
Mentre a Siracusa, al seguito delle discussioni, si cominciava a organizzare la difesa, la grande flotta ateniese si mosse da Corfù, traversando l’Adriatico e raggiungendo, in ordine sparso, le coste pugliesi, dando apparentemente ragione ad Ermocrate.
Le città della Magna Grecia, infatti, decisero per un atteggiamento neutrale, con le eccezione di Locri, che nonostante la diplomazia attica degli anni precedenti, temeva una replica in grande stile di quanto accaduto nella guerra di Leontini, e Taranto, che, ricordiamolo, era una colonia spartana, fondata, secondo Eusebio di Cesarea, nel 706 a.C.
L’ottavo secolo a.C. è un periodo di forte crescita demografica per Sparta, dovuta sia all’introduzione di nuove tecniche agricole, sia allo sfruttamento intensivo degli Iloti. Per mettere una pezza a tale boom demografico, che, moltiplicando i cadetti senza terra, rischiava di mettere in crisi i suoi equilibri interni, occupò la pianura della Messenia.
Però, lo stato di guerra continua non era sostenibile a lungo dalla Polis: per interromperlo, nacque il complesso meccanismo costituzionale della Lega Peloponnesiaca. Ovviamente, ci furono degli scontenti, che si organizzarono sotto la guida di Falanto, in un movimento di opposizione, detto dei Partheni. La situazione deve essere stata parecchio complicata per Sparta, perchè, invece di risolvere la questione a mazzate, si preferì raggiungere un compromesso, organizzando e spesando la migrazione dei Partheni in Puglia.
Secondo la leggenda, prima di partire, Falanto consultò l’Oracolo di Delfi alla ricerca di un responso circa il proprio futuro. L’oracolo di Apollo, tramite la Pizia, così sentenziò:
“Vi concedo di abitare Saturo e siate la rovina degli Iapigi.”
Falanto chiese anche un segno con cui capire quando sarebbe giunto il momento opportuno, e l’oracolo sentenziò:
“Quando vedrai piovere dal ciel sereno, conquisterai territorio e città.”
Raggiunte le terre degli Iapigi, i Parteni non riuscirono ad avere la meglio sugli indigeni, ma si limitarono a prendere possesso del promontorio di Saturo. Venne un giorno in cui le ambizioni e le delusioni di Falanto, lo videro sedere per terra con il capo poggiato sulle ginocchia della moglie, la quale stanca e scoraggiata, cominciò a piangere e a bagnarlo con le sue lacrime. Ma il nome della moglie Etra (in greco antico Αἴθρα) ha proprio il significato di “cielo sereno”, per cui Falanto, ricordandosi dell’oracolo, ritenne giunto il momento di fondare una città: guidando i suoi uomini verso l’entroterra fondò così Taranto, richiamandosi all’eroe greco-iapigio del luogo chiamato Taras.
Mentre gli indigeni riparavano a Brindisi, Falanto poté finalmente costituire in Italia una colonia lacedemone, retta dalle leggi di Licurgo. In seguito a contrasti con i concittadini (per seditionem), Falanto venne scacciato con ingratitudine da Taranto e si rifugiò a Brindisi, proprio presso gli Iapigi che aveva sconfitto. In quel luogo morì e ricevette un’onorata sepoltura dai suoi ex nemici.
Sul letto di morte, tuttavia, Falanto volle far del bene ai suoi ingrati concittadini: convinse i brindisini a spargere le sue ceneri nell’agorà di Taranto, perché così facendo si sarebbero assicurati la conquista della città. In realtà, l’oracolo aveva predetto a Falanto che Taranto sarebbe rimasta inviolata se le sue ceneri fossero rimaste entro le mura. Così Falanto, ingannando i brindisini, fece un favore ai tarantini che da allora gli resero l’omaggio dovuto ad un ecista
Tornando alla spedizione ateniese, le altre città italiote, decisero di mantenersi neutrali, anche per i problemi con le popolazioni sabelliche, che avrebbero approfittato di un loro indebolimento in caso di una guerra fratricida. Al momento opportuno, si sarebbero schierate con il vincitore. Anche Reghion avrebbe voluto adottare lo stesso approccio, ma purtroppo, sempre per la questione delle vicende della guerra di Leontini, in cui aveva cercato di sfruttare a suo vantaggio la potenza ateniese, per usare un termine della Seconda Guerra Mondiale, dovette, invece che scegliere la neutralità, adottare la non belligeranza. Così racconta la vicenda Tucidide
Di fianco al convoglio veleggiava un centinaio di battelli da carico requisiti: liberamente s’era invece aggregato un nutrito gruppo di legni mercantili e altri bastimenti, per ragioni di traffico. Salpata da Corcira, tutta questa folla di navi passava compatta il golfo Ionico. E la flotta al completo prese terra chi a capo Iapigio, chi a Taranto, chi altrove, come si trovava comodo. Poi iniziarono il giro dell’Italia, seguendo la costa. Ma le città non offrivano alle truppe né il mercato né ospitalità dentro la cinta: si limitavano all’acqua e all’attracco.
Anzi Taranto e Locri negarono anche questi servizi essenziali. Finché furono in vista di Reggio, estremo capo d’Italia. In questa base finalmente l’armata serrò le file e all’esterno della città (dentro non fu permesso) nel santuario di Artemide, i reparti allestirono un campo dove si consentì anche all’apertura di un mercato. Trassero in secco le navi, e respirarono. Poco dopo gli Ateniesi intavolarono con quelli di Reggio un colloquio esigendo che, in quanto d’origine calcidese, soccorressero Leontini, colonia anch’essa di Calcide.
Ma gli interlocutori protestarono la propria neutralità, anticipando che si sarebbero attenuti alla politica fissata in comune con le altre genti greche d’Italia. Quindi gli Ateniesi si applicarono a esaminare e delineare il progetto operativo più adatto alle condizioni attuali della Sicilia.
Frattanto si attendevano le navi inviate per le indagini a Segesta, con l’ansia di conoscere se corrispondevano a verità le gran lodi che, in Atene, l’ambasceria aveva tessuto dei propri tesori.
Ovviamente tutta questa flotta, non passò inosservata a Siracusa: nonostante il parere di Atenagora, gli ateniesi erano così folli da impegnarsi in un’impresa che non impattava i loro diretti interessi strategici. D’altra parte, visto il numero delle navi, l’attacco preventivo di Ermocrate, sembrava sempre più inattuabile, per cui, ci si orientò a rafforzare le difese della città, in una sorta di corsa contro il tempo
Da varie fonti ormai, e particolarmente dai loro emissari in esplorazione, affluivano a Siracusa notizie sempre più indubitabili sulla comparsa a Reggio della flotta, e in ordine a queste informazioni i Siracusani si dedicavano anima e corpo ad allestire un apparato di protezione: le diffidenze erano sfumate. Ogni giorno partivano per le località circonvicine della Sicilia ora un’ambasceria, ora una scolta armata: intanto rafforzavano con corpi freschi di presidio la fascia di installazioni difensive già esistenti a copertura del paese. Nella cinta urbana si susseguivano le revisioni delle armature e dei cavalli, per star sicuri che ogni particolare funzionasse in perfetto ordine, mentre si prendevano tutte le altre misure atte a fronteggiare un conflitto ormai imminente, per non dire già aperto.
Nel frattempo, da Segesta arrivavano pessime notizie. Come sosteneva Nicia, i segestani erano una manica di truffatori e non avevano le risorse per pagare i costi di spedizione. Tra l’altro, il fatto che in questo loro imbroglio fossero stati aiutati dalle città puniche dell’epicrazia e gli eventi successivi, con la guerra d’Agrigento, fa sospettare che Cartagine, tradizionale alleato di Segesta, fosse dietro a questa spregiudicata manovra, per indebolire Siracusa, mettendo Greco contro Greco
Intanto le tre navi di vedetta in arrivo da Segesta raggiungono gli Ateniesi a Reggio, con l’avviso che in fatto di tesori le promesse risultavano totalmente infondate: di solido restavano si e no trenta talenti. Quel colpo avvilì subito gli strateghi: l’impresa s’era avviata appena, ed ecco il primo intralcio. Reggio, poi, non era disposta ad associarsi nella spedizione: proprio quelli di Reggio, i primi con cui s’era aperto il dialogo, e sui quali si poteva contare ad occhi chiusi, affini com’erano di ceppo alla gente di Leontini e da sempre in cordiali rapporti con Atene. Nicia era pronto, e per lui l’esito dell’inchiesta non fu una novità; ma i due colleghi non sapevano trovarne un’interpretazione. I Segestani, quando si erano presentati i primi ambasciatori ateniesi incaricati dell’inchiesta finanziaria, avevano attuato questo espediente.
Avevano accompagnato i commissari nel santuario di Afrodite in Erice, per far mostra delle offerte votive, delle coppe, brocche, incensieri e tutto un assortimento di corredi sacri che per esser d’argento offrivano agli occhi un aspetto prezioso, non corrispondente al valore autentico, assai modesto. Per di più, in sede privata i Segestani invitavano a banchetto i membri d’equipaggio della nave visitatrice e incettato il vasellame e le suppellettili d’oro e d’argento reperibile in città, arricchendo gli ambienti con preziosi fatti venire a prestito dal vicinato, e perfino dai centri fenici e greci, li esponevano nelle mense come fossero di loro proprietà. In tutti i casi erano sempre gli stessi oggetti di lusso a compiere il servizio, a turno, e in tutte le case, una volta qui, l’altra là se ne poteva ammirare il dovizioso fulgore: e l’impressione sui marinai ateniesi fu profonda. Approdati ad Atene costoro presero subito a magnificare a destra e a sinistra le mille meraviglie di cui erano stati spettatori. Allora quell’illusione aveva sedotto anche gli altri, che li ascoltavano: ma quando prese corpo la notizia che a Segesta i fondi erano favole, un acre malumore sorse tra i soldati
contro di loro. Gli strateghi, preoccupati dalle circostanze, tennero consulto.
Insomma, Mussolino con gli aerei e la Raggi con i bus presentati più volte, non si sono inventati nulla.
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