Come sempre, Marcello si era mostrato troppo ottimista: non aveva tenuto conto ad esempio di come le porte e le mura dell’Acradina fossero presidiate da disertori romani e italici, i quali, non avendo speranza in caso di resa, combattevano con le unghie e con i denti. Per cui, per semplificarsi la vita, il generale romano cambiò programmi, concentrando i suoi sforzi su Castello Eurialo.
Voluto da Dionisio I, tiranno di Siracusa, sorge sul punto più alto (120 m s.l.m.) della terrazza del quartiere Epipoli a circa 7 km da Siracusa, in direzione della frazione di Belvedere. Questa imponente opera militare fu costruita tra il 402 e il 397 a.C. con lo scopo di proteggere la città da eventuali operazioni militari di assedio o attacco. Subì diverse modifiche anche a causa delle nuove tecniche di guerra come quella dell’assedio introdotta da Demetrio I Poliorcete nell’assedio di Rodi del 305 a.C.
Il Castello Eurialo era stato affidato da Epicide a un certo Filodemo. A quest’ultimo era stato inviato da Marcello uno degli assassini del tiranno Geronimo di Siracusa, un certo Soside, per trattare la resa di questa parte della città. Filodemo però cercava di rimandare la decisione di giorno in giorno, sia perché poco si fidava dei romani, sia perché sperava in una spedizione di soccorso cartagine, eventualità che non faceva dormire la notte a Marcello: se si fosse verificata, le legioni, prigionieri delle mura siracusane, avrebbero fatto la fine del sorcio.
Allora il proconsole romano, vedendo che non poteva impadronirsi dell’Eurialo né con l’assalto né con la resa, pose gli accampamenti tra i quartieri di Neapolis e della Tycha: per tenere buoni i suoi soldati, che avevano parecchio mesi di paga in arretrato e al contempo evitare stragi, sempre per indispettire il partito filo romano, dovette inventarsi una sorta di compromesso. Per usare un linguaggio moderno, impose una sorta di pizzo mafiosa ai cittadini dei due quartieri, utilizzato per pagare gli arretrati ai legionari. Così furono evitati sia il saccheggio, sia l’ammutinamento.
Dato che l’attenzione di Marcello era diretto a Castello Eurialo, Bomilcare colse l’occasione di quella notte, in cui la flotta romana non riusciva a stare all’ancora a causa di una violenta tempesta, e partì con 35 navi dal porto di Siracusa, facendo vela per il mare aperto e violando il blocco navale. Lasciò ad Epicide e ai Siracusani solo 55 navi. Una volta che i Cartaginesi vennero a conoscenza delle condizioni in cui si trovava la città greca, il che mostra come una certa vulgata, che gira spesso anche su Facebook, sul disinteresse dei politici punici sull’andamento della guerra sia frutto o di ignoranza o di malafede, permisero a Bomilcare di far ritorno a Siracusa con 100 navi; ed il comandante cartaginese fu ricompensato da Epicide con molti doni tratti dal tesoro di Gerone.
La situazione di Marcello, che era ritornato ad assediare l’Acradina, era certo migliorata, non rischiando più, dopo la resa di Castello Eurialo, di essere preso tra due fuochi: però, con l’arrivo dei rinforzi punici e con con il tentativo siracusano di riprendere il controllo della polis, i romani passarono un brutto quarto d’ora.
Ippocrate, infatti, dopo aver posto gli accampamenti presso il porto grande, diede il segnale di attacco anche alle truppe siracusane poste a difesa dell’Acradina. Lanciò quindi la sua armata contro gli accampamenti romani presidiati da Tito Quinzio Peno Capitolino Crispino, mentre Epicide si occupava di assaltare i posti di guardia di Marcello. Frattanto la flotta cartaginese approdava sulla spiaggia posta tra gli accampamenti romani e la città, per impedire che Marcello potesse inviare aiuti a Crispino. Per fortuna dei romani, dopo lo scompiglio iniziale generato dall’attacco a sorpresa, Crispino non solo riuscì a respingere Ippocrate, ma lo inseguì fin nelle sue postazioni fortificate. Marcello, intanto, riuscì a cacciare Epicide dentro la città… Certo, se ci fosse stato Annibale, le cose sarebbero andate diversamente.
A peggiorare la situazione, dopo questa battaglia giunse una terribile pestilenza che colpì tutti, distogliendo entrambe le parti dal formulare nuovi piani di guerra. Infatti in autunno, la natura dei luoghi per natura malsani e la violenza intollerabile del caldo provocarono dei grossi problemi di salute per Romani e Siracusani. La disperazione per la situazione portò alcuni a preferire di morire col ferro delle spade, piuttosto che di malattia, tanto da indurli a compiere attacchi disperati e isolati alle postazioni nemiche, trasformando la polis siciliana in una versione antica della Beirut degli anni Ottanta.
A fare la differenza fu la migliore organizzazione sanitaria dei romani, che poi perfezionerà Augusto. Nelle legioni, infatti, era inquadrato, uno specifico staff medico. Responsabile generale dello staff medico e dei servizi relativi di una legione, era il praefectus castrorum. Sotto quest’ultimo c’era poi l’optio valetudinarii, o direttore dell’ospedale militare, che responsabile amministrativo e gestiva la cassa e una sorta di Primario militare, chiamato semplicemente Medicus, il cui grado era, per importanza, equiparato a quello del tribunus militum.
A capo dell’infermeria di ciascun accampamento c’era poi il “medicus castrensis”, esentato da ogni altro servizio, assistito nelle strutture più grandi da tutta una serie di medici specialistici (come il medicus chirurgus ovvero il chirurgo, il medicus clinicus ovvero l’internista, il medicus ocularius ovvero l’oculista, il marsus specialista in morsi di serpenti ed infine il medicus veterinarius per la cura dei cavalli o degli animali da soma), oltre a capsarii (infermieri guardarobieri, da capsa = scatola dove si tenevano i bendaggi), frictores (massaggiatori), unguentari, curatores operis (addetti al servizio farmaceutico), optiones valetudinari (addetti al vitto e all’amministrazione). I punici per loro sfortuna, non avevano nulla di simile: se la pestilenza decimò i romani, i cartaginesi furono sterminati.
A peggiorare le cose, per i siracusani, gli alleati siculi decisero di applicare una sorta di quarantena nei confronti della città, abbandonando la polis. Intanto Bomilcare, partito di nuovo con la flotta per Cartagine, relazionò il suo Senato sulle condizioni degli alleati siracusani ed ottenne di poter tornare in Sicilia con un grande numero di navi da carico, piene di ogni sorta di rifornimenti. Partito da Cartagine con 130 navi da guerra e 700 da carico, incontrò venti abbastanza favorevoli per raggiungere la Sicilia, ma quegli stessi venti gli impedirono di superare il promontorio Pachino. Epicide, venuto a conoscenza delle difficoltà incontrate dalla flotta cartaginese e temendo che potesse tornarsene in Africa, consegnò l’Acradina ai capi dei soldati mercenari e partì con la flotta per andare incontro a Bomilcare. Raggiunto l’ammiraglio cartaginese, Epicide lo spinse a tentare la fortuna con uno scontro in mare contro i Romani. Marcello allora, avendo saputo che i Siculi stavano raccogliendo un esercito per attaccarlo via terra e che Bomilcare era ormai prossimo alla città, sebbene il proconsole romano disponesse di un numero di navi inferiore, decise di impedire all’ammiraglio cartaginese l’accesso a Siracusa.
Non appena il vento Euro cessò di Soffiare, Bomilcare ed Epicide mossero da capo Pachino in direzione di Siracusa. Come l’ammiraglio cartaginese vide avvicinarsi la flotta romana nei pressi del promontorio, assalito da improvvisa paura, prese il largo e inviò messi ad Eraclea Minoa con l’ordine di far tornare indietro in Africa, tutte le navi da carico. Egli stesso, invece, oltrepassata la Sicilia si diresse verso Taranto. Epicide, appena si accorse che non vi erano più speranze di raggiungere Siracusa, fece vela su Agrigento in attesa di sapere cosa sarebbe accaduto, più che preparare qualche piano per soccorrere la sua città.
Appena questi avvenimenti furono noti negli accampamenti siracusani, vale a dire che Epicide si era allontanato dalla città senza farvi ritorno e che l’Isola di Ortigia era stata abbandonata dalla flotta cartaginese e consegnata ai Romani, i Siracusani inviarono dei messi a Marcello per trattare la resa. E poiché si era trovato l’accordo, secondo il quale ai Romani spettavano le proprietà del re, mentre ai Siculi tutto il resto, oltre alla libertà e le proprie leggi, venne convocata un’assemblea con coloro ai quali Epicide aveva affidato il comando dell’Acradina. Vennero quindi aggrediti i prefetti di Epicide, vale a dire Policeto, Filistione e Epicide Sindone, e messi a morte. Morto Ippocrate, allontanato Epicide ed uccisi tutti i suoi pretetti; cacciati i Cartaginesi via mare e via terra dall’intera Sicilia, non restava alcuna ragione per non consegnarsi ai Romani
Per cui, si aprì un tavolo delle trattative, sempre con sommo sollievo di Marcello, visto che doveva essere una rapida campagna militare, si era trasformato in un incubo senza fine. Come sempre, però, non aveva considerato la questione disertori, i quali, per paura di essere uccisi in maniera lenta e dolorosa, sobillarono contro l’accordo le truppe mercenarie, che uccisero i membi della delegazione incaricata di trattare con i Romani, poi, in maniera indiscriminata, cominciarono a uccidere i siracusani e a saccheggiare le loro proprietà: di conseguenza, la possibile soluzione negoziale andò a ramengo.
Marcello, dinanzi a questo inaspettato manicomio, cercò di convincerli del fatto che i Romani non avessero nessuna intenzione di sterminarli e di renderli schiavi. Poi contattò in segreto Merico, un mercenario iberico, responsabile della difesa di un tratto delle mura di Acradina, che andava dalla fonte Aretusa fino all’ingresso del grande porto. Gli fu promessa salva la vita e la possibilità di militare tra le armi romane oppure di poter far ritorno in patria, in cambio della sua alleanza alla causa romana; ovviamente, l’iberico accettò e si mise d’accordo con i Romani, per aprire loro le porte.
Marcello dispose, quindi, che la notte seguente una quadrireme rimorchiasse una nave carica di soldati romani e che fosse condotta fino alla porta nei pressi della fonte Aretusa. Qui i soldati sarebbero sbarcati e accolti da Merico. All’alba Marcello diede ordine di assalire l’Acradina con tutte le sue forze, in modo non solo da far rivolgere verso di sé tutti i difensori di quella parte di città, ma anche quelli dell’Isola di Ortigia che andavano a dar manforte ai primi.
I soldati romani sbarcarono all’improvviso e assalirono le postazioni nemiche quasi semivuote. Con un facile combattimento occuparono l’isola di Ortigia, abbandonata dalle guardie spaventate; e quando Marcello venne a sapere che anche l’Isola era stata presa e rimaneva in mano nemica la sola Acradina, ordinò la ritirata dei suoi, per impedire il saccheggio del tesoro regio. Intanto anche Merico col suo gruppo di armati si era unito ai Romani
Terminato l’impeto dell’assalto e aperta una via di fuga a quei disertori che si trovavano nell’Acradina, i Siracusani erano finalmente liberi da ogni paura. Inviarono nuovi messi a Marcello, per chiedere l’incolumità per loro ed i loro figli. Il proconsole romano inviò all’isola di Ortigia un questore con una scorta di soldati per prendere in consegna e custodire il tesoro del re. L’Acradina invece fu abbandonata al saccheggio dell’esercito romano, dopo che erano state disposte delle guardie attorno alle case di coloro che si erano trattenuti presso i presidi romani
In quell’occasione, fu ucciso Archimede. La leggenda, citando Plutarco, racconta
Ad un tratto entrò nella stanza un soldato romano che gli ordinò di andare con lui da Marcello. Archimede rispose che sarebbe andato dopo aver risolto il problema e messa in ordine la dimostrazione. Il soldato si adirò, sguainò la spada e lo uccise
tramandando anche ai posteri le ultime parole dello scienziato.
noli, obsecro, istum disturbare
ossia
Non rovinare ti prego, questo disegno
Però, per come procedette, in maniera alquanto organizzata e ordinata, l’occupazione di Acradina, è difficile darci credito. E’ probabile che Archimede per tutto quello che aveva fatto patire alle legioni e per la sua posizione politica, fosse catturato e giustiziato come collaborazionista con il nemico.
Tra l’altro il solito Cicerone, campione mondiale dell’autoesaltazione, così racconta di avere scoperto la tomba di Archimede grazie a una sfera inscritta in un cilindro, che vi sarebbe stata scolpita in ottemperanza alla volontà dello scienziato
Io quand’ero questore scoprii la sua tomba [di Archimede], sconosciuta ai Siracusani, cinta con una siepe da ogni lato e vestita da rovi e spineti, sebbene negassero completamente che esistesse. Tenevo, infatti, alcuni piccoli senari, che avevo sentito essere scritti nel suo sepolcro, i quali dichiaravano che alla sommità del sepolcro era posta una sfera con un cilindro. Io, poi, osservando con gl’occhi tutte le cose – c’è, infatti, alle porte Agrigentine una grande abbondanza di sepolcri – volsi l’attenzione ad una colonnetta non molto sporgente in fuori da dei cespugli, sulla quale c’era sopra la figura di una sfera e di un cilindro. E allora dissi subito ai Siracusani – c’erano ora dei principi con me – che io ero testimone di quella stessa cosa che stavo cercando. Mandati dentro con falci, molti ripulirono e aprirono il luogo. Per il quale, dopo che era stato aperto l’accesso, arrivammo alla base posta di fronte. Appariva un epigramma sulle parti posteriori corrose, di brevi righe, quasi dimezzato. Così la nobilissima cittadinanza della Grecia, una volta veramente molto dotta, avrebbe ignorato il monumento del suo unico cittadino acutissimo, se non lo fosse venuto a sapere da un uomo di Arpino
Tornando alla guera ochi giorni prima della presa della città di Siracusa, Tito Otacilio Crasso passò dal Lilibeo ad Utica con 80 quinqueremi e, entrato nel porto all’alba, si impadronì di numerose navi da carico piene di grano. Quindi sbarcò e saccheggiò gran parte del territorio circostante la città cartaginese, per poi fare ritorno al Lilibeo due giorni più tardi, con 130 navi da carico piene di grano e di ogni sorta di bottino. Quel grano fu subito inviato nella polis per evitare che la fame potesse minacciare vinti e vincitori.
Nonostante il bottino e il successo, Marcello non ottenne il trionfo, ma una più misera ovatio: questo perché il Senato era consapevole del fatto che quella che era stata prospettata come facile conquista, si era invece trasformato nell’equivalente antico della Battaglia di Stalingrado. In più la guerra in Sicilia era tutt’altro che vinta per i Romani.