Ho già parlato di Liternum, l’ultima dimora di Scipione l’Africano, dove fu eretto uno dei primi anfiteatri: città che un boom durante l’età imperiale, diventando un importante snodo di traffico, dato che vi incrociavano le vie Domitiana, la Consolare Campana e l’Antiqua che da questa città conduceva ad Atella.
Con la tarda antichità, tra V e VI sec. d.C., inizia la fase di declino. Complici l’impaludamento delle zone e, successivamente, l’invasione di Genserico, che saccheggia e manda in rovina la città, i Liternini decidono di spostarsi nell’entroterra alla volta dei villaggi dell’interno, tra cui quello di Iullanum. Liternum viene così lasciata al suo destino e diviene in breve tempo preda di sterpaglie e umidità, per essere a poco a poco dimenticata. A parte sparuti ritrovamenti nel XV e XVI sec., una vera e propria campagna di scavo ha inizio negli anni ’30 con gli archeologi Chianese e Maiuri,
Però i ritrovamenti sono presto dimenticati, tanto che nel 1960 il comitato promotore dei Giochi del Mediterraneo che si disputano quell’anno a Napoli sceglie l’area a cavallo del foro dell’antica Liternum per impiantare un nuovo edificio, pur sapendo che sotto di esso c’è l’antica colonia romana, e dove si presume si conservino ancora i resti di gran parte delle domus e botteghe romane. Ma il permesso, “non si capisce perché”, viene accordato, alla faccia dell’archeologia, e sorgono le strutture di un moderno Villaggio Olimpico destinato ad ospitare gli atleti della nazionale jugoslava, che poi sarà privatizzato.
Col 2009 è istituito il Parco archeologico e vengono portati alla luce le terme e vari ambienti circostanti, per tornare, poi, nell’abbandonato nel 2014, per mancanza di fondi per la gestione: ora le cose stanno, tra tante difficoltà, migliorando, anche purtroppo il sito non è ancora valorizzato in pieno.
Il nucleo principale del Parco Archeologico è costituito dal Foro, che ha una lunga e complessa storia. La fase edilizia più antica attestata in questo settore, che sembrerebbe non essere anteriore alla metà II sec. a.C., è documentata dai muri in blocchetti di tufo grigio dell’angolo sud-orientale del podio del Capitolium. A quell’epoca, il Foro aveva tre dei quattro lati erano porticati, mentre al centro del lato Ovest era disposto il Capitolium, che eretto su un altro podio, che appariva come un tempio pseudo periptero sine postico, cioè con il colonnato che correva lungo tutto il perimetro del tempio salvo che sul fondo dello stesso dov’era visibile la parete di fondo della cella che aveva una forma molto allungata.
Subito a Sud del Capitolium, vi era un’ampia aula coperta, il cui ingresso, nel lato meridionale, era decorato da un portico analogo a quello del Foro; aula che poteva fungere sia da mercato, sia da luogo di riunione.
La seconda fase costruttiva risale alla fine del I secolo a.C. In questo periodo, parte dei muri che delimitano il Foro sono decorati con paramento in opus quasi reticulatum e l’aula coperta viene trasformata in una Basilica vera e propria. I lavori portarono alla demolizione e chiusura, con pareti in opera reticolata, del suo portico orientale lasciando in vista solo il portico del Foro.
La terza fase coincide con la monumentalizzazione dell’età augustea, caratterizzata dalla presenza muri in opera quasi reticolata. Durante questa fase si realizza un portico con tabernae retrostanti, che delimita l’intera area della piazza. Contestualmente viene arretrata la fronte porticata della basilica per lasciare spazio al portico del Foro e impedire che questo sporgesse rispetto alla facciata del Capitolium.
La quarta fase costruttiva, risale all’epoca flavia, documentata dall’opus mixtum con filari di laterizi alternati a blocchetti di tufo e opus reticulatum, quest’ultimo con un ordito di gran lunga più regolare rispetto al reticolato della fase augustea. Questo intervento urbanistico, come accennato in precedenza, è dovuto alla costruzione della via domitiana nel 95 d.C. Di conseguenza, il Foro viene risistemato per consentire il passaggio al suo interno dell’importante via consolare. La strada infatti rappresenta anche il Decumano massimo della città antica e il suo passaggio nel Foro viene consentito dalla demolizione di una parte del porticato e delle tabernae lungo i lati Nord e Sud, tramite due varchi probabilmente monumentalizzati ma dei quali ad oggi non si conservano più tracce.
Inoltre, viene restaurato il Capitolium, che è trasformato in un tempio di tipo prostilo dotato di colonne in tufo grigio (se ne conserva solo una, ricostruita in anastilosi in occasione degli scavi degli anni Trenta) che reggevano il timpano ed aveva un’unica grande cella, tripartita,che ospitava le statue del culto.
L’ultima fase costruttiva, databile all’epoca di Gordiano III, caratterizzata dall’uso dell’opus vittatum mixtum, caratterizzata da filari con blocchetti di tufo giallo alternati a filari di mattoni, che culmina nella costruzione dell’Odeion, ricavato al di sopra di alcune strutture, pertinenti alle fasi tardo repubblicane e augustee del Foro, riconosciute come i resti di una precedente, sicuramente pubblica data la sua posizione ma delle quali non si conosce il reale utilizzo.
L’Odeion fu ritrovato negli scavi degli anni ’30 del secolo scorso, che hanno portato in luce i reti della cavea, dei vomitoria d’accesso e dell’orchestra; per risparmiare tempo e denaro, una serie di lastre e iscrizioni di recupero furono utilizzate per pavimentare il pavimento della scena.
Sempre nel corso di nuove campagne di scavo sistematiche sono stati esplorati settori dei quartieri abitativi e tratti della viabilità urbana, nonché, lungo la sponda sinistra del lago Patria, un santuario prospiciente una corte, costruita su ambienti pertinenti a magazzini. Più a Sud sono stati messi in luce, inoltre, impianti artigianali con resti di fornace da riferire ad una produzione locale del caeruleum e forse alla lavorazione del vetro.
Delle cisterne sono state rivenute e riconosciute grazie ai materiali di composizione, cioè i cocci delle stoviglie rotte di terracotta, che erano impermeabili, e anche grazie al fatto che non ci sono spigoli vivi nelle strutture, essendo difficili da pulire dagli addetti.
Si presuppongono le Terme in quanto sono stati rinvenuti i tuboli (tubi) a sezione rettangolare che servivano a riscaldare degli ambienti anche lungo le pareti, riscaldati anche sotto il pavimento col calore proveniente dal forno che si propagava nell’intercapedine tra forno e pavimento. Quindi di epoca imperiale, perchè in epoca repubblicana c’erano le tegole rette da degli apici, che creavano un intercapedine dove si propagava il calore.
Infine, nell’area ad est dell’anfiteatro è affiorata una parte della necropoli con circa centocinquanta sepolture, della media età imperiale, di varia tipologia; prevalentemente tombe alla cappuccina, con deposizione entro cassa costruita in conci di tufo o entro fossa terragna o su un letto di tegole, ma anche ad enchytrismos per quelle infantili.
Il corredo, quando c’è, consta di una lucerna e un piccolo boccale monoansato, con dentro un frammento di zolfo o un chiodo ambedue di significato apotropaico. Un’altra area di sepolture occasionali e povere si estende ad ovest dell’anfiteatro, delimitata da un muro di età repubblicana.
Leggendo le commedie plautine, appare evidente come ai suoi tempi la frequentazione dei balnea fosse comune; probabilmente, anche per la derivazione di balneum dal termine greco balanèion, è probabile che questa abitudine si fosse diffusa dopo la conquista della Magna Grecia.
Dobbiamo immaginare questi primi balnea come strutture semplici e spartane, simile ai sentō giapponesi, con due uno spogliatoio, sala con piscina e un ambiente con una caldaia a legna, in cui si scaldava l’acqua proveniente dagli acquedotti. I proprietari o li gestivano direttamente o li davano in appalto a un conductor
Fornendo un servizio pubblico, i balnea furono presto regolamentati: ad esempio, furono stabiliti orari d’ingresso distinti per uomini e donne. Dato il loro elevato numero e l’alta concorrenza, la tariffa d’ingresso, il balneaticum, era ridotta all’osso: Orazio e Marziale parlano entrambi di un “quadrante” (quadrans) ossia una moneta di bronzo del valore più basso. Inoltre, i minori di dieci anni entravano gratis.
Questa sorta di biglietto era riscosso dall’amministratore (balneator) o da uno schiavo di fiducia come il capsarius e l’arcarius, ai quali era affidata la sorveglianza della cassa e di tutto ciò che veniva lasciato in deposito. In aggiunta al costo dell’ingresso, venivano pagate altre somme per la custodia dei vestiti, per i massaggi, per i bagni speciali e gli oli profumati.
Le cose cambiano con Agrippa, che con l’aiuto del solito Cocceio, l’architetto del suo Pantheon, che è incaricato da Ottaviano di riqualificare l’area di Campo Marzio adiacente bosco sacro dell’oracolo di Fauno, caratterizzata dalla presenza della Palus Caprae, la palude della Capra, dove, a seconda delle tradizioni, Romolo ascese al cielo o fu pugnalato a morte dai Senatori.
Palude alimentata dai corsi Petronia amnis e Aqua Sallustiana, lo specchio d’acqua riempiva la depressione tuttora esistente nell’area del Pantheon e di cui si trova eco nella dedicazione delle chiese di Sant’Andrea della Valle e Santa Maria in Vallicella, il cui unico emissario era un canale che sfociava nel Tevere nei pressi dell’attuale sinagoga.
Il suo nome, abbastanza strano, deriva da un fico, sotto cui i romani sacrificavano una capra a Giunone: per risanare l’area, Agrippa e Cocceio costruirono un canale, l’Euripo, che aumentasse il deflusso della acque della palude nel Tevere.
L’Euripo era un canale scoperto e navigabile, aveva un bacino largo poco più di tre metri per una profondità di circa m.1,70, con banchine laterali in blocchi di travertino. Due lunghi muri (uno in opera reticolata e uno in blocchi di tufo) lo fiancheggiavano, mentre sul lato settentrionale correva una via lastricata. Una serie di ponticelli di marmo e travertino erano posti corrispondenza degli attraversamenti stradali.
Il canale, ricordato nel trattato sugli acquedotti romani da Frontino per l’ampia portata d’acqua e raffigurato sulla pianta marmorea severiana di Roma (fr.252), segue parzialmente l’andamento dell’attuale Corso Vittorio Emanuele II, dividendo i due settori urbanistici del Campo Marzio centrale e occidentale, passando sotto l’attuale Palazzo Farnese.
La presenza dell’Euripo permise di prosciugare parte della palus sistemando quanto rimaneva sotto forma di bacino, lo stagnum Agrippae, che, tuttavia, rimaneva assai esteso: recenti scavi condotti per la costruzione della Metro C, hanno permesso di individuare parte dei limiti del complesso, che doveva estendersi tra gli attuali Corso del Rinascimento, via del teatro Valle e piazza sant’Andrea della Valle, per un totale di circa 22.000 metri quadri di superficie. A riprova di questo, vi è la testimonianza di Tacito, che racconta come nel 65 d.C. Nerone,pronipote di Agrippa, facesse costruire una zattera su cui imbandì un sontuoso banchetto; la zattera navigava nello stagno tirata da due navi a remi, ornate d’oro e di avorio.
L’area recuperata, fu in parte destinata a uso pubblico, con la costruzione del Pantheon e del complesso dei Septa Iulia e del diribitorium, destinato allo svolgimento delle elezioni dei comitia e al conteggio dei voti, in parte a uso privato, con un parco, in cui Cocceio costruì delle Terme a uso personale di Agrippa e dei suoi ospiti, che usava lo Stagno come natatio, ossia come piscina.
Terme furono iniziate così nel 25 a.C., entrarono in funzione dopo l’inaugurazione dell’Acquedotto Vergine, nel 19 a.C. che le alimentava e vennero inaugurate nel Campo Marzio nel 12 a.C. Alla morte di Agrippa, le Terme divennero pubbliche passando direttamente al popolo romano, che ne diventò l’erede per lascito testamentario. Infatti il popolo le reclamò sempre come sua esclusiva proprietà: risulta infatti che Tiberio fu costretto a ricollocare al proprio posto la bellissima statua in bronzo di Apoxyomenos (la copia in marmo é conservata ai musei vaticani) che aveva trasportato nella propria residenza perché gli veniva reclamata con altissime grida ogni volta che compariva in pubblico.
Restaurate dopo l’incendio dell’80, che le danneggiò gravemente, vennero ancora ristrutturate da Tito, da Domiziano e da Adriano, quando mise mano anche al vicino Pantheon, opera sempre di Agrippa. Altri restauri si ebbero in età severiana, sotto Massenzio e nel 344-345, da parte di Costante I e Costanzo II.
Dopo il V sec., come tanti altri monumenti romani, le terme furono destinate dai vari papi a cava di materiali nonchè sede di una «calcara», cioè dove il marmo veniva frantumato per farne calce da costruzione. I primi studi furono eseguiti da Palladio, che però reinterpretò in maniera fantasiosa i resti, tanto che L’architetto infatti addossa le terme al Pantheon, integra nel complesso la Basilica di Nettuno e distribuisce gli spazi intorno ad una sala centrale.
Intorno al 1555, furono poi eseguiti i primi scavi archeologici nell’area. Fino al Seicento la sala centrale delle Terme era pressoché intera, come documentano alcuni disegni dell’epoca, ed infatti veniva popolarmente chiamata “lo Rotulo”, “lo Tondo” o “lo Torrione”: il complesso, assieme a un arco che ne fungeva da ingresso monumentale, fu parzialmente demolito nel 1621, in occasione dei lavori di sistemazione urbanistica eseguiti per volontà di Gregorio XV, dando origine alla nostra via dell’Arco della Ciambella.
Ma come era impostate queste Terme? Cocceio, data la sua lunga frequentazione del litorale campano, replicò in grande l’impostazione dei complessi termali di Baia: L’impianto, che misurava non meno di 80l-100 m di larghezza e circa 120 di lunghezza, era organizzato su due assi che si incrociavano in una grande sala circolare del diametro di circa 25 metri, coperta a cupola con un oculos al centro, attorno alla quale erano irregolarmente disposti tutti gli ambienti, alcuni absidali, altri con vasche e spazi aperti.
Probabilmente gli ambienti a ovest della sala circolare erano invece destinati ai bagni caldi, infatti, all’angolo tra via di Torre Argentina e via dell’Arco della Ciambella si sono rinvenuti resti di suspensurae e di tubuli per l’aria calda. Lo storico Cassio Dione riferisce che l’impianto era provvisto di un sudatorio laconico, una sauna con palestra.
Questo ambiente è stato identificato con una costruzione circolare in blocchi di tufo rinvenuta nell’Ottocento durante gli scavi effettuati nella zona retrostante il Pantheon. Questo vano era stato rifoderato all’esterno, in una fase più tarda, con un rivestimento in opera laterizia, che gli conferiva l’aspetto di un edificio a pianta poligonale.
Secondo Plinio il Vecchio riporta che Agrippa aveva adornato il complesso con ben trecento statue, gran parte delle quali erano dislocate nel parco. All’interno poi, sempre a citazione di Plinio, le terme avevano una decorazione ricchissima, con incrostazioni marmoree, pitture a encausto, quadri, mosaici e sculture. In una sala erano esposti due quadri con Aiace ed Afrodite, comprati personalmente da Agrippa nella città di Cizyco a caro prezzo.
Tornando a parlare delle Catacombe di Santa Domitilla, nel III secolo fu costruita in mattoni, a destra dell’antico ingresso, una sala composta di due vani rettangolari, congiunti ad angolo retto. La sala era aperta verso una piccola piazza avanti all’ingresso e la volta che la copriva era sostenuta da pilastri, mentre dall’altro lato grossi muri chiudevano l’ambiente e sostenevano la volta. Lungo i muri interni corre ancora oggi un banco in muratura di mattoni, rivestito di stucco. La sala era dunque destinata per le adunanze in onore della memoria dei fedeli defunti seppelliti nel cimitero. Dall’altra parte dell’antico ingresso, si trovano un pozzo e, accanto, un serbatoio per l’acqua tratta dal pozzo.
Le prime tombe cristiane in questa contrada furono dunque fatte alla fine del primo o nei primi anni del II secolo. Come già fu detto una larga galleria sotterranea che va dolcemente discendendo, forma la parte più antica, la quale ha come ingresso il portale costruito con laterizio bellamente levigato di cui già abbiamo fatto cenno. È la regione detta dei Flavi, che nasce come come ipogeo privato di una famiglia pagana per poi accogliere, durante il III secolo, sepolture cristiane decorate con scene tratte dalle Sacre Scritture: questo, scavato nella collina, è composto da un’ampia galleria, caratterizzata da una ricca decorazione, costituita da tralci di vite e paesaggi contornati da linee in cui giocano piccolo geni, su cui si aprono lateralmente quattro nicchioni, ove erano posti i sarcofagi dei membri più importanti della famiglia; in fondo vi era la zona per le sepolture dei servi e dei liberti.
Nei pressi si trova un piccolo cubicolo dipinto, datato alla fine del III secolo d.C., nel quale, tra ghirlande, cesti di fiori e uccelli è raffigurato il mito di Amore e Psiche, con i due protagonisti sono rappresentati come putti che raccolgono fiori.A questa si affianca, a testimoniare come nella stessa famiglia convivessero più religioni, dipinti di tema cristiano, ispirati all’Antico Testamento come il profeta Daniele, in attitudine di preghiera, fra i due leoni o Noè nell’arca.
Altro interessante ipogeo è quello di Ampliatus che sorge ai piedi di una grande scala e comprendeva, in origine, solo due cubicoli. Quello di destra appartiene a un Ampliato e alla moglie Aurelia Bonifatia (come risulta da iscrizioni), membri di una famiglia di liberti imperiali. Anche in questo caso si tratta probabilmente di un ipogeo romano, inserito nel complesso catacombale solo nella seconda metà del III secolo.
Ad una certa distanza da queste cripte antichissime, si trova la rtegione del Buon Pastore. Vi si accede da una grande scalinata, che immette in una lunga galleria: questa costituisce il primo nucleo della regione, come gli altri di origine privata. Sulla galleria si aprono cubicoli abbastanza grandi e ricchi (alcuni originariamente rivestiti in marmo) e gallerie trasversali. Una seconda rampa, più stretta, porta al secondo livello dell’ipogeo, formato da una galleria molto larga, priva di sepolture, conclusa da un ambiente su cui si apre il cubicolo decorato con un affresco posto al centro della volta, che raffigura il Buon Pastore e da il nome alla regione. Anche questo nucleo era di carattere privato e fu unificato agli altri nel IV secolo.
Una regione speciale del cimitero sotterraneo era riservata ad una associazione di impiegati e di operai che lavoravano nell’amministrazione dell’annona, che provvedeva a Roma il grano necessario per fornire il pane alla popolazione. Alcune pitture nelle pareti di questa regione si riferiscono all’attività di tali impiegati, altre hanno un contenuto religioso cristiano. In un arcosolio è dipinto il Buon Pastore col suo gregge e, tra le pecore a destra e a sinistra del Pastore, vi sono anche un uomo e una donna nell’attitudine della preghiera: i defunti seppelliti nell’arcosolio, rappresentati come pecorelle del gregge di Cristo nel Paradiso
Al IV secolo, appartengono due cubicoli, decorate con dipinti che avranno un successo clamoroso nell’arte successivo: il primo è Davide con la fionda, il secondo la traditio legis, la raffigurazione di Cristo tra san Paolo e san Pietro, a cui porge un rotolo, con l’eventuale presenza di altri apostoli. Tale raffigurazione, presente soprattutto nell’area di influenza romana, rappresenta la trasmissione del messaggio evangelico agli apostoli ed in particolare a Pietro, fondamento dell’autorità papale. La traditio legis aveva quindi un contenuto anche ideologico e campeggiava infatti nel catino absidale dell’antica basilica di San Pietro.
Dall’attuale ingresso della catacomba si accede alla basilica, dedicata ai Santi Nereo e Achilleo, che si i presenta con una maestosa aula absidata, preceduta da un nartece e suddivisa in tre navate da quattro colonne per lato, con capitelli di recupero. Una basilica nata semi-ipogea, nel luogo di sepoltura dei martiri, ma che prende luce in alto da ampi finestroni affacciati sull’esterno.
Nella zona dell’abside sono stati scoperti i resti del ciborio, edificato sopra la tomba dei martiri e costituito da resti di due colonnine; in particolare, quella dedicata ad Acilleus (così la scritta dedicatoria) riporta ancora integra la scena del martirio, scolpita nel marmo, che ritrae un personaggio vestito con abiti militari che sta per decapitare un altro personaggio vestito con una lunga tunica; sullo sfondo si vede una corona d’alloro, simbolo del martirio.
L’uomo medievale osservava il mondo con uno sguardo ben diverso dal nostro, che ci limitiamo a considerare la Realtà come un insieme di entità e relazioni, più o meno misurabili e rappresentabili con formule matematiche; per lui, invece, era costituita da un insieme di segni e di analogie, che ne trasformavano ogni elemento in uno specchio di verità spirituali o di insegnamenti o virtù.
Così, il Cosmo, oltre a essere ordinato, razionale e conoscibile, diventava diventava anche un reportorio di simboli, interpretabili tramite l’illuminazione divina: un esempio di questo complesso meccanismo, è in un famoso brano di Jacques Le Goff
Un grande serbatoio di simboli è la natura. Gli elementi dei diversi ordini naturali sono gli alberi di questa foresta di simboli. Minerali, vegetali, animali sono tutti simboli anche se la tradizione si contenta di privilegiarne alcuni: fra i minerali le pietre preziose che colpiscono la sensibilità per il colore e evocano i miti della ricchezza, fra i vegetali le piante e i fiori citato nella Bibbia, fra gli animali le bestie esotiche, leggendarie e mostruose che solleticano il gusto medievale per lo stravagante. Lapidari, florari, bestiari dove sono catalogati e spiegati quei simboli sono in primo piano nella biblioteca ideale del Medioevo.
Pietre e fiori caricano il significato simbolico con le loro virtù benefiche o nefaste. Le pietre gialle o verdi, per omeopatia colorata, guariscono l’itterizia e le malattie del fegato; quelle rosse le emorragie e i flussi di sangue. La sardonica rossa significa il Cristo che sparge il suo sangue sulla croce per l’umanità, il berillo trasparente attraversato dal sole indica il cristiano illuminato dal Cristo
I florari sono affini agli erbari e introducono nel pensiero medievale il mondo dei “semplici”, delle ricette familiari e dei segreti delle erboristerie monastiche. Il grappolo di uva ricorda il Cristo, che ha dato il suo sangue per l’umanità, in un’immagine simboleggiata dal torchio mistico; la Madonna è rappresentata dall’olivo, il giglio, il mughetto, la violetta, la rosa. San Bernardo sottolinea che la Vergine è simboleggiata tanto dalla rosa bianca, che indica la vergini là, quanto dalla rosa rossa che rende sensibile la sua carità. La biondella, che ha il gambo quadrangolare, guarisce dalla febbre quartana; mentre la mela è il simbolo del male e la mandragora è afrodisiaca e demoniaca: quando la si strappa stride e chi la sente o muore o diventa pazzo. In questi due casi l’etimologia serve a chiarire i concetti per gli uomini del Medioevo: la mela è in latino malum, che significa anche il male, e la mandragora è il drago umano (mandrake in inglese).
Il mondo animale è soprattutto l’universo del male. Lo struzzo che depone le uova nella sabbia e dimentica di covarle è l’immagine del peccatore che dimentica i suoi doveri verso Dio, il caprone è il simbolo della lussuria, lo scorpione che punge con la sua coda è l’incarnazione della falsità e principalmente del popolo ebraico. Il simbolismo del cane è diretto in due sensi: la tradizione antica ne fa una rappresentazione dell’impurità, mentre la tendenza della società feudale lo riabilita come animale nobile, indispensabile compagno del signore nella caccia, simbolo della fedeltà, la più considerata fra le virtù feudali. Ma gli animali favolosi sono tutti satanici, vere immagini del Diavolo: aspide, basilisco, drago, grifo. Il leone e il liocorno sono ambigui. Simboli della forza e della purezza, possono anche essere quelli della violenza e dell’ipocrisia. Il liocorno d’altra parte si idealizza alla fine del Medioevo, quando diventa di moda e è immortalato nella serie delle tappezzerie con la Dama del Liocorno.
Questa concezione simbolica del Cosmo è alla base del linguaggio artistico medievale, che oltre ad avere un valore gnoseologico, di supporto alla conoscenza delle verità della Fede e della Filosofia, trascende in un’ottica più ampia il realismo, inteso come pura riproduzione del dato ottico.
Per citare un altro grande medievalista, Michel Pastoureau, famoso per descritto come la Cultura varia la nostra percezione e il valore che diamo ai colori
A differenza di quanto generalmente si creda, gli uomini del Medioevo sapevano osservare assai bene la fauna e la flora, ma non pensavano affatto che ciò avesse un rapporto con il sapere, né che potesse condurre alla verità. Quest’ultima non rientra nel campo della fisica, ma della metafisica: il reale è una cosa, il vero un’altra, diversa. Allo stesso modo, artisti e illustratori sarebbero stati perfettamente in grado di raffigurare gli animali in maniera realistica, eppure iniziarono a farlo solo al termine del Medioevo. Dal loro punto di vista, infatti, le rappresentazioni convenzionali – quelle che si vedono nei bestiari miniati – erano più importanti e veritiere di quelle naturalistiche. Per la cultura medievale, preciso non significa vero.
Un esempio di tale percezione del mondo è nei bestiari, opere di carattere didattico allegorico-morale, che descrivono le proprietà di animali sia reali che fantastici attraverso le quali ricavare insegnamenti etici e religiosi. Tali proprietà – reali o immaginarie – si riferiscono sia all’aspetto fisico dell’animale, sia al suo comportamento e alle sue abitudini, ai suoi rapporti con le altre specie, compresa quella umana.
I bestiari sono quindi una sorta di tassonomie, in cui convivono osservazioni empiriche, visioni filosofiche, credenze magiche, elementi derivati dalle Sacre Scritture e dati tratti dall’esperienza diretta o da leggende e racconti popolari. Le fonte di tale sapere, ovviamente, non è l’esperienza concreta, considerata, con notevoli eccezioni,superficiale e pericolosa curiositas, ma l’auctoritas: ovviamente Aristotele, secondo l’interpretazione che gli avevano dato i suoi commentatori arabi, Plinio il vecchio e le Sacre Scritture.
A questa triade si aggiungono i padri della chiesa, a cominciare dalle omelie sulla Genesi di Basilio di Cesarea o Ambrogio, le Formulae spiritualis intelligentiae del vescovo di Lione Eucherio e le Etymologiae di Isidoro di Siviglia, il cui libro XII, De animantibus, è dedicato appunto al mondo animale.
Per finire, sempre tra le fonti, vi è uno dei tanti bestseller del Medioevo, vi è il il Physiologus (“Il Naturalista”) scritto forse nel II o nel III secolo d.C. in lingua greca da un anonimo autore di cultura giudeo-cristiana (molto probabilmente ad Alessandria d’Egitto) e tradotto in latino nel IV secolo, composto da quarantotto capitoletti.
Per comprenderne il tono e i contenuti, vi cito un paio di esempi. Il primo è relativo all’onagro, l’asino selvatico
Sta scritto nel libro di Giobbe: ” Chi ha lasciato andar libero l’onagro? ” [Giob., 39.5]. Il Fisiologo ha detto dell’onagro che è guida del gregge, e quando le femmine generano dei maschi, il padre tronca i loro testicoli, perché non possano procreare.
I patriarchi cercavano di seminare un seme corporeo, gli apostoli invece, figli spirituali, hanno praticato la moderazione e desiderato il seme celeste, come sta scritto: “Rallegrati, o sterile che non hai figli, e grida di gioia, tu che non hai le doglie, perché molti sono i figli dell’abbandonata, più di quelli di colei che ha marito” [Is., 54.1; Gal., 4.27]. Il Vecchio Testamento è seme della promessa, il Nuovo della moderazione.
Bene dunque il Fisiologo ha detto dell’onagro.
Se questo vale per gli animali reali, pensate cosa può essere stato scritto per gli animali fantastici, come le sirene
Ha detto il profeta Isaia: “Gli spettri e le sirene e i ricci danzeranno in Babilonia” [IS., 13.21]. Il Fisiologo ha detto delle sirene e degli ippocentauri: ci sono nel mare degli animali detti sirene, che simili a muse cantano armoniosamente con le loro voci, e i naviganti che passano di là quando odono il loro canto si gettano nel mare e periscono. Per metà del loro corpo, fino all’ombelico, hanno forma umana, per la restante metà, d’oca. Allo stesso modo, anche gli ippocentauri per metà hanno forma umana, e per metà, dal petto in giù, di cavallo. Così anche ogni uomo indeciso, incostante in tutti i suoi disegni. Ci sono alcuni che si radunano in Chiesa e hanno le apparenze della pietà, ma rinnegano ciò che ne è la forza, e in Chiesa sono come uomini, quando invece se ne allontanano, si mutano in bestie. Costoro sono simili alle sirene e agli ippocentauri: infatti “con le loro parole dolci e seducenti”, come le sirene, “ingannano i cuori dei semplici” [Rom., 16.18]. Perché “le cattive conversazioni corrompono i buoni costumi” [1 Cor., 15.33].
Bene dunque il Fisiologo ha detto delle sirene e degli ippocentauri.
Scherzando, ma non troppo, gli autori dei bestiari medievali possono considerarsi come una sorta di connettivisti ante litteram, per la loro concezione della Realtà come apparenza olistica e come macchina computazionale per la costruzione di significati; idea che andava oltre la mera erudizione, dato che le loro visioni ispiravano gli artisti che decoravano le chiese romaniche e gotiche, dando così forma all’immaginario della loro epoca.
La poca chiarezza nella strategia ateniese, incerta se trattare o combattere, ebbe però l’effetto collaterale di aumentare la confusione nel campo siracusano: Ermocrate temeva infatti che i nemici, in qualche modo, applicassero il Blitzkrieg ipotizzato da Lamaco, con un attacco improvviso alla polis siciliana.
Non si aspettava invece tutto questo cincischiare. Ora, ben consapevole della scarsa sostenibilità logistica ed economica della spedizione attica e ignaro del probabile accordo sottobanco con i cartaginesi, che si erano presi carico di parte dei costi, lo stratega siracusano aveva dedotto, razionalmente, che a breve parte dell’esercito e della flotta nemica sarebbe stata rispedita a casa.
Inoltre, la strategia iniziale ateniese, che seguiva le indicazioni di Nicia, gli sembrava abbastanza chiara: un intervento limitato pro Segesta, per poi raggiungere un compromesso con Siracusa; la stessa spedizione fallita contro Iblea non era nulla più che un tentativo attico di costringere i nemici a sedersi al tavolo della trattativa.
Ermocrate era un bivio: accettare il compromesso o combattere ? Sia per motivi di politica interna, un successo avrebbe dato la possibilità allo stratega di conquistare il potere a Siracusa, una costante nella storia della polis siciliana, sia perchè del rispetto dei patti da parte degli ateniesi poco ci si poteva fidare, visto il procedente della guerra di Leontini, non è detto che in futuro sarebbero potuti ritornare all’attacco, decise per la seconda strada. Avrebbe sfruttato il presunto vantaggio tattico siracusano, dato che la maggior parte delle truppe erano state mobilitate, per infliggere un colpo mortale al nemico
Nell’ipotesi migliore, con una schiacciante vittoria siracusana, gli ateniesi avrebbero perso la voglia di mettere bocca nelle vicende siciliane; con un successo di misura, beh, la polis siciliana si sarebbe seduta in una posizione di forza al tavolo della trattativa. Così racconta, il nostro Tucidide la situazione.
All’avvento della successiva stagione d’inverno, gli Ateniesi allestirono senza indugi l’offensiva contro Siracusa e a loro volta i Siracusani si accinsero a fronteggiarli. Passato il primo momento di terrore quando gli Ateniesi, annunciati di ora in ora, avevano in realtà Siracusani riacquistavano confidenza. Quando poi gli Ateniesi erano stati avvistati con la flotta in quelle zone remote della Sicilia, precisamente nelle acque dell’opposta riva, e quando si segnalò che l’urto ateniese scagliato alla cinta di Iblea s’era infranto senza successo, divenne più acuto tra i Siracusani il sentimento di superiorità e si esigeva con lo stile caratteristico di una folla in preda alla più viva eccitazione, che gli strateghi li guidassero a Catania, poiché il nemico rinunciava a muovere contro di loro. Poi, squadre di cavalieri siracusani, spingendosi in perlustrazione fino agli avamposti del campo Ateniese, lanciavano insulti, tra cui soprattutto pungente la domanda se fossero venuti per restituire Leontini ai suoi cittadini o intenzionati piuttosto a sistemarsi loro in terra altrui, accanto a Siracusa.
La posizione ateniese, però, era cambiata, dato che il problema della sostenibilità economica della spedizione era stato risolto: per cui, ridiventava praticabile l’opzione iniziale, con la pressione militare su Siracusa. Nell’ipotesi migliore, la città sarebbe stata conquistata. Nella peggiore, insomma, sarebbe stata Atene a imporre le sue condizioni al tavolo della trattativa.
Però, come avanzare sulla polis siciliana? la soluzione di Lamaco, proprio perchè si era perso troppo tempo, non era più praticabili, avendo Siracusa mobilitato le sue difese. Un’avanzata terrestre, oltre a far perdere l’effetto sorprese, avrebbe permesso ai nemici di sfruttare il vantaggio tattico della loro cavalleria.
Mettiamola così: a differenza di quanto pensano tanti storici da facebook, convinti che le battaglie nell’antica Grecia si combattessero come una sorta di mischia di rugby tra opliti, i generali dell’epoca invece adottano uno dispositivo tattico combinato, tra fanteria pesante, fanteria leggera e cavalleria.
Nicia e Lamaco si erano resi conto della boiata compiuta nella fase di organizzazione della spedizione, probabilmente ad Atene si dava per scontato che i potenziali alleati siciliani avessero fornito la cavalleria, per controbilanciare il vantaggio tattico nemico, avevano ipotizzato di accamparsi in un luogo in cui i cavalieri nemici non potessero essere utilizzati
Gli strateghi ateniesi prendevano nota di questo fermento nel campo nemico, come di un particolare che s’inquadrava opportunamente nel loro piano: attirare il complesso dei reparti nemici alla maggior distanza possibile dalla città e approfittando di questo intervallo imbarcare a loro volta l’armata, navigare di costa protetti dall’oscurità e scegliere con comodo il punto prossimo a Siracusa strategicamente adatto per piantarvi il campo. Sapevano come questa soluzione comportasse un preventivo di sacrifici ben inferiore che gettandosi a corpo morto nell’avventura di uno sbarco, contrastati da truppe agguerrite, pronte alla difesa, o marciando per terra sotto gli occhi dei ricognitori nemici (la cavalleria siracusana, potente, avrebbe aperto vuoti formidabili nelle schiere della loro fanteria leggera e nelle truppe di servizio che si ammassavano accanto. Con quella tattica ci si poteva attestare su una posizione sufficientemente inaccessibile agli assalti della cavalleria. A tal proposito, alcuni fuoriusciti siracusani intruppatisi nell’esercito ateniese, passavano informazioni sul terreno circostante il santuario di Zeus Olimpio, che poi fu effettivamente occupato).
Per raggiungere questo obiettivo, Nicia e Lamaco, misero in piedi una complessa operazione di intelligence, che sfruttava a loro vantaggio la volontà di combattere di Ermocrate, così descritta da Tucidide
Per conseguire quello scopo, gli strateghi misero in atto uno stratagemma di questa specie. Spedirono a Siracusa un loro agente fidato, ma che passava per essere in amicizia altrettanto stretta con gli strateghi siracusani. Costui era un Catanese, e sosteneva d’essere in viaggio per conto di personaggi di Catania i cui nomi erano noti a Siracusa e che si sapeva esser rimasti in città, senza per questo venir meno ai propri principi politici di marca siracusana. Egli rivelava che gli Ateniesi bivaccavano ogni notte entro la cinta, lontani dal campo, quindi se volevano fissare un giorno e presentarsi all’alba con tutte le loro forze armate, per aggredire l’esercito, i suoi compatrioti si dicevano disposti a bloccare in città quanti Ateniesi vi si trovavano, incendiando allo stesso tempo la flotta. Sarebbe bastato ai Siracusani un semplice sforzo contro la palizzata per conquistare il campo. I Catanesi pronti a dare una mano erano parecchi, già in armi: lui in persona era un loro emissario.
Gli strateghi siracusani, che altri moventi pungolavano a osare e che anche prima, senza questi avvisi, avevano in programma di organizzare un’offensiva su Catania peccarono di incredibile ingenuità prestando fede a quell’uomo, e concertando subito la data del loro arrivo per l’attacco lo rimandarono, mentre diramavano l’ordine all’intera armata (della lega s’erano già inquadrati i Selinuntini e pochi altri) di mettersi in moto. Quando in fatto di preparativi si raggiunse un discreto livello, e anche la data dell’appuntamento a Catania si avvicinava, postisi in marcia verso Catania bivaccarono sulle rive del Simeto, un fiume nel circondario di Leontini. Gli Ateniesi notarono il movimento e concentrando tutte le proprie truppe, con le forze al completo che dalla Sicilia o dai paesi amici si erano aggregate, le imbarcarono utilizzando le squadre di navi e le flottiglie da carico, e di notte veleggiarono verso Siracusa.
Sempre grazie all’intelligence, il luogo scelto per lo sbarco fu il santuario di Zeus Olimpio: il grosso dell’esercito siracusano, che marciava su Catania, resosi conto della beffa, dovette ritornare indietro, dando però il tempo agli Ateniesi di fortificare il sito, in modo da limitare la mobilità della cavalleria nemica; lavori che procedettero indisturbati, perché nessuno da Siracusa, voleva rischiare una sortita, con il rischio, in caso di sconfitta, di lasciare via libera al nemico per conquistare la città
Al sorgere del sole gli Ateniesi sbarcarono nei pressi del santuario di Zeus Olimpio, con l’intento di scegliere la posizione adatta al campo, mentre la cavalleria siracusana spintasi in avanscoperta a Catania e resasi conto che l’armata nemica, fino all’ultimo reparto, aveva tolto le tende, tornata sulle proprie tracce ne diede notizia alle fanterie, e l’esercito con tutte le sue forze si precipitò indietro per soccorrere la città.
Gli Ateniesi intanto, poiché era lunga la marcia che il nemico doveva compiere, scelsero con calma la posizione opportuna e vi piantarono il campo. Di là avrebbero scagliato, quando il momento fosse strategicamente favorevole, il primo attacco, mentre la cavalleria siracusana durante l’azione, o anche prima, avrebbe durato fatica a infliggere darmi seppure lievi. Da un lato gli Ateniesi avevano a copertura muri, case, alberi e una palude; dall’altro un precipizio. Abbatterono gli alberi intorno e trasportandoli sulla spiaggia piantarono una palizzata a riparo delle navi. Nei pressi di Dascone poi, dove il terreno favoriva l’accesso nemico, utilizzando tronchi e massi scelti a occhio eressero affrettatamente un bastione. Infine tagliarono il ponte sull’Anapo.
Ermocrate, per sloggiare gli ateniesi, tentò di utilizzare la cavalleria, me le precauzione ateniese la resero inutile: per cui fu costretto alla battaglia, in un luogo e in un tempo sfavorevole.
Nessuna sortita, nessun segno di reazione dalla città, mentre il lavoro di difesa procedeva. Per primi si fecero sotto i cavalieri siracusani: e solo più tardi s’adunò e accorse in massa la fanteria. Anzitutto i Siracusani cominciarono ad accostarsi al campo Ateniese, ma poi, vedendo che mancava qualunque indizio di risposta, si ritirarono e oltrepassata la via Elorina si disposero al bivacco.
Ma cosa era questo tempio di Zeus Olimpio detto anche Olympeion ? Questo fu costruito nei primi decenni del VI secolo a.C. e sorse su un poggio elevato rispetto alla pianura sottostante, essendo così il secondo tempio più antico di Siracusa dopo quello di Apollo in Ortigia. I suoi ruderi sono chiamati dai siracusani il tempio “re’ du culonne”, per la presenza di sole due colonne superstiti, che, dal Settecento in poi, hanno ispirato tanti artisti.
Dal tempio si ha la veduta completa del Porto grande, delle Saline, di Ortigia e del Plemmirio. Non per caso i Greci, questo tempio era un riferimento per i naviganti che entravano o uscivano dal porto di Siracusa, il che spiega anche la scelta ateniese, dato che permettava di controllare a pieno i movimenti nemici.
La costruzione in ordine dorico si presentava davvero imponente con sei colonne nel prospetto e diciassette nei fianchi, e tutte monolitiche. La monumentalità dell’impianto era accresciuta da una seconda fila di colonne dietro quelle della facciata. La cella era poi preceduta da un pronao e seguita da un áditon. A questo si aggiungeva ivestimento decorativo in terracotta con motivi molto simili a quelli dell’Apollonion. Tutto conferma la grandiosità e l’arcaicità dell’edificio, di cui le fonti attestano l’importanza a livello religioso e giuridico-civile.
La casta sacerdotale di questo tempio era infatti la prima per rango della città; nel tempio inoltre erano custodite le liste censitarie dei cittadini, come testimoniato dalle vita di Nicia di Plutarco
«E presero una nave nemica, la quale portava le tavole dove registrati erano per tribù i siracusani medesimi. Queste tavole riposte teneansi, lungi dalla città, Nel tempio di Giove Olimpio; ma allora trasportate veniano a Siracusa per far il ruolo di quelli che in età erano da trattar l’armi.»
Il tutto fa pensare come il luogo fosse in qualche modo connesso al primo punto di approdo di Archia e dei coloni all’epoca della fondazione. La più antica notizia del tempio risale al 491 a.C. quando Ippocrate da Gela, vinti i Siracusani, impose al sacerdote di non rimuovere i tesori perché nulla sarebbe stato toccato. Medesimo rispetto ebbero gli Ateniesi nel 414 a. C. accampati in quei pressi. Ben diverso comportamento ebbero i Cartaginesi e Dioniso I, che secondo Cicerone, avrebbe privato il dio del mantello. d’oro offerto da Gelone con il
“denaro ricavato dalla preda cartaginese della battaglia di Himera, con l’ironico pretesto che il dio sarebbe stato assai più protetto dal freddo e dal caldo con un mantello di lana”
Probabilmente questo gesto sacrilego provocò parecchi malumori, tanto che lo stesso tiranno dovette sostituire la statua di culto arcaica con una crisoelefantina, di avorio e ora, dedicata a Zeus Urios, dal greco “vento propizio”, protettore proprio dei naviganti.
Statua che fu sottratta dal solito Verre, le cui ruberie in Sicilia furono valutate, sempre da Cicerone, pari a quaranta milioni di sesterzi, ossia, spacca e pesa, circa ottanta milioni di nostri euri.
Le vicende che portano la Repubblica Romana a intervenire a favore dei Mamertini, poco chiari dal punto di vista storico, Polibio e Diodoro Siculo danno due versioni differenti, però degenerarono rapidamente.
Il Senato, probabilmente visti i buoni rapporti con Cartagine, ipotizzava un intervento limitato, seguito con un compromesso con i punici: Roma avrebbe rafforzato il suo controllo sullo stretto di Messina, favorendo gli interessi delle città campane e dei senatori a loro libro paga, trasformato Siracusa uno stato cuscinetto, per dividere i suoi domini con quelli dell’epicrazia, e magari ottenuto qualche vantaggio in più per i suoi mercanti.
A Cartagine, la vedevano in maniera differente: per prima cosa, consideravano l’intervento romano una violazione dei trattati stipulati contro Agatocle e contro Pirro, poi, il loro intervento, alterava a suo svantaggio gli equilibri in Sicilia, con la perdita del suo indirect rule su Siracusa e Messina.
Per cui, come strumento di dissuasione nei confronti dei Romani, i punici cominciarono a rafforzare le loro guarnigioni, arruolando mercenari Liguri, Celti e Iberi; il Senato, non volendo apparire debole, in un’eventuale trattativa, rispose a questa escalation militare, incrementando il contingenti militar in Sicilia a quattro legioni, sotto il comando dei consoli Lucio Postumio Megello e Quinto Mamilio Vitulo.
La situazione era tesissima e bastava un nonnulla per fare degenerare la situazione: il casus belli fu legato alla questione Akragas, che era stata occupata da una guarnigione cartaginese e che Siracusa riteneva appartenere alla sua sfera d’influenza. Per cui, Gerone II chiese aiuto all’ingombrante alleato romano per sloggiare i punici.
Così, il contingente romano nel giugno del 262 a.C. marciò su Akragas dove i Cartaginesi tenevano una guarnigione comandata da Annibale Giscone. Le legioni romane si accamparono a circa otto stadi (circa 1.500 metri) dalla città. L’idea era replicare quanto accaduto a Messina: convincere Annibale Giscone a ritirarsi con le buone e al contempo aprire un tavolo di trattativa con i Cartaginesi, usando sia il bastone, la minaccia di una guerra, sia la carota, il riconoscimento del possesso dell’epicrazia.
Il problema fu che Annibale Giscone, vista la pessima fine fatta da Annone a Messina, crocifisso da punici per avere abbandonato la città, non aveva nessuna intenzione di evacuare Akragas: si rinchiuse con la guarnigione e la popolazione all’interno delle mura raccogliendo tutte le vivande possibili dal territorio circostante.
La città era preparata ad un lungo assedio e, in effetti, sembrava che tutto quello che si doveva fare era resistere in attesa che dalla madrepatria giungessero i rinforzi programmati; nel frattempo, probabilmente, si sarebbe raggiunto un accordo.
Dato che i consoli non si aspettavano questo, non essendo preparati ad assaltare la città, decisero di cominciare l’assedio: da una parte, grazie a Siracusa, non avevano problemi di rifornimenti, dall’altra, speravano sempre nei canali diplomatici.
Il problema, come racconta Polibio è che gli scontri degenerarono rapidamente
Essendo in pieno corso la mietitura e annunziandosi l’assedio di lunga durata, i soldati si impegnarono a raccogliere grano con più ardore del dovuto. I Cartaginesi, visti i nemici disperdersi per la campagna fecero una sortita e piombarono sui foraggiatori. Dopo averli facilmente messi in fuga, gli uni presero a saccheggiare il campo, gli altri si gettarono sui presidi. In seguito avvenne che i Cartaginesi si comportassero con maggiore prudenza e che, d’altra parte, i Romani provvedessero al foraggiamento con maggiore cautela.
Era guerra: aspettandosi l’arrivo di rinforzi da Cartagine, i consoli divisero in due l’esercito; una delle due metà rimase davanti alla città e l’altra fu spostata in direzione di Eraclea Minoa, ancora in mani puniche, da dove presumibilmente sarebbero giunti i Cartaginesi. I legionari costruirono due fossati uno per ripararsi dagli attacchi portati dalla città e l’altro per difendersi dall’esterno e una serie di fortificazioni in punti strategici, una tattica che sarà replicata da Cesare ad Alesia.
Passarono cinque mesi: evidentemente le trattative tra romani e punici fallirono e Cartagine a sua volta, decise di mostrare i muscoli. Le truppe puniche si raccolsero a Eraclea Minoa all’inizio dell’inverno 262-261 a.C. In Sicilia giunsero circa 50.000 fanti, 6.000 cavalieri e 60 elefanti comandati da Annone.
Benchè le cronache romane facciano le vaghe, è indubbio che il generale cartaginese ottenne numerosi successi: per prima cosa fece fallire il tentativo di bloccarlo a Eraclea Minoa, il che implica almeno una battaglia vinta, riuscì a impadronirsi delle scorte alimentari romane stipate a Erbesso emettere sotto assedio il campo romano.
Assediati da Annone, tagliati fuori dai rifornimenti di Siracusa e dalla possibilità di foraggiare liberamente i consoli romani dovettero decidere di scendere in campo per uno scontro diretto. Ovviamente questa volta fu Annone a non volersi impegnare. Più avesse indebolito i nemici affamati e -pareva- colpiti da un’epidemia e meno problemi avrebbe avuto in uno scontro campale. E, a quanto afferma Polibio, per due mesi le forze cartaginesi se ne stettero ad assediare il campo romano limitandosi a sporadiche scaramucce di cavalleria. Per fortuna dei Romani, Gerone di Siracusa riuscì a inviare un nuovo rifornimento che permise loro di scartare la pur ventilata ipotesi di abbandonare l’assedio.
Nello stesso tempo inoltre, la situazione all’interno della città, stretta d’assedio da oltre sette mesi, si stava facendo rapidamente disperata. Annibale Giscone, comunicando con i soccorritori tramite segnali di fuoco chiedeva un soccorso urgente e Annone dovette scendere in campo. Secondo Giovanni Zonara, furono i Romani a dover ingaggiare battaglia avendo limitate scorte di cibo a disposizione, ma Annone fu preoccupato da questa improvvisa decisione.
Ora sappiamo ben poco di come si svolse la battaglia. Zosimo, che però è molto tardo, afferma dispose le truppe di fanteria su due linee sistemando rinforzi ed elefanti in seconda fila e, probabilmente, disponendo la cavalleria alle ali, mentre i romani si schierarono su te linee. Dato che però era una prassi comune dell’epoca, può essere solo una deduzione, per altro credibile, dello storico.
La battaglia fu dura, lunga e il successo romano non fu netto: i legionari riuscirono a rompere l’assedio e fare ritirare le truppe di Annone, ma nel frattempo Annibale Giscone riuscì ad evacuare Akragas. Lui stesso riuscì ad attraversare i fossati e le linee romane e a mettersi in salvo, a quanto riferisce Polibio
“su una nave a sette ordini di remi che era stata del re Pirro”.
I romani, sempre affamati, si ritrovarono padroni di una città vuota e dovettero rinunciare ad ulteriori offensive. Il Senato, consapevole di questa vittoria di Pirro, non concesse il trionfo ai due consoli: ma l’opinione pubblica romana, invece, interpretò la battaglia come un grande successo. Sempre secondo Polibio
Non si fermavano ai ragionamenti iniziali e non si accontentavano di aver salvato i Mamertini, né dei vantaggi derivati dalla guerra stessa ma, sperando che fosse possibile cacciare del tutto i cartaginesi dall’isola e che, una volta avvenuto tutto ciò la propria potenza si incrementasse notevolmente erano presi da questi ragionamenti e dai progetti che ne derivavano
Per cui, il Senato, per biechi motivi di politica interna, decise di proseguire la guerra, anche perchè le città siciliane, con un errore di valutazione, considerarono il giogo romano assai più leggero di quello cartaginesi, passando in massa nel campo dell’Urbe.
Però, memori dell’esperienza di Pirro, i senatori individuarono lo Schwerpunkt cartaginese nel mare: per tagliare i rifornimenti alle fortezze dell’epicrazia, impedire uno sbarco punico in Italia, e aumentare la pressione sui nemici, era necessario varare una flotta. Sempre citando Polibio
Perciò, visto che le coste italiche erano sempre più attaccate da Cartagine mentre le coste africane restavano indenni, a Roma si decise di “prendere il mare”
Per l’ingresso in città e la cerimonia d’incoronazione di Vittorio Amedeo II di Savoia e Anna Maria di Borbone-Orléans, la vigilia di Natale del 24 dicembre 1713, l’Alcazar di Palermo è ristrutturato in fretta e furia per ospitare i reali. I lavori ed il perfezionamento degli appartamenti trova il maggior intervento nel restauro della Sala dei Venti.
Se gli austriaci poco si interessano della struttura, nel 1735 la venuta di Carlo III, primo sovrano borbonico, a Palermo per l’incoronazione rende necessari «nuovi abbellimenti e ripari» secondo quanto riportato dal buon Mongitore nel suo Diario palermitano, ossia una serie di restauri e di adeguamenti funzionali, anche perché il nuovo re aveva maggiore interesse per Napoli che per la città siciliana.
Nello specifico, fu riorganizzato il sistema degli accessi: fu aperta la porta maggiore sul piano del palazzo che sostituiva l’accesso da una piccola porta; fu ingrandita la porta di san Michele e, intervento più importante, in quanto determinò la distruzione dello scalone cinquecentesco di collegamento tra il cortile della Fontana e la sala del Parlamento e di antiche strutture normanne come la torre Chirimbi, fu realizzata la rampa di san Michele, un accesso carrabile che conduceva direttamente al cortile della Fontana.
Fu inoltre realizzata una nuova cavallerizza e rinnovata la vecchia; e infine furono rinnovate le stanze della torre Greca, da destinare all’abitazione del re; fu rifatto il rivestimento dello scalone, utilizzando il marmo rosso di Castellammare al posto della pietra utilizzata nel 1601 che, secondo quanto riportato da Mongitore, non risulta ancora concluso nel 1735, anno della venuta di Carlo III a Palermo.
Secondo quanto riportato ancora dalle cronache di Mongitore «nel passo dal Palazzo alla porta Nuova avea alzato il viceré d’Usseda un grande stanzone per il gioco della Racchetta. Fu tolto via e restò libero il passo»; dunque fu demolita la stanza della “Racchetta”, ovvero un “camerone” fatto costruire al tempo del viceré Giovanni Francesco Paceco, duca di Usseda, il quale governò la Sicilia dal giugno del 1687 al 20 maggio 1696, dedicato alla pallacorda, l’antenato del nostro tennis. Tra l’altro, da un collega che lo ha come hobby, ho scoperto come si pratichi ancora e ci sono addirittura i relativi mondiali.
Qualche anno dopo, in occasione delle nozze di Carlo III con Maria Amalia, celebrate il 6 luglio 1738, fu rinnovato l’arredo della galleria del palazzo sostituendo i 37 ritratti dei viceré con quelli dei sovrani di Sicilia da Ruggero II a Carlo III, dipinti dal pittore rococò Guglielmo Borremans. Con Real Dispaccio del 28 marzo 1786 il principe di Caramanico, Francesco d’Aquino, viceré dal 1786 al 1795, riesce ad ottenere dalla corona un finanziamento straordinario per lavori «necessari, e urgenti per questo regio palazzo, ascendente ad onze 1033.2.3», finanziamento che avrà un duplice scopo: il primo, pro domo sua, per rinnovare gli appartamenti reale, dove il principe, come viceré risiedeva, il secondo dare un contentino ai brontoloni nobili siciliani, rendendo più fastosa la sala del Parlamento.
Lavori supervisionati da Salvatore Attinelli, architetto camerale dal 1778, carica che ricoprirà insieme a quella di direttore delle strade di Sicilia e rappresentante della Deputazione del Regno, mentre la decorazione fu affidata al pittore Giuseppe Velasquez, che realizzò nella sala del Parlamento, come promemoria per i locali baroni, à l’Allegoria della Monarchia protettrice delle Scienze e delle Arti, cancellata poi dagli interventi che saranno realizzati nel secolo successivo.
L’Allegoria inoltre ricordava i tentativi borbonici, alquanto confusionari, a sentire Goethe, di trasformare un’ala del palazzo in un museo di antichità siciliane. Come raccontato in un altro post, Alla fine del XVIII secolo la torre Pisana subisce un’importante trasformazione dovuta alla costruzione sull’ultimo livello del Real Osservatorio Astronomico per volere di Ferdinando IV di Borbone. Nel 1789 l’astronomo Giuseppe Piazzi e l’architetto Giuseppe Venanzio Marvuglia furono incaricati dalla Deputazione dei Regi Studi di trovare un sito idoneo per la sistemazione della nuova struttura. La scelta, inizialmente indirizzata verso il Collegio degli Studi e poi sulla chiesa dello Spasimo, ricadrà, nel 1790, come riportato dallo stesso Piazzi, sul terrazzo di copertura della torre Pisana, considerato il sito più opportuno soprattutto perché offriva la possibilità di portare a termine i lavori in tempi relativamente brevi; periodo in cui tra l’altro, Marvuglia si dedica ai suoi studi sulla ricostruzione degli specchi ustori di Archimede, realizzando una serie di bizzarri e strampalati esperimenti proprio nella chiesa dello Spasimo.
Il 21 dicembre 1798 segna una svolta decisiva per il futuro del regno borbonico: il re Ferdinando di Borbone, III di Sicilia e IV di Napoli, e la regina Maria Carolina, con il loro seguito e l’intera famiglia reale, per sottrarsi alla minaccia costituita dalle truppe napoleoniche, fuggono da Napoli e sbarcano a Palermo sotto la protezione delle armi inglesi. La fuga del re dalla capitale, il conseguente trasferimento della corte e del governo borbonico in Sicilia rappresentano un nodo importante nella storia del regno meridionale e nel rapporto politico-istituzionale tra Napoli e Palermo.
Quest’ultima, nella mutata situazione internazionale, inizia ad assumere una posizione di primo piano, e si inizia a operare in modo tale che la capitale siciliana possa essere adeguata a rivestire il ruolo di sede ufficiale dei reali borbonici. La permanenza dei sovrani a Palermo alimenta infatti la speranza che la provvisoria residenza della corte diventi permanente e che la Sicilia, come già avvenuto con la dinastia normanna: di conseguenza, l’Alcazar, che svolgeva un ruolo essenzialmente amministrativo, torna a essere un Palazzo reale vero e proprio.
Per prima cosa, viene restaurata la Cappella Palatina, sia per evidenziare simbolicamente la continuità spirituale tra Altavilla e Borbone, sia perché, in maniera inaspettata, con la diffusione della sensibilità romantica, si stava trasformando in una sorta di attrazione turistica di massa.
Poi, i Borbone incaricano il buon Marvuglia di adeguare il complesso del Palazzo dei Normanni: inizialmente Giuseppe Venanzio ha carta bianca, ma quando Ferdinando si trova la sua solita proposta, buttiamo giù tutto e ricostruiamo in un mix di stile greco ed egiziano, comincia a mettere una serie di paletti. Così Marvuglia si dedica Marvuglia al coordinamento degli interventi negli appartamenti reali non solo consolidandoli, ma anche dirigendo i lavori di “rifinitura” degli stucchi e «li abbellimenti delle pitture nelle volte.
Negli stessi anni, Marvuglia si occupa inoltre su incarico del marchese del Vasto, maggiordomo maggiore del re, di vigilare sull’assetto delle costruzioni innalzate fuori porta Nuova, che avrebbero potuto disturbare la «visuale della flora di questo Real Palazzo», prospiciente sul piano di Santa Teresa, entrando in una faida, degna di Paperino e Anacleto Mitraglia, con don Salvatore Caruso, che fregandosene di tutti i regolamenti edilizi di Palermo e della forza di gravità, aveva deciso di aumentare a sproposito l’altezza del suo palazzo.
Faida che portò a una serie di polemiche, scherzi bizzarri e risse tra muratori, tutto nell’indifferenza dei Borboni, che sulla questione erano molto più tolleranti dei loro cortigiani. Sempre nell’ottica di rendere più vivibile e dignitoso il Palazzo, Marvuglia fece ripavimentare le piazze adiacenti, infine provvede a dividere l’antica «galleria dei viceré», ubicata al piano nobile dell’ala seicentesca, in due sale di minore dimensione, quelle che nel secolo successivo saranno denominate «sala gialla» e «sala rossa».
Con il ritorno della corte a Napoli nel 1801 si assiste a un periodo di stasi nel cantiere che riprende la sua attività nel 1806, in seguito al secondo soggiorno della corte a Palermo. Nel 1806 infatti le truppe francesi occupano nuovamente Napoli dove Napoleone riesce a insediare il fratello Giuseppe Bonaparte prima (marzo 1806 – luglio 1808) e Gioacchino Murat poi (agosto 1808 – ottobre 1815), che avrebbero governato con il titolo di re di Napoli costringendo i sovrani a rifugiarsi per la seconda volta in Sicilia.
Il 23 gennaio 1806 la corte borbonica infatti torna a Palermo, stavolta per un periodo un po’ più lungo ovvero fino al 1815. In quel periodo l’interesse borbonico fu concentrato sul Salone del Parlamento, che fu adibito all’esposizione della preziosa Quadreria di Capodimonte. Così Ferdinando decise di fare affrescare nuovamente le pareti e la volta della sala, affinché il salone presentasse “… uno stile più elegante e più grandioso”, incarico anche questa volta affidato a Velasquez.
Per il nuovo progetto aveva studiato e utilizzato le incisioni di Ottaviano e Volpato, stampate a Roma nel 1782, che riproponevano l’iconografia delle logge raffaellesche e aveva affidato a Benedetto Cotardi e ai suoi collaboratori, Benedetto Bonomo e Natale Campanella, le direttive cromatiche per i tondi, con i bassorilievi trompe-l’oleil entro le campiture geometriche, che perdevano così l’eleganza rococo, per adeguarsi alla nuova moda neoclassica
Secondo quanto riportato da Agostino Gallo, nella biografia dedicata a Giuseppe Velasquez, la scelta del ciclo delle fatiche di Ercole stava a simboleggiare la casa Borbone che difende, da forze estranee, il mantenimento in Europa dell’autorità regia vacillante. D’altronde la scelta del tema e della decorazione per il salone del Parlamento risultava coerente con la cultura e la simbologia araldica cara alla casa reale dei Borbone, infatti non a caso lo stesso sovrano aveva dedicato a Ercole uno dei viali della Real tenuta della Favorita a Palermo, dove aveva fatto collocare una copia dell’Ercole Farnese in cima a una colonna dorica, progettata dall’architetto Giuseppe Venanzio Marvuglia, al centro di una grande vasca. É assai significativo, inoltre, come la medesima denominazione della sala fosse stata data, qualche anno prima, anche alla sala dei viceré nella Reggia di Napoli, in seguito a un nuovo allestimento realizzato tra il 1807 e il 1809, che prevedeva l’esposizione di calchi in gesso di Ercole e della Flora Farnese.
Con il ritorno della corte a Napoli, i lavori sono interrotti, per riprendere con maggior lena con l’arrivo a Palermo di Leopoldo di Borbone…
La Necropoli di Cuma è ubicata all’esterno della cinta muraria, davanti la Porta Mediana. Questa porzione di territorio che separava la città dalle sponde del lago di Licola era attraversato da tre strade che partendo dalla Porta Mediana si diramavano in tre diverse direzioni.
La più antica, risalente all’età arcaica, in direzione sud-nord collegava la città con Capua. La seconda era orientata a nord-est in direzione di Monte Grillo per poi procedere verso nord. La terza seguiva il percorso della cinta muraria per poi dirigersi verso il litorale.
L’area, così solcata dal sistema viario, è stata destinata, già da prima (X-IX sec. a.C.) della fondazione della colonia greca, come necropoli, affiancata da un tempio demolito quando, nella prima metà del I sec. a.C. , per realizzare al suo posto un canale di scolo lungo il quale scorrevano le acque convogliate dagli scarichi fognari della città. Privata della sua funzione sacrale l’area venne occupata in breve tempo da numerose tombe.
La necropoli era stata oggetto di una serie di ritrovamenti fortuiti nel 1600: ma i primi scavi risalgono al 1755, quando l’ingegnere del Genio militare spagnolo, don Rocco Gioacchino Alcubierre, insieme all’ingegnere svizzero Karl Weber trovarono parte del sepolcreto di età romana, il quale fu poi indagato dal canonico Andrea de Jorio nel 1809 e nel 1815, e da Giuseppe de Stefano nel 1813. Altre indagini furono condotte tra il 1829 e il 1842 dal duca di Baclas, che si interessò soprattutto alle tombe di età sannita. . Intorno al 1841, invece, l’architetto Bonucci, direttore degli scavi di Pozzuoli, scoprì molte tombe greche e romane, molte già depredate dai tombaroli. Un vero e proprio scavo sistematico, però, si ebbe soltanto nel 1852 quando il fratello del re di Napoli, Leopoldo di Borbone, Conte di Siracusa si interessò a questa zona; disinvolto, bello spirito, liberale, spregiudicato, fastoso, protettore di artisti, appassionato di pittura e di archeologia, cominciò gli scavi sistematici della necropoli, che furono seguiti da quelli dell’inglese Stevens, il primo ad adottare un approccio scientifico, lasciando un’ampia documentazione delle sue ricerche Giornali di Scavo e Taccuini.
Nel 1897, dato che gli scavi di Cuma sembravano essere diventati l’hobby dei re, il futuro Vittorio Emanuele III si dedicò ad alcuni saggi, che furono proseguiti da eruditi locali: la ricerca però subì un’interruzione tra il 1910 e il 1922 a causa dei lavori di bonifica del lago di Licola, che provocò anche la distruzione di parte della Necropoli.
Gli scavi ripreso solo nel 1961-62 quando, in seguito a lavori del Consorzio di Bonifica del Basso Volturno vennero fatte delle scoperte e le indagini vennero affidate a Johannowsky. Infine gli ultimi scavi nella necropoli risalgono al 1980, quando per la costruzione del depuratore di Licola, a 2,5 Km dalle mura settentrionali venne ritrovato un nucleo di circa 60 sepolture di fine IV-inizi III a.C. In anni più recenti, tra il 2001 e il 2008, il Centre Jean Bérard, invece,si è interessato allo studio della necropoli romana, della quale sono stati indagati i mausolei, i recinti funerari e circa 100 tombe isolate databili tra II a.C. e IV d.C.
Che cosa ci dice, questa necropoli, sull’evoluzione di Cuma? Il primo dato interessante emerge proprio dalla fase più, consistente tombe a fossa della prima età del Ferro: vi sono stati ritrovati una serie di vasi riconducibile alla seconda fase non molto inoltrata della cultura laziale (830-770 a.C.) il che implica una precocità dei rapporti commerciali tra i proto latini e la Campania, che sarà una costante nella fase arcaica della storia di Roma. Commerci che si amplieranno sempre più, sia con i contatti con i villanoviani, sia i con i greci, che porteranno a una precoce differenziazione sociale.
Con la nascita della colonia greca, la sua élite, nella tradizione degli Hippobotai euboici, aristocratici detentori del potere politico e militare, comincia farsi seppellire alla stregua dei nobili eroi di cui Omero riporta il complesso rituale: i resti del corpo bruciati sulla pira, deposti in un recipiente di bronzo o di altro materiale prezioso e avvolti in un panno di lino, prendono posto in un ricettacolo di tufo a forma di dado. Solo un corredo metallico (costituito da beni personali, da doni di prestigio, come gli scudi villanoviani e da armi) appare degno di accompagnare il defunto nel suo ultimo viaggio.
Scarsi invece sono i corredi delle tombe della fine del VII e del VI sec. con il bucchero che appare pressoché assente, al contrario della ceramica corinzia che è piuttosto abbondante e seriale; verso la fine del VI sec. a.C. fa la sua apparizione la ceramica calcidese. A partire dal V sec. a.C. è presente anche la ceramica attica, spesso di notevole qualità. Vanno segnalati, per il periodo arcaico, perché costituiscono una categoria di una certa consistenza, i bronzi, in parte certamente di provenienza etrusca (i bacini a orlo perlato, con motivo a treccia, le cosiddette <> formate da due lamine inchiodate, le situle a kalathos) o di altre provenienze ma giunti in Campania tramite i loro mercanti, a riprova di come la rivalità politica non interrompesse i rapporti commerciali e culturali.
Della ricchezza di monumenti sepolcrali che si addensarono, dall’epoca sannitica a quella imperiale, ai lati della via Vecchia Licola, sono oggi visibili solo pochi edifici funerari di particolare importanza. Le mura e le volte dei colombari di età repubblicana e imperiale, assai vicini quanto a tipologia a quelli della necropoli puteolana, che fino a pochi decenni fa affioravano per ogni dove, sono, tranne quello rinvenuto nel 1853 nel fondo di Stanislao Palumbo, ora ricoperti da folta vegetazione. E’ però visibile nel fondo Artiaco, una grande tomba sannitica a tholos.
Questo mausoleo circolare costituito da tredici filari di blocchi parallelepipedi di tufo (sei per il tamburo, sette aggettanti compongono la volta a cupola), internamente intonacato e forse dipinto, fu usato a lungo come ipogeo familiare della nota gens cumana degli Heii, la cui munificenza nelle opere pubbliche viene ricordata da tre iscrizioni osche rinvenute in più epoche nell’area del Foro in via Vecchia Licola, nei pressi delle Terme Centrali. Nelle tombe a cassa e a tegole della necropoli sannitica prevale la ceramica campana, che diventa sempre più scarsa dal III sec. a.C. in poi, ed è ampiamente documentata la ceramica locale.
Nel corso del II secolo a.C., il paesaggio funerario davanti alla Porta mediana è caratterizzato dalla presenza di diverse tombe a camera di tipo ipogeo, con volte a botte e facciata monumentale, costruite in blocchi squadrati di tufo. L’accesso alle tombe avveniva attraverso un lungo corridoio scavato nella terra (dromos), mentre la porta della camera funeraria era chiusa da un grande blocco di pietra. I monumenti erano destinati ad accogliere inumazioni plurime, deposte in cassoni o su letti funerari. La tipologia architettonica e i corredi mostrano l’alto livello sociale conseguito dai defunti
Uno dei più famosi, tra questi mausolei, ancora visibile, a cella rettangolare intonacata, sormontata da una costruzione poligonale in mattone, suscitò al momento della sua scoperta, nel 1853, particolare interesse a causa del ritrovamento di due individui – un uomo e una donna – seppelliti con la testa tagliata e, al suo posto, una maschera di cera.
Negli ultimi anni sono emerse ulteriori tombe di questa tipologia, come un monumento funerario a camera ipogea, databile al I sec. a.C., costruito in opera incerta con blocchetti irregolari di tufo legati con malta e destinato ad accogliere inumazioni. L’accesso alla camera, intonacata di bianco, avveniva attraverso un architrave arcuato monoblocco ed è presente una cornice aggettante sulla quale si imposta una volta a botte costruita in blocchetti di tufo di forma rettangolare disposti di taglio per filari. Il monumento, pur se già depredato, ha restituito alcuni oggetti dei corredi funerari tra i quali degli alabastra in alabastro, unguentari in ceramica, pedine da gioco in pasta vitrea ed elementi pertinenti a cassette lignee. Il rinvenimento di un balsamario in vetro documenta che il monumento è stato utilizzato fino alla prima metà del I sec. d.C.
Nel mese di giugno 2018 è stata riportata alla luce una nuova tomba riferibile alla stessa tipologia architettonica, ma dall’eccezionale decorazione figurata: sulla lunetta in corrispondenza dell’ingresso della camera funeraria, sono ancora visibili, infatti, una figura maschile nuda stante che sorregge nella mano destra una brocca in argento (oinochoe) e nella sinistra un calice; ai lati del personaggio, sono rappresentati un tavolino (trapeza) e alcuni vasi di grandi dimensioni tra i quali un cratere a calice su supporto, una situla e un’anfora su treppiede. Sulle pareti laterali s’intravedono verosimilmente scene di paesaggio. La decorazione è delimitata nella parte alta da un fregio floreale. L’intradosso della volta è giallo, mentre le pareti al disotto della cornice e i tre letti funerari sono dipinti di rosso.
Con il mio amico Enrico è da qualche giorno che stiamo, per divertimento, facendo bieche elecubrazioni sul valore delle monete pontificie ai tempi di Pio IX, rispetto ai nostri euro e al relativo potere di acquisto
Partiamo dagli assunti base di tali calcoli. Sino al 1866, la valuta pontifica era lo scudo che era suddiviso nei seguenti frazioni
1 scudo = 10 paoli = 100 baiocchi = 500 quattrini
A questo sistema, abbastanza semplice e lineare, si aggiungeva una pletora di altre monete, coniate sino al 1840, che però continuavano a circolare e che rispettavano una quotazione standard
Insomma, per i bottegai della Roma pontificia, si rischiava di uscire pazzi. Il 18 giugno 1866, Pio IX, con un editto, mise fine a tutto ciò, introducendo il sistema monetario del Regno d’Italia, basato sulla lira, per due motivi. Il primo, ovvio, per semplificare questo manicomio, il secondo per aderire all’Unione Monetaria Latina, il tentativo ottocentesco di realizzare quanto oggi abbiamo con l’Euro.
Per semplificare cambi e commerci, il 23 dicembre 1865 Francia, Belgio, Italia e Svizzera raggiunsero una sorta di strano compromesso monetario: le monete d’oro e d’argento di questi paesi, pur diverse come nome e conio, avrebbero avuto lo stesso diametro, peso e percentuale di metallo prezioso e quindi lo stesso valore: al tempo era dato dalla quantità di metallo prezioso in esse contenute. Di conseguenza potevano circolare liberamente in tutti gli stati aderenti a tale convenzione.
Il perno del sistema fu il tasso fisso di cambio tra oro e argento, fissato a 1 : 15,5. Non vi era invece alcuna regolamentazione relativa alla della carta moneta, la quale non fu presa in considerazione. L’Unione Latina ebbe senza dubbio un gran successo. Vi aderirono Spagna e Grecia nel 1868 e Romania, Austria-Ungheria, Bulgaria, Venezuela, Serbia, Montenegro e San Marino nel 1889. Il problema di fondo, di tale accordo, però, era bimetallismo, basata sull’ipotesi di invarianza relativa dei prezzi dell’oro e dell’argento, supponendo che i volumi, le condizioni ed i costi di produzione dei due metalli rimanessero stabili. Ipotesi che però non si mantenne valida del tempo e che portò al fallimento di tale accordo.
Tornando a Pio IX, questo fissò, per l’adozione della nuova moneta un tasso di cambio pari a
1 scudo = 5,375 lire
che i commercianti romani, per semplificarsi la vita arrotondarono a 5. Basandosi sulle tabelle Istat,
1 lira del 1866 = 4,67 euro
per cui si avrebbe come
1 scudo = 25,1 euro
1 paolo = 2,51 euro
1 bajocco = 0,251 euro = 25 centesimi
1 quattrino = 0,05 euro = 5 centesimi
Estendendo tale rapporto all’altra pletora di monete
1 doppia = 75,3 euro
1 testone = 7,53 euro
1 giulio = 5,02 euro
1 carlino = 1,875 euro
1 grosso = 1,25 euro
Questo il valore in moneta attuale… Ma il relativo potere d’acquisto quale era ? Dagli articoli dell’epoca, sappiamo con 1 bajocco si acquistassero 6 once di pane, pari a 165 grammi. A Roma attualmente, un kg di pane costa in media Roma 2,63 euro, per cui sei once sarebbero pari a 44 centesimi. Per cui, il potere di acquisto era maggiorato del 74% rispetto all’attuale.
Ora, dato che un impiegato delle Poste Pontificie, equivalente al nostro sportellista prendeva 18 scudi su base quindicinali, il suo stipendio mensile come potere di acquisto tra 1500 e i 1600 euro, con una tassazione diretta ovviamente assai più bassa
Approfitto del Natale di Roma, città che ha visto di tutto e di più e che sopravviverà anche all’attuale malgoverno, per parlare delle cerimonie più solenni dell’Antichità, i Ludi Saeculares, in origine i Ludi Tarentini, che nell’Urbe si tenevano per tre giorni e tre notti che delimitava la fine di un saeculum (secolo) e l’inizio del successivo. Un saeculum, presumibilmente la massima lunghezza possibile della vita umana, era considerato durare tra i 100 ed i 110 anni, in base alla teoria pitagorica che riteneva che il genere umano si rigenerasse con un ciclo di 440 anni diviso a sua volta in 4 periodi di 110 anni in una successione di 4 ere: età dell’oro, del bronzo, degli eroi, del ferro.
Teoria che sembra scema, ma che in fondo rispecchia la stessa volontà, di noi moderni, di sistematizzare l’evoluzione umana. In fondo c’è poca differenza, dal punto di vista della simbologia che vi proiettiamo sopra tra l’età dell’oro e il Paleolitico: in fondo, anche da molti intellettuale, questo è visto come il tempo felice in cui l’Uomo viveva in comunione con la Natura, lontano dalle contraddizioni della civiltà
Poi, se vogliamo fare i puntigliosi, gli storici ellenici identificavano l’età degli eroi con il nostro Tardo Elladico e facendo il conto sulle generazioni il passaggio tra questa e l’età del ferro coincide con la nostra datazione della crisi dei palazzi micenei.
La principale differenza tra i pitagorici e moderni e che loro seguivano una concezione ciclica del Tempo, derivata forse dall’antica tradizione indoeuropea, mentre noi quella lineare ebraica.
Tornando ai Ludi Saeculares, secondo la leggenda ebbero origine con un nobile antenato sabino della Gens Valeria chiamato Valesus o Volusus. Il praenomen Valesus diede poi origine al nomen Valesius (testimoniato da epigrafi del VI sec. a.c.), trasformatosi successivamente in Valerius.
Valesus sarebbe giunto a Roma a seguito di Tito Tazio: quando i suoi bambini si ammalarono seriamente, lui pregò i propri dei di curarli, offrendo in cambio la sua vita. Una voce gli disse di portarli a Tarentum e di dargli da bere acqua del fiume Tevere, scaldata su un altare di Dis Pater (Dite) e di Proserpina, divinità che noi associamo agli Inferi, considerandole come una sorta di equivalente latino di Ade e di Persefone.
In origine, però, entrambe svolgevano un ruolo differente: Dite o Dis Pater è il dio delle ricchezze del sottosuolo, sia delle miniere, sia dei semi che devono ancora germogliare. Proserpina, invece, il cui nome potrebbe derivare dal latino proserpere (“emergere”), era la dea che proteggeva la crescita del farro e in generale dei cereali.
A riprova di questo abbiamo una testimonianza del buon Cicerone
La totalità della sostanza terrestre considerata nella pienezza delle sue funzioni fu invece affidata a Dis Pater che è lo stesso che dire Dives (il ricco), il Ploutos dei Greci; denominazione giustificata dal fatto che ogni cosa ritorna alla terra e da essa trae origine. A Dis Pater si ricollega Proserpina (il nome è di origine greca, trattandosi di quella dea che i Greci chiamano Persefone) che simboleggerebbe il seme del frumento e che la madre avrebbe cercata dopo la sua scomparsa.…
Pensando di dovere navigare sino a Taranto, Valesus prese una barca e cominciò a discendere il Tevere, per raggiungere il porto di Ostia, ma giunto all’altezza di Campo Marzio, nel luogo chiamato Tarentum una voce gli intimò di fermarsi.
Luogo, il Tarentum, che era situato tra il Tevere e la nostra Chiesa Nuova, circa all’altezza della sede TIM di via del Pellegrino. Valesus scaldò l’acqua del fiume e la diede ai bambini, essi guarirono miracolosamente e si addormentarono. Quando poi si svegliarono, informarono Valesius che era apparsa loro in sogno una sagoma e gli aveva detto di scavare nel punto in cui usciva del vapore e di fare sacrifici a Dite e Proserpina. Scavando, Valesius trovò che un altare a quelle divinità era stato seppellito in quel luogo, e compì il rituale come gli era stato indicato.
Altare che, come testimoniato dal Lanciani, fu ritrovato nell’inverno del 1886
Ebbe luogo nell’inverno tra il 1886 ed il 1887, durante la mia visita in America. In quel tempo i lavori di apertura e sbancamento di Corso Vittorio Emanuele avevano raggiunto un luogo che era considerato terra incognita dai topografi, e indicato con una macchia vuota nelle mappe archeologiche della città
Parlo della zona tra la Vallicella (la Chiesa Nuova, il Palazzo Cesarini, etc.) e le rive del Tevere vicino S. Giovanni dei Fiorentini. I rapporti parlano in maniera vaga del ritrovamento di cinque o sei muri paralleli, costruiti in conci di peperino, di gradini in marmo al centro di questo singolare monumento, di porte con stipiti ed architravi in marmo, che immettevano negli spazi tra i sei muri paralleli e, infine, di una colonna istoriata con fogliame.
Al mio ritorno a Roma, nella primavera del 1887, ogni traccia del monumento era scomparsa sotto Corso Vittorio Emanuele. Interrogai i capomastri, gli operai; consultai i registri delle imprese; ogni giorno visitavo i cantieri ancora attivi su ogni lato del Corso per la costruzione dei palazzi Cavalletti e Bassi: infine esaminai la “colonna istoriata con fogliame” che, nel frattempo era stata trasferita nel cortile del Palazzo dei Conservatori in Campidoglio.
Questo frammento di marmo, l’unico sopravvissuto agli scavi, mi ha dato la chiave per risolvere il mistero. Non era una colonna, era un pulvinus, o capitello, di un colossale altare marmoreo, degno di essere paragonato, per dimensioni e valore artistico, all’Ara Pacis scoperta sotto Palazzo Fiano, nonché a quella degli Antonini scoperta sotto Monte Citorio ed ad altre strutture monumentali simili.
Non ci fu allora esitazione nel determinare la natura delle scoperte fatte a Corso Vittorio Emanuele: era stato trovato un altare e questo altare doveva essere quello consacrato a Dis e Proserpina, dal momento che nessun altro altare è menzionato nella storia nel versante nord occidentale del Campo Marzio.
I disegni che illustrano la mia tesi, provano che l’altare si innalzava su una base di 10 mq, circondata su tutti i lati da tre o quattro gradini marmorei; che la base e l’altare erano circondati da tre setti murari posti ad un intervallo di 10 m l’uno dall’altro e che sul lato est della piazza scorreva l’ euripus, o canale, largo circa tre m e mezzo, profondo un m e venti e delimitato da blocchi di pietra, la cui pendenza verso il Tevere era di 1:100
A riprova di questa attribuzione, vi fu una successiva scoperta, risalente al 1890, sempre testimoniata da Lanciani
Il 20 settembre del 1890, gli operai addetti alla costruzione del collettore principale sulla riva sinistra del Tevere, tra Ponte S. Angelo e la Chiesa di S. Giovanni dei Fiorentini, trovarono un muro medievale costruito con materiali presi a caso dalle vicine rovine. Tra loro, c’erano uno o più frammenti che descrivevano la celebrazione dei Ludi Saeculares durante l’Impero.
Alla fine della giornata erano stati recuperati 17 pezzi, sette dei quali appartenevano alle testimonianze dei giochi celebrati sotto Augusto nell’anno 17 a.c., gli altri quelli celebrati da Settimio Severo e Caracalla nell’anno 204 d.c. Successive ricerche portarono alla scoperta di altri 96 frammenti, per un totale di 113, di cui 8 sono del tempo di Augusto, 2 del tempo di Domiziano ed il resto può essere datato a quello di Severo.
I frammenti del 17 a.c., ricomposti, formano un blocco alto tre m contenente 168 linee scritte fittamente. Questo monumento, oggi esposto alle Terme di Diocleziano, aveva la forma di un pilastro quadrato coronato da una cornice aggettante, con base e capitello di ordine tuscanico, ed era alto, in origine, quattro m.
Credo che non ci sia alcuna iscrizione, tra le trentamila raccolte nel volume VI del “Corpus”, che impressioni o colpisca di più l’immaginazione di questo rapporto ufficiale di una cerimonia di stato che ebbe luogo più di millenovecento anni fa alla presenza degli uomini più illustri del tempo.
La presenza di una sorgente sulfurea e l’associazione con l’etnos sabino, fa inoltre ipotizzare come l’altare fosse in qualche modo associata con Mephitis. In epoca repubblicana furono chiamati Ludi Tarentini, dal nome della pozza, ed erano celebrati con lo scopo di scongiurare la ricorrenza di qualche grave calamità da cui si era stati colpiti. Dal momento che le calamità erano contingenze che nessun uomo poteva prevedere, appare evidente che la celebrazione dei Ludi Tarentini non era connessa ad alcun particolare ciclo temporale, come ad esempio il saeculum.
Trascurando il racconto leggendario della loro celebrazione in occasione della cacciata dei Tarquini, sappiamo per certo che fossero celebrati sia nel 249 a.C., durante la Prima Guerra Punica, sia nel 146 a.C. durante la Terza Guerra Punica.
Il fatto che queste due celebrazioni avvenissero a circa cento anni di distanza l’una dall’altra, fece ipotizzare a Varrone come questi riti fossero conseguenza di qualche presagio contenuto nei Libri Sibillini e che dovessero seguire una specifica periodicità secolare.
Ipotesi che sarebbe finita nel dimenticatoio, se non avesse colpito la fantasia di Ottaviano, che le provava tutte, per legittimare il suo potere, spacciandosi sia come restauratore del mos maiorum, più o meno inventato, sia come iniziatore di una nuova età dell’oro, secondo la concezione ciclica dei Pitagorici.
Per cui, fissando arbitrariamente come data di prima celebrazione il 456 a.C., Augusto decise di celebrare in grande stile i Ludi Tarantini, chiamati per l’occasione Saeculares, nel 17 a.C. dal 31 maggio al 3 giugno, e che, sempre per l’influenza neopitagorica, all’epoca assai diffusa a Roma, basti pensare alla basilica sotterranea di Porta Maggiore, che questa cerimonia di dovesse ripetere ogni 110 anni.
Prima dei Giochi stessi, degli araldi andarono in giro per la città ad invitare il popolo ad “uno spettacolo a cui non avevano mai assistito e mai avrebbero rivisto in futuro”. I quindecimviri si riunirono sul Campidoglio e nel tempio di Apollo Palatino, e distribuirono gratuitamente ai cittadini torce, zolfo ed asfalto, da bruciare come mezzo di purificazione (questi rituali potrebbero esser stati mutuati da quelli in uso nei Parilia, le feste per l’anniversario della fondazione di Roma). Vennero offerti anche grano, orzo e fagioli.
In ottica della Pax deorum, fu decisa una duplice modalità rituale: la notte si sarebbero tenuti i sacrifici in onore delle divinità arcaiche, Dite e Proserpina, ma alle Parche, ad Ilizia, la custode del Parto e a Tellus (la Madre Terra). Il giorno, si sarebbero celebrate le cerimonie in onore di Giove, Giunone e di Apollo e Diana, quest’ultime divinità tutelari di Ottaviano.
Il tutto portò al seguente calendario
31maggio – Notte – Campo Marzio – Parche – 9 agnelli femmine e 9 capre femmine
1º giugno – Giorno – Campidoglio – Giove – 2 tori
1º giugno – Notte – Campo Marzio – Ilizia – 27 libum (9 pezzi per ognuno dei 3 tipi)
2 giugno – Giorno – Campidoglio – Giunone – 2 mucche
2 giugno – Notte – Campo Marzio – Tellus – 1 scrofa gravida
3 giugno – Giorno – Palatino – Apollo e Diana – 27 libum (9 pezzi per ognuno dei 3 tipi)
Dove il libum era una tipica focaccia romana, realizzata impastando del formaggio di pecora con della farina ed un uovo. Una volta formato il pane, esso veniva cotto posizionato su delle foglie di alloro. La ricetta ci viene fornita da Catone nel De agri cultura.
I ruoli chiave vennero svolti da Augusto e dal suo genero Marco Vipsanio Agrippa, in qualità di membri dei quindecimviri; Augusto partecipava da solo ai sacrifici notturni ma era accompagnato dal genero in quelli diurni. Dopo i sacrifici del 3 giugno, cori di ventisette ragazzi e ventisette ragazze cantavano il Carmen Saeculare, composto per l’occasione dal poeta Orazio. Questo inno veniva cantato sia sul Palatino che poi sul Campidoglio, ma le sue parole si concentravano, dato che chi pagava era Ottaviano, sulle divinità palatine Apollo e Diana.
Inno che cominciava così
Phoebe silvarumque potens Diana, lucidum caeli decus, o colendi semper et culti, date quae precamur tempore sacro, quo Sibyllini monuere versus virgines lectas puerosque castos dis, quibus septem placuere colles, dicere carmen. alme Sol, curru nitido diem qui promis et celas aliusque et idem nasceris, possis nihil urbe Roma visere maius.
Ogni sacrificio compiuto durante i Ludi Saeculares era seguito da spettacoli teatrali. Una volta che i sacrifici di maggior rilievo erano terminati, i giorni tra il 5 e l’11 giugno erano dedicati alle commedie greche e latine, mentre il 12 giugno si svolgevano le corse dei carri e l’esposizione dei trofei di caccia.
I Ludi furono celebrati anche dagli imperatori successivi, con parecchia confusione, dovuta a Claudio, che, come suo solito, non poteva non mettere bocca su questioni erudite: li fece infatti celebrare di nuovo nell’anno 47, per onorare l’ottocentesimo anno dalla fondazione di Roma e decretando come la cerimonia dovesse essere ripetuta ogni 100 anni esatti, che dovesse tenersi in occasione dei Parilia, il 21 aprile.
Per cui, i suoi successori si trovarono sempre davanti al dubbio se dare retta al decreto di Augusto o a quello di Claudio… Il primo a porsi il problema fu Domiziano, che, per risolvere il problema, scelse una data, 88 a.C., che pur usando come riferimento il 17 a.C. in un certo senso faceva la media tra periodicità decretata da Augusto e quella di Claudio. Domiziano che immortalò i vari momenti dei Ludi in una specifica coniazione numismatica, che andava dagli aurei alle assi.
Nel 148, Antonino il Pio decise invece di rifarsi al decreto di Claudio, celebrando i sacrifici non al Taurentun, ma sul tempio di Venere e Roma, anche celebrare il padre adottivo Adriano, che era stato l’ehm architetto di tale edificio, cosa che costò la vita ad Apollodoro di Damasco, poco convinto delle capacità imperiali.
Cassio Dione Cocceiano narra così la vicenda:
(Adriano) gli fece recapitare i disegni del tempio di Venere e Roma per fargli vedere come una così grande opera potesse essere realizzata anche senza il suo aiuto, e chiedendogli cosa gli sembrasse del progetto dell’edificio. Nella sua risposta, come primo punto, l’architetto dichiarò che si sarebbe dovuto costruire il tempio su di un piano sopraelevato, di modo che esso avrebbe potuto meglio dominare la Via Sacra dalla sua posizione rialzata, e che si sarebbero potuti così creare sottostanti locali capaci di accogliere macchine teatrali da tener nascoste, rendendo possibile la loro introduzione nell’adiacente teatro (Colosseo) senza che nessuno le vedesse in anticipo. Come secondo punto, a proposito delle statue delle dee, disse che erano troppo grandi per l’altezza delle loro celle. “Di fatto,” osservò, “se le dee volessero alzarsi dai loro troni per uscire dal tempio, sarebbero impossibilitate a farlo.” Quando egli scrisse tutto questo ad Adriano così, senza mezzi termini, l’imperatore ne fu irritato, e a maggior ragione dispiaciuto, essendo ormai troppo tardi per poter rimediare agli errori in cui era caduto, e incapace di contenere la sua rabbia e il suo rincrescimento, lo fece uccidere
Nel 204, però, Settimio Severo tornò alla tradizione augustea; Filippo l’Arabo, che secondo la tradizione ecclesiastica fu il primo imperatore cristiano, torno invece al conto di Claudio, celebrando nel 248 i mille anni dalla fondazione di Roma
Nel 314, però, Costantino, in tutt’altre faccende affaccendato, era ai ferri corti con Licinio, non celebrò i Ludi Saeculares, tanto che lo storico pagano Zosimo lo accusò, per questa mancanza, di avere provocato la decadenza dell’Impero