Io e il Solarpunk

Ultimamente, la fantascienza italiana si sta confrontando sempre di più con la sfida intellettuale e narrativa del Solarpunk. Per chi non lo conoscesse, questo movimento culturale e artistico, utilizzando una definizione vaga e sotto tanti aspetti imprecisa promuove una visione ottimista e progressista del futuro, in cui le nuove tecnologie e l’utilizzo diffuso delle energie rinnovabili permettono l’implementazione di nuovi modelli sociali, basati sull’equilibrio tra Natura e Cultura.

Il termine “solarpunk” è stato coniato su Internet ed è stato utilizzato per la prima volta nel 2008, diffondendosi inizialmente in blog e discussioni on-line. È diventato però popolare solo negli anni successivi, in particolare dopo la pubblicazione nel 2011 di Innovation Starvation, un articolo dello scrittore di fantascienza Neal Stephenson nel quale viene criticata la situazione di stallo in cui si trova la scienza moderna; devo confessare, che l’impressione che ho avuto, leggendo l’articolo è che Stephenson abbia una visione molto settoriale e ridotta di come siamo messi dal punto di vista tecnologico e scientifico. E’ vero, in alcuni campi siamo in ritardo nel realizzare i sogni ingenui della fantascienza classica: ma in altri, invece, molto più importanti nel quotidiano, penso alla telco, al cloud, all’intelligenza artificiale allo stesso quantum computing, siamo molto più avanti rispetto alle previsioni degli anni Sessanta, dato che queste tecnologie cambiano in maniera esponenziale il nostro quotidiano. Il fatto che non ce ne rendiamo conto, dimostra la capacità di resilienza psicologica dell’essere umano.

Tornando a Innovation Starvation, Stephenson sottolinea come la mancanza di iniziativa da parte della società, soprattutto nel campo delle energie rinnovabili, si sia progressivamente riflessa anche nella letteratura fantascientifica degli ultimi anni, sempre più caratterizzata da visioni distopiche e pessimiste. Lo scrittore parla inoltre della Hieroglyph Theory, termine coniato durante un evento a cui aveva preso parte, che sostiene che i concetti scientifici alla base delle grandi storie di fantascienza del secolo scorso, ad esempio i robot di Isaac Asimov o il cyberspazio di William Gibson, abbiano svolto un ruolo importante nel progresso scientifico in passato, poiché presentavano innovazioni tecnologiche con una logica interna che hanno influenzato la comunità scientifica dell’epoca.

Da marxista, qualche dubbio, ce l’ho su questa interpretazione: soprattutto Gibson, ha contribuito a creare e diffondere il linguaggio tecnico che oggi usiamo comunemente nell’informatica, però questo è stato effetto, non causa dei cambiamenti della Struttura. Ogni nuova forma che assume il sistema di produzione capitalista, provoca la nascita di un’ideologia formale che ne garantisce la legittimità. La fantascienza classica era conseguenza della terza industrializzazione, la transistor and chip economy, mentre il cyberpunk della quarta, quella che sarebbe diventata l’internet economy. A loro volta, le visioni distopiche sono frutto di un periodo di crisi e di ristrutturazione del capitalismo, dovuto alla globalizzazione, all’automazione, ai digital twins e alla diffusione dell’intelligenza artificiale, che dura da fine anni Novanta.

Dato che sospetto che parlare di zio Karl Marx in America, sia come bestemmiare in chiesa, le tesi di Stephenson, che, ribadisco, nascono da una rappresentazione parziale della Struttura e invertono causa ed effetto, ebbero subito successo, tanto che il suo articolo ha ispirato nel 2011 il progetto Hieroglyph, in collaborazione con la Arizona State University, che si pone come obiettivo la pubblicazione di storie di fantascienza più ottimiste, in modo da poter ispirare e indirizzare la comunità scientifica verso le tecnologie ecosostenibili.

Nel 2012 viene pubblicata in Brasile la prima antologia di storie solarpunk, Solarpunk: Histórias ecológicas e fantásticas em um mundo sustentável di Gerson Lodi-Ribeiro. Nel 2014 è stato pubblicata la prima raccolta di racconti nell’ambito del progetto, con il titolo Hieroglyph: Stories and Visions for a Better Future. Nel settembre dello stesso anno Adam Flynn ha pubblicato l’articolo Solarpunk: Notes toward a manifesto sul sito del progetto Hieroglyph, descrivendo le caratteristiche principali del movimento. In Italia, con un poco di ritardo, nel 2020 cominciano ad apparire le prime antologie Solarpunk: Come ho imparato ad amare il futuro, a cura di Fabio Fernandes e Francesco Verso e Assalto al sole. La prima antologia solarpunk di autori italiani a cura di Franco Ricciardiello, a cui è seguita da pochi giorni la collana Atlantis di Delos.

Citando Wikipedia

Il suffisso “-punk” indica in questo caso la ribellione contro il sistema capitalista moderno caratterizzato da oppressione delle minoranze etniche e di genere, sessismo, eternormatività, sfruttamento delle classi lavoratrici, individualismo, maltrattamento degli animali e politiche contro la salvaguardia dell’ambiente. Il prefisso “solar”, invece, fa riferimento all’energia solare, una fonte di energia sostenibile, presente in abbondanza e accessibile a tutti, ma anche alla luce e al calore, elementi che vengono spesso associati, nelle opere appartenenti al genere, alla vita, alla rinascita e al senso di comunità.

Ovviamente, il movimento non si limita allo scrivere romanzi basati “sul pannelli solari, meno petrolio”, ma a proporre una narrazione incentrata sullo sviluppo di una società equa e accessibile per tutti, dove ogni minoranza è riconosciuta e rappresentata, in un’ottica propositiva, orientata al mutamento della società: il bieco marxista che in me, tenderebbe a definire il tutto come una giustificazione ideologica della “green economy”, con tutte le sue contraddizioni e il nascondere i problemi sotto il tappeto, ma sarebbe limitativo.

In verità, nonostante goda dell’ingiusta fama di avere una posizione critica nei confronti del solarpunk, io non ho nulla contro tale movimento. Anzi, sino ad oggi, sto apprezzando moltissimo le opere degli autori italiani, che più o meno sono riusciti a non cadere nella tentazione della facile morale e della lezioncina sul come essere più bravi, buoni ed ecologici.

Le mie perplessità, per quel poco che valgono, sono come dire, di tipo terminologico e filosofico. Ora definire cosa sia stato il punk è un’impresa improba, dato in quel movimento c’era tutto e il contrario di tutto: però, nel mio piccolo, sospetto che tutte le sue differenti declinazioni erano accomunate dall’essere anti anti sistema, individualista, anti ideologico e nichilista. Posizioni che più o meno direttamente, erano migrate nel primo cyberpunk, in cui le storie, prigioniere di un eterno presente, escludevano il divenire, quindi qualsiasi mutamento sociale, i cui personaggi, tratti dall’hard boiled, erano degli sconfitti dalla vita e schiacciati dal peso di esistere, in cui ribellismo era fine a se stesso e in cui la tecnologia, a differenza del transumanesimo, non aveva nessun valore salvifico.

Con La Macchina della Realtà di William Gibson e Bruce Sterling, che in fondo era solo un tentativo ironico di spostare le problematiche del ciberpunk all’età vittoriana, nasce lo steampunk: ma un contesto diverso, ha generato una narrazione differente. I problemi ottocenteschi, la globalizzazione, la Singolarità provocata dalla Prima Rivoluzione Industriale, l’Imperialismo, il razzismo implicito nel “fardello dell’uomo bianco”, la crisi del proletariato, erano potenti metafore della nostra società attuale, che gli scrittori del genere, più o meno implicitamente, hanno utilizzato. Per cui, il punk ha perso il suo valore semantico originale, per trasformarsi in un suffisso generico, per identificare il retrofuturismo. Lo stesso discorso vale per il Peplumpunk, che rappresenta il postmoderno liquido e multiculturale con le contraddizione della società greco romana.

Il Solarpunk, con la sua dimensione consolatoria, è l’estremo annacquamento del punk, che i Sex Pistols non avrebbero compreso. Tra l’altro, in un periodo di crisi come l’attuale, sono il primo a considerare come utile una fantascienza consolatoria ed utopica, però per mio gusto personale e formazione culturale, avrei difficoltà a scriverla.

Badate bene, con consolatoria non vuol dire, fantascienza con lieto fine e in cui tutto andrà bene, perché sarebbe riduttivo e ingiusto nei confronti del Solarpunk. La dimensione consolatoria di tale nasce invece da altri due fattori: l’affermazione della centralità dell’Uomo nell’Universo, con l’illusione che le sue scelte possano avere un impatto globale sul Reale e il ruolo salvifico della tecnica, cosa che, in fondo, è l’estremizzazione del pensiero positivista di Comte.

Sulla centralità dell’Uomo nell’Universo, purtroppo, io la penso come Leopardi. Il nostro ruolo di bipedi implumi, con i suoi successi e fallimenti, è estremamente sopravvalutato, in un’ottica cosmologica. Come dice bene la Natura all’Islandese

Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra? Ora sappi che nelle fatture, negli ordini e nelle operazioni mie, trattone pochissime, sempre ebbi ed ho l’intenzione a tutt’altro che alla felicità degli uomini o all’infelicità. Quando io vi offendo in qualunque modo e con qual si sia mezzo, io non me n’avveggo, se non rarissime volte: come, ordinariamente, se io vi diletto o vi benefico, io non lo so; e non ho fatto, come credete voi, quelle tali cose, o non fo quelle tali azioni, per dilettarvi o giovarvi. E finalmente, se anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne avvedrei.

Non costruiamo una società migliore per salvare la Terra, in fondo la sua biosfera è sopravvissuta a parecchie estinzioni di massa e la nostra non farà differenza, ma per sopravvivere a una Natura matrigna. Se non ci riusciremo, l’Universo rimarrà indifferente.

E soprattutto, come diceva Emanuele Severino, la Tecnologia non ha un valore salvifico, ma è uno sorta di Leviatano, che si autoalimenta. Per citare un saggio sul tema di Christian Fuschetto

Gli strumenti di cui l’uomo dispone – scrive Severino – hanno la tendenza a trasformare la propria natura. Da mezzi tendono a diventare scopi. Oggi questo fenomeno ha raggiunto la sua forma più radicale. L’insieme degli strumenti delle società avanzate diventa lo scopo fondamentale di queste società. Nel senso che esse mirano soprattutto ad accrescere la potenza dei propri strumenti. Già gli antichi sapevano che se lo scopo della ricchezza è di vivere bene, può però anche accadere che come scopo della vita ci si proponga la ricchezza. In questo modo la ricchezza, che inizialmente funziona come mezzo, strumento, diventa scopo, fine» (p. 38). La tecnica, come la ricchezza per l’uomo dissennato, perde dunque per l’uomo del XX e del XXI secolo la sua natura “strumentale” e diventa lo scopo di ogni suo agire. Ogni progetto, ogni politica, ogni speranza, dice il filosofo bresciano, può oggi acquistare un senso solo al cospetto dell’“Apparato tecnico-scientifico”, vale a dire dell’integrazione tra campi tutti i campi del sapere in nome della scienza e della tecnologia. «Capitalismo e socialismo reali (e anche il cristianesimo e la democrazia liberale) intendono certamente assegnare i propri scopi all’Apparato: e da parte sua la scienza dichiara ancora di non poter essere che neutrale rispetto ai propri fini. Ma l’efficacia dell’Apparato non è determinata dal fine assegnatogli. Qualunque possa essere il fine assegnato dall’esterno all’Apparato, quest’ultimo possiede di per sé stesso un fine supremo: quello di riprodursi e di accrescere indefinitamente la propria capacità di realizzare fini» (p. 40). La tendenza del nostro tempo è quella per cui la tecnica non è più chiamata a servire l’ideologia del profitto, dell’amore cristiano, della società degli eguali, e così via, ma è quella per cui l’organizzazione ideologica della tecnica lascia sempre di più il passo alla sua organizzazione scientifico-tecnologica. L’Apparato, suggerisce Severino, diventa la forma suprema dell’agire; di più: diventa la forma entro cui ogni azione umana appare possibile e sensata. Ciò perché l’Apparato assume contorni “gloriosi”: «Dire che l’Apparato scientifico-tecnologico subordina a sé tutte le forme di potenza apparse lungo la storia dell’uomo, significa dunque dire che la potenza della scienza ottiene un riconoscimento sociale che non è più ottenuto dalla magia, dalla religione, dalla politica, ecc. Ma anche per la scienza moderna la potenza sul mondo esiste solo se la totalità dei gruppi umani riconosce l’esistenza di tale potenza. La scienza è inseparabile dalla propria “gloria”» (p. 76).

La dimensione “gloriosa” della scienza è tuttavia solo il portato di una preliminare ermeneutica dell’essere. Alla base della volontà di potenza di cui l’Apparato si farebbe latore c’è un’ulteriore e più essenziale volontà, vale a dire una volontà interpretante, «ossia la volontà che decide che una certa configurazione del mondo sia la potenza, il dominio, il successo della scienza e delle altre forze che si contendono il mondo. La scienza – precisa Severino – vuole il dominio , non solo nel senso più familiare che il dominio è lo scopo che la scienza vuole realizzare, ma anche in un senso estremamente più radicale e più nascosto: nel senso appunto che è la stessa volontà di potenza a volere che il dato al quale conduce l’agire scientifico sia la realizzazione degli scopi che tale agire si propone» (p. 78). Per dirla in altri termini, la scienza non solo aspirerebbe al dominio dell’ente ma deciderebbe al contempo in cosa effettivamente tale dominio consista. Per questo il tempo che viviamo è «il tempo che ha fede nella potenza della scienza», perché è il tempo animato da un’etica strutturata dalla scienza, un’etica cioè voluta dalla scienza (i più si illudono invece di pensare l’etica della scienza come se il genitivo in questione potesse essere inteso in senso soggettivo), un’etica cioè al cui fondamento non c’è nient’altro che la volontà di dare al mondo il senso voluto dall’Apparato.

La riflessione di Severino tocca a questo punto quello che è forse il nucleo centrale non solo del testo ma della sua intera impresa filosofica, vale a dire la questione dell’essere e del divenire, degli enti e del niente. «La riflessione greca sul senso dell’essere e del niente, cioè l’ontologia, è lo spessore che dà significato al linguaggio e alla pratica della scienza» (p. 84). Come è noto, secondo il filosofo la riflessione greca sarebbe all’origine del Nichilismo, anzi, all’origine «dell’Occidente come storia del Nichilismo» (un intero saggio del volume, tra i più utili, è dedicato all’analisi di questa storia: pp. 167-185) ci sarebbe la fede (greca) nell’esistenza del divenire del mondo: «La volontà di potenza dell’Occidente, che culmina nella volontà di potenza dell’Apparato scientifico-tecnologico, raggiunge la radicalità estrema, perché è il senso greco del divenire a raggiungere la radicalità estrema» (ibid.)

La tecnica e la scienza non salveranno la Natura, ma la ingloberanno: quando questo processo sarà terminato, avverrà la Singolarità.

Le sfince di San Giuseppe

Il tutto il mondo San Giuseppe è il falegname, ma da in giù Roma è anche il ‘frittellaro’. Secondo una leggenda, abbastanza improbabile a dire la verità, San Giuseppe in Terra Santa per mantenere la famiglia si mise anche a vendere frittelle. Da qui la tradizione di celebrare la festa con bignè e zeppole, in tutte le varianti possibili, tanto che il grande poeta romanesco Checco Durante, dedicò una preghiera al santo frittellaro, il cui incipit è

San Giuseppe frittellaro
tanto bbono e ttanto caro,
tu cche ssei così ppotente
da ajutà la pora ggente,
tutti pieni de speranza
te spedimo quest’istanza

In realtà, l’abitudine di mangiare dolci fritti, in prossimità dell’equinozio di Primavera, è uno dei tanti retaggi pagani assorbiti dal cattolicesimo: derivano dall’offerta di frittelle condite con il miele, che i romani offrivano in sacrificio a Bacco, in occasione della sua festa, che si svolgeva il 16 e il 17 marzo e che ebbe una storia alquanto travagliata, di cui parlerò in un prossimo post.

Ovviamente, anche a Palermo, per celebrare il santo, si mangiavano piatti particolari: la “pasta con le sarde e i finocchietti”, i carciofi in tegame con il tappo, meglio conosciuti come carciofi “cà tappa ‘e l’uovo” e le cosiddette sfincie di San Giuseppe, un dolce tipico, il cui nome ricorda quello dello sfincione.

Infatti, la radice etimologica è sempre l’arabo isfang, spugna, a ricordare la particolare consistenza dell’impasto sia della focaccia salata, sia di questo dolce, che fu inventato, secondo la tradizione dalle monache del Monastero delle Stimmate.

Questo fu fondato fu fondato nel 1602 su iniziativa di donna Imara Branciforti, figlia di don Fabrizio Branciforti, principe di Butera, e di donna Caterina Barresi. Alla coppia di coniugi benefattori si aggregarono donna Giovanna e donna Lucia Settimo, marchesi di Giarratana. Per l’edificazione fu investita la favolosa dote della nobile donzella e la comunità fu nel tempo dotata di consistenti rendite e ricchissime donazioni. Abbandonato il monastero della Pietà per problemi di salute, donna Imara volle proseguire la sua vita religiosa, pertanto la madre donna Caterina per esaudire il desiderio della figlia, provvide a comprare dei fabbricati nei pressi di Porta Maqueda e fondare una nuova istituzione religiosa.

I lavori del piccolo aggregato monastero – chiesetta ebbero inizio nel 1602. Il 18 agosto 1603 a costruzione completata, Papa Clemente VIII sancì la fondazione con bolla pontificia secondo la regola delle clarisse di Santa Chiara assegnando il titolo delle «Stimmate di San Francesco». Sin dall’inizio fu l’istituzione favorita dalle donzelle appartenenti alle classi nobili della città. Erano ammesse soltanto 50 novizie, che provenivano esclusivamente dall’aristocrazia palermitana, per questo motivo era anche conosciuto come monastero delle Dame.

Questa ricchezza era testimoniata dalle opere presenti nella chiesa del monastero, dedicata a San Francesco: vi erano quadri di Borremans, di Durer, di Mattia Preti. Uno splendido apparato decorativo in stucchi ornava le prime due cappelle prossime l’ingresso, realizzato da Giacomo Serpotta, che comprendeva statue allegoriche, come quelle della Purezza e della Fortezza, putti e medaglioni con teatrini, rendendole simili ai suoi oratori. Di tutto ciò, non esiste più nulla.

Nel settembre 1866, durante i moti insurrezionali noti come rivolta del 7 e mezzo, il monastero fu preso d’assalto dagli insorti che lo utilizzarono come fortino contro l’esercito del Regno d’Italia, tumulti scoppiati col pretesto dell’avversità alla coscrizione obbligatoria e della denuncia dello spettro della miseria sempre incombente. Infine nel 1875, il convento fu demolito per fare spazio alla costruzione del Teatro Massimo.

Secondo la leggenda, la demolizione della cripta delle Stimmate, non fu gradita all’ultima occupante, tanto che il suo spirito, detto la Monachella per la sua bassa statura, infesterebbe il teatro palermitano, portando pure iella.

Ora, la versione originale delle sfince, prevedeva solo il condimento con il miele e della zuccata, la zucca candita, che veniva preparata da una cucurbitacea dal frutto a forma di tromba, la “virmiciddara” Famosa quella preparata dalle suore del convento della “Badia del Cancelliere” di Palermo. Essendo diventata di pubblico dominio la ricetta, i pasticceri locali la arricchirono con crema di ricotta, con canditi, cioccolata e granella di pistacchio.

Sì, ma come prepararla ? Gli ingredienti sono per 8 sfinci grandi: 250 ml di acqua, 250 g di strutto, 5 g di sale, 250 g di farina, 7 uova, 500 g di ricotta fresca di pecora, 150 g di zucchero, 100 g di cioccolato fondente, ciliegie candite, scorze d’arancia, granella di pistacchi. Fate bollire strutto, acqua e sale. Successivamente incorporate la farina, aggiungete le uova e mescolate fino a ottenere un impasto denso e liscio. Cuocete dei pugni d’impasto nell’olio di semi di girasole a 180 °C per 10-15 minuti, successivamente cuocete a 220 °C fino a ottenere una pasta croccante e dorata. Lasciate raffreddare e riposare per un paio d’ore. Intanto setacciate la ricotta, mescolatela con lo zucchero, aggiungete il cioccolato a scaglie. Riempite la sfincia raffreddata con circa 80 g di ricotta. Utilizzando un cucchiaio, ricopritela esternamente con la ricotta. Infine decorate con ciliegie candite, scorze d’arancia candita e pistacchi.

Se invece non vi va di faticare, ottime se ne trovano al bar Alba, a Piazza Don Bosco, e soprattutto a quel tempio della dolcezza che è la pasticceria Costa: io per pura comodità, mi servo nella sede di via D’Annunzio

L’antro della Sibilla

L’Antro della Sibilla è forse il monumento più famoso del Parco Archeologico di Cuma, dedicato alle memoria dell’antica profetessa italica, che ispirata da Apollo, trascriveva in esametri i suoi vaticini su foglie di palma le quali, alla fine della predizione, erano mischiate dai venti provenienti dalle cento aperture della grotta dove aveva le visioni, rendendo i vaticini difficili e incerti da interpretare.

La tradizione tramanda il nome di alcune di queste Sibille, come ad Amaltea, Demofila, Appenninica, Deifobe e Amphrysia e il fatto che godessero di una vita lunghissima. A tal proposito Ovidio, nel libro XIV delle Metamorfosi racconta come la Sibilla Cumana narrasse ad Enea del dono ricevuto da Apollo, di tanti anni di vita quanti i granelli di sabbia che era possibile stringere nella propria mano; dimenticando tuttavia di richiedere l’eterna giovinezza, la Sibilla era destinata a un’interminabile vecchiaia.

Secondo un’altra leggenda, dopo centinaia e centinaia di anni, il suo corpo divenne piccolo e consumato come quello di una cicala. Così decisero di metterla in una gabbietta nel tempio di Apollo, finché il corpo non scomparve e rimase solo la voce.

Nell’Eneide di Virgilio, la Sibilla Cumana funge prima da veggente: si rifugia nell’antro “dalle cento porte” e viene invasata da Apollo, cambiando aspetto e timbro di voce. Ivi sollecita le domande di un impaurito Enea e risponde con oscuri vaticini, promettendogli l’arrivo alla meta, ma con nuove sanguinose battaglie e un nuovo Achille (Turno), ma anche un soccorso da una città greca (Evandro). La sibilla poi consiglia Enea di seppellire il compagno morto (Palinuro) e di procurasi un magico ramo d’oro nel bosco sacro, da offrire a Proserpina regina dell’Ade. Con questo mitico lasciapassare, gli farà da guida nel Regno dell’Oltretomba, fino al ritorno.

Un’altra leggenda che la riguarda è quella dei libri sibillini, così narrata da Servio Mario Onorato, uno degli interlocutori nell’opera Saturnalia di Macrobio, grammatico tardo antico e commentatore di Virgilio

I responsi Sibillini che, come prima abbiamo detto, è incerto da quale Sibilla siano stati scritti, sebbene Virgilio li attribuisca alla Cumana, Varrone, invece, all’Eritrea. Ma consta che sotto il regno di Tarquinio una donna, di nome Amaltea, abbia offerto al re stesso nove libri, nei quali erano scritti i fati e i rimedi di Roma, ed abbia preteso per questi libri trecento filippi, che allora erano preziose monete auree. Costei respinta, dopo averne bruciato tre, ritornò un altro giorno e chiese altrettanto, ed egualmente il terzo giorno, dopo averne bruciati altri tre, ritornò con gli ultimi tre e ricevette quanto aveva chiesto, poiché il re era stato impressionato da questa stessa vicenda, cioè dal fatto che il prezzo restava immutato. Allora la donna non apparve all’improvviso. Quei libri si conservavano nel tempio di Apollo, né soltanto quelli, ma anche quelli dei Marci e della ninfa Vegoe che aveva scritto presso gli Etruschi i libri fulgurales: per cui aggiunse solo tuas sortes arcanaque fata. E ciò riferisce il poeta.

I libri sibillini furono quindi affidati alla custodia di due membri patrizi (duumviri sacris faciundis), che in seguito furono aumentati fino ad un numero di quindici, comprendendo fra essi anche cinque rappresentanti del popolo. Il loro ruolo consisteva nel consultare gli oracoli su richiesta del Senato (i lectisternia), per evitare di contrariare gli dèi con nuove imprese. I libri venivano conservati in una camera scavata sotto il tempio di Giove Capitolino.

I libri bruciarono in un incendio nell’83 a.C. e si tentò di ricostruirli cercandone i testi presso altri templi e santuari. Queste nuove raccolte furono ricollocate nel tempio di Apollo Palatino grazie all’interessamento dell’imperatore Augusto. Secondo quanto racconta Svetonio

Postquam vero pontificatum maximum, quem numquam vivo Lepido auferre sustinuerat, mortuo demum suscepit, quidquid fatidicorum librorum Graeci Latinique generis nullis vel parum idoneis auctoribus vulgo ferebatur, supra duo milia contracta undique cremavit ac solos retinuit Sibyllinos, bos quoque dilectu habito; condiditque duobus forulis auratis sub Palatini Apollinis basi

ossia

Quando divenne sommo pontefice, dopo la morte di Lepido, cui da vivo non aveva mai voluto togliere quella carica, raggruppò tutte le profezie greche e latine che, senza autorità alcuna o per lo meno non sufficiente, correvano tra il popolo, circa duemila, raccolte da ogni parte e le fece bruciare. Conservò soltanto i libri sibillini, ed anche questi dopo aver provveduto ad una cernita, e li ripose in due armadi dorati ai piedi della statua di Apollo Palatino

Rimasero presso il tempio di Apollo Palatino fino al V secolo, dopo di che se ne persero le tracce. Rutilio Namaziano nel suo poema De Reditu suo accusa aspramente il generale Stilicone di averli bruciati nel 408.

Ora sappiamo come le antiche popolazione italiche adorassero la dea Mefite, colei che è nel mezzo, colei che media tra il mondo dei morti e dei vivi, che aveva tra l’altro un tempio (aedes Mefitis) ed un boschetto sacro (lucus Mefitis) all’Esquilino: questa divinità era connessa sia alle attività vulcaniche e alle sorgenti sulfuree, sia alle profezie. Per cui, in origine, la Sibilla forse era una sacerdotessa di questa divinità, che entrava in tranche aspirando i vapori vulcani emesse dalle fumarole, contenenti un mix di acido solfidrico, anidride carbonica e idrocarburi leggeri, capaci di avere di avere effetti psicotropi.

Fumarole, che in una zona vulcanica come quella dei Campi Flegrei, dovevano abbondare: i coloni greci, come avvenuto a Delfi, sostituirono il culto della divinità femminile con Apollo. Ora l’Antro della Sibilla, crollato nella parte iniziale, è interamente scavato nel tufo ed ha un andamento perfettamente rettilineo, anche se tende a scendere verso la parte terminale: ha una forma trapezoidale nella parte superiore, stratagemma antisismico utilizzato dai greci, e rettangolare in quella inferiore; l’intera struttura è quindi lunga centotrentuno metri, alta cinque e larga due e mezzo.

Lungo la parete ovest, ad intervalli regolari, con la stessa forma dell’antro, furono realizzate dai romani nove aperture, di cui tre murate, con lo scopo di illuminare l’ambiente, per permettere il ricambio dell’aria; sulla parete est si apre una stanza che dà accesso a sua volta a tre ambienti.

Lungo lo stesso lato è una piccola stanza, con un sedile in pietra, anche se a causa del soffitto ribassato è impossibile sedersi e la sua funzione rimane quindi sconosciuta. L’antro termina con una sala con volta piatta, nella quale si aprono tre nicchie: quella sul lato est serve per illuminare l’ambiente, quella sul lato sud è a fondo cieco e quella sul lato ovest ha le dimensioni di un cubicolo, con forma tripartita e preceduta da un vestibolo probabilmente protetto da un cancello di cui si notano ancora i fori degli stipiti nella parete.

Purtroppo, l’Antro non ha nulla a che vedere con l’antica profetessa: probabilmente si trattava di il monumento come galleria militare scavata nel tufo a protezione del costone sud-occidentale dell’acropoli in età sannitica, tra la fine del IV e gli inizi del III sec. a.C. Inizialmente di forma trapezoidale, in seguito, in età romana, assume la forma attuale con un abbassamento del piano di calpestio. L’utilizzo militare è anche testimoniato da numerosi indizi.

Le nove aperture permettevano di raggiungere la terrazza in cui erano situate, sino all’epoca bizantina, catapulte e altre macchine da guerra: i tre ambienti laterali erano cisterne, che raccoglievano le acque piovane attraverso un sistema di canalizzazione. In età paleocristiana la cosiddetta camera terminale fu riutilizzata come luogo di culto e le cisterne come luogo di sepoltura, finché durante la guerra gotica, fu ripristinato il loro utilizzo originale.

Di questa struttura, con il tempo se ne perse la memoria, tanto che il presunto Antro fu identificato con la Crypta Romana di Cocceio, equivoco risolto solo con gli scavi degli anni Venti. Solo nel 1932 fu ritrovato ed esplorato dall’archeologo Amedeo Maiuri, che raccontò la sua esperienza nel celebre articolo Come ho scoperto l’antro della Sibilla di Cuma, pubblicato, come altre vicende cumane e cronache puteolane sul «Corriere della Sera» nel 1937, e raccolto, quindi, nel volume Vita di archeologo.

Ma il vero Antro della Sibilla, quindi dove é? Essendo in qualche modo legato all’attività vulcanica secondaria, probabilmente a ricercato nella parte bassa di Cuma, a oriente del colle, dove storicamente si sono verificati questi fenomeni…

La nascita delle dispense universitarie

Uno degli incubi peggiori di quando andavo all’Università, spero francamente che le cose siano cambiate, era la caccia alle dispense: un professore, per per n motivi non aveva voglia di stampare un libro, raccoglieva alla meno peggio lucidi e appunti, alcuni persino illeggibili, e li affidava alla copisteria di turno, che riforniva il malcapitato studente con quantità industriali di fogli volanti, che a volte si vendevano a chili, invece che a pagine.

Temo che alcune di queste dispense stiano ancora ingombrando spazio a casa dei miei: confesso, che, quando mi capita di non digerire la cena, alcune volte ancora tormentano i miei incubi, specie quelle di Teoria dell’Informazione e dei Codici.

Ebbene, questa consolidata abitudine è tanto vecchia quanto l’Università stessa. Nell’Alto Medioevo, in cui gli alfabetizzati, per ragioni di culto, erano essenzialmente gli ecclesiastici, la produzione, la circolazione e la lettura dei libri erano confinate all’interno dei monasteri. Il libro, destinato alle lettura collettiva ad alta voce, per esigenze di preghiera o di meditazione, che avvenivano o nel chiostro o nel refettorio, durante i pasti, aveva il valore di bene di lusso e di status symbol: il produrlo e donarlo era indicativo del potere e della ricchezza del convento.

Questo ovviamente, portava a una produzione non standardizzata, ogni libro era un oggetto unico, in cui predominava l’aspetto estetico, rispetto alle leggibilità: per cui i fogli erano spesso scritti a piena pagina, con ampi spazi tra una riga e l’altra, con gli spazi tra le parole inesistenti e con miniature di ogni genere e risma.

Le cose cambiano con la nascita delle Università che da una parte moltiplicano esponenzialmente il numero dei lettori, gli studenti, anche svogliati, su qualcosa dovevano studiare, dall’altra impone l’esigenza della standardizzazione, dato che tutti i testi, in qualche modo dovevano essere tutti uguali, per evitare fraintendimenti e libere interpretazione da parte dei goliardi.

Inoltre, dovevano massimizzare la leggibilità, sia ridurre il più possibile il costo del singolo libro. Queste esigenze, oltre a fare nascere gli scriptoria laici, cambiarono sia i meccanismi editoriali, sia la forma stessa del libro, trasformandolo da bene di lusso a oggetto di consumo.

Le dispense nacquero proprio per semplificare la riproduzione dei libri: all’epoca, però si chiamavano in differente, ossia pecie. Questa parola, alquanto bislacca, dal latino medievale petia, pezza, era in origine il foglio di pergamena che, ripiegato, formava il fascicolo del manoscritto. Il termine era collegato all’attività conciaria e definiva il pezzo più grande ottenibile da una pelle preparata per la scrittura, una volta eliminate le parti inutilizzabili. La pecia era quindi l’unità di misura redazionale per eseguire il lavoro di copiatura.

A Bologna e a Parigi, nel XIII secolo, qualche professore ebbe l’idea di utilizzare le pecie per standardizzare la produzione libraria. Il sistema della pecia consisteva in sostanza nella copia simultanea di fascicoli sciolti, ognuno comprendente un numero predefinito di pecie, di un testo universitario. Una commissione di petiarii nominata dall’università ed eletta all’inizio di ogni anno accademico, aveva il compito di verificare la correttezza testuale di un’opera, il cui exemplar (modello) suddiviso in “pezzi” veniva depositato presso le botteghe degli stationarii (librai) ufficiali delle università dove, dietro pagamento di una tariffa prestabilita, poteva essere preso in affitto per essere copiato; la commissione era la sola autorizzata ad approvare l’exemplar, sottoposto ad un controllo periodico, a deciderne il prezzo di affitto (taxatio), a pubblicare la lista dei testi scelti approvati dall’università.

Allo stazionario, responsabile dello stato di conservazione delle opere affidategli, spettava esporre la lista degli exemplaria, con l’indicazione del numero di pecie per ciascuna opera e la tariffa della locazione, e, alla richiesta di un cliente, si occupava di distribuire i “pezzi” sciolti allo scriptor perché li copiasse e li riconsegnasse in modo da renderli disponibili per un’altra copiatura a rotazione. Era così possibile realizzare più copie nel tempo generalmente necessario per una sola.

I copisti, solitamente laici, anche donne o studenti, annotavano spesso il numero progressivo di ogni pecia che esemplavano. Per velocizzare il loro lavoro, l’aspetto del libro era standardizzato, con il testo distribuito su due colonne, con ampi margini destinati agli appunti e alle note dello studente, con la divisione del testo in paragrafi, distinti spesso da titoli in rosso, le rubricae, con le parole scandite da un’opportuna spaziatura e la decorazione ridotta all’osso, funzionale ai contenuti del testo.

Nonostante la razionalizzazione di questo ciclo produttivo, la domanda di libri era sempre superiore all’offerta. In più, essendo umani, i copisti accumulavano errori su errori nella riproduzione del testo. A volte capitava che il copista, finita la trascrizione di una pecia, non trovasse la successiva nella bottega dello stationarius, perché magari un concorrente l’aveva preso in affitto prima.

Per risolvere il problema, il copista stimava le dimensioni della pecia mancante e lasciava nel testo le pagine bianche utili a ricopiarla in un momento successivo. Però, ottenuta la pecia prima non disponibile, poteva anche accorgersi di avere sbagliato la stima, con lo spazio bianco troppo o troppo poco. Così o aumentava le dimensioni della sua scrittura o la riduceva, beccandosi gli accidenti del committente.

Di conseguenza, il processo aveva la necessità di essere ulteriormente ottimizzato: esigenza di cui si rese conto Gutenberg, durante i suoi studi universitari a Erfurt. Inizialmente, si pensò di sostituire il tutto con la xilografia, ma le matrici di stampa, ricavate da un unico pezzo di legno, potevano essere impiegato solo per stampare sempre la stessa pagina, finché non si rompeva la matrice, cosa che accadeva molto spesso.

Per risolvere questo problema, Gutenberg, che aveva lavorato come orafo e coniatore, inventò i caratteri mobili, che nonostante la sua personale iella, ebbero un successo strepitoso: già nel 1480 in Germania e in Italia vi erano stamperie in ben 40 città. Il primo libro stampato fuori della Germania fu realizzato nel monastero di Santa Scolastica a Subiaco (tra Lazio e Abruzzo). Fu opera di Conrad Sweynheym e Arnold Pannartz (il primo della diocesi di Magonza e il secondo di quella di Colonia). Giunti nella penisola presumibilmente su invito del cardinal Nicola Cusano, tra il 1465 e il 1467 pubblicarono: un Donato minore ovvero Donatus pro puerulis (una grammatica latina per fanciulli, ora disperso), il De oratore di Cicerone, il De Civitate Dei di Sant’Agostino e tre opere di Lattanzio: tutti con una tiratura di 275 copie.

Nello stesso periodo veniva impiantata la prima stamperia a Roma, proprio all’Esquilino, nel monastero di Sant’Eusebio, di cui, nonostante la testimonianza dell’Armellini

È noto che sotto Sisto IV in quel monastero fu stabilita una delle prime stamperie di Roma, forse da Giorgio Laner, ove furono impresse le opere di s. Giovanni Crisostomo con le note di Francesco Aretino.

non è rimasto nessun incunabulo

Il Bastione Ardeatino

Il cardinale Alessandro Farnese aveva sempre proposto al papa di turno di modernizzare le difese dell’Urbe, con la scusa di voler impedire a Carlo V, in qualche accesso d’ira, di replicare il sacco di Roma del 1527.

Questa era la motivazione ufficiale: la realtà, nota a tutta la Curia, era legata al suo essere smodatamente superstizioso e alla sua passione per l’astronomia, che mantenne anche dopo la sua elezione al soglio di Pietro, tanto che tra i suoi cortigiani vi erano uno sproposito di maghi e veggenti,che consultava di sovente per ogni piccola cosa, per esempio per decidere l’ora di una partenza o la data di un concistoro.

A quanto pare un astrologo, che per darsi un tono si spacciava di origine armene e che campava a sbafo dei Farnese dopo un’epocale sbronza gli aveva predetto che, se il Papa non avesse costruito le nuove mura cittadine, i turchi avrebbero messo a ferro e fuoco Roma.

Dato che la predizione sembrava campata in aria e poco credibile, che con Carlo V si era raggiunto un modus vivendi accettabile e che, per colpa a della Fabbrica di San Pietro, le finanze pontificie erano in perenne rosso, questa proposta era gentilmente respinta. Per cui, i romani anche nel caso che Alessandro fosse prima o poi eletto papa, davano per scontato che non se ne facesse mai nulla.

Le cose cambiarono per colpa di una donna bellissima, Giulia Gonzaga, contessa di Fondi, donna di grande bellezza, cultura e intelligenza, così descritta dall’Ariosto

Iulia Gonzaga, che dovunque il piede
volge, e dovunque i sereni occhi gira,
non pur ogni altra di beltà le cede,
ma, come scesa dal ciel dea, l’ammira

La sua fama era giunta Khayr al-Dīn, il Barbarossa, sì, il coprotagonista del fumetto Dago, signore di Tunisi, di Algeri e grand’ammiraglio della flotta turca, che per ottenere uno sconto sulle tasse da parte del sultano Solimano il Magnifico, aveva deciso di donargli come favorita dell’harem proprio la nostra Giulia.

Per far questo, dopo avere saccheggiato le coste della Calabria, nella notte tra l’8 e il 9 agosto 1534, conquistò la città di Fondi: Giulia però si salvò dal rapimento con una fuga avventurosa compiuta in abiti discinti a Campodimele. Per consolarsi, il Barbarossa saccheggiò la cittadina e la vicina Sperlonga, ma fu poi respinto dalla strenua resistenza degli abitanti di Itri.

Dato che Fondi tanto distante dall’Urbe non è, al romano medio cominciò a venire il dubbio che forse, l’astrologo dei Farnese, tutto questo torto non lo avesse. Per cui, appena eletto nel conclave del novembre 1534, Alessandro, che prese il nome di Paolo III, dichiarò subito l’intenzione di provvedere alla costruzione delle nuove mura di Roma affidando l’incarico ad Antonio di Sangallo il Giovane, che oltre a cercare di venire a capo a quel manicomio che era diventato il cantiere di San Pietro, era anche uno dei massimi architetti militari dell’epoca.

Antonio ci si mise di buona lena e presentò un progetto che prevedeva la demolizione delle mura Aureliane e la sostituzione con 18 bastioni alla moderna; il problema era però la cronica carenza di fondi dello Stato Pontificio. O si rinunciava alla costruzione di San Pietro, o alle nuove mura e Paolo III non era disposto a nessuno dei due sacrifici. Per cui, per prima cosa, cercò di appioppare i costi di costruzione dei bastioni al Comune di Roma, ma i Conservatori risposero picche appellandosi a una clausola in piccolo di una decreto dei tempi di Niccolò V.

Poi, decise a malincuore, di aumentare le tasse, con nuove gabelle su sale, farina e vino. Trovati i fondi, sorse però il problema di dove iniziare con la nuova costruzione. Visti i procedenti, era probabile che l’attacco turco, se mai si fosse verificato, sarebbe venuto da sud, per cui, si decise di costruire il nuovo bastione tra porta San Sebastiano e Porta San Paolo. Sangallo stimò un preventivo di 44.000 ducati per l’esecuzione dei e nel 1537 fece demolire 400 metri delle mura Aureliane,8 torri – dalla XIV alla XXII – e la porta Ardeatina vera e propria.

Subito, dopo cominciarono i lavori: Antonio aveva concepito un progetto d’avanguardia, un vero capolavoro dell’architettura militare dell’epoca. Il bastione era dotato di due fianchi arretrati, di batterie superiori e inferiori, cioè di due piani sovrapposti di artiglierie, di pozzi di controcava, di un pozzo per il rifornimento autonomo, di casamatte di fiancheggiamento alle quali si sparava con le armi leggere e che fungevano anche da ricovero per le munizioni. Otto camere ottagonali sotterranee, situate sotto le facce salienti del bastione, erano destinate ad eventuali azioni di contromina, grazie a cunicoli che permettevano di uscire all’esterno e di prendere gli assalitori alle spalle. Un imponente stemma di Paolo III, affiancato da quelli del Senato Romano e della Camera Apostolica, fu messo a coronare l’angolo del Bastione.

Tutto ciò fece però lievitare i costi: per di più, durante i lavori di realizzazione del nuovo Bastione, Paolo III affidò a Sangallo anche il rafforzamento difensivo della Città Leonina. Tale decisione fece sì che i lavori sulle Mura Aureliane rallentarono, fino ad essere completamente abbandonati intorno al 1539, per non essere mai più ripresi. Così si salvarono le antiche mura…

Atene contro Siracusa (Parte IX)

Ovviamente, a Siracusa, tutto lo spiegamento di forze ateniese non passò inosservato: per cui si riunì l’assemblea cittadina, sia per chiarirsi assieme le idee sulle intenzioni attiche, sia per decidere il da farsi. Paradossalmente, le posizioni dell’ecclesia siracusana, erano simmetriche e opposte a quelli presenti nel suo equivalente ateniese.

I popolari, che ad Atene erano rappresentati sia da Alcibiade, sia da una pletora di demagoghi, a Siracusa mantenevano una posizione più cauta, simile a quella di Nicia: ritenevano difficile che la polis greca si impegnasse in una guerra dall’esito incerto e lontana dai suoi obiettivi immediati. La dimostrazione di forza serviva soltanto a ottenere migliori condizioni a favore dei suoi alleati in un’eventuale trattativa.

I conservatori, invece, avevano una posizione simile ad Alcibiade, convinti come l’imperialismo fosse una necessità vitale per lo stato ateniese. Per cui, la polis attica, per mantenere la sua potenza, dovesse per forza avere mire sulla Sicilia.

Posizione che fu espressa da un politico che avrà un’importanza crescente negli eventi successivi, Ermocrate, il cui discorso è riportato, più o meno fedelmente, da Tucidide

Inverosimili forse, come già è toccato ad altri, potranno suonarvi le indicazioni che sto per rivelare sulla concreta e prossima minaccia di un’offensiva ateniese. Mi rendo conto: chi dà una notizia o riferisce un evento che non pare credibile, oltre a non convincere, si guadagna anche la reputazione di persona senza criterio. Ma non sarà questa paura a serrarmi la bocca: la patria corre pericolo, ed io sono convinto di avere notizie più fidate di chiunque da annunciare. Atene prende di mira proprio noi, e voi fate quell’aria stupita! Un’armata immensa, di navi e fanterie: formalmente per onorare l’alleanza con Segesta e restituire a quelli di Leontini la loro sede, ma il movente originale è la passione per la Sicilia, in particolare per la nostra città, poiché s’aspettano, se la riducono sotto di sé, d’aver via libera per nuove conquiste.

Badate che spunteranno in un lampo: disponete di mezzi, si provveda al loro migliore impiego, per respingerli con efficacia più energica. Non fate che per il vostro disprezzo il nemico vi sorprenda indifesi, o che l’incredulità v’induca a lasciar troppo correre. Se poi la verità si fa strada, non ispiri sgomento il loro passo temerario, con quella grandiosa macchina da guerra. Poiché ci infliggeranno qualche perdita, ma intanto si dovranno esporre a un’uguale tempesta di colpi; né la circostanza che ci assalgano con un poderoso apparato costituisce per noi un punto a sfavore, anzi ripensando alla lega con gli altri della Sicilia, questo particolare ci tornerà utile (l’improvviso turbamento farà più risoluti gli alleati a prestar man forte alla nostra reazione).

Con una profonda lucidità strategica, Ermocrate rassicurò la cittadinanza, probabilmente qualcuno nell’assemblea spaventato, proponeva la resa, evidenziando, proprio con l’esempio delle Guerre Persiane, il perché, l’ampiezza dello sforzo bellico nemico potesse essere la principale causa della sua possibile sconfitta: da una parte, un esercito così numeroso, rendendo esplicita l’ambizione di dominio ateniese, invece di dividere il fronte dei potenziali nemici, lo cementava. Dall’altra, come successe con Serse, avrebbe avuto difficoltà confrontarsi con il nemico più insidioso e tenace: la logistica e la necessità di sfamare tutte le truppe.

Poi sia che ci riesca d’eliminare fino all’ultimo uomo il nemico, o di rigettarlo in mare, umiliando tutte le sue ambizioni (nessuno, son sicuro, nessuno dei gloriosi programmi ateniesi coglierà nel segno) sarà la nostra vittoria più splendida, e dal profondo dell’anima mia la presento con fiduciosa certezza. Nella storia greca o del mondo barbaro è rarissimo il caso di un’offensiva numerosa che, giunta a gran distanza dai propri porti, abbia felicemente coronato la missione. Poiché gli aggressori non possono soverchiare in numero le genti del luogo e i loro confinanti (l’allarme è un efficacissimo cemento per i popoli). E se la loro potenza si spegne per la difficoltà di rifornirsi in territori ostili, essi lasciano ai paesi aggrediti un’eredità di gloria, anche se l’origine del disastro si deve addebitare principalmente ai loro stessi errori. Non fu proprio il caso degli Ateniesi il cui nome echeggiò celebre nel mondo quando l’offensiva dei Persiani, che aveva scelto a bersaglio pareva, precisamente Atene, crollò sotto quell’insperata catena di disfatte. Chi ci proibisce di sperare in un successo altrettanto lieto?

Ma nel concreto, come impedire che Atene possa imporre la sua supremazia tattica, trasformando una rapida campagna di conquista in una guerra d’attrito. Per prima cosa con un’iniziata diplomatica in grande stile, per creare un’ampia coalizione, che comprenda i Siculi, proprio per creare terra bruciata dinanzi al nemico, le altri polis siciliane e della Magna Grecia, altri possibili obiettivi ateniesi e le popolazioni italiche, fonte inesauribile di mercenari.

Poi, stupendo molti dei presenti, data l’antica rivalità con i punici, propose anche di ricercare l’alleanza con Cartagine. Da una parte, il politico siracusano era consapevole del principio

Il nemico del mio nemico è mio amico

e che probabilmente il successivo obiettivo dell’espansionismo ateniese, in caso di successo sarebbe stata la stessa metropoli africana. Dall’altra, sapeva bene come la politica punica in Sicilia non era orientata alla conquista delle polis greche, ma all’indirect rule e alla difesa dei suoi interessi commerciali: obiettivi che sarebbero stati probabilmente messi in crisi dall’imperialismo ateniese. Infine, nella campagna diplomatica si sarebbe dovuta coinvolgere anche la Lega Peloponnesiaca, in modo da scatenare la guerra in Grecia, danneggiando gli interessi più immediati degli ateniesi e costringendoli così alla smobilitazione, per difendere il cortile di casa

Peccato che Ermocrate avesse fatto i conti senza l’oste. Siculi e polis magnogreche temevano più un imperialismo vicino, quello siracusano, che uno lontano, per cui, per quanto possibile, si mantennero neutrali. I mercenari italici applicavano il motto

dove non c’è guadagno la remissione è certa

per cui corsero in massa ad arruolarsi sotto le bandiere di chi pagava di più, ossia gli ateniesi. Infine, Cartagine si mantenne alla finestra, neutrale, facendo un ragionamento assai cinico: nel caso di vittoria ateniese, la polis greca, per il principio della coperta troppo corta, avrebbe avuto difficoltà a combattere contemporaneamente contro le truppe puniche, gli spartani e persiani, per cui, nel caso i suoi opliti avessero cercato di marciare sull’Epicrazia, sarebbe stati ributtati in mare e la metropoli africana avrebbe imposto facilmente il suo dominio sulla Sicilia.

Lo stesso sarebbe avvenuto in caso di vittoria siracusana, dato che la polis siciliana sarebbe stata così indebolita da non poter contrastare una nuova offensiva cartaginese. Cosa che avvenne regolarmente ai tempi della guerra di Imilcone, scatenata proprio dalle ambizioni dello stesso Ermocrate

Infine, gli spartani, piuttosto che combattere in Grecia, preferirono mandare aiuti militari in Sicilia..

Animo dunque, e provvediamo alla difesa della città. Intanto si ricorra ai Siculi: con questi rinnoviamo più saldi legame d’intesa, con quelli si tentino le strade per un accordo di solidarietà e d’alleanza. Spediamo ambascerie in tutti gli altri centri della Sicilia, ammonendo che si corre tutti l’identico rischio, e verso l’Italia, con l’intento di farcela amica, o almeno ostile ad Atene. A mio giudizio sarebbe utile anche un appello ai Cartaginesi. Non li coglieremo impreparati vivono costantemente all’erta tesi al momento in cui Atene sferrerà l’attacco alla loro città. Sicché potrebbe accadere questo: nel dubbio, se lasceranno al destino il corso degli eventi quaggiù, che la rovina si ripercuota poi a loro danno, prevarrà il consiglio di fornirci, in segreto o a viso aperto, in un modo o nell’altro, qualche soccorso. Di questi tempi dispongono dei mezzi più cospicui del mondo per farlo, se acconsentono: possiedono riserve auree e d’argento illimitate, con cui si ha in pugno la sorte della guerra, e di qualunque altra operazione. Facciamoci vivi anche a Sparta, a Corinto, con la proposta di aiuti rapidi in Sicilia e di una ripresa intensa della lotta in Grecia.

In parallelo a questa offensiva diplomatica, Ermocrate proponeva una condotta di guerra audace, basata sul principio del

Chi mena per primo, mena due volte.

In pratica suggeriva di attaccare con un audace raid la flotta ateniese mentre traversava lo Ionio. Nel caso fosse andata bene, il nemico sarebbe stato distrutto. Nel caso lo scontro non fosse stato decisivo, la flotta siracusana si sarebbe rifuggiata a Taranto, dove, con’applicazione ante litteram della dottrina della fleet in being, avrebbe impedito lo sbarco ateniese sulle coste pugliesi.

Dato che il tempo avrebbe aumentato i costi di una spedizione bloccata a Corcira, gli ateniesi, dopo l’inverno, se ne sarebbero tornati al Pireo con la coda tra le gambe

E passo a illustrarvi un’iniziativa che personal mente ritengo del più sicuro effetto strategico, ma che per certo s’insabbierà, senza scuotervi, nella vostra inerzia ordinaria. Se noi tutti, gente di Sicilia, in massa o altrimenti prendendo con noi quanti più armati possibile posta in assetto fino all’ultima nave attualmente nei nostri arsenali, con riserve di vettovaglie per due mesi, ci risolvessimo ad avanzare incontro agli Ateniesi fino a Taranto e al promontorio Iapigio per ficcar loro in testa che prima di contenderci la Sicilia, dovranno sudar sangue per passare lo Ionio, sarà per loro un avvertimento terribile e li sforzeremo a riflettere che la nostra cintura di protezione ha salde basi su una sponda amica (Taranto di sicuro ci accoglie), mentre davanti a tutti i loro convogli e alla flotta s’apre una traversata immensa, al largo, durante la quale, prolungandosi la navigazione senza scalo, diventa penoso conservare l’ordine di combattimento. Per noi invece sarà un gioco trafiggere le unità isolate, mentre il grosso s’accosta lento lento, a brevi strappi. Poniamo il caso che si alleggeriscano e che ci si rovescino addosso con le unità veloci in formazione serrata: si faranno sotto a forza di remi, e quando piomberemo su di loro li coglieremo sfiniti.

Se poi la mossa non ci parrà conveniente, saremo sempre in tempo a ripiegare su Taranto, mentre il nemico, preso il largo con vettovaglie limitate, in vista di uno scontro diretto, dovrebbe trovarsi in pessime acque circondato da coste spopolate e ostili: quindi o si arresterà subendo il blocco o, nel tentativo di costeggiare, si vedrà costretto a rompere i contatti con il resto della spedizione, mentre il suo spirito di fiducia vacillerà nel sospetto che i centri costieri si rifiuteranno di aprire i propri porti. Sicché personalmente credo che frenati da queste logiche previsioni non leveranno nemmeno gli ormeggi da Corcira, ma dopo aver ponderato a lungo e a fondo, dopo essersi fatti una idea con accurate ricognizioni di che mezzi disponiamo e a che altezza siam giunti, ci si sarà spinti ormai nel mese invernale; o attoniti per la nostra sorprendente reazione lasceranno cadere ogni proposito offensivo, soprattutto poiché, a quanto affermano le mie fonti, il loro stratego di maggiore esperienza ha ricevuto contro voglia il comando, e sarà ben felice di prendere a volo il pretesto, se si noteranno sul nostro fronte movimenti difensivi degni di rispetto. So bene che li raggiungerebbero notizie esagerate sul nostro armamento: e i sentimenti degli uomini, e le loro opinioni si plasmano sul sentito dire. È un formidabile vantaggio assumere con piglio risoluto l’iniziativa o, in caso di aggressione lasciar intender chiaro che si è pronti a respingere chiunque: ci si crea il credito di gente pari al rischio. E sarà questa l’impressione da noi istillata agli Ateniesi.

Il loro assalto si fonda su una presunzione, che noi non prenderemo le nostre misure. Costoro hanno motivi validi per sottovalutarci, poiché non abbiamo fatto lega con Sparta per distruggerli. Ma se osservano in noi questo temperamento insospettabile, più della nostra reale potenza d’urto li sconcerterebbe la reazione imprevista. Datemi fiducia dunque: soprattutto realizzate con audacia il mio disegno. Altrimenti urge fornire al più presto ogni altro preparativo di guerra. E stia in ciascuno incrollabile la certezza che il senso di superiorità sugli aggressori si conferma nello slancio operoso di resistenza. In questi momenti la mossa che può riuscire più opportuna è l’azione regolata dal sentimento di una minacciosa presenza, nella consapevolezza che gli apparati difensivi più responsabili e franchi sono quelli accompagnati dalla tensione costante per un pericolo atteso. E l’offensiva nemica è già in moto, lo so bene, già a vele spiegate e solca le nostre acque.

Come spesso accadrà in futuro, Ermocrate, a differenza del suo allievo Dioniso, sottovalutava i mezzi necessari per realizzare nel concreto le sue grandi ambizioni. Qualcuno nell’assemblea gli fece notare come la flotta ateniese era senza dubbio, per qualità e quantità, superiore a quella siracusana, per cui un’improbabile battaglia navale nello Ionio, si sarebbe conclusa con una batosta dei siciliani. Dinanzi alla sconfitta siracusana, Taranto, anche a malincuore, si sarebbe schierata dalla parte del più forte, Atene, per evitare problemi. Nell’improbabile caso che ciò non fosse avvenisse, gli ateniesi avrebbe sicuramente ottenuto l’alleanza di Messapi e Lucani, sempre desiderosi di espandere i loro domini ai danni dei greci. Per cui, l’audace piano rischiava di fare vincere gli ateniesi ancor prima che sbarcassero sulle spiagge siciliane…

Le Idi di Marzo

Il buon Svetonio, il padre spirituale del mio Io,Druso racconta così tutti i prodigi, che secondo lui, annunciarono l’assassinio di Cesare, nelle Idi di Marzo, di cui oggi si celebra l’anniversario

Ma la morte imminente fu annunciata a Cesare da chiari prodigi. Pochi mesi prima, i coloni condotti a Capua, in virtù della legge Giulia, stavano demolendo antiche tombe per costruirvi sopra case di campagna. Lavoravano con tanto ardore che scoprirono, esplorando le tombe, una gran quantità di vasi di antica fattura e in un sepolcro trovarono una tavoletta di bronzo nella quale si diceva che vi era sepolto Capi, il fondatore di Capua. La tavola recava la scritta in lingua e caratteri greci, il cui senso era questo: «Quando saranno scoperte le ossa di Capi, un discendente di Iulo morrà per mano di consanguinei e ben presto sarà vendicato da terribili disastri dell’Italia.» Di questo episodio, perché qualcuno non lo consideri fantasioso o inventato, ha reso testimonianza Cornelio Balbo, intimo amico di Cesare. Negli ultimi giorni Cesare venne a sapere che le mandrie di cavalli che aveva consacrato, quando attraversò il Rubicone, al dio del fiume, e lasciava libere di correre, senza guardiano, si rifiutavano di nutrirsi e piangevano continuamente. Per di più, mentre faceva un sacrificio, l’aruspice Spurinna lo ammonì di «fare attenzione al pericolo che non si sarebbe protratto oltre le idi di marzo».

Il giorno prima delle idi un piccolo uccello, con un ramoscello di lauro nel becco, volava verso la curia di Pompeo, quando volatili di genere diverso, levatisi dal bosco vicino, lo raggiunsero e lo fecero a pezzi sul luogo stesso. Nella notte che precedette il giorno della morte, Cesare stesso sognò di volare al di sopra delle nubi e di stringere la mano di Giove; la moglie Calpurnia sognò invece che crollava la sommità della casa e che suo marito veniva ucciso tra le sue braccia; poi, d’un tratto, le porte della camera da letto si aprirono da sole. In seguito a questi presagi, ma anche per il cattivo stato della sua salute, rimase a lungo indeciso se restare in casa e differire gli affari che si era proposto di trattare davanti al Senato; alla fine, poiché Decimo Bruto lo esortava a non privare della sua presenza i senatori accorsi in gran numero che lo stavano aspettando da un po’, verso la quinta ora uscì. Camminando, prese dalle mani di uno che gli era venuto incontro un biglietto che denunciava il complotto, ma lo mise insieme con gli altri, come se volesse leggerlo più tardi. Dopo aver fatto quindi molti sacrifici, senza ottenere presagi favorevoli, entrò in curia, passando sopra ogni scrupolo religioso, e si prese gioco di Spurinna, accusandolo di dire il falso, perché le idi erano arrivate senza danno per lui. Spurinna, però, gli rispose che erano arrivate, ma non erano ancora passate.

Svetonio, da buon romano, molto più superstizioso di noi, sicuramente credeva alla veridicità di tali segni e ai modi strani con cui gli Dei e il Fato parlano a noi uomini. Per noi moderni, invece il suo racconto assume un significato ben differente. Qualcuno, più o meno vicino ai congiurati, fu spaventato dall’enormità del gesto e dalle sue potenziali conseguenze e cercò di fare la spia, provando al contempo a non tradire Bruto e Cassio. Ma Cesare, nonostante tutto, decise di andare incontro al suo Destino.

Mentre prendeva posto a sedere, i congiurati lo circondarono con il pretesto di rendergli onore e subito Cimbro Tillio, che si era assunto l’incarico di dare il segnale, gli si fece più vicino, come per chiedergli un favore. Cesare però si rifiutò di ascoltarlo e con un gesto gli fece capire di rimandare la cosa a un altro momento; allora Tillio gli afferrò la toga alle spalle e mentre Cesare gridava: “Ma questa è violenza bell’e buona!” uno dei due Casca lo ferì, colpendolo poco sotto la gola. Cesare, afferrato il braccio di Casca, lo colpì con lo stilo, poi tentò di buttarsi in avanti, ma fu fermato da un’altra ferita. Quando si accorse che lo aggredivano da tutte le parti con i pugnali nelle mani, si avvolse la toga attorno al capo e con la sinistra ne fece scivolare l’orlo fino alle ginocchia, per morire più decorosamente, con anche la parte inferiore del corpo coperta.

Così fu trafitto da ventitré pugnalate, con un solo gemito, emesso sussurrando dopo il primo colpo; secondo alcuni avrebbe gridato a Marco Bruto, che si precipitava contro di lui: “Anche tu, figlio?”. Rimase lì per un po’ di tempo, privo di vita, mentre tutti fuggivano, finché, caricato su una lettiga, con il braccio che pendeva fuori, fu portato a casa da tre schiavi.

Secondo quanto riferì il medico Antistio, di tante ferite nessuna fu mortale ad eccezione di quella che aveva ricevuto per seconda in pieno petto. I congiurati avrebbero voluto gettare il corpo dell’ucciso nel Tevere, confiscare i suoi beni e annullare tutti i suoi atti, ma rinunciarono al proposito per paura del console Marco Antonio e del comandante della cavalleria Lepido

Sul perché di questa scelta, da parte di Cesare, si interrogano da secoli decine di storici. Persino Svetonio, per una volta, smette di dedicarsi ai suoi amati pettegolezzi e improvvisa un’analisi psicologica

Ad alcuni suoi amici Cesare lasciò il sospetto che non volesse vivere più a lungo e che non si preoccupasse del declinare della sua salute. Per questo non si curò né di quello che annunciavano i prodigi né di ciò che gli riferivano gli amici. Alcuni credono che, facendo eccessivo affidamento nell’ultimo decreto del Senato e nel giuramento dei Senatori, abbia congedato le guardie spagnole che lo scortavano armate di gladio. Secondo altri, al contrario, preferiva cadere vittima una volta per sempre delle insidie che lo minacciavano da ogni parte, piuttosto che doversi guardare continuamente. Dicono che fosse solito ripetere che non tanto a lui, quanto allo Stato dovesse importare la sua salvezza; per quanto lo riguardava già da tempo aveva conseguito molta potenza e molta gloria; se gli fosse capitato qualcosa, la Repubblica non sarebbe certo stata tranquilla e in ben più tristi condizioni avrebbe subito un’altra guerra civile.

Su una cosa tutti furono d’accordo, che in un certo senso aveva incontrato la morte che aveva desiderato. Infatti una volta, avendo letto in Senofonte che Ciro, durante la sua ultima malattia, aveva dato alcune disposizioni per il suo funerale, manifestò la sua ripugnanza per un genere di morte così lento e se ne augurò uno rapido. Il giorno prima di morire, a cena da Marco Lepido, si venne a discutere sul genere di morte migliore ed egli disse di preferire quello improvviso e inaspettato.

Forse, Cesare doveva lottare contro il nemico più subdolo e difficile, il cupio dissolvi, la stanchezza di vivere, che dal timore di non potere compiere imprese più grandi di quelle già compiute e di doversi confrontare con una lunga e lenta decadenza, per ridursi all’ombra di se stessi. Non avendo il coraggio di combattere quest’ultima battaglia, lasciò campo libero ai congiurati. Per citare Cioran, aveva raggiunto i confini dell’inutilità.

Davide Del Popolo Riolo, con De Bello Alieno, né il sottoscritto, con Io,Druso abbiamo narrato la nostra versione peplumpunk delle Idi di Marzo, perché i nostri romanzi, vuoi o non vuoi, sono ambientati in un periodo differente… Però, in un brano del mio romanzo, i protagonisti ricordano il funerale del divo Giulio

“Claudio, pensa che un paio di volte ho avuto la fortuna di incrociare il biografo di Aullio, Giovanni di Tiberiade, uomo assai piacevole. Comunque, tanto per tornare al mio racconto, che voi due screanzati vi ostinate a ignorare, la sera del funerale di Cesare, trascinato dalla folla, mi ritrovai nel Foro, davanti al lussuoso ustrinum , eretto da Giulia, la sua amata figlia, vedova inconsolabile di Marco Licinio Crasso, dove incrociai un certo siriano, che si riempiva le tasche vendendo ai gonzi presunte pezze della toga dell’illustre defunto”.

Demetrio attaccò a ridere.

“Non facevo nulla di male! Offrivo, anche a prezzo alquanto abbordabile, ciò che più volevano, le illusioni. Poi, citando il grande Aristotele, maestro di coloro che sanno

Uno sciocco e il suo denaro son presto separati”.

Fu una delle rare volte, che vidi sorridere Cingetorige.

“Vecchio farabutto, provasti a truffare anche me”.

Demetrio gli fece il segno delle fiche.

“No, amico mio, ho solo saggiato la tua intelligenza. Mi sarei vergognato, di avere come compagno, qualcuno assai meno sagace del sottoscritto”.

Così il mio liberto siriano si prese un buffetto in testa dal suo degno compare. Dopo avere sorriso, Cingetorige riprese il suo racconto.

“Ce l’ho ancora davanti agli occhi, quell’ustrinum, di una ricchezza e di un lusso mai visti sino ad allora a Roma. Di fronte alle tribune, in cui si accalcavano senatori e membri dell’ordine equestre, vi era una replica in legno dorato del tempio di Venere Genitrice, che Cesare aveva fatto erigere con grande sfarzo, per celebrare le antiche origini della sua stirpe.

All’interno vi era un letto d’avorio, ricoperto con oro e porpora e con all’estremità un trofeo con la veste che indossava quando fu ucciso, il che dà la misura dell’intelligenza di Demetrio.

Tuo nonno Marco Aurelio, vestito per una volta in maniera dignitosa e Lucio Pinario Scarpo pronunciarono gli elogi funebri: il fatto che per una volta quei due, sempre pronti, con la testardaggine di un mulo, a piccarsi tra loro, non si misero a litigare fu un evento degno di nota, a perenne testimonianza della gravità del momento.

Terminati i loro discorsi, in cui si celebrava il ruolo fondamentale di Cesare nella nascita diffusione delle Res Novae e nell’epica vittoria contro i Tripodi, tutti e due presero le torce, dando fuoco all’enorme pira. Immediatamente la turba circostante accumulò rametti secchi, sgabelli e qualunque altra cosa adatta ad alimentare le fiamme; in seguito i flautisti e gli attori buttarono nelle fiamme le loro vesti, e le legioni dei soldati veterani, che avevano combattuto agli ordini di Pompeo contro i nemici provenienti da Marte, gettarono le armi con cui si erano adornati per la solennità del funerale. Nell’estremo lutto pubblico la moltitudine dei popoli stranieri a gruppi pianse lì intorno secondo il proprio costume, soprattutto gli ebrei, che addirittura per due continue notti frequentano il rogo, dato che il Machinarum Magister li aveva favoriti sopra ogni cosa.

Finita la cerimonia, tornai a casa, dove i miei padroni continuavano ancora a battibeccare”.

Inoltre, Davide, ha trattato proprio queste vicende, quando vinse il Premio Kipple, nel suo romanzo Non ci sono Dei oltre il Tempo…

La vittoria di Imilcone su Siracusa

L’obiettivo successivo dell’offensiva cartaginese era proprio Gela, dove Dioniso aveva messo le basi della sua ascesa al potere: Imilcone, dopo tutto quello che aveva patito ad Akragas e dato che aveva approfittato del periodo invernale per rimpinguare le salmerie, voleva evitare un lungo assedio della città, in modo da risparmiare tempo e risorse in vista dell’obiettivo principale della sua campagna, Siracusa.

Per cui, pose il campo presso il mare ad ovest della città, fortificandolo con una trincea ed una palizzata e diede ordine di saccheggiare le campagne, come strumento di pressione psicologica per i geloi. I quali, avevano inizialmente deciso di trasferire donne e bambini a Siracusa: secondo Diodoro Siculo, le donne insistettero per restare in città, ma probabilmente Dioniso, visti i precedenti problemi con i profughi di Akragas, si rifiutò di appoggiare tale ipotesi.

Alla fine fu deciso di non costringere nessuno a evacuare la città, ed i greci misero in atto una difesa attiva, attaccando i cartaginesi quando foraggiavano, in una sorta di guerriglia. Imilcone, che come dicevo, voleva chiudere la pratica Gela quanto prima, decise di prendere d’assalto la città prima dell’arrivo degli eventuali soccorsi siracusani.

Nonostante la resistenza di Gela, i cartaginesi riuscirono a portare arieti contro le mura occidentali e ad aprire alcune brecce. Tuttavia i difensori riuscirono a tenere a bada gli attaccanti nel corso del giorno ed a riparare le brecce di notte, l’aiuto delle donne nel riparare le brecce era inestimabile, quindi i cartaginesi ogni mattino dovevano ricominciare da capo, in una sorta di tela di Penelope.

Come racconta Diodoro Siculo

Mentre quanti per l’età aveano vigore e robustezza, stavano continuamente in armi, e combattevano l’inimico: tutto il resto della bisogna facendosi con grande zelo dalla moltitudine. E con tanto spirito e valore resistevasi all’impeto degli assedianti, che quantunque la città non fosse fortificata, e non s’avesse alcun ajuto degli alleati, ed anzi le mura fossero già in parecchi tratti aperte, il timore del pericolo presente non avviliva que’ prodi.

Questa resistenza disperata non aveva alternative, per il semplice motivo che Dioniso, impegnato a consolidare il suo potere a Siracusa, se la stava oggettivamente prendendo comoda: alla fine, riuscì a organizzare alle meno peggio un esercito formato da greci siciliani e mercenari italici, che contava almeno 30000 opliti, 4000 cavalieri e una flotta di 50 triremi, che con tutta calma, marciò su Gela. Nonostante queste tempistiche alquanto dilatate, l’azione ruppe le uove nel paniere a Imilcome, che non volendo essere preso tra l’incudine dei difensori di Gela e il martello dell’esercito siracusano, interruppe l’assalto e si dedicò a fortificare ulteriormente il suo campo.

I greci si accamparono alla foce del fiume Gela sulla riva occidentale di fronte alla città e dall’altro lato rispetto al campo cartaginese, abbastanza vicino al mare per poter dirigere sia le operazioni terrestri sia quelle navali: Dioniso, memore di quanto accaduto ad Akragas, decise di impegnarsi in una guerra di attrito e logoramento.

Per tre settimane tormentò i cartaginesi con le truppe leggere e tagliò loro i rifornimenti con la flotta: il problema però è che i forzieri e le dispense dei cartaginesi erano pieni, quelli dei greci no, per cui, alla lunga, ci avrebbero rimesso le truppe di Dioniso. In più, più tempo perdeva a Gela, più possibilità avrebbero avuto i suoi nemici a Siracusa di organizzarsi, per defenestrarlo.

Per cui, Dioniso decise di correre il rischio di una battaglia campale, con il problema che i cartaginesi, come numero, erano di gran lunga superiore ai greci. Per ovviare al problema, Dioniso ideò un contorto e ,come dire, genialode piano, che prevedeva un attacco su tre colonne contro l’accampamento cartaginese.

Questa scelta, alquanto bizzarra, derivava da un’osservazione di Dioniso, che si era accorto come cavalleria cartaginese era accampata sul lato verso terra, mentre i mercenari erano sul lato verso mare, con gli africani nella parte centrale entro il campo. Dionigi, osservando che una forza trasportata via mare poteva attaccare il campo da sud, pensò che tenendo occupate le truppe cartaginesi con un’azione diversiva, i mercenari, presi di sorpresa e travolti: in questo modo, il grosso dell’esercito di Imilcone sarebbe stato accerchiato e preso tra i due fuochi.

Così stabilì un piano che prevedeva come gruppo di poche migliaia di truppe leggere fosse sbarcato sulla spiaggia a sud del campo cartaginese al comando di suo fratello Leptine ed avrebbe attaccato l’estremità meridionale da ovest, impegnando le forze cartaginesi; altri 4000 opliti italici avrebbero marciato lungo la costa ed avrebbero attaccato da est la stessa parte del campo. Nello stesso momento, la cavalleria greca, appoggiata da 8000 opliti, avrebbe impegnato i cartaginesi nella parte settentrionale del campo.

Infine, a completare il quadro, Dionigi, con la riserva e gli opliti di Gela, avrebbe effettuato una sortita dalla porta occidentale della città ed avrebbe attaccato il campo una volta che i cartaginesi fossero stati fortemente impegnati ai fianchi.

Tutto questo complicato accrocco poteva funzionare solo se tutti i movimenti fossero stati sincronizzati al secondo, altrimenti i cartaginesi avrebbero potuto sconfiggere una per volta e senza troppa fatica, le singole colonne greche. Ovviamente, per la legge di Murphy, tutto quello che poteva andare storto, lo fece.

Così racconta il manicomio che si scatenò Diodoro Siculo

Mentre ognuno eseguisce questi ordini, i Cartaginesi accorrendo specialmente a quella parte nella quale verso il lido il loro campo non era fortificato, si fanno solleciti di difenderlo, e d’impedire lo sbarco al nemico. In quello stesso momento gl’Itali, avendo già scorso tutto lo spazio fra il mare, e l’accampamento de’ Peni, entrano in questo; e vi fanno man bassa, avendo trovato che la più parte della gente era ita a tener lontano le navi: ond’è, che volti in fuga quelli che doveano ivi far difesa, poterono entrare negli steccati. Presto però ritornarono a quella volta i Cartaginesi colla massima parte dell’esercito; ed a stento dopo lungo combattimento cacciarono quello squadrone, che era già passato oltre il fosso: e gl’Itali obbligati a dar luogo a tanta moltitudine de’ Barbari si ritrassero in una certa angusta estremità de’ trinceramenti, aspettando d’essere soccorsi dai loro. I Siculi, avendo avuto a fare una troppo lunga strada per la campagna, non potevano trovarsi presto a quel luogo; e i soldati mercenarj di Dionigi, dovendo perdere tempo nello scorrere pei vicoli della città, non potevano giungere solleciti quanto volevano. Que’ di Gela invero, come più vicini, erano usciti fuori per ajutare gl’Itali in quel luogo precipitoso, in cui s’eran posti; ma temendo, che intanto le mura venissero a mancare del debito presidio, sospesero la loro corsa a quella parte. Da ciò venne, che gl’Iberi, e i Campani, ausiliari de’ Cartaginesi, dando aspramente addosso ai Greci d’Italia, ne ammazzarono più di mille: perchè però quelli, che erano sulle navi colle saette e dardi li tenevan lontani, gli altri poterono ripararsi entro le mura della città. Da altra parte intanto i Siculi abbaruffati coi Peni, combatterono con tanto valore, che fecero d’essi non mediocre strage, e gli altri inseguirono sino agli accampamenti; ma come poi Iberi, Campani, e Cartaginesi si avanzarono a sostenere gli Africani, perduti mille de’ loro, si ritirarono in città anch’essi; e così fece la cavalleria, quando vide i suoi soccombere, massimamente che da ogni parte era investita dai nemici; e in città parimente si ritirò Dionigi, poichè seppe, che i suoi erano stati messi in fuga.

In pratica, le truppe trasportate via mare al comando di Leptine ottennero una sorpresa totale e con gli opliti che attaccavano lungo la costa irruppero nell’accampamento cartaginese. Mentre questo gruppo combatteva contro i sanniti e gli iberici, il gruppo settentrionale ritardò il suo arrivo e non riuscì a lanciare il suo attacco in tempo utile. Questo fatto diede ai cartaginesi il tempo di sconfiggere prima i greci che attaccavano da sud, dove Leptine perse 1000 uomini prima di ritirarsi e furono fermati dalle bordate di frecce scagliate dagli arcieri posti sulle navi greche, cosa che permise a Leptine di organizzare una ritirata dignitosa, evitando la rotta . Alcuni soldati gelani aiutarono i greci, ma la maggior parte rimase in città perché temevano di lasciare le mura indifese, visto il casino a cui stavano assistendo

Nel frattempo la colonna settentrionale aveva attaccato il campo, ed aveva respinto i punici, usciti per opporsi ad essi, entro il campo stesso. A questo punto Imilcone ordinò il contrattacco generale, mettendo in rotta la colonna settentrionale dell’attacco, con la perdita di altri 600 greci. La forza al comando di Dionigi rimase chiusa entro le vie strette della città e la popolazione, e non entrò neppure in azione. La cavalleria greca non fu impegnata ed i cartaginesi respinsero i greci entro la città. Al termine del combattimento Imilcone aveva vinto la battaglia, a costo però di gravi perdite.

Però, il morale dell’esercito greco era a terra: il cibo e il denaro cominciava a scarseggiare e Dionisio aveva scoperto che a Siracusa si stava organizzando un golpe ai suoi danni. Per cui, il generale greco, dopo avere ottenuto una tregua per seppellire i caduti, organizzò l’evacuazione generale di Gela.

A notte fonda scivolò via con tutto l’esercito e la popolazione, lasciando insepolti i morti. Un gruppo di 2000 uomini armati alla leggera rimase in indietro, per accendere grandi fuochi nel campo così da spingere i cartaginesi a credere che i greci erano ancora nel campo stesso. Di primo mattino anche queste truppe lasciarono Gela, ed il giorno successivo i cartaginesi entrarono e saccheggiarono la città pressoché deserta. Le spoglie saccheggiate a Gela comprendevano anche una famosa statua di Apollo, inviata a Tiro, come ex voto per la vittoria.

La carovana greca, a marce forzate, arrivò a Camarina: Dioniso, sia resosi conto che la polis era poco difendibile, sia perché le notizie di Siracusa fossero sempre più allarmanti, ordinò di evacuare anche questa polis. Sempre secondo Diodoro Siculo

Dionigi intanto giunto a Camarina, obbligò gli abitanti di quella città a trasferirsi colle donne e i figli a Siracusa; e perchè la paura non permetteva dilazione, parte d’essi insaccò l’argento e l’oro, ch’eran facili a trasportare; parte senza badare alla roba, non pensò che a fuggire co’ genitori e co’ figli di tenera età; e alcuni gravi per vecchiezza, o malattia, furono dai parenti e dagli amici abbandonati: parendo a tutti, che i Cartaginesi ad ogni momento fossero loro addosso. Perciocchè la ruina di Selinunte, d’ Imera, e d’Agrigento, avea gettato negli animi di tutti tanto spasimo, che ognuno nella immaginazione sua non vedeva più che l’atroce crudeltà di que’ Barbari, e il non perdonare a nissun prigioniero, il non sentir pietà di nessun infelice, il mettere in croce gli uni, il tormentar gli altri con insopportabili con tumelìe, ed ogni più misera calamità simile.

Imilcone, che stava tallonando l’esercito greco, giunse a Camarina il giorno successivo: dopo avere occupato la città senza colpo ferire e saccheggiata adeguatamente, stipulò un accordo con una alcune truppe sbandate di Dioniso, sia greche, sia sannite, e gli affidò il controllo della città.

Intanto la posizione di Dioniso era sempre più complicata: parte dei suoi soldati si lamentava del fatto che, nonostante le sue vanterie, non avesse ottenuto risultati migliori dei precedenti generali. In più, a torto, molti si sospettavano che fosse stato corrotto da Imilcone. Per cui, gli oligarchi siracusani decisero di tentare il tutto per tutto, per defenestrarlo.

Parte della cavalleria dell’esercito greco, che era d’accordo con i congiurati tornò di corsa a Siracusa e tentò di prendere il controllo della città. Il loro tentativo fu goffo, in quanto Dionisio, raggiungendo la polis, trovò le porte chiuse, ma non custodite. Per cui fu un gioco da ragazzi farvi infiltrare i suoi uomini, aprirle e irrompere a Siracusa, prendendo di sorpresa gli oppositori e uccidendone buona parte. Chi riuscì a salvarsi, fuggì nella città siceliota di Etna, quella rifondata da Gelone, e, con un voltafaccia, si alleò con i Cartaginesi.

I profughi di Gela e Camarina, visto il manicomio e prevendendo un prossimo assedio di Siracusa, presero armi e bagagli e raggiunsero i profughi di Akragas a Leontini. Furono facili profeti: dopo meno di una settimana, l’esercito punico, in pompa magna, si accampò fuori delle mura della polis, incominciando l’assedio.

Imilcone aveva tutti i vantaggi: viveri e denaro in abbondanza e un nemico demoralizzato e diviso: gli bastava attendere con pazienza e Siracusa sarebbe caduta ai suoi piedi, come un frutto maturo. Ma gli dei erano favorevoli a Dionisio. Nel campo cartaginese, si scatenò l’ennesima epidemia: memore di Akragas, Imilcone, il cui obiettivo stategico non era conquistare Siracusa, ma trasformarla in un junior partner e rafforzare l’indirect rule e il predominio commerciale cartaginese in Sicilia, decise di trattare con Dioniso, imponendogli un trattato umiliante

Ai cartaginesi andava il dominio, oltre che sugli antichi coloni, anche sugli Elimi e sui Sicani; alle popolazioni di Selinunte, Akragas, Himera, Gela e Camarina, era concesso di abitare nelle loro città ma senza cinta muraria, ed era imposto di pagare tributi a Cartagine; Leontinoi, Messàna e i Sicelioti restavano liberi con le loro leggi; Siracusa era sottoposta a Dionisio; le due parti si restituivano i prigionieri e le navi catturate

L’Osservatorio astronomico di Palermo

Quando parlai di Piazzi e della sua scoperta di Cerere, accennai all’esistenza dell’Osservatorio Astronomico di Palermo, posto a Palazzo dei Normanni, proprio alla sommità dell’antica Torre Pisana. Osservatorio che è ancora vivo e vegeto e che prosegue una straordinaria attività di ricerca scientifica: alla sede tradizionale, ha affiancato quella distaccata di via G.F. Ingrassia 31, a Sant’Erasmo,che ospita i laboratori, le officine e le macchine per il calcolo ad alte prestazioni.

L’origine dell’Osservatorio risale al 1789 quando Giuseppe Piazzi, deciso a fondare la nuova specola, si fece mettere in mezzo da Giuseppe Venanzio Marvuglia, il quale tra le tante stranezza, millantava anche di essere esperto di astronomia.

Per cui, il povero Piazzi, fu costretto a un faticoso tour per tutte le soffitte e i tetti di Palermo, finché, più per stanchezza, che per effettiva convinzione, si orientò alla vecchia torre del Palazzo dei Normanni. Stabilito che questa era la sede più opportuna per solidità ed elevazione, ma soprattutto per la possibilità che offriva di portare a termine i lavori in un tempo relativamente breve e risparmiando sui costi, i Borboni erano più prodighi di incoraggiamenti che di soldi, grazie all’appoggio del Viceré Principe di Caramanico, che autorizzò la nascita dell’osservatorio in data 1° luglio 1790.

Il vicerè non che fosse un grande appassionato di astronomia, ma si era reso conto come l’Osservatorio era necessario alla realizzazione del progetto di triangolazione della Sicilia, necessario per l’aggiornamento delle mappe catastali e per costringere la riottosa nobiltà locale a pagare le tasse.

Sia perchè Piazzi badava più al concreto che alle forme, sia per risparmiare tempo e denaro, la pianta del’Osservatorio era ridotta all’essenziale: comprendeva due sale, una per il Cerchio azimutale, che tanta fatica era costato, per farlo spostare da Londra ed una per lo Strumento dei Passaggi, collegate da una galleria per gli strumenti mobili. Unica concessione al lusso fu un piccolo tempio circolare in marmo che circonda il Cerchio di Ramsden eseguito su disegno di Venanzio Marvuglia e le vetrine in cui erano costoditi gli strumenti più piccolo, che furono disegnate dal grande architetto neoclassico Léon Dufourny. Ridendo e scherzando, a Palermo ci sono più sue opere, che a Parigi.

Grazie alla scoperta di Cerere, a Piazzi fu assegnato in premio una medaglia d’oro che egli rifiutò perché il premio fosse utilizzato per l’acquisto di altri strumenti, tra i quali un equatoriale di Troughton che collocò nella seconda cupola dell’osservatorio, ma che fu una mezza sola: non fu mai in condizioni di funzionare appropriatamente perché giunse a Palermo, nel 1804, gravemente danneggiato.

Quando nel 1817 Piazzi si trasferì a Napoli per completare la costruzione dell’osservatorio di Capodimonte, lasciò la direzione dell’Osservatorio di Palermo al suo braccio destro Niccolò Cacciatore, il che non è che fosse una cima come scienziato, anche se si tolse le sue soddisfazioni, scoprì un paio di stelle della Costellazione del Delfino, Sualocin e Rotanev, nient’altro che, a lettere invertite, la versione latinizzata del suo nome, Nicolaus Venator e l’ammasso globulare NGC 6541, ma che era un eccellente organizzatore.

Inoltre, a differenza di Piazzi, Niccolò aveva una straordinaria passione per la metereologia, tanto che fece costruire un sismoscopio ed un anemometro di sua invenzione, fece sistemare il pluviometro ed acquisto’ un igrometro di Daniell e regolarmente, pubblicava le previsioni sul tempo, che attaccava alle porte della Cattedrale… Il leggerle e il commentarle era uno dei passatempi preferiti del palermitano dell’epoca.

Alla sua morte, il 27 gennaio 1841, la direzione fu assunta per incarico dal figlio secondogenito Gaetano (1814-1889) che nel 1835, appena ventunenne, era stato nominato secondo assistente alla Specola e, nel 1839, primo assistente. Nel 1843 Gaetano Cacciatore ottenne la nomina definitiva alla direzione dell’Osservatorio. Gaetano era ancora meno cima del padre, però, in compenso, era un ottimo divulgatore, tanto da organizzare, cosa all’avanguardia per l’epoca, delle visite guidate per le scolaresche e per i curiosi dell’epoca e promosse la pubblicazione di un “Annuario astronomico”, che era leggibilissimo anche per i non addetti ai lavori.

Gaetano, però, era appassionato di politica e nel 1848, si schierò a favore dell’indipendenza siciliana: di conseguenza fu epurato e sostituito da Domenico Ragona, che era filoborbonico. Al di là delle sue idee politiche, che fecero allentare i cordoni della borsa al governo di Napoli, tanto da ordinare due nuovissimi ed eccellenti strumenti, un cerchio meridiano delle officine Pistor e Martins di Berlino da 13 cm di apertura in sostituzione dell’ormai obsoleto strumento dei passaggi di Ramsden, ed un telescopio equatoriale da 25 cm di apertura della ditta Merz di Monaco in sostituzione del famigerato equatoriale di Troughton, a differenza dei Cacciatore, Domenico era un eccellente scienziato.

La sua idea era di sfruttare la posizione geografica di Palermo per costituire, non appena messi in opera i nuovi strumenti, un ampio Catalogo di stelle australi non osservabili dagli osservatori del Nord Europa. Contemporaneamente egli si dedicò alla riorganizzazione ed implementazione delle osservazioni meteorologiche, che rimanevano il principale motivi per cui l’Osservatorio era noto al palermitano medio.

Con l’arrivo dei Mille nel 1860, tutti questi buoni propositi finiscono a ramengo: Domenico viene cacciato a pedate Gaetano Cacciatore venne quindi reintegrato, con decreto del 14 luglio 1860 a firma di Giuseppe Garibaldi, nella sua carica di Direttore dell’Osservatorio di Palermo. Il problema è che gli intellettuali siciliani dell’epoca, si erano resi conto della pochezza di Gaetano, che per di più, poverino, stava avendo gravi problemi alla vista: per cui, a cominciare dal grande arabista Michele Amari, provarono a convincere Schiaparelli, il tizio dei canali di Marte, a prendere la direzione dell’Osservatorio, senza però riuscirci.

A peggiorare il tutto, Domenico aveva fatto ricorso al Ministero dell’Istruzione contro la sua epurazione: il ministro Francesco de Sanctis, sì, il critico autore della Storia della Letteratura Italiana, risolse il tutto con compromesso. Domenico fu nominato direttore dell’osservatorio di Modena, al posto di Pietro Tacchini, che fu nominato direttore operativo dell’Osservatorio di Palermo, lasciando a Gaetano Cacciatore le incombenze amministrative e didattiche.

Il primo compito di Francesco fu montare e collocare l’equatoriale di Merz da 25 cm, ordinato da Ragona, che per le vicende degli anni precedenti, era stato abbandonato a se stesso. Grazie alle sua formazione da ingegnere, egli seppe abilmente dirigere i lavori per la sistemazione della stanza e della cupola del grande strumento. Seguendo le istruzioni dello stesso costruttore, egli riuscì quindi a mettere in funzione l’equatoriale, che fu inaugurato il 30 aprile del 1865 e che sancì l’inizio del nuovo corso dell’Osservatorio di Palermo

Lo strumento di Palermo era gemello dell’equatoriale utilizzato da p. Angelo Secchi al Collegio Romano per i suoi celebri studi di fisica solare. Tacchini pensò bene dunque di dedicarsi con esso allo studio del sole, osservando facole e macchie solari, ed intervenendo nel dibattito scientifico internazionale sulla natura e struttura della fotosfera solare e fondare quella disciplina che nei decenni successivi, avrà un’importanza sempre maggiore, la spettroscopia.

Dopo aver messo in funzione l’equatoriale di Merz, Tacchini si occupò di revisionare il cerchio meridiano di Pistor & Martins, col quale, tra il 1867 ed il 1869, determinò le coordinate di 1001 stelle australi. Tra le altre attività scientifiche del periodo vanno ricordati gli studi di Tacchini sulle Leonidi e le Perseidi, sulle osservazioni di aurore boreali ed il perfezionamento o la progettazione di alcuni strumenti secondari. Grande impulso ricevettero anche gli studi di meteorologia, con l’acquisto di numerosi strumenti, il più importante dei quali fu un meteorografo Secchi, uno dei più spettacolari e sofisticati strumenti per il rilevamento automatico dei parametri meteorologici mai costruito. L’attività in questo campo venne incentivata quando, con la costituzione dell’Ufficio Centrale di Meteorologia a Roma nel 1879, alla cui direzione fu chiamato Tacchini, si provvedette ad organizzare e coordinare una rete meteorologica nazionale, con la creazione di numerose stazioni, tra le quali, a Palermo nel 1880, quella di Valverde, sita nei locali della villa Ventimiglia in Corso Calatafimi, che costituì la sezione staccata per la meteorologia dell’Osservatorio di Palermo.

Il trasferimento a Roma di Pietro, però scatenò nell’Osservatorio una confusa lotta per la successione, complicata sia dal taglio dei fondi, sia dal fatto che l’Amministrazione della Real Casa, sempre in carenza di spazi per gli uffici amministrativi, aveva preso di mira l’ultimo piano della Torre Pisana. Per cui, stava brigando in ogni modo per sfrattare gli astronomi.

E tanto fece l’Amministrazione della Real Casa, che il Ministero della Pubblica Istruzione dovette istituire una Commissione tecnica per cercare di salvare capra e cavoli. La Commissione, istituita nel 1888 e presieduta dal senatore Emanuele Paternò, Rettore dell’Università di Palermo, stabilì che i locali dell’ Osservatorio non si potevano abbandonare, ma che contemporaneamente era opportuna la costruzione di una succursale dove collocare due nuovi strumenti e precisamente un cerchio meridiano da 20 cm di apertura ed un rifrattore equatoriale da 60 cm, strumenti da destinarsi entrambi all’astronomia di posizione. Il sito individuato per il nuovo Osservatorio era il monte Consono nei pressi di Bagheria, ed Ernesto Basile fu incaricato di redigerne il progetto. Ovviamente, si erano fatti i conti senza l’oste, mancando i fondi e non solo il progetto cadde nel dimenticatoio, ma ebbe anche l’effetto collaterale di congelare tutti gli investimenti nell’Osservatorio.

Nel 1889 alla morte di Gaetano Cacciatore la direzione dell’Osservatorio veniva affidata ad Annibale Riccò. Questi tuttavia ebbe appena il tempo di completare le formalità burocratiche relative alla consegna dei locali e della suppellettile strumentale e libraria e venne chiamato, meno di un anno dopo (1890) a ricoprire la prima cattedra di Astrofisica creata in Italia presso l’Università di Catania, ed a dirigere l’appena terminato Osservatorio di quella città, nonche’ la sede dell’Etna e il suo posto venne preso a Temistocle Zona, noto per avere scoperto una cometa.

A lui si deve, nel 1893, la creazione di una stazione astronomico-meteorologica (“vedetta meteorico-alpina”) al pizzo eremita, su Monte Cuccio, poco fuori Palermo, dove trovò condizioni di cielo più favorevoli per le sue osservazioni. Nella piccola stazione, Zona collocò la montatura equatoriale appositamente realizzata per il telescopio Merz già appartenuto al Principe di Lampedusa, insieme ad alcuni strumenti meteorologici. Tra il 1899 ed il 1903, tuttavia, dei fulmini colpirono per ben due volte la capanna, distruggendo gli strumenti meteorologici e danneggiando la montatura equatoriale. La stazione fu quindi abbandonata.

Però, proprio per la mancanza di fondi, nonostante gli sforzi erculei del successivo direttore, Filippo Angelitti, che quasi di tasca propria, acquistò un Cannocchiale Zenitale di Wanschaff da 8 cm di apertura, che fece installare al posto dell’antico Cerchio di Ramsden ormai assolutamente inservibile, un regolatore astronomico di Frodsham, un pendolo di Riefler e numerosi altri strumenti minori, l’Osservatorio entrò in una fase discendente, tanto che divenne una sorta di discarica per astronomi in disgrazia, che facevano carte false per darsela a gambe. Un vero peccato, perchè, mio nonno, il cui interesse per l’astronomia era prossimo a zero, che per caso era riuscito a visitarlo, ne fu affascinato.

I problemi si acuirono durante e dopo la seconda guerra mondiale, quando l’osservatorio fu vicino alla chiusura, privato di alcuni locali, dopo esser anche rimasto privo, nel 1939, dell’unico strumento di osservazione moderno di cui era dotato, il modello di telescopio zenitale sviluppato da Julius Wanschaff a Berlino. Nel 1952, per cercare di uscire dal tunnel, fu tentato un accordo internazione con l’osservatorio di Amburgo.

Nel corso dell’anno successivo (1953) altri tre Osservatori, e precisamente quelli di Bologna, Teramo e Catania si “aggregarono” al progetto “Palermo-Amburgo” nella speranza di potere anche loro risolvere i problemi, analoghi a quelli dell’Osservatorio di Palermo, in cui si dibattevano. L’accordo raggiunto dai quattro Osservatori italiani ed inviato all’ufficio del Piano ERP del Ministero della Pubblica Istruzione prevedeva che i singoli Osservatori rinunciassero alle loro precedenti richieste sui fondi appositamente stanziati (Piano MPA-203) per concentrare una ragguardevole somma nell’acquisto in comune di un unico strumento potente e moderno da collocare nella regione più favorita dalla natura, vale a dire la Sicilia. Lo strumento scelto era un riflettore Schmidt costruito dalla Askania-Werke uguale a quello in funzione presso l’Osservatorio di Bonn ed il cui costo era di 27,5 milioni. In sostanza la Regione Siciliana avrebbe dovuto stanziare i fondi, circa 30 milioni, per costruire la nuova stazione astronomica, il Ministero della Pubblica Istruzione avrebbe dovuto assegnare ai quattro Osservatori i fondi per l’acquisto di uno strumento e l’Osservatorio di Amburgo avrebbe dovuto provvedere agli altri telescopi.

Il progetto, tranne che per la scelta della località individuata nella zona tra Piana dei Greci, Misilmeri e Bagheria, era sensato ed andava nella direzione giusta, che è poi quella che si segue modernamente, di non distribuire somme a pioggia per l’acquisto di piccoli strumenti, ma di ottenere un unico grande strumento dividendo il tempo di osservazione fra gli Enti partecipanti alle spese. Non sappiamo quali siano stati gli intralci che lo fecero fallire. Di certo la Regione non stanziò mai i fondi richiesti limitandosi ad assegnare, sugli esercizi finanziari 53/54 e 54/55 un contributo annuo di 5.500.000 lire quale concorso nelle spese di riordinamento e di ricostruzione del patrimonio scientifico (librario e strumentale).

Con tali fondi furono sostituite le tre cupole della Specola sotto le quali giacevano gli storici strumenti che, in un estremo quanto inutile tentativo di riutilizzo furono sottoposti ad una radicale revisione da parte delle Officine Salvadori di Firenze, revisione che ebbe solo l’effetto disastroso di danneggiarne irreparabilmente alcune parti.

Cupole che però erano realizzate in ferro, troppo pesanti e pericolose per la struttura normanna. Per cui, anni dopo, furono sostituite con altre in rame, più leggere. C’è da aggiungere inoltre che fin dal 1953 l’Assemblea Regionale sottrasse all’Osservatorio gran parte dei locali che da sempre erano stati di sua pertinenza. Tali sottrazioni, in parte ampiamente giustificate da esigenze di restauro delle fabbriche normanne, ed in parte largamente arbitrarie, comportarono, fra l’altro, l’ammassarsi indiscriminato dell’ingente patrimonio librario e di strumenti che si era accumulato nel corso dei due secoli di vita.

Fortuna che a salvare il tutto, venne Giuseppe Salvatore Vaiana ( 1935-1991) che nel 1976 assunse la direzione dell’Osservatorio, che fece un lavoro straordinario, per rilanciare l’Osservatorio al livello internazionale.

Associato all’Osservatorio, vi è il cosiddetto Museo della Specola, che conserva tutti gli strumenti astronomici storici, compresi quelli del Principe di Lampedusa, compreso il telescopio prestato a Luchino Visconti per il set del celebre film Il Gattopardo. Tra le sale spicca quella della Meridiana, un piccolo gioiello di architettura in stile neogotico progettata e decorata da Giovanni Battisti Filippo Basile: qui è custodito un telescopio adoperato per osservare i passaggi degli astri alla massima altezza sull’orizzonte durante il loro passaggio in meridiano, attraverso una piccola fessura: questa stanza è rimasta quasi intatta, caratterizzata dal contrasto del legno con le pareti rosse. Un luogo intimo in cui è facile immaginare gli astronomi dell’epoca alle prese con le osservazioni astronomiche. Del resto in ognuna delle Cupole dell’Osservatorio si viene catapultati nel passato

Infine, nella sala del Rifrattore è presente il famigerato telescopio equatoriale Merz, risalente alla metà dell’Ottocento e di recente restauro, è celebre in quanto con esso Pietro Tacchini, tra i primi astronomi in Italia, eseguì importanti studi spettroscopici sul sole. A completare la collezione della galleria, ci pensano bellissimi ritratti di astronomi, alcuni dei quali eseguiti da Giuseppe Velasco ai primi dell’Ottocento.

Oltre al Museo della Specola, all’Osservatorio è associata anche la Biblioteca Storica, che trae origini dal lascito testamentario della biblioteca personale di Giuseppe Piazzi e comprende le pubblicazioni necessarie per svolgere le attività accademiche e di ricerca per l’Osservatorio, ma anche quelle che riguardano gli interessi personali di Piazzi, della sua formazione e cultura.

Il lascito di Piazzi è costituito da circa 400 opere, divise in 1650 volumi, dei secoli XVI-XIX: gli argomenti sono prevalentemente di carattere scientifico, spaziando tra periodici, atlanti stellari e mappe geografiche; sono presenti anche enciclopedie, classici latini, grammatiche, dizionari e opere a carattere religioso e filosofico.

Ora la biblioteca, in costante aggiornamento, possiede circa 10.000 monografie, 1.200 testate di periodici, 6.000 opuscoli ed è organizzata in due sezioni. La sezione storica, principalmente di supporto alle ricerche di storia dell’astronomia e della scienza in generale, comprende circa 1650 volumi antichi, monografie pubblicate sino agli anni ’50-’60 del XX secolo e oltre mille periodici. A questa sezione afferisce anche l’archivio storico. La sezione moderna, di supporto alle attuali attività di ricerca astrofisica, comprende oltre 6000 monografie e periodici correnti e gestisce anche le pubblicazioni in formato elettronico.

L’urbanistica di Cuma

L’urbanistica dell’antica città di Cuma, vuoi o non vuoi, è stata fortemente condizionata dalla peculiare orografia dei suo territorio, frutto dell’attività vulcanica dei Campi Flegrei: di conseguenza, la polis fu ripartita in due zone, l’acropoli e la città bassa, disposta lungo la linea di costa.

L’acropoli sorgeva su quello che viene oggi definito come monte di Cuma, ossia un antico cratere, alto circa ottanta metri, dotato di pareti scoscese in tufo e quindi praticamente inattaccabile, accessibile solo dal lato meridionale; fu su questa zona che si sviluppò il primo nucleo della città, attraversato da una strada, chiamata Via Sacra, che conduceva ai principali templi, fino a raggiungere la sommità del monte: la strada aveva inizio con due torri, di cui una crollata insieme a parte del costone della collina e l’altra restaurata in epoca bizantina e di cui sono visibili i ruderi

La parte bassa invece si sviluppò a partire dall’epoca sannitica ed in maggior misura durante l’età romana, nella zona circostante l’acropoli e si estendeva dal monte Grillo alla costa: era caratterizzata da tipici edifici romani, come il Foro e le Terme.

Sul versante nord dell’Acropoli si conservano alcuni tratti delle poderose mura che cingevano la città e la monumentale Porta Mediana. La parte più antica delle mura risalirebbe alla fine del VII sec. a.C., ma se ne conserva una porzione esigua non perfettamente leggibile, mentre in seguito nella prima metà del VI sec. a.C. le mura sono meglio conservate e costituite da una doppia cortina edificata in grossi blocchi di tufo squadrati riempita di terreno e scaglie di tufo, della larghezza totale di circa 5 metri. Le mura più antiche subiscono ristrutturazioni alla fine del VI sec. a.C. e nel V secolo a.C. vengono costruite due “ali” in corrispondenza dell’apertura della porta, che monumentalizzano il varco.

Sotto le mura passava una grandissima fogna per lo smaltimento delle acque e questo ci fa capire che la città anche nelle sue fasi di vita più antiche aveva già una strutturazione molto complessa con grandi opere, come le fognature e le mura fortificate, insomma una città molto ricca e potente. Appena fuori dalle mura è stato ritrovato un deposito in cui era deposta una gran quantità di ossa di cavalli, che presentavano ferite provocate da frecce e spade. Si tratta dunque di una fossa dove probabilmente furono seppelliti i cavalli morti durante una grande battaglia e forse una delle grandi battaglie avvenute in quel periodo a Cuma, quella del 524 a.C. contro gli Etruschi, nella quale si distinse il giovanissimo Aristodemo, futuro tiranno della città.

Nel III sec. a.C. la cortina è oggetto di un poderoso potenziamento: viene costruita una ulteriore cortina che si aggiunge a nord di quella esistente insieme ad un rafforzamento fatto di setti murari in blocchi di tufo posizionati perpendicolarmente alle due grandi cortine, e il tutto riempito con terreno e scaglie di tufo. Nel II sec. a.C. con l’ingresso nell’egida romana viene meno l’esigenza di fortificare e difendere militarmente la città: così alle mura si addossano le gradinate di uno stadio.

Le mura e la Porta Mediana continuano a vivere fino al VI sec. d.C., svolgendo un ruolo fondamentale durante l’assedio bizantino, con continui rialzamenti del piano pavimentale e ristrutturazioni, dovuti probabilmente alle alluvioni che dal III sec. d.C. in poi si verificano nella piana della città bassa.

L’ingresso monumentale della città era l’Arco Felice, costruito nel 95 d.C. per consentire il passaggio della via Domitiana attraverso il monte Grillo. Ai ipotizza che per la sua edificazione sia stato necessario ampliare il taglio nel monte che, forse, già esisteva in epoca greca: il monumento veniva, così, ad acquisire sia la funzione di contenimento per eventuali frane e smottamenti del terreno sia di viadotto per il collegamento fra le due parti della cresta del monte Grillo.

L’arco venne progettato per essere contemporaneamente porta urbana ed arco trionfale, oltre che parte del sistema difensivo; alto circa 20 metri, si presenta, ancora oggi, a fornice unico sormontato da un altro arco a tutto sesto e sostenuto da due pilastri laterali con nicchie, le quali dovevano presumibilmente ospitare delle statue.

Grazie ad incisioni del XVII e XVIII secolo è possibile sapere qual’era l’aspetto originario: sormontato, all’origine, da un attico con la targa per ospitare l’iscrizione e nicchie ai lati in corrispondenza delle sottostanti. Inoltre due torrette a pianta quadrangolare sormontavano lo stesso attico e l’intero arco era rivestito con marmi e stucchi. La facciata ovest è oggi quella meglio conservata e dell’originaria struttura romana sono oggi visibili solo l’intradosso e parte della facciata occidentale.

La particolare orografia della zona costrinse gli architetti del tempo a realizzare numerose opere ingegneristiche, per lo più gallerie, in modo tale da collegare le diverse zone della città: oltre alla Grotta, Cocceio probabilmente realizzò anche la cosiddetta Crypta Romana, una galleria scavata interamente nel tufo che attraversa la collina dell’acropoli e collega il Foro della città antica con il mare. Viene realizzata ad opera di Agrippa, generale di Ottaviano Augusto durante la guerra civile (44-31 a.C.) a scopo difensivo; fa parte infatti di un sistema di gallerie che dal litorale cumano conducevano fino al porto di Augusto (Portus Iulius) nel bacino del Lucrino.

Con la pax augustea la Crypta cessa la sua funzione militare per diventare semplice collegamento tra l’area portuale e il cuore della città, e più tardi in età domizianea viene arricchita con un ingresso monumentale in opera reticolata con nicchie, dove dovevano trovare posto delle statue oggi perdute. In età tardo-antica la galleria diventa in alcuni tratti luogo di sepoltura e nella parte centrale, quella corrispondente alle cisterne, diventa luogo di culto con l’edificazione di una piccola basilica rupestre, della quale restano poche tracce: resti di una scaletta ricavata sulla parete meridionale, i simboli cristiani della corona e della spiga graffiti sulla sommità della volta e una croce apicata sulla parete nord.

La galleria non segue un percorso rettilineo, perché intercetta alcune strutture preesistenti, la cosiddetta Cava Greca e le grandi cisterne situate al centro del percorso sotterraneo, che vengono inglobate per garantire una riserva d’acqua al servizio della galleria stessa.

Il primo tratto, costituito da un corridoio d’ingresso originariamente lungo circa m. 30 (come si può desumere da un piedritto ancora in sito appartenente all’arco occidentale), è coperto da una volta a botte, su cui sono ancora visibili le tracce dell’armatura lignea usata per la messa in opera. Le pareti, di roccia tufacea, presentano un paramento in opera reticolata con ammorsature in tufelli. La ghiera del fornice orientale, a blocchetti di tufo, è sormontata da due file di cubilia.

Superato questo corridoio si accede a un grande vestibolo a pianta rettangolare (lung. m. 26 ca.), il cui pavimento originario doveva essere ad un livello più alto dell’attuale. La parete a sinistra, in opera vittata, presenta quattro grandi nicchie in opera reticolata, destinate a ospitare statue, ma anche funzionali a scaricare il peso della muratura; la parete di destra reca tracce di numerosi restauri. La volta si impostava a una quota superiore rispetto a quella dell’ingresso. In prossimità dell’ingresso, sulla volta tufacea, furono scolpiti gli strumenti utilizzati dagli scavatori: piccone, maglio, bipenne e cunei. Da qui il percorso si snoda sotto il Monte di Cuma, piegando poi a gomito verso la città bassa.

L’illuminazione della galleria era assicurata da una serie di pozzi aperti nella volta. Nell’ultimo tratto sulla destra, furono ricavate due grosse cisterne con gradinate per la decantazione dell’acqua: i paramenti, in opera reticolata, sono rivestiti da uno spesso strato di cocciopesto per tre metri di altezza; successivamente due tagli praticati nelle gradinate le misero in comunicazione con la galleria.

Nel V sec. d.C., quando la città bassa fu abbandonata sulla spinta delle pressioni barbariche, la crypta perse la sua funzione di collegamento. Successivamente, durante la guerra greco-gotica (VI sec. d.C.), il generale Narsete, per espugnare la città, fece scavare una serie di cunicoli nella volta, provocandone il crollo, allo scopo di far franare la soprastante torre posta a guardia dell’ingresso dell’acropoli.. Da allora la Crypta andò progressivamente a interrarsi.

Non si conoscono notizie certa sulla posizione del porto di Cuma; alcuni hanno ipotizzato che un primitivo porto, quello greco, fosse posizionato in una insenatura ai piedi dell’acropoli, la quale a quel tempo si affacciava direttamente sul mare: tale ipotesi è confermata dal ritrovamento in zona di numerose ceramiche greche. È inoltre possibile che in tale periodo la città avesse due porti, probabilmente all’interno del lago di Licola, ora prosciugato, in quanto Dionigi di Alicarnasso afferma che Aristodemo sostò con la sua flotta nei porti di Cuma. A seguito della conquista sannita nel 421 a.C. il porto conobbe un periodo di decadenza, tanto che con l’arrivo dei Romani, Marco Vipsanio Agrippa ne dovette costruire uno nuovo, collegato tramite un canale al lago Fusaro, il quale disponeva anche di una chiusa, utilizzata per le operazioni di dissabbiamento: nei pressi dell’uscita della Crypta sono state rinvenuti banchine, un bacino di carenaggio, un blocco in tufo in opera reticolata, alto circa otto metri ed un lungo muro con degli speroni, probabilmente un faro, anche se non è stato possibile fare ulteriori indagini a causa dello sfruttamento agricolo della zona. Il porto di Cuma venne sicuramente abbandonato a seguito della concorrenza dei porti di Miseno e Pozzuoli, nel periodo dopo le guerre civili.

Il quartiere a nord delle terme del Foro fin dalla fondazione della città greca ha assunto una funzione residenziale e conserva assi stradali perpendicolari, i cui tracciati non si modificano nel tempo, ma restano sempre gli stessi e continuano ad essere ristrutturati ed utilizzati a partire almeno dal VI sec. a.C. fino al III d.C. Qui allora è possibile comprendere come cambiano le tecniche costruttive e le tipologie di abitazione nel corso dei secoli, seguendo un’ideale linea del tempo che va dalla fondazione della città greca alla piena età romana.

Le case di VIII e VII sec. a.C. sono costruite in blocchetti di tufo non squadrati e un impasto di argilla cruda e paglia molto resistente; hanno uno o più vani e ampi spazi esterni utilizzati anche per attività produttive. In seguito dal VI al III secolo a.C. si diffonde l’uso di costruire in grossi blocchi di tufo ben squadrati e le case, della tipologia a corte, cominciano a disporsi una vicino all’altra formando un quartiere segnato dagli assi stradali. Con i Romani, a partire dal II sec. a.C. si costruisce in muratura e il quartiere residenziale si riempie di case e botteghe per la vendita, fino a quando nel II sec. d.C. tutte le abitazioni che presumibilmente appartenevano a nuclei separati vengono unite da un solo proprietario che trasforma il quartiere in un’unica grande domus che ingloba parte dell’asse stradale orientale e occupa tutto l’isolato. Questa ha la tipica struttura della domus urbana con atrio centrale colonnato e gli ambienti che vi si dispongono intorno.