascondere un crimine.
Continuando con la sua narrazione, lo storico padovano riferisce di un grave incidente politico che coinvolse Paculla Annia, una sacerdotessa campana di Bacco, fondatrice di un culto privato e non ufficiale dei baccanali a Roma, con sede presso il boschetto di Stimula, laddove il versante occidentale dell’Aventino scende verso il Tevere.
L’Aventino era un quartiere etnicamente misto, fortemente identificato con la classe plebea di Roma e che era la porta d’entrata privilegiata di nuovi culti forestieri. Il dio del vino e della fertilità Liber Pater, divino patrono dei diritti dei plebei, delle libertà e degli auspici, aveva un culto ufficiale consolidato da tempo nel vicino tempio che condivideva con Cerere e Proserpina e viene descritto da molte fonti come l’equivalente di Dioniso e Bacco a Roma. Paculla aveva modificato il culto, avvicinandolo a quello praticato in Etruria, aumentò la loro frequenza a cinque al mese, li aprì a tutte le classi sociali e ad entrambi i sessi – a cominciare dai suoi stessi figli, Minio ed Errenio Cerrino – e favorì l’abuso di vino e la promiscuità sessuale fra gli iniziati, al grido
“Il male non esiste”
Gli uomini, come in preda ad un’inspiegabile follia, davano oracoli, mentre le matrone, in abiti succinti, correvano al Tevere per spengere nelle sue acque fiaccole accese: poiché impregnati di zolfo e calce, i lumi tornavano a galla ancora fiammanti.
Livio racconta come un giovane chiamato Ebuzio fosse innamorato di una liberta, Ispala Fecenia, nota per aver esercitato il meretricio. Il patrigno del ragazzo, uno scialacquatore, voleva eliminarlo o assoggettarlo al suo volere con qualunque mezzo. La madre degenere, pronta ad assecondare il marito, decise per la via più breve: introdurre il figlio al culto di Dioniso.
Con fare materno disse al ragazzo che, quando era stato ammalato, aveva formulato per la sua pronta guarigione un voto al dio del vino. Una volta cessato il male, la donna aveva promesso che, per ringraziamento, lo avrebbe iniziato al suo culto. Ebuzio doveva astenersi per dieci giorni da rapporti sessuali e, dopo una cena ed un bagno purificatorio, sarebbe stato condotto al sacrario di Bacco. Il giovane informò l’amata di tale decisione, ma Ispala lo ammonì a non farlo, poiché conosceva quel luogo come “l’officina di ogni depravazione”. La giovane gli spiegò quel che sapeva.
Era stata lì da schiava, dovendo accompagnare la sua padrona. Da quando era stata liberata non vi era più entrata, ma conosceva bene la sorte degli sventurati che vi si recavano: appena introdotto al suo interno, il nuovo adepto era consegnato come una vittima nelle mani dei sacerdoti. Questi lo accompagnavano in un locale che risuonava di ululati, canti e del fracasso di timpani e cembali, l’unico modo per nascondere le urla disperate ed imploranti di chi veniva violentato. Ebuzio, sconvolto, su consiglio di una zia decise di denunciare tutto al console Postumio che prese gli opportuni provvedimenti.
Gli accusati furono ben 7000, fra uomini e donne; capi della setta risultarono due plebei romani, Marco e Gaio Atinio, un Lucio Opiterio di Falerii e il campano Minio Cerrinio; coloro che furono riconosciuti soltanto iniziati ai misteri, ma innocenti di qualunque altra turpitudine o delitto, furono lasciati in prigione, quelli invece – e furono i più – che si erano macchiati di stupri, di omicidi, o di frodi, furono puniti di pena capitale, non escluse le donne.
Racconto affascinante, peccato che probabilmente Livio si sia inventato buona parte della storia: la vicenda di Ispala ed Ebuzio ricorda troppo le vicende di una commedia plautina, a sua volta scopiazzate senza ritegno dalla Commedia Nuova dell’Attica. Contestualizziamo il tutto: siamo in piena restaurazione augustea, in cui il Princeps negli antichi dei e nel loro culto voleva trovare il sostegno per dare legittimità al suo potere. Per cui bisognava ribadire ad ogni costo la bontà del mos maiorum e allontanare i cives dalle suggestioni di strani culti orientali, che cominciavano ad andare di moda, e che ne minavano le basi ideologiche e dovevano essere delegittimati. Per cui, Livio, in buona fede, costruì un exempla utile a tale causa, usando la questione Baccanali, gonfiando i numeri e calcando tinte e toni. Tra l’altro, se ci fate caso, le stesse nefandezze dei seguaci di Dioniso furono attribuite anche ai primi cristiani.
Il dato certo, è la repressione del Senato. La religione romana, politeista e universalista, cercava per quanto possibile, di integrare nel suo universo rituale le divinità dei popoli sconfitti, sia per integrarli meglio, sia perché, in fondo, nella vita non si sa mai: meglio un sacrificio in più, che trovarsi un a che fare con il pessimo umore di un dio poco noto.
Perciò, anche se gli dei stranieri non erano considerati altrettanto potenti, tutti erano considerati veri e quindi degni di essere rispettati e venerati. Questa concezione politeista e multi religiosa dello ius sacrum Romanum è ben sintetizzata da Cicerone quando afferma che “sua cuique civitati religio …est, nostra nobis”
Il limite di tale tolleranza era nella superstitio, la religione che comportavano un eccessivo timore degli dei e suscitavano emozioni eccessive (morbus animi), soprattutto i fedeli si riunivano in privato o di notte. Per i Romani tutto doveva avvenire alla luce del sole e tramite riti codificati: essi avevano un sacro terrore per tutto quello che essi non potevano controllare, dato che, se non fossero rispettate le opportune formalità, si sarebbe violata la pax deorum e scatenato il caos nel mondo.
Il culto dionisiaco era proprio, secondo la mentalità romana, la superstitio per eccellenza… A questo aggiungiamoci due fattori contingenti: il primo, è che il Senatore medio romano dell’epoca, avrebbe visto con il fumo negli occhi qualsiasi riunione segreta di plebei, che poteva avere anche risvolti politici. Il secondo è che Catone il Censore aveva preso sul personale la questione repressione Baccanali, per cui, per farlo stare zitto e buono, sempre il senatore medio avrebbe approvato qualsiasi sua proposta, anche la più strampalata.
Così fu promulgato il Senatus consultum de Bacchanalibus, di cui è stata ritrovata una copia in latino arcaico risalente al 186 a.C., ritrovata nel 1640 a Tiriolo, in provincia di Catanzaro e ora conservata al Kunsthistorisches Museum di Vienna. Questa è la sua traduzione in italiano
I consoli Q. Marcio figlio di Lucio e S. Postumio figlio di Lucio hanno consultato il senato alle none di Ottobre presso il tempio di Bellona. Hanno svolto le funzioni di segretari M. Claudio, figlio di Marco, L. Valerio, figlio di Publio, Q. Minucio, figlio di Gaio. (I senatori) hanno consigliato che bisognava emettere un editto a quelli che nell’ambito dei Baccanali avessero fatto accordi tra di loro con queste disposizioni: Nessuno di loro volesse tenere un baccanale; nel caso vi fossero alcuni che affermassero che fosse necessario mantenere un baccanale, (hanno consigliato) che essi venissero a Roma dal pretore urbano e su tali questioni decidesse il senato, dopo aver ascoltato le loro parole, purché fossero presenti non meno di cento senatori, quando tale questione venisse discussa. Nessun uomo volesse avvicinarsi alle baccanti, né un cittadino romano, né uno di diritto latino né un alleato, se non si fosse presentato dal pretore urbano ed egli avesse dato l’autorizzazione, conforme al parere del senato, purché fossero presenti non meno di cento senatori, quando tale questione venisse discussa. Nessun uomo fosse sacerdote. Nessun uomo o donna fosse capo. Nessuno di loro fosse tesoriere di denaro comune né volesse nominare uomo o donna magistrato o vice magistrato. Né d’ora in poi volesse vincolarsi con giuramenti, con voti, con promesse, con obblighi, né volesse stabilire rapporti reciproci di fiducia. Nessuno volesse celebrare riti sacri in segreto. Nessuno volesse celebrare riti sacri né in pubblico né in privato né fuori città, se non si fosse presentato dal pretore urbano ed egli avesse dato l’autorizzazione conforme al parere del senato, purché fossero presenti non meno di cento senatori, quando tale questione venga discussa. Hanno deciso. Nessuno volesse celebrare riti sacri se fossero presenti più di cinque persone, uomini e donne, e tra di essi non volessero essere presenti più di due uomini e più di tre donne, qualora non vi fosse l’autorizzazione del pretore urbano e del senato, come sopra è stato scritto.
La loro decisione è stata questa, che rendiate pubbliche queste decisioni nell’assemblea di non meno di tre mercati consecutivi e conosceste il parere del senato: “Se vi fosse qualcuno che agisse in modo contrario a queste prescrizioni, nei limiti di quanto è stato scritto sopra, hanno deciso che bisognasse intentare loro un processo capitale”. Il senato ha giustamente deciso che incideste questo decreto su una tavola di bronzo, e che lo facciate affiggere dove con molta facilità possa essere conosciuto e che, come sopra è stato scritto, facciate rimuovere, entro dieci giorni dalla consegna delle tavolette, i baccanali, se ve n’è qualcuno, tranne quelli in cui c’è qualcosa di venerabile.
Ovviamente, questa normalizzazione cambiò la natura dei Baccanali, che si formalizzarono, acquisendo forme rituali analoghe a quelle degli altri culti, con libagioni e offerte di frittelle al miele, che furono ereditate nella nostra festa di San Giuseppe
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