
Proseguendo la nostra visita sull’Acropoli di Cuma si sale uno scalone che conduce verso la sommità dell’acropoli e si arriva alle fortificazioni e alla cosiddetta Torre Bizantina, uno dei bastioni della porta monumentale dell’acropoli, così denominata perché l’aspetto che ha attualmente è frutto di una ristrutturazione del periodo bizantino, quando l’acropoli diventa castrum, in funzione della guerra Greco-Gotica (535-553 d.C.), che nelle sue ultime fasi si ambienta proprio a Cuma, quando i Goti si difesero con le unghie e con i denti.
Le fortificazioni che avvolgono l’intera acropoli sono realizzate già nel VI secolo a.C.: di questa fase cronologica restano ancora visibili alcune porzioni in grandi blocchi di tufo che sorreggono le basi della Torre. La porta subisce in seguito importanti interventi di ristrutturazione in età romana ma soprattutto, come già accennato, in età bizantina.
Salendo al livello superiore si gode di una visuale amplissima da una parte sul golfo e dall’altra sulla piana della città: la veduta a est si estende fino al confine della città greca, costituito dal Monte Grillo, tagliato nel varco dell’Arco Felice Vecchio, Porta orientale della città.
Oltrepassata la Torre, la terrazza panoramica del Belvedere, edificata sulle strutture di un’antica masseria che ingloba a sua volta importanti resti romani, offre un momento di piacevole sosta al visitatore e un osservatorio privilegiato delle isole di Ischia e Procida e del paesaggio a sud di Cuma, fino al lago Fusaro, a Torregaveta e, più oltre, fino a Miseno.
Questa ampia terrazza, situata sul fronte est della strada basolata che risale la collina fino alla sommità, ospita una serie di edifici sacri che nel complesso formavano un grande santuario dotato di un tempio principale, di un edificio circolare (tholos), di un naiskos e di una serie di strutture correlate, tra le quali la cosiddetta “cisterna greca” e alcune piccole vasche, forse funzionali all’utilizzo dell’acqua nel santuario.
Benché alcuni autori affermino il contrario, riferendo la leggenda secondo la quale Apollo abbia indicato, sotto forma di bianca colomba, la rotta ai coloni calcidesi e che quindi la dedica del complesso a tale dio risalga alle fondazione della colonia, l’archeologia sostiene una tesi differente.
Iscrizioni e materiale votivo indicano, infatti, come il tempo in origine fosse dedicato ad Hera. Questo edifici , aveva un orientamento nord-sud, era periptero in ordine ionico, con sei colonne sul fronte minore e poggiante su uno stereobate in tufo lungo trentaquattro metri e largo diciotto; durante la dominazione sannita, l’area sacra fu abbandonata, per essere ricostruito, per biechi motivi di propaganda, durante l’età augustea, quando per volere di Ottaviano tutti i luoghi ricordati nell’Eneide vennero restaurati.
Infatti, il buon Virgilio, parlando della visita a Cuma di Enea, si inventò una leggenda, legata alla presenza di Dedalo nella città, che avrebbe realizzato le porte bronzee del tempio, che il poeta, che il poeta, per arruffianarsi il princeps, attribuì ad Apollo.
Questo perchè Ottaviano, nella sua propaganda ufficiale, evidenziava la devozione a tale dio, tanto da proclamarsene figlio. Secondo il nostro solito Svetonio, Azia, madre di Ottaviano, figlia di Marco Azio Balbo e della sorella di Gaio Giulio Cesare, Giulia minore, dopo essersi recata a una cerimonia in onore di Apollo, si appisolò nella cella del tempio, mentre le altre donne facevano ritorno a casa. Un serpente, allora, strisciò intorno alle sue membra, per poi andarsene.
Quando Azia si risvegliò, si accorse che sul suo corpo era rimasta una macchia a forma di serpente. Nove mesi dopo quell’insolito evento, nacque Ottaviano, che da allora fu considerato figlio di Apollo. La sera prima delle doglie, si dice che Azia sognò che le sue viscere si estendevano fino alle stelle, coprendo tutto lo spazio tra terra e cielo, mentre Gaio Ottavio, padre di Ottaviano, la stessa sera sognò che dal ventre di Azia nasceva un raggio di sole, simbolo di Apollo.
Questa fake news ebbe talmente tanto successo, da entrare nel design, chiamiamolo così, degli oggetti d’arredamento di lusso delle domus romane, come il cosiddetto vaso Portland, più famoso esempio di vetro a cammeo dell’antichità, che tra l’altro, ebbe una vita alquanto avventurosa: da strumento di propaganda dell’età dell’oro augustea, regalato da un membro della gens Iulio-Claudia a un ricco senatore, si trasformò in un dono di nozze, per poi diventare parte del corredo funebre dell’imperatore Alessandro Severo.
In realtà, la storia del legame tra Augusto e Apollo è molto più terra terra: Antonio, come ho raccontato nel mio romanzo Io,Druso, per la prestanza fisica si identificava con Ercole e per il suo desiderio di conquistare l’Oriente, con Dioniso. Secondo il mito, questo dio, dopo avere sconfitto i Titani in Egitto si diresse in oriente, verso l’India, sconfiggendo numerosi avversari lungo il suo cammino (tra cui il re di Damasco, che scorticò vivo) e fondando numerose città: dopo aver sconfitto il re indiano Deriade, Dioniso ottenne l’immortalità.
Durante la guerra civile, Ottaviano, sempre in termini di propaganda, contrappose a questa identificazione di Antonio la sua con Apollo, sia perché il dio rappresentava l’ordine e la ratio in opposizione alla superstitio dionisiaca, sia perché, aveva sconfitto Ercole in una disputa sul possesso dell’oracolo di Delfi. Per cui, quando la sua ascesa al potere fu completata, come ex voto cominciò a riempiere Roma e province di templi dedicati al suo protettore, tra cui quello sul Palatino, che fungeva anche da accesso monumentale alla sua domus.
L’invenzione di Virgilio, oltre ad assecondare questa mania di Ottaviano, rafforzava l’immagine di Cuma e della sua Sibilla come corrispettivo italico dell’oracolo di Delfi. Proprio per ribadire l’antichità di questo culto oracolare, il poeta inventò anche una seconda storiella, quella di Dedalo, di cui cito i versi nella traduzione di Annibal Caro.
Quando avanti di marmo ornato e d’oro
il bel tempio si vide. È fama antica
Che Dedalo, di Creta allor fuggendo
Ch’ebbe ardimento di levarsi a volo
Con più felici e con più destre penne
Che ’l suo figlio non mosse, il freddo polo
Vide più presso; e per sentier non dato
A l’uman seme, a questo monte alfine
Del Calcidico seno il corso volse.
Qui giunto e fermo, a te, Febo, de l’ali
L’ordigno appese, e ’l tuo gran tempio eresse,
Ne le cui porte era da l’un de’ lati
D’Andrògëo la morte, e quella pena
Che di Cècrope i figli a dar costrinse
Sette lor corpi a l’empio mostro ogn’anno:
Miserabil tributo! e v’era l’urna,
Onde a sorte eran tratti. Eravi Creta
Da l’altro lato, alto dal mar levata,
Ch’avea del tauro istorïata intorno
E di Pasífe il bestïale amore,
E la bestia di lor nata biforme,
Di sì nefando ardor memoria infame.
Eravi l’intricato laberinto:
Eravi il filo, onde gl’intrighi suoi
E le sue cieche vie Dedalo stesso,
Per pietà ch’ebbe a la regina, aperse.
E tu, se ’l pianto del tuo padre e ’l duolo
Nol contendea, saresti, Icaro, a parte
Di sì nobil lavoro. Ma due volte
Tentò ritrarti in oro, ed altrettante
Sì l’abborrì, che l’opera e lo stile
Di man gli cadde
Secondo il mito originale, Dedalo era ateniese di nascita. I genitori che la tradizione gli attribuisce segnalano tutti il suo intimo legame con la sfera delle téchnai: come padre si ricordano Metion, che richiama nel nome la metis, l’intelligenza pratica e astuta, ovvero Eupalamos (= ‘quello dalle mani buone’), che richiama l’arte manuale; come madre si ricorda Iphinoe (= ‘quella dai forti pensieri’) , Metiadousa (= ‘quella che ama la metis’) o Phrasimede (= ‘quella che concepisce piani’). Sarebbe stato cugino di Teseo. La tradizione ateniese ne cita il nipote e allievo Talos, figlio di una sorella nota in qualche tradizione anche lei come Perdix.
L’attività ateniese di Dedalo è soprattutto legata alla scultura: Socrate, figlio di uno scultore, provocatoriamente si riteneva discendente di Dedalo, ma di fatto apparteneva al demo attico dei Daidalidai, propriamente ‘i discendenti di Dedalo’, di cui appunto Dedalo era l’eponimo. Dedalo, peraltro, era noto per la costruzione di statue semoventi, veri e propri automi (autómatoi), come quelli che costruiva il dio Efesto.
Un’altra caratteristica eccezionale che si manifesta ad Atene è l’invenzione degli strumenti che lo aiutano nella sua opera di scultore e carpentiere e di cui Plinio il Vecchio dà un elenco:
Dedalo fu inventore degli strumenti che consentono di lavorare la materia, tra cui la sega, l’ascia, il filo di piombo, il trapano, la colla, la colla di pesce
Dedalo ben presto si trova a dover competere con il nipote che a sua volta inventa il compasso e la ruota da vasaio. Non può farsi a meno di notare la complementarità delle rispettive invenzioni: quella dello zio-maestro Dedalo insiste sulla nozione della linearità, quelle del nipote-allievo sulla nozione della circolarità. Lo scontro è inevitabile quando il nipote, ispirandosi alla mascella di un serpente, inventa la sega per tagliare il legno tenero. L’invidia dello zio lo spinge a una reazione spropositata: una mattina Dedalo si reca con Talos sull’Acropoli, sul tetto del Tempio di Atena e lo spinge giù dal cornicione.
Dopo aver spinto il ragazzo nel vuoto, Dedalo si precipita ai piedi dell’Acropoli e chiude il cadavere in un grosso sacco, proponendosi di seppellirlo in un luogo deserto. Gli ateniesi, nel vederlo trasportare tale peso, ne sono incuriositi, ma per sviarne i sospetti, l’inventore risponde di avere raccolto un serpente morto, come previsto dalla legge. Ben presto sul sacco appaiono macchie di sangue ed il folle delitto è scoperto e nessuno crede alla bugia di Dedalo, di una caduta accidentale del nipote.
Così, tre generazioni prima di Oreste, Dedalo è giudicato dall’Areopago e da questo condannato all’esilio; per questo si trasferisce a Creta, al servizio di Minosse, dove conosce e sposa Naucrate, da cui avrà Icaro, e dove costruisce sia il Labirinto, e un gigantesco automa di bronzo, a cui da il nome del nipote ucciso.
Talos è incaricato da Minosse di sorvegliare l’isola, mettendo in fuga i nemici che tentano di sbarcarvi, o di fermare i cittadini senza il consenso del re. Ogni giorno fa il giro dell’isola armato e pronto per scagliare enormi pietre e non esita a buttarsi nel fuoco fino ad una elevatissima temperatura per poi schiantarsi sui suoi nemici stritolandoli e bruciandoli.
L’automa è invincibile, tranne in un punto della caviglia, dove era visibile l’unica vena che contiene il suo sangue. La leggenda vuole che quando la spedizione degli Argonauti giungr sull’isola, sia reso pazzo da Medea ed ucciso dall’argonauta Peante che trafigge la sua vena con un colpo di freccia.
Però Dedalo, su richiesta di Arianna, figlia di Minosse, decide di aiutare il cugino Teseo contro il Minotauro: per cui, come punizione di questo tradimento, lui e Icaro sono imprigionati nel Labirinto. Per evadere, Dedalo costruisce due paia di ali, uno per sé e l’altro per il figlio. Si raccomanda con Icaro di restargli sempre dietro durante il volo, di non strafare e soprattutto di stare attento a non avvicinarsi troppo ai raggi del sole perché, le ali, attaccate alle spalle con della cera, possono staccarsi. Come non detto, Icaro durante il volo, non gli da retta, precipitando in mare e affogando.
Secondo la versione originale del mito, Dedalo atterra ad Agrigento, dove è ospite del re sicano Cocalo. Al suo servizio Dedalo gli costruisce una diga, fortica una cittadella per proteggere i tesori del re, edifica su una roccia a picco le fondamenta di un tempio ad Afrodite, installa uno stabilimento termale. Questo racconto, probabilmente, serviva ai coloni greci a spiegarsi le somiglianze, che di certo avevano notato, tra le tholos micenee e le tombe della cultura di Thapsos.
Minosse, venuto a conoscenza della fuga di Dedalo in Sicilia, organizza una spedizione e sbarca a Minoa, e per trovare Dedalo si serve del suo particolare stratagemma: promette una grossa ricompensa a chi riesce a far passare un filo attraverso le spirali di una conchiglia di una chiocciola.
Cocalo allettato dall’oro, propone la soluzione a Dedalo che lega il filo ad una formica spingendola in quel nuovo labirinto. Quando Cocalo fa portare la conchiglia a Minosse, questo capisce che Dedalo deve essere nei paraggi e invia degli ambasciatori al re sicano, per ottenere la restituzione del fuggitivo.
Però Dedalo aveva sposato una delle figlie di Cocalo: il loro figlio, Iapyx, diventerà re in Puglia, dove tutti i popoli, dal Salento fino alla Daunia, sarebbero stati chiamati, dal suo nome, Iapigi. Per cui Cocalo, tutt’altro che intenzionato a perdere tale genero, invita Minosse e, dopo aver promesso di assecondare le sue richieste, concede l’uso delle sue terme, costruite da Dedalo a Minosse, ma mentre il re cretese, per nulla insospettito, si lava servito, secondo il costume di quei tempi, dalle figlie di Cocalo, le cognate di Dedalo, violando le leggi dell’ospitalità, lo affogano.
Per espiare questa colpa, Dedalo entra al servizio del mitico Iolao, figlio di Ificle e nipote di Eracle, per fondare in Sardegna una colonia greca: le nuraghe furono considerati dai greci come resti di questo mitico stanziamento. Mito che serviva a giustificare le velleitarie rivendicazioni coloniali sull’isola, saldo possesso punico.
Virgilio, ovviamente, butta via tutta questa parte del mito, in cui Dedalo fa la parte dell’intrigante e che rivendica il ruolo demiurgico della technè: secondo il poeta, ricordiamolo, Dedalo sarebbe arrivato direttamente sulla rocca di Cuma, dove avrebbe dedicato le ali ad Apollo e in suo onore avrebbe eretto un immenso tempio, sulle cui porte d’oro aveva istoriato la sua storia, particolarmente il suo soggiorno cretese, la sua opera tecnica a favore di Minosse e della regina Pasifae, l’aiuto fornito ad Arianna innamorata; abortiti per il dolore e la commozione erano i tentativi di rievocare la triste vicenda di Icaro.
Nei versi virgiliani prevale un Dedalo pius, corrispettivo di Enea, rispettoso della divinità e visceralmente legato al ricordo straziante di suo figlio caduto; la sua abilità tecnica è solo sullo sfondo della sua amara e tragica esperienza cretese; il prodotto ultimo e straordinario della sua “scienza”, le ali umane, non avvia un progresso, non celebra una riuscita, ma rimanda prevalentemente a un doloroso insuccesso patito dal figlio. Sulla rocca di Cuma c’è Dedalo solitario che, proprio quando recupera la fede in un dio, denuncia l’inanità e la pericolosità della scienza e del progresso, mostrando i pregiudizi di un poeta che in fondo, non voleva essere nulla più che un piccolo proprietario terriero, con i suoi tre o quattro schiavi e la sua vita comoda e abitudinaria, lontana dalle diavolerie della res novae.
In ogni caso, l’Eneide, come accennato, convinse Augusto ad aprire i cordoni della borsa e a ricostruire il complesso templare di Cuma. Viene ricavata, tagliando parte delle fortificazioni greche, una grande rampa di accesso alla terrazza dal piazzale appena oltre la porta dell’acropoli; il tempio stesso viene demolito fino al basamento e riedificato con l’aggiunta di un monumentale pronao sul lato lungo, simile a quello del tempio della Concordia a Roma, che prospettava sulla città bassa ed era così imponente da potersi vedere da ogni punto della piana cumana.
Il nuovo tempio, a differente del precedente, aveva un orientamento est-ovest: il pronao presentava delle colonne doriche, eccetto quelle agli angoli che avevano una particolare forma trilobata. Tutte le colonne erano in laterizio rivestite in stucco, che in parte ancora si conserva, poggianti su basi attiche e sormontate da capitelli ionici; la trabeazione, di cui sono stati ritrovati alcuni frammenti, era decorata in terrecotte, raffiguranti elementi zoomorfi ed antropomorfi. La cella, realizzata in opus reticolatum ma di cui non rimane alcun rivestimento murario, misurava ventidue metri di lunghezza e nove di larghezza con ingresso sul lato orientale ornato da due colonne in laterizi: internamente era divisa in tre navate con aperture ai lati intercalati da pilastri in trachite e doveva contenere una grossa statua raffigurante Apollo. A completare il tutto, la pavimentazione dell’intera struttura era in travertino.
Tra il VI ed l’VIII secolo il tempio venne trasformato in basilica cristiana, ritornando paradossalmente all’orientamento arcaico, con la conseguente costruzione di un fonte battesimale e di alcune tombe nel pavimento: venne quindi abbandonato a seguito dello spopolamento della città di Cuma nel XIII secolo e ritrovato solamente nel 1912, immediatamente identificato tramite un’epigrafe in marmo che faceva chiaro riferimento all’Apollo Cumano
…dove ho già letto questa storia che una donna rimane ingravidata da un dio e che il figlio poi diventa il padrone del mondo?
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