Atene contro Siracusa (Parte XVIII)

Dal punto di vista diplomatico, gli abitanti di Camarina erano tra l’incudine e il martello: non si fidavano né dei siracusani, con cui avevano una lunga tradizione di guerra, né degli ateniesi, dato che non era da escludere che invece di seguire la strategia di Nicia, in caso di successo tornassero ai propositi di conquista di Alcibiade.

Per cui, tennero un approccio molto italiano: si proclamarono neutrali e ben disposti a mediare tra i due contendenti, affinché si trovasse una via d’uscite negoziale dal conflitto e dato che il nemico vicino era potenzialmente più pericoloso di quello lontano, decisero di fornire sottobanco limitati aiuti a Siracusa.

In tale, sostanzialmente, il discorso di Eufemo. I Camarinesi si erano venuti a trovare in questo stato d’animo. Gli Ateniesi riscuotevano le loro simpatie, con la riserva che si sospettava in loro il progetto di assoggettare la Sicilia. Gli urti con Siracusa, come paese di confine, erano affare quotidiano. Ma, allarmati non meno dalla possibilità che i Siracusani, stabiliti così vicini, potessero uscire dall’avventura anche privi del loro sostegno, avevano prima contribuito allo sforzo siracusano con l’invio di quello scarso contingente di cavalleria; ma per il futuro si decise, da una parte, di appoggiare (non vistosamente) piuttosto Siracusa, ma con risorse militari ridotte all’essenziale, dall’altra, come misura immediata per non urtare la suscettibilità degli Ateniesi (tanto più che erano riusciti vittoriosi dal primo duello) parve opportuno rispondere formalmente, in termini identici ai due belligeranti. Presa questa risoluzione, si formulò il seguente comunicato: poiché si trovavano in conflitto due potenze legate l’una e l’altra a Camarina da trattati d’alleanza, il rispetto ai giuramenti esigeva che per il momento si restasse neutrali. E gli ambasciatori dei due paesi uscirono da Camarina.

Se i siracusani arruolavano mercenari e raccoglievano provviste per resistere all’assedio, sotto la guida di Nicia, gli ateniesi che erano tornati dell’accampamento di Catania, si erano impegnati in una complessa offensiva diplomatica: per prima cosa, tentarono di coinvolgere nella loro alleanza i siculi, i quali, nonostante il fallimento dell’impresa di Ducezio, mantenevano una vivida coscienza etnica e una coesione politica, che nasceva anche dalla reazione all’espansionismo della polis siciliana, che vedevamo l’ampliamento della chora come indispensabile per le sue possibilità di sfruttamento agricolo, anche e soprattutto ai fini delle immissioni granarie nei mercati interstatali.

I siculi, soprattutto quelli dell’interno aderirono in massa: lo stesso fecero gli etruschi, che visti i pessimi rapporti con Siracusa, mandarono un corpo di spedizione, che ottenne anche ottimi risultati, dal punto di vista bellico. Sappiamo il nome del suo comandante, non citato da Tucidide, grazie a una fonte indipendente,un’epigrafe di grande importanza rinvenuta a Tarquinia, presso l’Ara della Regina: si tratta degli Elogia Tarquiniensia, risalente all’epoca romana, che testimoniano la persistenza della memoria di quelle vicende

V[elth]ur Spur [inna] [L]artis F. pr (aetor)I [I; in] magistratu al [terum] exer [i] tum habuit, alt [erum in] Siciliam duxit; primus o [mnium] etruscorum mare cu [m—-] traiecit; a qu [—] aurea ob vi [—]

ossia

“Velthur Spurinna figlio di Larth fu Pretore (la massima carica politico-militare della città) per due volte. Durante la carica condusse l’esercito oltre mare per due volte e fu il primo a condurne uno in Sicilia vittoriosamente, ottenendo come premio”

Di questo Velthur Spurinna noi possiamo oggi ammirare il sepolcro, la tomba dell’Orco I, a Tarquinia, ove Velthur è stato raffigurato sul fondo della camera sepolcrale, ove un’iscrizione etrusca lo indica come Praetor populorum etruriae. Questo potrebbe essere un argomento aggiuntivo per pensare che Velthur comandò un contingente scelto formato da volontari di più città della Dodecapoli e non della sola Tarquinia. Egli fu, inoltre, marito della nobile e potente matrona Ravnthu Thefrinai, detta “ati nacnuva“, madre carissima dal figlio Velthur, omonimo del padre.

Se il condottiero, quindi, ci è noto, resta il dubbio sulla composizione del corpo di spedizione; possiamo solo supporre che una nave almeno fosse tarquiniense e almeno un’altra fosse cerite, visto che in seguito il tiranno Dionisio I di Siracusa condurrà una dura spedizione punitiva distruggendo, in primis, il porto di Pyrgi nel 387 a.C.

Di una cosa siamo certi: a differenza di Nicia, riuscì a salvare e riportare a casa sia la sua pelle, sia quella dei suoi soldati. Infine, furono riprese le trattative con Cartagine. Il fa pensare come gli ateniesi avessero abbandonato definitivamente la posizione di Alcibiade e pronti a una spartizione del potere in Sicilia, con un potenziale ampliamento dell’Epicrazia.

Ovviamente, Cartagine, aveva tutt’altra intenzione, come mostreranno le vicende successive: usare Atene per logorare Siracusa, per poi scatenare l’assalto definitivo al nemico.

Intanto i Siracusani, in casa propria, provvedevano alle necessità della guerra. Gli Ateniesi, acquartierati a Nasso entravano in colloqui con i Siculi per ottenerne l’appoggio nel maggior numero possibile. Ora, tra le genti sicule piuttosto prossime alla pianura, suddite dei Siracusani, si ebbero casi di defezione, benché in misura limitata: ma i borghi delle popolazioni dell’entroterra, che anche prima avevano sempre vantato l’indipendenza, si affiancarono subito, tranne pochi, agli Ateniesi, e portarono alla costa viveri per l’esercito, e talvolta perfino denari. Marciando contro i dissidenti, gli Ateniesi ne obbligarono con la forza una parte all’adesione, ma con altri furono prevenuti da presidi e truppe di soccorso in arrivo espressamente da Siracusa.

Gli Ateniesi in seguito, spostata la flotta da Nasso a Catania e dopo aver riattato l’accampamento caduto in fiamme sotto l’attacco siracusano vi trascorsero gli ultimi mesi d’inverno. Tentarono anche l’amicizia di Cartagine, con la spedizione di una trireme: per trarne possibilmente un profitto. Un’altra nave veleggiò verso la Tirrenia, dove alcuni centri avevano fatto sapere d’esser disponibili per una libera collaborazione militare.

Cosa chiedevano oltre ai soldati, gli ateniesi ai potenziali alleati? Soprattutto denaro, per coprire i costi della spedizione, cavalli, per compensare la superiorità tattica siracusana e attrezzature necessari all’assedio della polis siciliana.

Spedirono corrieri in ogni direzione, presso i Siculi e i Segestani, invitandoli con questi messaggi a fornire cavalli: il numero maggiore che potevano. Raccolsero i materiali occorrenti per il baluardo di circonvallazione: mattoni, attrezzature metalliche, insomma tutto
il necessario, per applicarsi, appena sorta la primavera, all’impresa.

Siracusa non rimase con le mani in mano: sondò le città della Magna Grecia, che però mantennero il loro atteggiamento di neutralità, ottenne aiuti, sia per la questione dell’associazione etnica, sia per la rivalità marittima con Atene, da Corinto e chiese aiuto a Sparta, che non aveva nessuna voglia di lasciarsi coinvolgere. Anzi, invitando Siracusa a resistere ad oltranza, speravano che trattenesse più possibile le forze ateniese lontani dalla Grecia

Gli ambasciatori siracusani, in viaggio per Corinto e Sparta, seguendo la costa saggiavano gli umori delle città italiche, se fossero ancora ostinate nella loro politica di non ingerenza nei conflitto tra Atene e Siracusa: l’offensiva ateniese, spiegavano, era una minaccia non meno sinistra anche per la loro indipendenza. Approdati a Corinto, aprirono la discussione sul tema dell’affinità di stirpe: circostanza che esigeva un intervento a soccorso. I Corinzi, per proprio conto, decretarono di provvedere, quanto prima, a un contingente il più
possibile solido di rinforzo. Poi aggregarono alla missione siracusana in partenza per Sparta un proprio comitato, per contribuire all’opera di persuasione presso quel governo: perché dimostrasse con più aperta e concreta energia la sua ostilità contro Atene, e inviasse un
aiuto in Sicilia, qualunque fosse
.

Ma le cose, per sfortuna degli ateniesi, cambiarono a causa di Alcibiade, che se ne era andato in esilio a Sparta

A Sparta gli ambasciatori di Corinto s’incontrarono con Alcibiade e i suoi compagni di bando. Costui, a suo tempo, dalla costa di Turi si era sollecitamente imbarcato su un mercantile, ed era prima passato a Cillene di Elea, e di lì a Sparta: munito di salvacondotto, su invito degli stessi Spartani. Poiché il ricordo del suo raggiro di Mantinea gli incuteva una certa apprensione. Sicché accadde che sia i Corinzi, che i Siracusani con Alcibiade tentassero, all’assemblea spartana, di influenzare gli animi con gli identici propositi. Gli efori e le altre autorità inclinavano già ad inviare a Siracusa un messaggio, contenente il divieto di scendere a patti con Atene ma in fatto di iniziative pratiche di soccorso erano restii

La presa di Siracusa

Come sempre, Marcello si era mostrato troppo ottimista: non aveva tenuto conto ad esempio di come le porte e le mura dell’Acradina fossero presidiate da disertori romani e italici, i quali, non avendo speranza in caso di resa, combattevano con le unghie e con i denti. Per cui, per semplificarsi la vita, il generale romano cambiò programmi, concentrando i suoi sforzi su Castello Eurialo.

Voluto da Dionisio I, tiranno di Siracusa, sorge sul punto più alto (120 m s.l.m.) della terrazza del quartiere Epipoli a circa 7 km da Siracusa, in direzione della frazione di Belvedere. Questa imponente opera militare fu costruita tra il 402 e il 397 a.C. con lo scopo di proteggere la città da eventuali operazioni militari di assedio o attacco. Subì diverse modifiche anche a causa delle nuove tecniche di guerra come quella dell’assedio introdotta da Demetrio I Poliorcete nell’assedio di Rodi del 305 a.C.

Il Castello Eurialo era stato affidato da Epicide a un certo Filodemo. A quest’ultimo era stato inviato da Marcello uno degli assassini del tiranno Geronimo di Siracusa, un certo Soside, per trattare la resa di questa parte della città. Filodemo però cercava di rimandare la decisione di giorno in giorno, sia perché poco si fidava dei romani, sia perché sperava in una spedizione di soccorso cartagine, eventualità che non faceva dormire la notte a Marcello: se si fosse verificata, le legioni, prigionieri delle mura siracusane, avrebbero fatto la fine del sorcio.

Allora il proconsole romano, vedendo che non poteva impadronirsi dell’Eurialo né con l’assalto né con la resa, pose gli accampamenti tra i quartieri di Neapolis e della Tycha: per tenere buoni i suoi soldati, che avevano parecchio mesi di paga in arretrato e al contempo evitare stragi, sempre per indispettire il partito filo romano, dovette inventarsi una sorta di compromesso. Per usare un linguaggio moderno, impose una sorta di pizzo mafiosa ai cittadini dei due quartieri, utilizzato per pagare gli arretrati ai legionari. Così furono evitati sia il saccheggio, sia l’ammutinamento.

Dato che l’attenzione di Marcello era diretto a Castello Eurialo, Bomilcare colse l’occasione di quella notte, in cui la flotta romana non riusciva a stare all’ancora a causa di una violenta tempesta, e partì con 35 navi dal porto di Siracusa, facendo vela per il mare aperto e violando il blocco navale. Lasciò ad Epicide e ai Siracusani solo 55 navi. Una volta che i Cartaginesi vennero a conoscenza delle condizioni in cui si trovava la città greca, il che mostra come una certa vulgata, che gira spesso anche su Facebook, sul disinteresse dei politici punici sull’andamento della guerra sia frutto o di ignoranza o di malafede, permisero a Bomilcare di far ritorno a Siracusa con 100 navi; ed il comandante cartaginese fu ricompensato da Epicide con molti doni tratti dal tesoro di Gerone.

La situazione di Marcello, che era ritornato ad assediare l’Acradina, era certo migliorata, non rischiando più, dopo la resa di Castello Eurialo, di essere preso tra due fuochi: però, con l’arrivo dei rinforzi punici e con con il tentativo siracusano di riprendere il controllo della polis, i romani passarono un brutto quarto d’ora.

Ippocrate, infatti, dopo aver posto gli accampamenti presso il porto grande, diede il segnale di attacco anche alle truppe siracusane poste a difesa dell’Acradina. Lanciò quindi la sua armata contro gli accampamenti romani presidiati da Tito Quinzio Peno Capitolino Crispino, mentre Epicide si occupava di assaltare i posti di guardia di Marcello. Frattanto la flotta cartaginese approdava sulla spiaggia posta tra gli accampamenti romani e la città, per impedire che Marcello potesse inviare aiuti a Crispino. Per fortuna dei romani, dopo lo scompiglio iniziale generato dall’attacco a sorpresa, Crispino non solo riuscì a respingere Ippocrate, ma lo inseguì fin nelle sue postazioni fortificate. Marcello, intanto, riuscì a cacciare Epicide dentro la città… Certo, se ci fosse stato Annibale, le cose sarebbero andate diversamente.

A peggiorare la situazione, dopo questa battaglia giunse una terribile pestilenza che colpì tutti, distogliendo entrambe le parti dal formulare nuovi piani di guerra. Infatti in autunno, la natura dei luoghi per natura malsani e la violenza intollerabile del caldo provocarono dei grossi problemi di salute per Romani e Siracusani. La disperazione per la situazione portò alcuni a preferire di morire col ferro delle spade, piuttosto che di malattia, tanto da indurli a compiere attacchi disperati e isolati alle postazioni nemiche, trasformando la polis siciliana in una versione antica della Beirut degli anni Ottanta.

A fare la differenza fu la migliore organizzazione sanitaria dei romani, che poi perfezionerà Augusto. Nelle legioni, infatti, era inquadrato, uno specifico staff medico. Responsabile generale dello staff medico e dei servizi relativi di una legione, era il praefectus castrorum. Sotto quest’ultimo c’era poi l’optio valetudinarii, o direttore dell’ospedale militare, che responsabile amministrativo e gestiva la cassa e una sorta di Primario militare, chiamato semplicemente Medicus, il cui grado era, per importanza, equiparato a quello del tribunus militum.

A capo dell’infermeria di ciascun accampamento c’era poi il “medicus castrensis”, esentato da ogni altro servizio, assistito nelle strutture più grandi da tutta una serie di medici specialistici (come il medicus chirurgus ovvero il chirurgo, il medicus clinicus ovvero l’internista, il medicus ocularius ovvero l’oculista, il marsus specialista in morsi di serpenti ed infine il medicus veterinarius per la cura dei cavalli o degli animali da soma), oltre a capsarii (infermieri guardarobieri, da capsa = scatola dove si tenevano i bendaggi), frictores (massaggiatori), unguentari, curatores operis (addetti al servizio farmaceutico), optiones valetudinari (addetti al vitto e all’amministrazione). I punici per loro sfortuna, non avevano nulla di simile: se la pestilenza decimò i romani, i cartaginesi furono sterminati.

A peggiorare le cose, per i siracusani, gli alleati siculi decisero di applicare una sorta di quarantena nei confronti della città, abbandonando la polis. Intanto Bomilcare, partito di nuovo con la flotta per Cartagine, relazionò il suo Senato sulle condizioni degli alleati siracusani ed ottenne di poter tornare in Sicilia con un grande numero di navi da carico, piene di ogni sorta di rifornimenti. Partito da Cartagine con 130 navi da guerra e 700 da carico, incontrò venti abbastanza favorevoli per raggiungere la Sicilia, ma quegli stessi venti gli impedirono di superare il promontorio Pachino. Epicide, venuto a conoscenza delle difficoltà incontrate dalla flotta cartaginese e temendo che potesse tornarsene in Africa, consegnò l’Acradina ai capi dei soldati mercenari e partì con la flotta per andare incontro a Bomilcare. Raggiunto l’ammiraglio cartaginese, Epicide lo spinse a tentare la fortuna con uno scontro in mare contro i Romani. Marcello allora, avendo saputo che i Siculi stavano raccogliendo un esercito per attaccarlo via terra e che Bomilcare era ormai prossimo alla città, sebbene il proconsole romano disponesse di un numero di navi inferiore, decise di impedire all’ammiraglio cartaginese l’accesso a Siracusa.

Non appena il vento Euro cessò di Soffiare, Bomilcare ed Epicide mossero da capo Pachino in direzione di Siracusa. Come l’ammiraglio cartaginese vide avvicinarsi la flotta romana nei pressi del promontorio, assalito da improvvisa paura, prese il largo e inviò messi ad Eraclea Minoa con l’ordine di far tornare indietro in Africa, tutte le navi da carico. Egli stesso, invece, oltrepassata la Sicilia si diresse verso Taranto. Epicide, appena si accorse che non vi erano più speranze di raggiungere Siracusa, fece vela su Agrigento in attesa di sapere cosa sarebbe accaduto, più che preparare qualche piano per soccorrere la sua città.

Appena questi avvenimenti furono noti negli accampamenti siracusani, vale a dire che Epicide si era allontanato dalla città senza farvi ritorno e che l’Isola di Ortigia era stata abbandonata dalla flotta cartaginese e consegnata ai Romani, i Siracusani inviarono dei messi a Marcello per trattare la resa. E poiché si era trovato l’accordo, secondo il quale ai Romani spettavano le proprietà del re, mentre ai Siculi tutto il resto, oltre alla libertà e le proprie leggi, venne convocata un’assemblea con coloro ai quali Epicide aveva affidato il comando dell’Acradina. Vennero quindi aggrediti i prefetti di Epicide, vale a dire Policeto, Filistione e Epicide Sindone, e messi a morte. Morto Ippocrate, allontanato Epicide ed uccisi tutti i suoi pretetti; cacciati i Cartaginesi via mare e via terra dall’intera Sicilia, non restava alcuna ragione per non consegnarsi ai Romani

Per cui, si aprì un tavolo delle trattative, sempre con sommo sollievo di Marcello, visto che doveva essere una rapida campagna militare, si era trasformato in un incubo senza fine. Come sempre, però, non aveva considerato la questione disertori, i quali, per paura di essere uccisi in maniera lenta e dolorosa, sobillarono contro l’accordo le truppe mercenarie, che uccisero i membi della delegazione incaricata di trattare con i Romani, poi, in maniera indiscriminata, cominciarono a uccidere i siracusani e a saccheggiare le loro proprietà: di conseguenza, la possibile soluzione negoziale andò a ramengo.

Marcello, dinanzi a questo inaspettato manicomio, cercò di convincerli del fatto che i Romani non avessero nessuna intenzione di sterminarli e di renderli schiavi. Poi contattò in segreto Merico, un mercenario iberico, responsabile della difesa di un tratto delle mura di Acradina, che andava dalla fonte Aretusa fino all’ingresso del grande porto. Gli fu promessa salva la vita e la possibilità di militare tra le armi romane oppure di poter far ritorno in patria, in cambio della sua alleanza alla causa romana; ovviamente, l’iberico accettò e si mise d’accordo con i Romani, per aprire loro le porte.

Marcello dispose, quindi, che la notte seguente una quadrireme rimorchiasse una nave carica di soldati romani e che fosse condotta fino alla porta nei pressi della fonte Aretusa. Qui i soldati sarebbero sbarcati e accolti da Merico. All’alba Marcello diede ordine di assalire l’Acradina con tutte le sue forze, in modo non solo da far rivolgere verso di sé tutti i difensori di quella parte di città, ma anche quelli dell’Isola di Ortigia che andavano a dar manforte ai primi.

I soldati romani sbarcarono all’improvviso e assalirono le postazioni nemiche quasi semivuote. Con un facile combattimento occuparono l’isola di Ortigia, abbandonata dalle guardie spaventate; e quando Marcello venne a sapere che anche l’Isola era stata presa e rimaneva in mano nemica la sola Acradina, ordinò la ritirata dei suoi, per impedire il saccheggio del tesoro regio. Intanto anche Merico col suo gruppo di armati si era unito ai Romani

Terminato l’impeto dell’assalto e aperta una via di fuga a quei disertori che si trovavano nell’Acradina, i Siracusani erano finalmente liberi da ogni paura. Inviarono nuovi messi a Marcello, per chiedere l’incolumità per loro ed i loro figli. Il proconsole romano inviò all’isola di Ortigia un questore con una scorta di soldati per prendere in consegna e custodire il tesoro del re. L’Acradina invece fu abbandonata al saccheggio dell’esercito romano, dopo che erano state disposte delle guardie attorno alle case di coloro che si erano trattenuti presso i presidi romani

In quell’occasione, fu ucciso Archimede. La leggenda, citando Plutarco, racconta

Ad un tratto entrò nella stanza un soldato romano che gli ordinò di andare con lui da Marcello. Archimede rispose che sarebbe andato dopo aver risolto il problema e messa in ordine la dimostrazione. Il soldato si adirò, sguainò la spada e lo uccise

tramandando anche ai posteri le ultime parole dello scienziato.

noli, obsecro, istum disturbare

ossia

Non rovinare ti prego, questo disegno

Però, per come procedette, in maniera alquanto organizzata e ordinata, l’occupazione di Acradina, è difficile darci credito. E’ probabile che Archimede per tutto quello che aveva fatto patire alle legioni e per la sua posizione politica, fosse catturato e giustiziato come collaborazionista con il nemico.

Tra l’altro il solito Cicerone, campione mondiale dell’autoesaltazione, così racconta di avere scoperto la tomba di Archimede grazie a una sfera inscritta in un cilindro, che vi sarebbe stata scolpita in ottemperanza alla volontà dello scienziato

Io quand’ero questore scoprii la sua tomba [di Archimede], sconosciuta ai Siracusani, cinta con una siepe da ogni lato e vestita da rovi e spineti, sebbene negassero completamente che esistesse. Tenevo, infatti, alcuni piccoli senari, che avevo sentito essere scritti nel suo sepolcro, i quali dichiaravano che alla sommità del sepolcro era posta una sfera con un cilindro. Io, poi, osservando con gl’occhi tutte le cose – c’è, infatti, alle porte Agrigentine una grande abbondanza di sepolcri – volsi l’attenzione ad una colonnetta non molto sporgente in fuori da dei cespugli, sulla quale c’era sopra la figura di una sfera e di un cilindro. E allora dissi subito ai Siracusani – c’erano ora dei principi con me – che io ero testimone di quella stessa cosa che stavo cercando. Mandati dentro con falci, molti ripulirono e aprirono il luogo. Per il quale, dopo che era stato aperto l’accesso, arrivammo alla base posta di fronte. Appariva un epigramma sulle parti posteriori corrose, di brevi righe, quasi dimezzato. Così la nobilissima cittadinanza della Grecia, una volta veramente molto dotta, avrebbe ignorato il monumento del suo unico cittadino acutissimo, se non lo fosse venuto a sapere da un uomo di Arpino

Tornando alla guera ochi giorni prima della presa della città di Siracusa, Tito Otacilio Crasso passò dal Lilibeo ad Utica con 80 quinqueremi e, entrato nel porto all’alba, si impadronì di numerose navi da carico piene di grano. Quindi sbarcò e saccheggiò gran parte del territorio circostante la città cartaginese, per poi fare ritorno al Lilibeo due giorni più tardi, con 130 navi da carico piene di grano e di ogni sorta di bottino. Quel grano fu subito inviato nella polis per evitare che la fame potesse minacciare vinti e vincitori.

Nonostante il bottino e il successo, Marcello non ottenne il trionfo, ma una più misera ovatio: questo perché il Senato era consapevole del fatto che quella che era stata prospettata come facile conquista, si era invece trasformato nell’equivalente antico della Battaglia di Stalingrado. In più la guerra in Sicilia era tutt’altro che vinta per i Romani.

San Giorgio dei Genovesi

Nel corso del XVI secolo si registra a Palermo un consistente incremento demografico e, in parallelo, una fervente attività edilizia, protesa anche verso la realizzazione di importanti «sistemazioni» a livello urbano. Al rinnovamento della città partecipano, fra gli altri, i liguri, ivi presenti e operanti principalmente in qualità di banchieri e mercanti, come i Bozolo, i Castello, i Costa, i Ferrero, i Lomellino, i Pallavicino, i Pernice, i Segno, gli Spinola. Queste famiglie, pur rimanendo legate alla madre patria, appaiono perfettamente integrate nella vita economica e sociale dell’isola, operando inoltre come imprenditori e industriali, proprietari, in alcuni casi, di tonnare e di piantagioni di canna da zucchero

Parallelamente all’ascesa economica e sociale, dovuta anche ai legami con la monarchia spagnola, di cui i genovesi erano i principali finanziatori, cresce l’influenza in campo artistico. La testimonianza concreta di questa ascesa è la costruzione della chiesa di San Giorgio dei Genovesi, di cui ho accennato parlando di Sofonisba Anguissola.

I mercanti genovesi sin da fine Quattrocento, nazione” genovese possedeva una cappella, dedicata a San Giorgio, nel chiostro di San Francesco d’Assisi; cappella che, dopo una cinquantina d’anni, sia per le dimensioni, sia per il suo essere molto defilata, non soddisfava né le esigenze concrete, i fedeli non c’entravano durante le funzioni religiose e mancava spazio per le sepolture, né quelle di rappresentanza, essendo inefficace a rappresentare il potere e la ricchezza della comunità.

Per cui, si scatenò una caccia serrata a uno spazio che si poteva destinare alla costruzione di una chiesa, che doveva essere ampia e ricca d’opere d’arte. L’occasione arrivò nel 1576. Un secolo e mezzo prima, esattamente nel 1524, la confraternita di san Luca godeva di grande prestigio e ricchezza, tanto da costruire nei pressi della Cala una chiesa dedicata al suo santo protettore. Nella seconda metà del Cinquecento, le cose però, erano drammaticamente cambiate, a causa di una serie di investimenti sbagliati e del solito priore che era scappato con la cassa. Per cui, per evitare la bancarotta, la confraternita aveva messo in vendita sia la chiesa, sia le case adiacenti.

La comunità genovese decise di approfittarne, per due motivi: conoscendo lo stato delle finanze della confraternita, molti debiti li aveva contratti proprio con i mercanti liguri, era possibile strappare un consistente sconto. Al contempo, era logisticamente comoda, essendo vicina alla porta di San Giorgio, dove i genovesi avevano case, magazzini e uffici e al Molo nuovo di cui il Senato palermitano aveva da poco deciso la costruzione in funzione della modernizzazione del porto, che stava trasformandosi nel polo economico dei liguri.

Per cui, il console sostituto della ”Magnificam Nationem Genuensium” Giovan Battista Giustiniani, firmò quell’anno con la confraternita palermitana, in luogo del console ordinario Agostino Rivarola, un atto di cessione con la quale la Nazione genovese prendeva possesso della vetusta chiesa di San Luca con “atrio e case circostanti”. In cambio la confraternita avrebbe ottenuto una cappella della nuova chiesa, dove poter seppellire degnamente i propri morti e si sarebbe impegnata a non

“concorrere et se immiscerein regimine et guberno dicte ecclesie Sancti Georgii in…..legatis elemosinis redditibus et proventibus…..in ea perventibus”

ossia a non mettere bocca sull’amministrazione sia ecclesiastica, sia economica della nuova chiesa e non pretendere una percentuale delle donazioni ricevute dalla parrocchia, come prevedeva la legislazione palermitana dell’epoca. I confrati erano talmente inguaiati che accettarono senza fiatare.

La chiesa di san Luca fu demolita, per costruire una nuova chiesa, dedicata a San Giorgio, che riprese dall’edificio precedente, sia la pianta cruciforme inserita in un rettangolo, di derivazione normanna, sia la cripta, che fu utilizzata come ossario. Ora, chi incaricarono i genovesi del progetto di San Giorgio ? L’attribuzione tradizionale, al cuneese Giorgio di Faccio, che di certo fu il direttore dei lavori, è stata recentemente messa in discussione: tuttavia le alternative proposte sono tutte poco convincenti. Quella che va per la maggiore, che cita un altro grande e misconosciuto architetto, Giuseppe Spatafora, però si scontra con un problema difficilmente eludibile. Giuseppe morì nel 1572, quando la chiesa di San Luca era lungi dall’essere messa in vendita e i genovesi stavano valutando soluzioni alternative: per cui ipotizzare che avesse una sfera di cristallo è forse una forzatura.

Poi, San Giorgio rientra molto nel discorso stilistico che si poneva Giorgio, basti pensare ai suoi lavori a Palazzo dei Normanni, ossia reinterpretare in chiave moderna la tradizione edilizia locale: basti pensare all’interno con il recupero dei sostegni tetrastili dei e i fasci di colonne a registri sovrapposti della crociera della cattedrale palermitana, però ricondotti agli ordini classici, dato l’uso dei capitelli corinzi, o degli archi normanni a sesto oltrepassato. Le colonne, tra l’altro furono realizzate dal “marmorarius” e scultore Battista Carabio che si obbligò con il console della “nazione” genovese, con atto rogato il 29 dicembre 1576, a fornire quaranta colonne in marmo bianco e mischiato al prezzo di 12 Once e 15 Tarì per ognuna

Oppure ai volumi essenziali dell’edificio, articolati in superficie da una griglia di paraste doriche profilate poste su alti plinti e i paramenti murari lisci “bucati” da finestre a edicola prive di timpano, con il vano finestra fortemente strombato, appartengono infatti, allo schema di una serie di edifici sacri palermitani improntati al linguaggio di Antonello Gagini. A questo si associava l’introduzioni di elementi decorativi tipici del manierismo romano e del tamburo ottagonale semplice, a lesene doriche, con finestre rettangolari e tetto piramidale, di ispirazione bramantesca.

Parlando della chiesa, un imponente cornicione divide i due ordini da cui è caratterizzata la facciata dell’edificio. Il primo ordine, a sua volta, è suddiviso in tre sezioni, ad ognuna delle quali corrisponde un ingresso al luogo di culto. I tre ingressi sono inquadrati da quattro grandissime lesene. Sui due ingressi laterali sono situate due finestre, alle quali corrispondono le navate interne della Chiesa. La seconda sezione della Chiesa è costituita da un oculo ovoidale posto al centro della facciata. Questa si trova sotto il frontone piatto di chiusura ed è anch’essa inquadrata da due lesene di grandezza ridotta.

L’interno. come accennato, è a pianta rettangolare a tre navate e, su ciascun lato, vi è la presenza di quattro cappelle chiuse da magnifiche ed eleganti edicole scolpite a motivi rinascimentali. Nell’incrocio tra il transetto ed il coro, lo spazio interno prende particolare vigore dinamico: coppie di colonne sovrapposte hanno qui lo scopo di rendere più significativo l’organismo strutturale del capocroce a sostegno del tiburio ottagonale. Da questo si sviluppa la cupola a catino, sostenuta da pennacchi sferici.

Ad eccezione della cappella di San Luca, riservata secondo gli accordi all’antica confraternita, tutte le altre portavano i nomi di illustri famiglie di origine genovese che ne ottennero il patrocinio e che le riempirono di opere d’arte. Nella prima cappella della navata destra si trova un dipinto del grande pittore napoletano Luca Giordano che raffigura “Santa Maria del Rosario e Santi”. Nella cappella che segue, già della famiglia Giustiniani, troviamo una straordinaria opera del toscano Jacopo Chimenti detto ”l’Empoli”, il fortemente drammatico “Martirio di San Vincenzo di Saragozza”. La successiva cappella, un tempo della famiglia Del Bene, custodisce una pala del pittore genovese Bernardo Castello raffigurante la “Lapidazione di Santo Stefano protomartire”. Nella cappella del transetto di destra, troviamo un’opera del pittore veneto, allievo di Tiziano, Jacopo Negretti detto Palma il Giovane, il “Battesimo di Cristo” del 1604.

Nella navata di sinistra la prima cappella presenta un’opera del palermitano Gerardo Astorino, “l‘Estasi di San Francesco”. Nella cappella seguente troviamo un dipinto attribuito al pennello di Domenico Fiasella, detto anche il Sarzana, dal paese d’origine del pittore, che raffigura la “Madonna Regina di Genova” dei primi anni del seicento. A seguire, nella cappella che fu della famiglia Lomellini, una straordinaria “Annunciazione”, 1594 circa, altra opera di Jacopo Palma il Giovane. Nella cappella del transetto sinistro fa bella mostra un seicentesco crocifisso policromo di scuola siciliana su un reliquario ligneo.

Nelle absidiole ai lati dell’altare troviamo, a destra, nella già citata cappella di San Luca, un capolavoro di Filippo Paladini “San Luca che ritrae la Vergine”, mentre a sinistra è custodita l’opera raffigurante il “Martirio di San Giorgio” dipinto su tela di Jacopo Palma il Giovane. Infine, collocata sull’altare maggiore, una pala che raffigura “San Giorgio e il drago” di ignoto autore siciliano. Posta sotto l’altare maggiore un manufatto marmoreo che raffigura “Santa Rosalia giacente nella grotta” di Giovan Battista Ragusa.

Ovviamente, uno dei pezzi forti della chiesa è il pavimento, con le 64 lastre sepolcrali nelle quali scorrono sotto gli occhi i nomi di esponenti delle principali famiglie della nobiltà genovese; oltre quella di Sofonisba Anguissola, è da notare, a titolo di curiosità, la lapide di Nicola Colombo, discendente del più famoso Cristoforo, la cui lapide, tradotta in italiano fa

Son ligure per nascita Siciliano in morte adesso memore della dolce patria mi sono addormentato in Sicilia e da ligure son sepolto nel tempio dei liguri.

Chiesa che merita di essere visitata: purtroppo, trovarla aperta è una sorta di terno al lotto…

Tra l’altro, nel 1963, Pier Paolo Pasolini filmò una scena iniziale del suo documentari Comizi d’amore proprio davanti la facciata di San Giorgio dei Genovesi. Ora, Pasolini, era da parecchio che voleva girare un’inchiesta sulle opinioni degli italiani sulla sessualità, l’amore e il buon costume, per capire come il boom economico stesse modificando la morale comune, ma non ne aveva mai avuto l’occasione: quell’anno, però comincia a girare su e giù per l’Italia, assieme al produttore Alfredo Bini per trovare luoghi e volti per un nuovo film, il Vangelo secondo Matteo. Per cui, Pasolini, ne approfitta anche per girare questo documentario: rivedendolo, rimane sempre il dubbio che molte cose non siano cambiate… Detto questo, la scena del documentario girata a San Giorgio dei Genovesi mostra come all’epoca, le ferite dei bombardamenti anglo americani fossero lungi dall’essere sanate

Il Teatro Romano di Miseno

Nello spazio ristretto, tra le pendici del promontorio di Miseno e la rada esterna dell’antico porto, dove forse vi era l’antico Foro, si trova il Teatro Romano dell’antica città. Il Teatro è stato indagato solo parzialmente, sia perché a causa del bradisismo parte del monumento si trova al di sotto del livello del mare, sia perché la parte superiore è inglobata in costruzione moderne. Il monumento, che doveva essere a tre ordini di ambulacri ad arcate costruiti contro il costone retrostante, è del II sec. d.C.

Alla porzione visitabile si accede mediante una galleria sotterranea aperta nell’area demaniale; si entra in un tratto del corridoio mediano coperto da volte a crociera,che sorregge il livello medio delle gradinate, costruito in opera laterizia con listature in opera vittata,con gli imbocchi dei corridoi radiali che conducevano al corridoio interno e alla cavea stessa, oggi del tutto tamponati

Perpendicolare rispetto all’ambulacro mediale e perfettamente coincidente con l’asse simmetrico del teatro, vi è un cunicolo che parte dalla tredicesima arcata del corridoio, interamente scavato nella roccia e che attraversa la collina fino a giungere alla parte interna del porto di Miseno, in prossimità di Punta Sarparella. Si tratta di un corridoio rettilineo di circa 30 metri, largo tra i 4,3 e i 5 m, in , in origine aperto sulla via Herculanea che permetteva a chi proveniva da Baia di accedere direttamente dal mare senza attraversare l’intero promontorio. Ma, come detto,considerando che il bradisismo ha innalzato di 6 metri circa la linea di costa flegrea rispetto alla quota di epoca romana, la galleria che oggi si trova a livello della spiaggia doveva presentare,probabilmente, delle rampe di scale all’accesso dal mare.

Resta invece inglobata in una proprietà privata adiacente una parte dell’ambulacro superiore e una piccola porzione di un’arcata in laterizi e di una scala, probabilmente di accesso alla summa cavea se non all’attico

Nel corso delle ultime operazioni di scavo, avvenute negli anni Duemila, all’interno del teatro furono ritrovate gran quantità di frammenti di ceramica comune e da cucina (tra cui le rinomate anfore di Miseno), risalenti al VII° secolo, che confermanol’incessante attività portuale esercitata a Miseno in quel tempo. Ma furono gli scavi effettuati in due aree ben precise, nella parte antistante l’accesso all’ambulacro mediale e lungo il margine occidentale dell’area demaniale, a far emergere nuove scoperte. Per quanto riguarda la prima zona scavata, è stato messo in luce il crollo di un enorme pilastro appartenente alla parte esterna del teatro , separato dal resto delle abitazioni private mediante un muraglione in opera reticolata alla cui sommità vi era un camminamento, una struttura utile probabilmente a dividere l’area pubblica (il teatro) da quella privata. Lungo il margine dell’attuale area demaniale,invece, emersero larghi tratti di mura appartenenti, probabilmente, ad un unico edifcio che doveva essere composto da vari ambienti quadrangolari (tabernae) di quattro metri circa ciascuna che affacciavano su uno spazio aperto e basolato, forse una strada o una piazza.

L’edificio fu abbandonato gradualmente, fino all’interro definitivo agli inizi del V sec. e una frequentazione dell’area non oltre il VII sec. d.C. Il monumento, come tutta l’area flegrea, ha da sempre attirato l’attenzione dei viaggiatori e degli eruditi del ‘700 – ‘800. Lo studioso Paoli nel descrivere l’edificio ricorda dell’accesso dal Porto e da qui sulla via Herculanea direttamente nei corridoi del teatro, per il quale dice

“ per dove venissero agli spettatori que’ di Baja, i quali, senza neppure girare il promontorio, potevano attraversare quelle grotte navigabili, ch’erano nell’opposta collina”.

Un’ altra testimonianza dell’erudito Lorenzo Palatino, risalente al 1826, evidenzia come all’epoca le rovine fossero ancora ben conservate

Non lungi dalle poche abitazioni che vi sono a riva di mare si ravvisano le vestigia del Teatro di Miseno. Vi si osserva attualmente il giro della prima gradazione; la scena; il proscenio con le parieti che mostrano le nicchie, ed una parte del anco dritto, che supplendo a proporzione nel restante spazio della facciata, dovevano essere le tre porte solite delle scene siccome prescrive Vitruvio. Evvi un lungo corridojo incavato nel monte: credesi che gli abitanti di Baja, venendo per mare con più comodità dal porto di Miseno, potevano penetrare nel teatro situato ivi nella città, giacchè tali spettacolosi edificj si costruiscono ove sono riunite molte, e grandi abitazioni. Dunque qui era la città di Miseno e non altrove

Le Terme Surane

Nel 1934-1935 alcuni scavi realizzati sotto la chiesa di S. Prisca sull’Aventino portarono alla scoperta di un complesso piuttosto ampio di abitazioni risalenti al I secolo d.C.. Inizialmente questi resti furono ritenuti l’abitazione privata del futuro Imperatore Traiano (domus privata Traiani), identificata invece successivamente nelle strutture rinvenute poco distante nel sottosuolo della Piazza del Tempio di Diana. Alla luce di studi più recenti si ritiene invece che si tratti della casa e delle Terme di Lucio Licinio Sura, politico e generale molto influente sotto Traiano, di cui era amico e consigliere. Ciò sarebbe anche confermato dalla Forma Urbis Severiana, che in quest’area, adiacente al Tempio di Diana, indica la presenza delle Terme Surane

Alcuni bolli laterizi fanno risalire la costruzione dell’edificio, dotato anche di un quadriportico, al 95 d.C.. All’incirca intorno al 110 d.C. quest’ultimo fu chiuso e trasformato in abitazione. Nello stesso periodo un’altra casa posta subito a sud di questa venne invece ingrandita con la costruzione di un ninfeo. Alla fine del II secolo fu realizzata un’ulteriore abitazione a due navate sulla quale si impiantò l’attuale chiesa.

La tradizione vuole far risalire quest’ultima casa all’abitazione dei coniugi ebrei Aquila e Prisca, che qui accolsero i Santi Pietro e Paolo; all’interno di essa sarebbe nata una ecclesia domestica e successivamente il vero e proprio titulus paleocristiano. Sempre alla fine del II secolo si fa risalire la realizzazione del mitreo, che si impiantò all’interno del quadriportico, a suo tempo già trasformato in abitazione, e che si trova nel sottosuolo subito dietro l’abside dell’attuale chiesa.

Ma chi era questo Sura ? E che caratteristiche avevano le sue Terme ? Lucio Licinio Sura, nato probabilmente a Barcellona, era uno dei principali consiglieri di Traiano, anche se inizialmente, a sentire Dione Cassio, i rapporti non cominciarono sotto i migliori auspici. A quanto pare, si era sparsa la voce che Lucio stesse complottando contro l’Imperatore.

Per mettere a tacere le voci, Traiano si presentò a cena a scrocco da Lucio , congedando la sua guardia del corpo e mangiando tutto quello che gli venne servito. Offrì perfino la gola al rasoio del barbiere personale Lucio per farsi radere la barba. Questo rafforzò il legame tra i due: Lucio fu console suffetto nell’anno 97, divenne in seguito governatore della Germania inferiore nel 98/99, dove rimase fino a poco prima di partire per la Dacia nel 101. Egli fu infatti presente in entrambe le guerre daciche condotte dall’imperatore nel 101-102 e 105-106. Fu console per tre volte: nel 97, nel 102 e nel 107.

Alla sua morte, Traiano ordinò in suo onore un funerale di stato oltre ad ordinare che una sua statua fosse posta nello stesso Foro. La sua figura è, peraltro, immortalata nel marmo della Colonna Traiana in Roma (scolpita tra il 107 ed il 113), mentre discute con il suo imperatore. Ora, le Terme Surane sorgevano sul Clivo Publicio che iniziava dalla Porta Raudusculana delle Mura serviane, l’attuale Via del Clivo dei Publicii, immediatamente a sinistra della Chiesa di Santa Prisca , sul grande Aventino dove si trova Villa Cavalletti; recentemente sono stati trovati resti al di sotto della nostra Accademia Nazionale di Danza

Queste terme, alimentate dall’Acqua Marcia, avevano un ruolo ben diverso ben diverso dalle contemporanee Terme di Traiano: non erano destinate alla grande massa dei romani, ma a un pubblico più ristretto e ricco. Scelta che si ripercosse nella pianta del complesso, che conosciamo grazie alla Forma Urbis: invece di ispirarsi al modello proposto dagli architetti di Nerone, era costituito dal balneum e da una serie di ambienti allineati in modo rettilineo tra loro comunicanti e da uno spazio aperto porticato sui 3 lati, forse destinato alla palestra. Dal lato dei giardini, le Terme di Sura strapiombavano la pendenza dell’ Aventino verso il Circo Massimo.

Accanto alle Terme, vi erano due templi: il primo, ben noto, era quello di Diana, fatto costruire da Servio Tullio come Santuario Federale dei Latini. Questo tempio era tempio ottastilo con due ordini di colonne lungo i lati, simile in pianta all’Artemision di Efeso. Le mura perimetrali della cella sono tuttora custodite all’interno di una delle sale di un ristorante. Il tempio era circondato da un portico a due ordini di colonne.

L’altro tempio è di incerta identificazione: un’ipotesi lo associa a quello della Luna, che però andò distrutto ai tempi del grande incendio neroniano e non fu mai più ricostruito, per cui appare difficile che sia rappresentato nella Forma Urbis. Più probabile, è l’identificazione con il tempio di Vertumno, che fu costruito da Marco Fulvio Flacco dopo la conquista di Volsinii (Bolsena) nel 264 a.C. Secondo l’uso romano dell’evocatio, era necessario infatti riparare il dio protettore della città sconfitta, titolare anche di un santuario federale della Lega delle dodici città etrusche. Nel tempio, secondo le fonti, furono collocate pitture raffiguranti il console Flacco quale trionfatore.

Ora, vuoi o non vuoi, le Terme Suriane contribuirono alla gentrificazione dell’Aventino: l’avere una clientela di lusso, convinse Gordiano III a restaurarle, come testimonia una iscrizione ritrovata in loco e forse pertinente ad un architrave. Processo che tra l’altro ebbe un e un nuovo impulso nel IV e nel V secolo, quando le proprietà entrano a far parte dei grandi patrimoni immobiliari delle più note famiglie senatorie, quali quella di Vettius Agorius Pretestatus per il IV secolo o Cecina Decius Albinus per il V secolo e che non fu interrotto neppure dalla presa di Roma da parte di Alarico nel 410 a.C. tanto che Cecina Decio Aginazio Albino, praefectus Urbi, nel 414, amico del poeta Claudio Rutilio Namaziano, provvide a restaurarle.

Però, le cose cose cambiarono progressivamente: dinanzi agli elevati costi di manutenzione e al crollo del mercato immobiliare delle dimore di lusso, visto che il potere politico si stava trasferendo a Ravenna e a Costantinopoli, le famiglie senatoriali cominciano a donare le loro proprietà sull’Aventino, che diventano sede di oratori e monasteri, che cominciano a riutilizzare gli edifici antichi, cambiandone destinazione d’uso. Così verso la fine del V secolo, le terme divennero una sorta di ostello per pellegrini.

Con l’abbandono medievale del colle, anche questo cadde in rovina, tanto che la casa del Bernini, che era vicino a Sant’Andrea delle Fratte al centro di Roma, fu costruita con i materiali provenienti dai loro resti.

Le catacombe dei Santi Gordiano ed Epimaco

Una delle catacombe meno note di Roma sono quelle dei Santi Gordiano ed Epimaco, situate a via Latina 39, in corrispondenza dell’odierna via Talamone, vicino a Piazza Galeria : queste furono riscoperta, intorno al 1598, dal grande padre dell’archeologia cristiana, Antonio Bosio, autore di quello straordinario libro che è Roma Sotterranea.

Antonio, però, che dopo avere rischiato di lasciarci le penne durante l’esplorazione della catacomba di Domitilla, tanto da scrivere

Mancandoci i lumi, pensammo che ivi convenisse morire e con i nostri immondi cadaveri maculare quei sacri monumenti. Pigliammo dunque la risoluzione di ritornarcene indietro; et ancorché havessimo segnate in più luoghi le strade, contuttociò non senza grande difficoltà ci fu permesso di ritrovare l’adito.

si era fatto furbo, per cui, più di percorrere un centinaio di metri e di segnare la posizione, non fece. Basandosi sui suoi appunti, un altre grande archeologo cristiano,Marcantonio Boldetti, che era da una parte una sorta di Indiana Jones dell’epoca, dall’altra era un epico casinista, dopo secoli gli studiosi non sono ancora venuti a capo del disordine dei suoi manoscritti, le esplorò più a fondo, tanto da scrivere, nel suo libro più comprensibile al prossimo, Osservazioni sopra i Cimiterj de’ santi Martiri ed antichi cristiani di Roma,

Sotto la vigna de’Signori Eustachi, circa un miglio distante dalla Porta Latina, li estende questo Cimitero, ed il suo ingresso è nel Cellaio sotto la casa, ed è molto profondo: il suo giro, per quanto abbiamo veduto, è vastissimo e ai nostri tempi si sono estratte molte reliquie de’Santi Martiri trovate con i loro contrassegni. Si veggono in una Cappella alcune pitture sacre antichissime sformate dal tempo. Un altro ingresso al medesimo Cimitero si è scoperto sotto un canneto dirimpetto la medesima vigna; onde non v’ha dubbio che si stenda sotto le altre a mano destra.

La catacomba, intitolata ai due martiri qui deposti, al momento della sua “riscoperta” nel 1933 fu chiamata “catacomba dell’Acqua Mariana”, dal nome del vicino canale: viene citata così in un libro della mia biblioteca, risalente a quell’anno, come recente scoperta, a cui seguiva il brano

Sulla via Latina esistevano nell’antichità tre cimiteri sotterranei cristiani, dove erano venerate le tombe di numerosi martiri; e cioè il cimitero di S. Gordiano, con una chiesa cimiteriale, nella quale sotto l’altare riposava questo martire con S. Epimaco e dove in un santuario presso la chiesa erano venerate le tombe di S. Quarto e S. Quinto e, in una cripta sotterranea, il martire S. Trofimo; il cimitero di S, Tertullino, con una basilica cimiteriale; e il cimitero di Aproniano, con una chiesa dedicata a S. Eugenia, la quale aveva la sua sepoltura in una cappella della chiesa, e dove in altro santuario era venerata la tomba di S. Emiseo.

Di tutti questi cimiteri e delle loro basiliche nessuno ancora è stato ritrovato e identificato. Fu l’archeologo Enrico Josi, nel corso di una campagna di scavi organizzata durante la Seconda Guerra mondiale (1940 – 1941), ad identificarla con la catacomba di Gordiano ed Epimaco. Nel 1955, in occasione dello scavo per le fondazioni di un palazzo, fu ritrovato, ed in parte abbattuto, un cubicolo decorato con affreschi, che venne salvaguardato dalla distruzione totale per l’intervento di padre Antonio Ferrua, all’epoca direttore della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra.

Le fonti antiche, in particolare il Martirologio geronimiano alla data del 10 maggio, il giorno del mio compleanno, ricordano la sepoltura in questa catacomba sulla via Latina nei pressi delle mura Aureliane dei seguenti martiri: Gordiano, Epimaco, Quarto e Quinto; di questi ultimi non si alcuna notizia. Tra l’altro, per fortuna i miei non si ispirati a loro, per decidere il mio nome

La sepoltura dei quattro martiri nella catacomba è poi confermata dall’itinerario per pellegrini del VII secolo, la Notitia ecclesiarum urbis Romae, la quale menziona anche la presenza di un altro santo, Trofimo. Altri itinerari, oltre ai cinque già nominati, ricordano altri martiri sepolti: Sofia, Sulpicio e Serviliano. Le notizie su questi ultimi quattro martiri sono confuse e frammentarie. Gli itinerari altomedievali menzionano la presenza, nel sopraterra, di una basilica, dedicata ai santi Gordiano ed Epimaco, e di un mausoleo dedicato a Trofimo. Non esistono tracce archeologiche di questi monumenti.

Come sempre, le notizie su Gordiano ed Epimaco sono, come dire, molto romanzate…. Secondo una passio ampiamente leggendaria, Gordiano era vicario dell’imperatore Giuliano l’Apostata ed era un persecutore dei cristiani: fu convertito dal presbitero Gennaro, che gli era stato ordinato di interrogare, e fu battezzato insieme alla moglie Marina e a 53 suoi familiari. Venuto a conoscenza dell’episodio, Giuliano fece imprigionare Gordiano e lo fece decapitare: il suo corpo rimase insepolto per cinque giorni, fino a quando un servo riuscì a seppellirlo in un sepolcro al primo miglio della via Latina, accanto al corpo di Epimaco. La passio non fornisce altre notizie di Epimaco, che ancora Cesare Baronio identificava con il martire di Alessandria che patì sotto Decio e di cui tramanda la memoria Eusebio di Cesarea, che, imprigionato e torturato per essersi rifiutato di sacrificare all’imperatore, fu gettato in una fossa piena di calce viva

Senza dubbio, conosciamo molto parzialmente questa catacomba, dato che sembrerebbe essere una necropoli molto vasta, disposta su più livelli. La parte attualmente esplorata si sviluppa su due livelli ed in origine era composto da due nuclei distinti, risale alla seconda metà del IV secolo. A differenza della grandi catacombe dell’Appia antica, in cui erano seppelliti i membri dell’alta e media borghesia cristiana, quella di Gordiano ed Epimaco era destinata ai morti di fame: a riprova di questo, le gallerie si presentano intensamente sfruttate con loculi umili, chiusi da semplici tegole e più volte utilizzati.

L’unico cubicolo affrescato dell’intero complesso – il cosiddetto Cubicolo D – è quello scoperto nel 1955, che presenta una pianta quadrata con tre arcosoli. In una emivolta si osserva al centro Cristo seduto in trono tra gli apostoli Pietro e Paolo, mentre più lateralmente si dispongono due figure, probabilmente gli stessi martiri eponimi Gordiano ed Epimaco, che gli offrono la corona del martirio. Nell’altra emivolta, al centro Adamo ed Eva tentati dal serpente mentre a sinistra si distingue la Resurrezione di Lazzaro. Infine, nella lunetta dell’arcosolio che si apre sulla parete di destra è invece raffigurata Susanna al bagno tentata dai due vegliardi.

La nascita della Svizzera (Parte IV)

La Borgogna dell’Autunno del Medioevo, così ben descritta da Huizinga, aveva due grossi problemi politici. Il primo la non contiguità geografica dei suoi domini, suddivisi in due nuclei principali: una relativa al ducato ed alla contea di Borgogna, l’altra ai futuri Paesi Bassi spagnoli (l’odierno Benelux). Tra le due, la Champagne ed i ducati di Lorena e di Bar. Divisione che ne aumentava la fragilità, dinanzi ai suoi nemici.

Il secondo, il titolo ducale, che la poneva sempre in secondo piano rispetto al re di Francia, che in teoria, avrebbe potuto sempre cancellarlo, per fellonia. Carlo il Temerario cercò in tutti i modi di risolvere entrambi i problemi: Lo scopo della sua vita fu di collegare territorialmente i suoi domini e di ottenere un’investitura reale, ricreando l’antico regno di Lotaringia.

Il primo obiettivo di tale ambizione fu l’Alsazia: nel 1469 ne ottenne parte dall’imperatore Federico III, che l aveva dato in pegno ed in garanzia a Carlo il Temerario a causa di un prestito di cinquantamila fiorini e che non fu in grado di restituire. Una strategia analoga fu seguita nei confronti di Sigismondo d’Austria, che aveva accumulato debiti ingentissimi nei confrnti della Borgogna.

Non riuscendo a ripagarli fu costretto con il trattato di Saint-Omer (9 maggio 1469) a cedere a Carlo il Temerario la contea del Sundgau (Alsazia Meridionale) insieme ad altre città, riservandosi peraltro il diritto di riacquisto: Sigismondo affidò a Carlo in ipoteca il territorio che aveva dato in pegno ai confederati (gli Svizzeri) e cioè le città di Laufenburg, Rheinfelden, Säckingen e Breisach, il langraviato dell’Alta Alsazia e la contea di Ferrette in cambio di 50.000 fiorini e la protezione contro i suoi nemici (i confederati).

Tuttavia la politica di embargo di Carlo il Temerario contro le città di Basilea, Strasburgo e Mulhouse, diretta dal suo magistrato Peter von Hagenbach, spinse le predette città a rivolgersi a Berna per ricevere aiuto; Sigismondo cercò di raggiungere un accordo di pace con la confederazione svizzera, firmato a Constanza nel 1474: l’indipendenza dei cantoni svizzeri (appoggiati da Luigi XI di Francia perennemente schierato contro Carlo di Borgogna), fruttarono a Sigismondo una pensione annua offertagli dal re di Francia. A questo punto il duca d’Asburgo avrebbe voluto ricomprare i domini alsaziani da Carlo I, il quale però rifiutò.

Nel frattempo, Carlo il Temerario era impegnato in due partite politiche molto complicate: estendere il suo potere nella valle del Reno, cosa che lo portò a una serie di crisi e rappacificazioni con l’Impero e trasformare la Lorena in uno stato satellite. Approfittando della giovane età del nuovo duca, Renato II, lo incontrò a Treviri e firmò un trattato in base al quale entrambi si impegnavano a non allearsi con Luigi XI secondo un’intesa che potesse nuocere alla controparte. In più, Renato II concesse a Carlo I il libero passaggio nei suoi possedimenti ed autorizzò l’acquartieramento di guarnigioni borgognone a Charmes, Darney, Épinal, Neufchâteau e Prény. Bisogna dire che Renato II non aveva molta scelta, poiché non poteva contare sull’aiuto di Luigi XI, il quale aveva appena firmato una tregua con Carlo I.

Questa situazione non era però molto gradita a Renato II, che si mise allora in contatto con gli avversari del duca di Borgogna: Luigi XI, gli svizzeri della Confederazione degli Otto Cantoni, minacciati dai progetti di espansione di Carlo I, le città dell’Alta Alsazia, che subivano gli abusi dell’amministrazione borgognona.

Luigi XI firmò parecchi trattati: con gli svizzeri (ottobre 1474), con Federico III (dicembre 1474), con Edoardo IV di Inghilterra (Trattato di Picquigny, 29 agosto 1475), che isolarono Carlo il Temerario. Nel frattempo, gli svizzeri dichiarò guerra a Carlo il Temerario. l giorno 8 novembre 1474 cinsero d’assedio la città di Héricourt. Carlo I, impegnato a combattere contro gli imperiali, non poté intervenire subito. Gli attaccanti, dopo aver bombardato intensamente la città, provocarono una breccia nelle mura e gli assediati, mal approvvigionati e vista la piega degli avvenimenti, decisero di arrendersi. Héricourt fu espugnata il 12 novembre 1474.

Nel frattempo il conte Enrico di Neuchâtel-Blamont, maresciallo del duca di Borgogna, si diresse in soccorso degli assediati. Egli era appoggiato dalle truppe di Giacomo di Savoia, conte di Romont e governatore di Borgogna (in totale circa 6800 uomini). Il conte di Romont aveva arruolato anche circa 5.000 mercenari lombardi, ch’egli aveava incitato a venire a ricongiungersi alle sue forze.Gli svizzeri individuarono la loro avanzata il 13 novembre, levarono il campo ed attaccarono. I mercenari italiani, affaticati dalle marce forzate attraverso le Alpi ed il Giura, fuggirono quasi subito. Le milizie della Franca Contea si ritrovarono quindi da sole contro 18.000 soldati nemici e furono mette in rotta.

L’avvicinarsi dell’inverno pose fine alla campagna militare in Alta Alsazia, ma nell’aprile 1475 i confederati, città di Berna in testa, lanciarono alcuni corpi franchi nei Paesi del Vaud. Le bande armate devastarono le campagne, massacrarono e violentarono, saccheggiarono e taglieggiarono. Non potendo Giacomo di Savoia venire in soccorso del suo territorio, queste “bande svizzere” fecero in fretta a conquistare la zona, impadronendosi di Grandson, Orbe, Montagny e di Echallens. Morat si unì alle collegate Berna-Friburgo. Vi furono massacri a Nyon, a Clées, a Jougne. Furono occupate La Sarraz e Cossonay. Ginevra e Losanna, sedi episcopali, furono pesantemente saccheggiate. Ad est le truppe bernesi misero le mani su Aigle e su una parte del Chiablese. In tutto furono sedici le città e quarantatré i castelli i cui abitanti, che non erano periti nei massacri, prestarono giuramento ai loro nuovi padroni.

In effetti il Paese di Vaud era un luogo strategico sia dal punto di vista commerciale che militare, porta aperta sui colli alpini e via di transito per il Mediterraneo e per l’Italia. I Bernesi volevano in questo modo fermare il transito dei mercenari italiani che attraversavano le Alpi per raggiungere le truppe di Carlo il Temerario.

Il 14 ottobre 1475 Berna, con futili pretesti (i bernesi si lamentavano dell’ostilità dichiarata delle popolazioni del Vaud che erano state da loro massacrate e taglieggiate), dichiarò guerra a Giacomo di Savoia. Le loro truppe invasero nuovamente il Paese del Vaud e massacrarono le guarnigioni che opponevano resistenza. Sapendo di non poter ottenere alcun soccorso, le altre città del Vaud capitolavano prima di venir attaccate.

Vista la situazione e forte di queste alleanze, Renato II lanciò la sua sfida allo scomodo vicino il 9 maggio 1475. Carlo cominciò col firmare una nuova tregua con Luigi XI, poi in autunno invase la Lorena. Tosto conquistò Charmes, poi Epinal ed infine Nancy il 24 novembre 1475, dopo un mese di assedio. Prudenti, gli stati della Lorena si ricongiunsero al vincitore e Carlo I si proclamò duca di Lorena. In data 11 gennaio 1476, Carlo decise di chiudere la partita, invadendo la Svizzera; a trarne vantaggio fu proprio Giacomo di Savoia, che visto il fuggi fuggi confederale dinanzi all’arrivo delle truppe borgognone, riuscì a recuperare quanto perduto…

Atene contro Siracusa (Parte XVII)

Ovviamente, Eufemo, l’ambasciatore ateniese dovette ribattere punto per punto i ragionamenti di Ermocrate: nel farlo, però, lui, o meglio Tucidide, evidenziò le contraddizione in cui si dibatteva l’imperialismo ateniese, tra la il realismo, quasi alla Kissinger, che motivava le sue azioni e la rappresentazione che voleva dare di sè

Ermocrate espresse, in sostanza, queste ragioni. Si fece avanti, dopo di lui, Eufemo, ambasciatore ateniese, e disse:

Il primo argomento, proprio a evidenziare la differenza tra noi e gli antichi, è proprio sul concetto di ethnos, sulla differenza di natura tra Dori e Ioni. Non è vero, come dice Ermocrate, che quest’ultimi siano schiavi di natura: il loro sottomettersi alla Persia, è stata una libera e consapevole scelta, figlia della contingenza di rapporti di forza.

Al contrario, sono i Dori ad essere tiranni per natura; Atene ha costruito il suo dominio non per volontà di potenza, ma come strumento di difesa dall’imperialismo del Peloponneso… Di fatto, riappare per l’ennesima volta quella che, per lo storico, è la causa prima della politica degli stati: la paura.

Atene ha creato l’impero per paura di essere dominata prima dalla Persia, poi da Sparta; quest’ultima invece ha scatenato la guerra contro Atene, per paura che la polis attica, alterando gli equilibri di potere della Grecia, mettesse in pericolo le basi del suo potere.

Siamo venuti a rinnovare la precedente alleanza: ma, di fronte agli attacchi a fondo del rappresentante siracusano, riteniamo indispensabile partire da qualche riflessione sul nostro dominio: in particolare, sui diritti che ce ne garantiscono la legittimità. A questo proposito, ci fornisce un attestato risolutivo quella parola d’Ermocrate stesso: l’accenno all’ostilità eterna che oppone gli Ioni ai Dori. Lo stato dei rapporti è proprio questo. Poiché noi, di discendenza ionica, da sempre abbiamo tentato ogni via per interporre tra noi e l’autorità dei Peloponnesi, di ceppo dorico, nostri confinanti e sempre soverchianti di numero, un distacco via via più netto.

Per tale scopo, allestita dopo il duello con la Persia una flotta, ci siamo sottratti all’egemonia imperialistica di Sparta, poiché dall’equilibrio di forze non risultava necessario che noi sottostassimo ai loro comandi, più di quanto loro fossero tenuti ad osservare i nostri, salvo in misura limitata a quel breve margine di vantaggio di cui, in quell’epoca particolare, la loro compagine bellica poteva disporre. Quindi ci siamo stabiliti noi alla testa di quelle nazioni, suddite un tempo del Gran Re, stimando di poterci staccare con più comodo dalla stretta del Peloponneso, se ci premunivamo, con questa mossa, di risorse difensive potenti.

Per esser precisi, l’imposizione della nostra sovranità agli Ioni e alle genti dell’arcipelago non fu un attentato ai diritti umani, benché i Siracusani protestino al vostro cospetto che noi, sordi ai richiami del sangue, li abbiamo tenuti in soggezione. Poiché quelle genti a fianco della Persia assalirono noi, loro metropoli; e non bastò loro l’animo, come a noi che lasciammo la nostra città, di esporre alla distruzione, con la rivolta, ogni proprio bene. Scelsero di conservarsi perenne la umiliazione della schiavitù, anzi di coinvolgervi anche la nostra città.

Motivi seri per reclamare, a doppio titolo, il diritto all’impero: da una parte, poiché fornimmo ai Greci il nerbo più agguerrito di forze marittime e uno slancio sciolto da esitazioni e pretesti, mentre coloro, prodigandosi con pari impeto, ma a favore della Persia, ci avevano messo in difficoltà. D’altra parte noi miriamo al traguardo di una opposizione energica nei confronti del Peloponneso.

Non ci gioviamo di commemorazioni eloquenti per giustificare il nostro ruolo di dominatori: che cioè isolati abbiamo infranto la prepotenza barbara, o che siamo corsi a quel rischio più per proteggere l’indipendenza delle nazioni ioniche che quella di noi stessi e dell’intera Grecia. Si può criticare qualcuno se s’ingegna per apprestare all’incolumità propria un fidato riparo? Anche ora, preoccupandoci della nostra sicurezza, ci presentiamo in questo paese e ci rendiamo conto che i nostri interessi collimano con i vostri.

Siamo qui a confermarvelo, prendendo a spunto quella politica che suscita così vivo sdegno nei Siracusani qui presenti e in cui a voi pare di intravedere chissà quali sinistri intrighi. Noi sappiamo che può molto, su quelli in cui l’apprensione moltiplica i sospetti, la suggestione
gradevole di una dialettica appropriata alle circostanze; ma in seguito, quando scocca l’ora d’agire, è sempre il proprio utile l’elemento direttivo della condotta pratica. Ora, abbiamo asserito che la nostra egemonia in Grecia è una misura preventiva. Per l’identico fine ci
rechiamo qui, per imporre, fiancheggiati da forze amiche, uno stato di sicurezza politica e militare dai benefici effetti per il nostro paese.

Il passo successivo è un’esaltazione della Real Politik: non esiste un’etica superiore, un fato, una legge divina che guida le relazioni tra stati. Queste costituiscono un sistema caotico dominato da una pluralità di centri di potere, gli stati, ciascuno dei quali detta le leggi a se stesso senza riceverne da altri, dato che non vi è tra di essi un potere che eserciti un ruolo di governo superiore alle parti. Per questo, nonostante sia sempre possibile stipulare tra gli stati alleanze in funzione degli interessi di volta in volta prevalenti, non esiste alcuna possibilità di uscire dalla logica del reciproco antagonismo, destinato a sua volta a fomentare una condizione di cronica instabilità.

L’interesse generale di Atene è in generale, legato alla creazione e al mantenimento di una flotta, che funge da strumento di dissuasione nei confronti dei potenziali nemici: per questo, alcuni alleati possono collaborare fornendo navi, altri invece, pagando tributi. In funzione della loro capacità di supportare la flotta, i presunti alleati godono di maggiore o minore autonomia.

Flotta che per svolgere tale compito, deve stazionare nell’Egeo: una campagna prolungata fuori da questo, ne indebolirebbe il deterrente e non sarebbe sostenibile in termini di costi. Per questo, fa intuire Eufemo, Atene non ha ambizioni territoriali nei confronti della Sicilia: sarebbe contrario ai sui interessi concreti.

L’utile di Atene, è invece avere delle teste di ponte sull’isola e una rete di alleanze, al fine di costituire un cordone sanitario attorno a Siracusa e impedire che possa mandare aiuti a Sparta: una posizione ben diversa da quella di Alcibiade e forse molto simile a quella di Nicia. L’utile di Siracusa, invece, è trasformarsi nella potenza dominante della Sicilia, sottomettendo tutte le altre polis.

L’utile di Camarina è mantenere la propria indipendenza: questo coincide con quello di Atene, per cui è razionale che la polis siciliana si allei con questa, piuttosto che con Siracusa.

Nessun intento di far schiava la Sicilia: di preservar noi, piuttosto, con la forza, da un così tristo destino. Nessuno voglia obiettare che la nostra sollecitudine per voi non sia legittimata da affinità d’interessi. Si pensi che se la vostra salvezza è garantita, e l’integrità della vostra potenza giunge a contrastare il passo a Siracusa, costringendola a rinunciare all’invio di contingenti armati nel Peloponneso, noi ne trarremo un notevole sollievo. Ed è già un motivo perché voi diventiate un affare d’importanza capitale per il nostro paese. Per una ragione identica, di coerenza politica, siamo in obbligo di rimpatriare quelli di Leontini, non per renderli sudditi, come i loro confratelli d’Eubea, ma per aumentarne il peso militare, al fine di poterne disporre, quasi fossero una nostra base offensiva avanzata – si trovano alla frontiera con Siracusa – per puntare in profondità contro i Siracusani.

In Grecia per tener testa ai nostri avversari, sono sufficienti anche le nostre sole forze. Calcide, la cui sudditanza, come rileva Ermocrate, sarebbe una vivente smentita ai nostri proclami di libertà per le genti di questo paese, ci offre miglior guadagno così, priva d’armi, con il suo tributo. In Sicilia, invece, è vitale che i Leontinesi e gli altri alleati conservino e potenzino la propria indipendenza Per chiunque esercita un potere egemonico – persona o stato – non deve esistere logica diversa da quella dell’utile: nessun legame d’affinità ha senso se non vi corrispondono sicurezza e fiducia.

L’ostilità e l’amicizia obbediscono alla politica: ed i rapporti esterni si colorano dell’una o dell’altra a seconda dell’occorrenza. E ora, in questi luoghi il nostro interesse esige: nessun attentato alla sicurezza degli amici, massimo impegno per garantire agli alleati potenza
sufficiente a paralizzare i nemici. In questo caso la diffidenza che voi nutrite è assurda. In Grecia la nostra egemonia poggia su questa base: esaltare le facoltà peculiari di ogni singolo alleato e distribuire in conformità gli impegni, per ricavarne l’utile migliore. Chio e Metimna, ad esempio, grandi fornitrici di navi, restano indipendenti: ma il resto, in maggioranza, ha vincoli più stretti e contribuisce in valuta. Altri devono la loro libertà incondizionata – sebbene abitino le isole e siano quindi facili da sottomettere – alla circostanza che costituiscono punti d’importanza strategica intorno al Peloponneso.

Risulta quindi normale che noi qui intendiamo regolare le condizioni di ognuno secondo il nostro vantaggio, badando, lo ripetiamo, a tener d’occhio soprattutto Siracusa. Poiché essa brama di dominarvi e vuol stringervi in una lega, sollevando sospetti nei nostri confronti, per stabilire – quando gli eventi bellici o l’isolamento avrà provocato il nostro ritiro a mani vuote dalla Sicilia – il proprio dominio assoluto su questo paese. Esito inevitabile, se fate blocco con Siracusa: poiché ci verrà meno l’animo e il vigore per piegare un simile compatto fronte di potenze ostili, mentre Siracusa, quando noi mancheremo, disporrà sempre di forze bastevoli per volgersi contro di voi.

La realtà s’incarica di smantellare le obiezioni degli increduli. Non ci invocaste la prima volta sbandierandoci innanzi proprio questa eventualità tremenda, che permettendo a Siracusa di sottomettervi, presto saremmo stati noi stessi esposti alla medesima minaccia? Quindi non è giustificato il sospetto vostro per quello stesso argomento di cui voi stessi vi siete avvalsi, pretendendo la nostra adesione: né è fondata la diffidenza che nasce dalla vastità del nostro apparecchio bellico, eccessivo, secondo voi, rispetto alla potenza dei Siracusani. A costoro piuttosto s’indirizzi la vostra sfiducia.

Almeno noi, se rifiutate l’appoggio, non potremo nemmeno sostare su quest’isola, e se pure con astuzie perfide la piegassimo al nostro volere, come saremmo in grado di mantenere il possesso a tanta distanza marina dalle nostre basi, paralizzati dall’impossibilità pratica di arginare via via le reazioni di città popolose e vaste, dotate di risorse terrestri?

Per contro i Siracusani che si trovano appena al di là delle vostre frontiere, non con un campo militare, ma da una base che è addirittura una città più poderosa dell’armata che abbiamo recato con noi approdando, non solo vi tendono agguati di ora in ora, ma quando intravedono, nella compagine di uno stato, il varco favorevole non allentano più la loro pressione (ne è esempio fin troppo chiaro la loro politica con Leontini). E ora hanno l’impudenza di correre a voi, stimandovi evidentemente idioti, contro la gente che si propone di sbarrare il passo a così alte ambizioni e che fino ad oggi s’è prodigata per sottrarre la Sicilia alla loro frenesia d’espansione.

A nostra volta, bandiamo a voi un proclama, ma questo di sicurezza autentica: invitandovi a non tradire quella garanzia che consiste nella disposizione a prestarsi, all’evenienza vicendevole soccorso. Considerate che Siracusa anche isolata dalle forze alleate, può sempre contare su mezzi bastevoli a tagliarsi la strada fino a voi, tra le vostre difese; e un appoggio così fermo e agguerrito come il nostro non sarà poi tanto di frequente a portata di mano. Se indulgendo ai vostri sospetti lascerete che la presente armata si ritiri, senza un risultato positivo, o addirittura distrutta, potreste un tempo, in avvenire, ridurvi al desiderio cocente di auspicarne in arrivo fors’anche la millesima parte, quando però la sua comparsa non potrà più servirvi in nulla.

Né voi di Camarina, né gli altri, dovete dar peso alle insinuazioni calunniose di costoro: per questo vi abbiamo rivelata intera la verità sui fatti che destano in voi il dubbio sulla nostra rettitudine e, nell’intento di convincervi, ne richiamiamo alla memoria i capi essenziali. Vi ripetiamo che la nostra signoria sulla Grecia è il baluardo eretto a protezione della nostra autonomia da ingerenze straniere; che il nostro sforzo di liberazione in Sicilia ci pone in salvo dai colpi nemici; che l’intervento su molteplici fronti risponde all’urgente bisogno di protezione costante che in molte zone del mondo siamo spinti a soddisfare; che da alleati, da benefattori degli oppressi, ora come nelle occasioni precedenti, siamo qui giunti a
raddrizzare le ingiustizie, non senza invito, ma insistentemente richiesti.

La frase seguente evidenzia una questione su cui Tucidide, per ragioni filosofiche e narrative, ha glissato: come affrontato nello scorso post, probabilmente ci furono trattative, proprio mediate da Camarina, tra gli ateniesi ed Ermocrate, che probabilmente fallirono….

Quanto a voi, non provatevi, intromettendovi come arbitri o moderatori (tentativo ormai arduo badate) della nostra politica, a sviare le linee d’azione da noi tracciate: si scrutino piuttosto, e si pongano a frutto, quando coincidono con il vostro profitto, le imprese di quella multiforme solerzia che rappresenta l’espressione più genuina del nostro ingegno ateniese.

Il problema della Real Politik propugnata da Eufemo è proprio nella sua transitorietà: oggi l’utile di Atene e di Camarina coincidono, ma in futuro ? Se cambiasse, per un motivo qualsiasi l’interesse ateniese, come le impedirebbe di mettersi contro la polis siciliana, tradendo i patti ? Per rassicurare l’alleato, l’ambasciatore, dovette rimangiarsi tutto, ricorrendo all’artificio retorico, assai poco convincente e trito e ritrito, degli ateniesi difensori dei più deboli e della loro libertà…

Considerate che le nostre iniziative son ben lontane dal recar danno a tutti indistintamente: è più il numero, anzi, di stati Greci che ne traggono vantaggio. Poiché in ogni luogo del mondo, anche dove non presidiamo tutti, sia chi si sente minacciato da una ingiustizia, come chi trama un’offesa, si vedono necessariamente nell’obbligo costui di ritirare la mano benché di malanimo, dal colpo, l’altro nella possibilità d’uscire, senza eccessive noie da quel suo incaglio; in entrambi infatti ferve un sentimento d’attesa: questo di trovare in noi un ricovero all’imminente pericolo, il secondo di non dover rispondere appena a viso a viso con noi, da una posizione di aperto rischio, del suo criminale tentativo. Non scartate questo strumento di sicurezza, che vi è dato condividere con chiunque ne faccia richiesta, quand’esso è qui che vi si porge: modellate sugli altri la vostra politica futura, e deponendo questa antiquata mentalità di difesa passiva contro Siracusa, unitevi finalmente a noi nella lotta, e risolvetevi a replicare, ad armi uguali, ai suoi intrighi e ai suoi attacchi

Marcello entra a Siracusa

Come detto, all’inizio della primavere del 212 a.C., Marcello era in difficoltà: i cartaginese, dal loro quartier generale di Akragas, spadroneggiavano in lungo e largo per la Sicilia. A peggiorare le cose, non solo Siracusa sembrava imprendibile, ma le legioni romane stavano patendo la fame. Per cui, visto che non la forza non si tirava fuori il ragno dal buco, tento di agire con l’intrigo, tentando di organizzare un colpo di stato con i capi del partito filo romano.

Questo avrebbero eliminato Ippocrate ed Epicide, aperto le porte ai romani e in cambio, la città avrebbe evitato il saccheggio e mantenuto una parvenza di indipendenza: il problema è che un certo Attalo fece il doppio gioco, denunciando i congiurati, che furono catturati e uccisi. Mentre alla notizia del fallimento del piano, Marcello era impegnato a smadonnare contro Giove e il Fato avverso, ebbe finalmente un colpo di fortuna.

Filippo V di Macedonia, sia perché con molta lungimiranza, aveva capito il pericolo che poteva costituire Roma, sia perchè voleva recuperare il controllo delle coste balcaniche dell’Adriatico, sia perché, approfittando di un eventuale crisi dell’Urbe, aveva intenzione di inglobare nei suoi domini le città della Magna Grecia, aveva tentato di sbarcare nel 216 in Italia, impresa fallita in modo fantozziano. Ora nonostante avesse perso il controllo di Apollonia, necessario per replicare l’impresa, e avesse diversi problemi in Grecia, dovuti alla diplomazia romana, era probabile che non fosse sordo a una richiesta d’aiuto da parte di Siracusa.

Per cui, Epicide provò a mandare a Pella l’ambasciatore Damippo, che però cadde prigioniero dei romani; così i cittadini di Siracusa avviarono una trattativa per liberarlo. L’incontro avvenne a metà strada, nei pressi dell’insenatura Trogilo vicino alla torre chiamata Galeagra, presso l’odierno quartiere di Santa Panagia.

In questa occasione, un soldato romano contò le file di mattoni. La torre era costruita con pietre ben squadrate, tanto da risultare estremamente facile calcolare la distanza tra i merli da terra. Suggerì pertanto al comandante romano di scalare quelle mura con delle scale di medie dimensioni, quando i Siracusani si fossero distratti. E l’occasione venne loro incontro, poiché un traditore siracusano li avvisò che la polis stava festeggiando da tre giorni una ricorrenza in onore della divinità Artemide-Diana e che, se da un lato usavano poco cibo poiché scarseggiava, dall’altro bevevano vino in abbondanza. Fu così che Marco Claudio Marcello, venuto a conoscenza della preziosa informazione, e ricordatosi del punto delle mura che risultava più basso, pensando che gli uomini si sarebbero ubriacati, decise di tentare la sorte.

Per cui, dopo avere costruito le scale adatte, Marcello selezionò una sorta di commando, la sua sporca dozzina, costituita da un paio di tribuni, qualche centurione esperto, me li immagino tipo sergente Hartmann, e un gruppo scelto di legionari, tra cui quello che si era accorto della possibilità di scalare le mura.

Scelse quindi altri uomini che avrebbero assistito i primi, appoggiando le scale, senza anticipare a questi ultimi del piano, ma annunciando semplicemente di tenersi pronti. Scelta un’ora opportuna della notte, svegliò gli uomini preposti all’attacco; dopo aver inviato i portatori di scale, sotto la scorta di un tribuno e di un manipolo di legionari, fece svegliare tutto l’esercito e cominciò ad inviare i primi manipoli, uno alla volta, ad intervalli regolari per evitare che ci fosse confusione durante la scalata.

Raggiunto il numero di mille legionari sotto le mura nei pressi della porta dell’Expilon, seguì egli stesso con il resto dell’esercito.Una volta che i portatori di scale l’ebbero appoggiate al muro senza essere visti, il primo gruppo d’assalto diede rapidamente la scalata. Una volta poi che questi si trovarono in cima alle mura, tutti gli altri cominciarono a correre su per le scale, ormai senza più un grande ordine. Inizialmente percorsero le mura senza trovarvi le sentinelle, in quanto a causa della festa, gli uomini si trovavano riuniti all’interno delle torri a festeggiare, alcuni ubriachi, altri addormentati.

Fu così che i legionari romani, senza fare rumore, dapprima piombarono sugli uomini della prima torre e poi delle altre vicine, uccidendo la maggior parte degli armati siracusani e senza che nessuno avesse dato l’allarme. Quando poi furono nei pressi dell’Exapilon, scesero le mura dall’interno, abbatterono la prima postierla e da questa fecero entrare il comandante Marcello con il resto dell’esercito. Come i Romani giunsero all’Epipole, luogo pieno di sentinelle, essi cercarono di spaventarle, anche perché era un luogo strategico per il controllo della città.

Come raccontava Tucidide

La località intorno, infatti, è tutta un rilevarsi di colline, digradanti a balze fino alla città, da cui si gode, su ogni piega del terreno, una visibilità perfetta: e il nome imposto dai Siracusani all’altura, Epipole appunto, si deve al fatto che sovrasta lo spazio circostante

Le guardie, però, invece di resistere assalto romano, appena udirono i suoni delle loro trombe, si diedero alla grande, al grido di chi si salvi chi può. All’alba, forzato l’Exapilon, Marcello, entrato in città con tutto l’esercito, spinse ciascuno a prendere le armi e portare aiuto alla città ormai occupata. Epicide, che era ad Ortigia, tentò di organizzare la controffensiva, ma travandosi davanti un caos inaudito, con chi scappava da una parte, chi dall’altra, decise di barricarsi all’Acradina.

Racconta Livio che Marcello, ma è un topos tipico della storiografia antica

come vide davanti ai suoi occhi la città, che a quel tempo era forse fra tutte la più bella, abbia pianto in parte per la gioia di aver condotto a termine un’impresa così grande, in parte per l’antica gloria della città

Tra l’alto Marcello, vista la presenza del consistente partito filo romano, da una parte, dovette limitare i saccheggi da parte dei legionari, cosa che provocò parecchi malumori, visto che non ricevevano la paga da mesi, dall’altra cerco di coinvolgere i collaborazioni, affinché convincessero gli altri cittadini della polis ad arrendersi senza combattere, in modo da affrettare e semplificare la conquista…

Borgo Vecchio

Non so le diano ancora in televisione, la vedo sempre di meno, ma la Palermo di Mery per sempre, così pumblea, uggiosa e allucinata, sembra così diversa dalla città solare e caotica che spesso mi capita di vivere: in realtà sono due facce di una stessa medaglia.

Gli stessi luoghi, a seconda delle ore del giorno, delle stagioni o degli stati d’animo di chi li vive, possono appartenere alla chiassosa Balarm, con le sue medine e i suoi suk, e a Zyz, malinconica come un sogno perduto. Questa coesistenza di città invisibili, che avrebbe fatto impazzire Italo Calvino, raggiunge il suo culmine in un quartiere, che, pur essendo centrale, è lontano dai soliti circuiti turistici: si tratta di Borgo Vecchio, che si estende dal Porto al Politeama.

Questo lo rende una sorta di frontiera, tra due mondi differenti: quello della città alto borghese e liberty, sopravvissuta a fatica al sacco degli anni Sessanta e il porto, in cui si incrociano storie e culture, dove tira avanti l’umanità più varia e dove il concetto di legalità, forse non è labile, ma di certo declinato con creatività in mille modi differenti.

Borgo Vecchio nasce nel 1556, in seguito alla costruzione del nuovo porto e all’acquisto della tonnara di S.Giorgio da parte del Senato di Palermo. Divenne sede abitativa di pescatori e marinai, che si spostarono dai rioni Kalsa e La Loggia.

In origine il Borgo si estendeva in quell’area compresa fra la porta S. Giorgio e la chiesa S. Lucia. L’esponenziale crescita del quartiere fu dovuta all’immigrazione di artigiani e commercianti che, dalle altre zone d’Italia, vennero a stabilirsi al Borgo, sospinti dalle promesse di sviluppo che la recente costruzione del nuovo porto aveva già infuso ai cittadini palermitani.

Il centro spirituale di questa realtà composita era la confraternita di Sant’Anna fondata dai pescatori e mastri bottai nel 1555. Ancora oggi, gli abitanti di Borgo Vecchio sono devoti a Matri Anna, la cui festa si celebra la domenica successiva al 26 luglio, con una solenne processione che si reca sino dentro il porto di Palermo, accolta dal suono delle navi, dove con l’ausilio di una navetta della Capitaneria, viene gettata in mare una corona di fiori, in memoria dei marinai morti in mare. La Santa Patrona viene condotta in tutte le strade e vicoli del quartiere, girandola e fermandola per qualche tempo anche sotto i balconi degli ammalati. Come le altre processioni del quartiere, la Santa viene portata al carcere Ucciardone di Palermo per un momento di preghiera.

Borgo vecchio è di certo un quartiere con tanti problemi, che ogni tanto appare negli articoli di cronaca nera, le contraddizioni sono ancora più accentuate dalla recente gentrificazione, però è anche sede di grandi esperienze sociali: ad esempio, è uno dei cuori pulsanti della street art palermitana, che non è calata dall’alto, ma frutto di un progetto partecipato, al“Borgo Vecchio Factory”, proposto dall’organizzazione no profit “Push”, che prevede la realizzazione di cicli semestrali di laboratori di pittura creativa per 20 bambini del quartiere.

I disegni e i dipinti prodotti durante i laboratori sono stati utilizzati poi come bozzetti per dei murales realizzati a più mani sui prospetti delle case del quartiere, coinvolgendo i principali street artisti italiani. L’altro è ovviamente il Mercato, meno noto degli altri presenti a Palermo, che occupa una zona che insiste sulle vie Scinà, Principe di Scordia, Ximenes e piazzetta Nascè. Al suo interno, sono posizionati anche esercizi commerciali e aziende artigianali tradizionali, quali lavoratori del legno e del ferro, mentre ai margini di piazzetta Nascè troviamo officine meccaniche.

Anche qui domina il cibo da strada, caponate, verdure cotte d’ogni tipo, insomma, il Mercato è una sorta di paradiso per i vegetariani e quando è stagione, i babbaluci, le lumache estive, piccole e bianche che si raccolgono in campagna fra le “restucce” (la rimanenza del grano raccolto), fra i rami rinsecchiti o sugli steli dei cardi. In Calabria, da bambino, ne raccoglievo chili sulla massicciata della ferrovia che univa Salerno a Reggio Calabria: era una sorta di gara o di gioco.

Lumachine che si cucinano con aglio e prezzemolo, che si mangiano con lo stuzzicadenti, per tirare fuori il mollusco dal guscio, oppure come fanno i palermitani, cu scrùsciu, succhiandole assieme al condimento che le accompagna. Sull’origine del loro nome, ci sono due ipotesi: una la fa derivare dal termine greco boubalàkion o dall’arabo babush, termini che significano entrambi lumaca. Babbaluci che hanno ispirato tanti proverbi come

babbaluci a sucari e fimmini a vasari nun ponnu mai saziari

ossia

lumache da mangiare e donne da baciare non saziano mai!

o

cu mancia babaluci e vivi acqua , sunati li campani picchì è mortu

che suggerisce come il modo migliore di accompagnare questo piatto sia un buon bicchiere di vino e una famosa canzone popolare, che così comincia

Vidi chi dannu ca fannu i babbaluci
ca cu li corna spingiunu balati,
su unn‘era lestu a jittarici na vuci
vidi chi dannu ca facianu i babbaluci.