
Dal punto di vista diplomatico, gli abitanti di Camarina erano tra l’incudine e il martello: non si fidavano né dei siracusani, con cui avevano una lunga tradizione di guerra, né degli ateniesi, dato che non era da escludere che invece di seguire la strategia di Nicia, in caso di successo tornassero ai propositi di conquista di Alcibiade.
Per cui, tennero un approccio molto italiano: si proclamarono neutrali e ben disposti a mediare tra i due contendenti, affinché si trovasse una via d’uscite negoziale dal conflitto e dato che il nemico vicino era potenzialmente più pericoloso di quello lontano, decisero di fornire sottobanco limitati aiuti a Siracusa.
In tale, sostanzialmente, il discorso di Eufemo. I Camarinesi si erano venuti a trovare in questo stato d’animo. Gli Ateniesi riscuotevano le loro simpatie, con la riserva che si sospettava in loro il progetto di assoggettare la Sicilia. Gli urti con Siracusa, come paese di confine, erano affare quotidiano. Ma, allarmati non meno dalla possibilità che i Siracusani, stabiliti così vicini, potessero uscire dall’avventura anche privi del loro sostegno, avevano prima contribuito allo sforzo siracusano con l’invio di quello scarso contingente di cavalleria; ma per il futuro si decise, da una parte, di appoggiare (non vistosamente) piuttosto Siracusa, ma con risorse militari ridotte all’essenziale, dall’altra, come misura immediata per non urtare la suscettibilità degli Ateniesi (tanto più che erano riusciti vittoriosi dal primo duello) parve opportuno rispondere formalmente, in termini identici ai due belligeranti. Presa questa risoluzione, si formulò il seguente comunicato: poiché si trovavano in conflitto due potenze legate l’una e l’altra a Camarina da trattati d’alleanza, il rispetto ai giuramenti esigeva che per il momento si restasse neutrali. E gli ambasciatori dei due paesi uscirono da Camarina.
Se i siracusani arruolavano mercenari e raccoglievano provviste per resistere all’assedio, sotto la guida di Nicia, gli ateniesi che erano tornati dell’accampamento di Catania, si erano impegnati in una complessa offensiva diplomatica: per prima cosa, tentarono di coinvolgere nella loro alleanza i siculi, i quali, nonostante il fallimento dell’impresa di Ducezio, mantenevano una vivida coscienza etnica e una coesione politica, che nasceva anche dalla reazione all’espansionismo della polis siciliana, che vedevamo l’ampliamento della chora come indispensabile per le sue possibilità di sfruttamento agricolo, anche e soprattutto ai fini delle immissioni granarie nei mercati interstatali.
I siculi, soprattutto quelli dell’interno aderirono in massa: lo stesso fecero gli etruschi, che visti i pessimi rapporti con Siracusa, mandarono un corpo di spedizione, che ottenne anche ottimi risultati, dal punto di vista bellico. Sappiamo il nome del suo comandante, non citato da Tucidide, grazie a una fonte indipendente,un’epigrafe di grande importanza rinvenuta a Tarquinia, presso l’Ara della Regina: si tratta degli Elogia Tarquiniensia, risalente all’epoca romana, che testimoniano la persistenza della memoria di quelle vicende
V[elth]ur Spur [inna] [L]artis F. pr (aetor)I [I; in] magistratu al [terum] exer [i] tum habuit, alt [erum in] Siciliam duxit; primus o [mnium] etruscorum mare cu [m—-] traiecit; a qu [—] aurea ob vi [—]
ossia
“Velthur Spurinna figlio di Larth fu Pretore (la massima carica politico-militare della città) per due volte. Durante la carica condusse l’esercito oltre mare per due volte e fu il primo a condurne uno in Sicilia vittoriosamente, ottenendo come premio”
Di questo Velthur Spurinna noi possiamo oggi ammirare il sepolcro, la tomba dell’Orco I, a Tarquinia, ove Velthur è stato raffigurato sul fondo della camera sepolcrale, ove un’iscrizione etrusca lo indica come Praetor populorum etruriae. Questo potrebbe essere un argomento aggiuntivo per pensare che Velthur comandò un contingente scelto formato da volontari di più città della Dodecapoli e non della sola Tarquinia. Egli fu, inoltre, marito della nobile e potente matrona Ravnthu Thefrinai, detta “ati nacnuva“, madre carissima dal figlio Velthur, omonimo del padre.
Se il condottiero, quindi, ci è noto, resta il dubbio sulla composizione del corpo di spedizione; possiamo solo supporre che una nave almeno fosse tarquiniense e almeno un’altra fosse cerite, visto che in seguito il tiranno Dionisio I di Siracusa condurrà una dura spedizione punitiva distruggendo, in primis, il porto di Pyrgi nel 387 a.C.
Di una cosa siamo certi: a differenza di Nicia, riuscì a salvare e riportare a casa sia la sua pelle, sia quella dei suoi soldati. Infine, furono riprese le trattative con Cartagine. Il fa pensare come gli ateniesi avessero abbandonato definitivamente la posizione di Alcibiade e pronti a una spartizione del potere in Sicilia, con un potenziale ampliamento dell’Epicrazia.
Ovviamente, Cartagine, aveva tutt’altra intenzione, come mostreranno le vicende successive: usare Atene per logorare Siracusa, per poi scatenare l’assalto definitivo al nemico.
Intanto i Siracusani, in casa propria, provvedevano alle necessità della guerra. Gli Ateniesi, acquartierati a Nasso entravano in colloqui con i Siculi per ottenerne l’appoggio nel maggior numero possibile. Ora, tra le genti sicule piuttosto prossime alla pianura, suddite dei Siracusani, si ebbero casi di defezione, benché in misura limitata: ma i borghi delle popolazioni dell’entroterra, che anche prima avevano sempre vantato l’indipendenza, si affiancarono subito, tranne pochi, agli Ateniesi, e portarono alla costa viveri per l’esercito, e talvolta perfino denari. Marciando contro i dissidenti, gli Ateniesi ne obbligarono con la forza una parte all’adesione, ma con altri furono prevenuti da presidi e truppe di soccorso in arrivo espressamente da Siracusa.
Gli Ateniesi in seguito, spostata la flotta da Nasso a Catania e dopo aver riattato l’accampamento caduto in fiamme sotto l’attacco siracusano vi trascorsero gli ultimi mesi d’inverno. Tentarono anche l’amicizia di Cartagine, con la spedizione di una trireme: per trarne possibilmente un profitto. Un’altra nave veleggiò verso la Tirrenia, dove alcuni centri avevano fatto sapere d’esser disponibili per una libera collaborazione militare.
Cosa chiedevano oltre ai soldati, gli ateniesi ai potenziali alleati? Soprattutto denaro, per coprire i costi della spedizione, cavalli, per compensare la superiorità tattica siracusana e attrezzature necessari all’assedio della polis siciliana.
Spedirono corrieri in ogni direzione, presso i Siculi e i Segestani, invitandoli con questi messaggi a fornire cavalli: il numero maggiore che potevano. Raccolsero i materiali occorrenti per il baluardo di circonvallazione: mattoni, attrezzature metalliche, insomma tutto
il necessario, per applicarsi, appena sorta la primavera, all’impresa.
Siracusa non rimase con le mani in mano: sondò le città della Magna Grecia, che però mantennero il loro atteggiamento di neutralità, ottenne aiuti, sia per la questione dell’associazione etnica, sia per la rivalità marittima con Atene, da Corinto e chiese aiuto a Sparta, che non aveva nessuna voglia di lasciarsi coinvolgere. Anzi, invitando Siracusa a resistere ad oltranza, speravano che trattenesse più possibile le forze ateniese lontani dalla Grecia
Gli ambasciatori siracusani, in viaggio per Corinto e Sparta, seguendo la costa saggiavano gli umori delle città italiche, se fossero ancora ostinate nella loro politica di non ingerenza nei conflitto tra Atene e Siracusa: l’offensiva ateniese, spiegavano, era una minaccia non meno sinistra anche per la loro indipendenza. Approdati a Corinto, aprirono la discussione sul tema dell’affinità di stirpe: circostanza che esigeva un intervento a soccorso. I Corinzi, per proprio conto, decretarono di provvedere, quanto prima, a un contingente il più
possibile solido di rinforzo. Poi aggregarono alla missione siracusana in partenza per Sparta un proprio comitato, per contribuire all’opera di persuasione presso quel governo: perché dimostrasse con più aperta e concreta energia la sua ostilità contro Atene, e inviasse un
aiuto in Sicilia, qualunque fosse.
Ma le cose, per sfortuna degli ateniesi, cambiarono a causa di Alcibiade, che se ne era andato in esilio a Sparta
A Sparta gli ambasciatori di Corinto s’incontrarono con Alcibiade e i suoi compagni di bando. Costui, a suo tempo, dalla costa di Turi si era sollecitamente imbarcato su un mercantile, ed era prima passato a Cillene di Elea, e di lì a Sparta: munito di salvacondotto, su invito degli stessi Spartani. Poiché il ricordo del suo raggiro di Mantinea gli incuteva una certa apprensione. Sicché accadde che sia i Corinzi, che i Siracusani con Alcibiade tentassero, all’assemblea spartana, di influenzare gli animi con gli identici propositi. Gli efori e le altre autorità inclinavano già ad inviare a Siracusa un messaggio, contenente il divieto di scendere a patti con Atene ma in fatto di iniziative pratiche di soccorso erano restii