Quando parlai del Tropio di Erode Attico, e della sua tenuta sull’Appia Antica, accennai alla vicenda giudiziaria in cui fu coinvolto, il presunto assassinio della moglie Annia Regilla: nonostante fosse assolto da questa accusa, più che altro per la sua amicizia con l’imperatore Marco Aurelio, le voci sulla sua colpevolezza continuarono a essere diffuse. Così, per cercare di smentirle, eresse nel Pago Tropio, all’altezza del nostro Parco della Caffarella, uno splendido cenotafio in onore della defunta, noto anche come “Tempio del dio Rediculo” in quanto nei secoli XVII-XVIII era ritenuto, interpretando Plinio, un tempio dedicato al dio protettore di coloro (rediculi) che ritornavano a Roma dopo essere stati a lungo lontani. Tale tempio è menzionato da Sesto Pompeo Festo che in un frammento cita un fanum Redicoli da collocarsi in un luogo imprecisato fuori Porta Capena. Il nome deriverebbe dalla tradizione secondo la quale in quel luogo Annibale, in procinto di attaccare Roma, avrebbe fatto marcia indietro allarmato da una visione sfavorevole. Una errata traduzione del testo pliniano nel Dictionary of the Greek and Roman antiquities (1698) scritto da Pierre Danet, abate e studioso francese, portò a ribattezzare l’edificio con il nome totalmente fuorviante di Aedicula Ridiculi, interpretazione poi ripresa e rilanciata dal Nibby.
In realtà secondo Tito Livio, Annibale ed il suo esercito si accamparono a nord a tre miglia da Roma sulle rive del fiume Aniene, mentre fu il Console Quinto Fulvio Flacco, che, provenendo dall’assedio di Capua , entrò a Roma dalla Porta Capena per disporre le sue truppe tra la Porta Esquilina e la Porta Collina (Porta delle Mura Serviane non più esistente) per difendere la città dalle truppe di Annibale. Comunque, ovviamente il Dio Redicolo proteggeva tutti i Romani in viaggio e non solo quelli che uscivano da Porta Capena prendendo la Via Appia.
La corretta attribuzione dell’edificio si deve invece al grande Rodolfo Lanciani, che lo identificò con il Cenotafio di Annia Regilla, grazie
di alcune epigrafi menzionanti la nobildonna e il suo sepolcro ritrovate in un’area compresa tra la basilica di San Sebastiano e il Mausoleo di Cecilia Metella.
L’edificio, a pianta rettangolare (m 8.3 x 12), è articolato, secondo lo schema consueto dei sepolcri “a tempietto” del II secolo d.C., su due piani: in quello inferiore, a cui si accedeva da una porticina sul lato Est, era situata la cella funeraria, mentre in quello superiore si svolgevano le cerimonie funebri. Dai disegni degli architetti rinascimentali, come Antonio da Sangallo, sappiamo che originariamente davanti alla facciata sul lato Nord si apriva un vasto pronao con quattro colonne, oggi non più conservato, che delimitava la gradinata di accesso al piano superiore. Una ricostruzione dell’architettura del monumento è presente anche nell’opera di Luigi Canina, della metà dell’800, sugli edifici antichi dei dintorni di Roma.
La porta che conduceva all’ambiente per le cerimonie, attualmente chiusa, è caratterizzata da un alto architrave con nicchia sovrastante, inquadrata da due colonne e da un timpano modanato. Il lato Est, il più visibile dalla valle, presenta una decorazione particolarmente ricca: la parete è scandita verticalmente da due semicolonne a fusto ottagonale con capitelli corinzi, profondamente incassate nella muratura, e da due lesene angolari che inquadrano al centro una finestra con architrave aggettante e, ai lati, due incassi rettangolari per le iscrizioni, non più conservate; orizzontalmente la parete è divisa da una ricca fascia a meandro, anch’essa realizzata in laterizio.
I lati Ovest e Sud riprendono, in maniera più semplice, lo schema decorativo delle facciate principali, con quattro lesene in laterizio rosso che scandiscono la parete, in cui si aprono tre finestre rettangolari con architrave. L’ambiente superiore, per le cerimonie funebri, è coperto da una volta a crociera, al centro della quale resta l’incasso circolare per un medaglione; sulle pareti si individuano le tracce degli stucchi e degli affreschi che le decoravano; il pavimento che divideva i due piani è totalmente crollato: ne restano soltanto tracce negli angoli.
Intorno al IX secolo l’edificio fu trasformato in oratorio cristiano, i cui affreschi decorano ancora l’interno, cosa che ne permise la conservazione. Un disegno di Carlo Labruzzi della fine del XVIII secolo ritrae l’edificio ancora in buono stato, utilizzato come fienile, e accanto ad esso un casale ed una torre. In prossimità del sepolcro è infatti tuttora localizzato un antico casale che ingloba i resti di un mulino, precedentemente usato come valca (dal termine longobardo “walkan”, “rotolare”) impianto per il lavaggio dei panni; dai documenti di archivio sulla peste del 1656 sappiamo che durante l’epidemia la valca fu eccezionalmente adibita al lavaggio delle coperte infette. La torre, oggi non più conservata, faceva parte del sistema difensivo della valle della Caffarella, che in età medievale era circondata da una serie di torri di guardia poste sui valichi del fiume Almone, di proprietà di singoli personaggi che si contendevano il controllo del territorio.
La Via Postumia era una via consolare romana fatta costruire nel 148 a.C. dal console romano Postumio Albino nei territori della Gallia Cisalpina, l’odierna Pianura Padana, per scopi prevalentemente militari. Congiungeva per via di terra i due principali porti romani del nord Italia: Aquileia, grande centro nevralgico dell’Impero Romano, sede di un grosso porto fluviale accessibile dal Mare Adriatico, e Genova. Per trovare i due successivi porti più importanti si doveva scendere a Roma dal lato tirrenico e a Ravenna dal lato adriatico
Quindi, data la sua importanza strategica, già nell’opera romana l’Oltregiogo ligure fu controllato da una castrum, posto a Gavi,la cui esistenza proseguì anche nel Medievo, tanto che se ne trova accenni nei documenti storici che parlano degli attacchi a Genova da parte degli Ungari, nel 899 e degli Arabi, sia nel 930, sia nel 935.
Il primo atto che però testimonia l’esistenza certa del castello è un documento notarile risalente all’anno 973. Durante la sua discesa in Italia, l’imperatore Federico Barbaross scelse proprio il Castello di Gavi come rifugio sicuro per la moglie Beatrice ed il figlio Enrico VI dopo la dura sconfitta subita a Legnano contro i liberi comuni italiani. Nel 1191 fu proprio il figlio Enrico VI, divenuto imperatore alla morte del padre, a donare il Castello ai genovesi in cambio di aiuti militari in Sicilia; tuttavia i genovesi ebbero non pochi problemi nel governare la zona e dovettero reprimere più volte le insurrezioni dei marchesi locali alleati con Tortona, storica rivale di Genova nei primi secoli del basso medioevo. Lo scontro si concluse con il passaggio dell’intero marchesato di Gavi alla Repubblica di Genova (1202), fatto che fu essenzialmente un bene per Gavi dal momento che i genovesi fecero grandi investimenti sul Castello e sulle vie di comunicazione, vista la posizione strategica del paese. La pace raggiunta tra Genova e Tortona durò solo fino a 1224, anno in cui tortonesi e alessandrini si allearono e tentarono più volte di riprende re il Castello senza successo fino al 1231, quando si stipulò un nuovo trattato con cui vennero poste le basi per una pace definitiva.
Durante il XIV secolo Genova fu dilaniata dalle lotte intestine che indebolirono la Repubblica. Approfittando dell’instabilità politica i Visconti, duchi di Milano, nel 1348 si impossessarono dell’Oltregiogo e presero anche il Castello con l’intento di conquistare Genova. Il forte di Gavi fu venduto per 15.000 fiorini d’oro a Bonifacio (Facino) Cane, condottiero che guidè i genovesi contro il dominio francese durato dal 1394 al 1411. Il figlio di Facino, Ludovico Cane, fu deposto dai genovesi, che riacquistarono il Castello per 10.000 fiorini d’oro e vi insediarono un nuovo castellano.
Nel periodo medioevale il Forte si presentava come un castello ornato da due torri a pianta trapezoidale e con alte mura che lo rendevano inviolabile dai mezzi di guerra dell’epoca. Le lotte tra Genova e Milano per il controllo di Gavi e quindi del Castello si protrassero, fra alti e bassi, per tutto il XV secolo: ciò permise ai Guasco, signori di Francavilla Bisio. I Guasco rimasero signori di Gavi fino al 1528: in quell’anno il castello fu venduto nuovamente alla Repubblica di Genova per moneta coniata dal Banco di San Giorgio (mille luoghi la cifra pattuita) e l’iscrizione della famiglia nell’albo d’oro della nobiltà genovese.
A seguito di tale acquisti, la Repubblica di Genova emanò, proprio quell’anno, visto che il castello era alquanto trascurato i “Caputali et ordini da observare in lo castello di Gavi”. Nel 1529 il Castello fu visitato dall’Imperatore Carlo V. I primi interventi radicali furono eseguiti nel 1540 da Giovanni Maria Olgiati, ingegnere militare al servizio della repubblica di Genova, che progettò e ricostruì completamente la cinta muraria, realizzando nuovi bastioni e consolidando la struttura originaria. Per chi non conoscesse Olgiati, è stato l’architetto militare che ha progettato le mura spagnole di Milano.
Nel 1625, durante la guerra tra Genova e le forze franco-sabaude, il governatore Alessandro Giustiniani resistette per diciassette giorni, dopodiché, rimasto a corto di munizioni, chiese una tregua di tre giorni per recarsi a Genova e ricevere istruzioni dal governo, a condizione di cedere il dominio qualora non fosse ancora rientrato allo scadere del tempo prestabilito. Il duca di Savoia decise allora di fermare e trattenere con la forza Giustiniani presso Voltaggio, sulla via per Genova, in modo tale che il Castello, privo di notizie, proclamasse la resa, cosa che avvenne puntualmente nell’aprile di quell’anno. Il maniero fu tuttavia conquistato nuovamente dai genovesi, con l,aiuto tedesco, pochi mesi dopo.
Questi eventi però, fecero rendere conto la Repubblica come la struttura del Castello non fosse capace di resistere ai nuovi modelli di artiglieria pe cui fu deciso di avviare un progetto di ristrutturazione: per questo, nel 1626, fu incaricato uno dei piu’ grandi esperti di costruzioni militare fu incaricato il frate Vincenzo Maculani, detto il Fiorenzuola, in collaborazione con l’architetto genovese Bartolomeo Bianco, che all’epoca stava lavorando alle Mura Nuova di Genova.
Il Fiorenzuola è un personaggio molto particolare: Iil padre era un muratore e da giovane Gaspare (questo era il suo nome di battesimo) lo aiutò nella sua professione. Entrò nell’Ordine dei Frati Predicatori a Pavia nel 1594. Compì gli studi all’Università di Bologna e divenne lettore di teologia, geometria e architettura. Nel 1627 fu inquisitore a Padova, poi nello stesso anno e fino al 1629 a Genova.
Papa Urbano VIII lo chiamò a Roma e lo nominò procuratore generale del suo Ordine. Fu in seguito vicario del Maestro generale dei Domenicani, durante una visita in Francia del Maestro generale. Nel 1632 ebbe nella Curia Romana l’incarico di ufficiale del Sant’Uffizio, ed ebbe il compito di condurre il processo per eresia allo scienziato pisano Galileo Galilei. Benché fosse noto per il pessimo carattere, u lui a decidere che Galileo fosse troppo vecchio e troppo malato per subire torture, cosa tra l’altro richiesto dal Papa.
In più, cosa molto italiana, riuscì ad elaborare una proposta, in cui Galileo non confessava l’effettiva adesione all’eliocentrismo, evitando così l’abiura per eresia formale e quindi il rogo, e ammetteva di avere “arteficiosamente, e calidamente estorta” la licenza di stampa del Dialogo sui Massimo Sistemi. Compromesso che fu rifiutato da Urbano VIII, che pretese la pubblica umiliazione dello scienziato, che solo graze al Fiorenzuola evitò conseguenze peggiori: a onore del domenicano, dobbiamo concedergli il fatto che a differenza del Bellarmino, facesse i salti mortali per evitare che gli imputati, anche i più morti di fame, fossero bruciacchiati a fuoco lento a Camp de Fiori.
In parallelo all’attività inquisitoria, il Fiorenzuola fu uno dei principali architetto militare dell’epoca tanto che lavorò in quegli anni alla fortificazione di Castel Sant’Angelo e all’edificazione delle mura del Gianicolo. Nel 1638, fu incaricato di esprimersi in merito ai progetti di rinforzo delle difese di Malta e nel 1639 era a Ferrara per ispezionarne le fortificazioni.
È con questi interventi che il Castello diventò un forte e prese, a grandi linee, la forma che conserva oggi: l’originario castello venne abbassato diventando il maschio del forte, furono realizzati, uniformandosi alle linee del terreno, sei inespugnabili bastioni, uniti fra loro da robuste cortine munite da cannoniere, con le mura che fondono con la roccia. Nella parte bassa sorgeva la cittadella con le camerate, le cucine, le cisterne per l’acqua, le celle per i prigionieri, le scuderie, la Santa Barbara. La Fortezza poteva ospitare una guarnigione che poteva raggiungere i 1000 uomini.
Al Fiorenzuola si devono anche le costituzioni della cosiddetta “Cittadella”;, la parte che rimane più bassa rispetto al Castello, adibita al ricovero dei soldati e ad altre funzioni pratiche, e della fortificazione di Monte Moro, collinetta poco vicino al Forte considerata il “tallone d’Achille” del baluardo; queste ultime costruzioni saranno oggetto di forti modifiche nel secolo successivo. I lavori terminarono nel 1629 e il Forte fu quindi degnamente armato sempre secondo le direttive del Fiorenzuola, che consigliò di incrementare l’artiglieria già presente con altri 26 pezzi fra “mezzi cannoni”, “sagri”, e “quarti di cannone”: inoltre stabilì che, per un corretto funzionamento, dovevano operarvi 130 soldati in totale. Nel 1632 si provvide a migliorare le vie di accesso al forte stesso, di conseguenza furono allargate le vie che conducevano a Novi Ligure (Via Lomellina) e a Voltaggio. Nel corso della seconda metà del XVII secolo e la prima del XVIII il Forte venne ancora ampliato significativamente dagli interventi di Ansaldo de Marini e successivamente di Giovan Pietro Morettini. Tra gli altri interventi si aggiunse un corpo di fabbrica alla Cittadella per accogliere più soldati. I due ingegneri, inoltre, potenziarono il bastione di Monte Moro (che oggi risulta quasi invisibile, mimetizzato nel verdeggiante paesaggio) perché, fra tutti, era quello più esposto all’attacco nemico. Bastione che fu collegata al forte da una galleria; all’interno furono edificati alloggi per militari e ufficiali, cisterne, polveriere, corpi di guardia e piazze d’armi
L’ultima battaglia di cui il forte fu testimone risale al periodo Napoleonico: quella di Gavi fu l’unica fortezza francese a non cadere in mano nemica durante gli assedi austro-russi prima della vittoria di Napoleone a Marengo, avvenuta il 14 giugno 1800. Nel 1814, però, il comandante francese a Gavi, Bernardino Poli, dopo una lunga resistenza contro l’esercito inglese di Bentick, fu sconfitto e costretto a consegnare il forte agli inglesi in seguito al trattato di pace stipulato tra Francia, Inghilterra e Austria. Nel 1815, con il congresso di Vienna, Gavi fu ceduta al Regno di Sardegna assieme a tutta la Repubblica di Genova. Successivamente, con l’Unità d’Italia, Gavi entrò a far parte della provincia di Alessandria e il Forte perse la sua secolare funzione di baluardo militare.
La fortezza fu disarmata e adibita a penitenziario civile fino al 1906. Nel 1908 l’imponente opera difensiva venne dichiarata di notevole interesse storico-artistico dal Ministero dell’Educazione Nazionale. Durante la Prima Guerra Mondiale fu utilizzata nuovamente come carcere per i prigionieri austriaci e i disertori italiani. Al termine del conflitto fu assegnata al Consorzio Cooperativo Antifilosserico per la sperimentazione nei vigneti e, nei terreni interni al Forte, furono piantate diverse specie di vitigni. Nel 1933 venne presa in consegna, con verbale del 23 maggio, dalla Soprintendenza all’arte Medievale e Moderna del Piemonte, essendo stato riconfermato l’interesse storico-artistico dal Ministero. Con l’;entrata in guerra dell’Italia nel Secondo Conflitto Mondiale il maniero venne ancora una volta convertito a penitenziario (questa volta per prigionieri inglesi), e, dopo l’otto settembre, occupato dai nazisti e destinato alla detenzione dei partigiani, numerosi nella zona. Il Forte trovò pace il 21 ottobre 1946, quando venne consegnato definitivamente alla Soprintendenza.
La vita condotta dai soldati all’interno della fortificazione è sempre stata piuttosto spartana[3] e scandita da duri turni di guardia. A presiederne il controllo erano due figure fondamentali: il castellano, cui spettavano le decisioni di maggiore importanza, e il munizioniere, preposto al rifornimento di armi e di cibo.
Per il riposo dei militari era sufficiente un semplice sacco. Ugualmente spartano era l’abbigliamento che prevedeva però l’uso di scarpe a tre suole con tacco a cinque strati, sostituite una volta all’anno poiché sottoposte all’usura dovuta a lunghe marce e al clima rigido della zona in cui la fortezza sorge. Le uniformi erano dapprima di colore rosso e verde con bottoni d’argento (i colori di Novi), poi passarono al grigio, allo scarlatto e al bianco che contrassegnavano i cromatismi della Repubblica di Genova.
Per affrettarne i tempi ed evitare un raid ateniesi, come nella volta precedente, i Siracusani tentarono due tattiche ben definite: la prima, per rendere più veloce la costruzione del tutto, sfruttarono in parte le fortificazioni di Gelone presso l’Acradina. In più, per rallentare i movimenti del nemico, costruirono il nuovo muro, in mezzo a una palude, il paradossalmente, fece più danni a loro, che al nemico, visto che i lavori procedettero a passo di lumaca.
In più, sottovalutarono lo spirito di iniziativa di Lamaco, che sotto molti aspetti, era fissato con azioni da “corpi speciali”, il quale si era trovato provvisoriamente unico comandante dell’esercito ateniese, dato che Nicia era stato messo fuori gioco da un attacco di di una congenita forma di nefrite di cui soffriva da tempo. Così Lamaco scelse un contingente di truppe leggere, probabilmente di peltasti, dato che la rapidità e il non avere i movimenti ostacolati dal fango erano doti necessari. Per cui, questa sorta di incursori, individuarono la porzione della palude in cui la superficie sembrava un poco più stabile delle altre, presero delle assi, costruirono in fretta e furia una passerella e all’alba, mentre i Siracusani dormivano, occuparono gran parte del muro.
Il giorno dopo gli Ateniesi erano già all’opera intenti a proseguire dalla cinta circolare la struttura difensiva in direzione del ripido burrone che sovrasta la palude, il quale da questo lato delle Epipole guarda verso il porto grande e la cui scesa declina proprio lungo la linea che tagliando il piano e la palude avrebbe consentito agli Ateniesi di prolungare al porto grande lo sbarramento di circonvallazione.
Allora i Siracusani uscirono e presero anch’essi a piantare una nuova palizzata attraverso la palude partendodalla propria cinta. Di fianco scavarono anche un fossato per ostruire la direttrice del muro ateniese verso la marina. Ultimato il settore del baluardo fino al burrone, gli Ateniesi sferrarono un secondo assalto alla palizzata e al fosso siracusano ordinando contemporaneamente alla flotta di compiere il giro da Tapso al porto grande di Siracusa. All’alba calarono dalle Epipole alla piana e prendendo per la palude dove la melma era più consistente e il passo quindi più stabile, aiutandosi col gettare innanzi tavole e assi piane, su cui camminavano, al levar del sole avevano già occupato, in quasi tutta la sua estensione, la palizzata e la fossa: quel mattino conquistarono anche il resto.
Subito dopo, Lamaco fece schierare gli opliti, in modo da costringere Ermocrate allo scontro decisivo. All’inizio le cose si misero bene per gli Ateniesi: se l’ala destra siracusana tenne, la sinistra entrò in rotta e i suoi opliti scapparono in fretta e furia lungo le mura. Lo stratega, per chiuderli in trappola, scelse un contingente di trecento opliti veterani e li piazzò sul ponte dove i fuggitivi sarebbero stati costretti a transitare.
Però, sia per la forza della disperazione, sia per l’intervento della cavalleria, alla faccia dei sapientoni che ne negano l’utilità nella Grecia classica, i trecento furono travolti e accerchiati: a peggiorare il tutto, visto il successo, i fuggitivi si riorganizzarono e tornando indietro, attaccarono l’ala destra ateniese, stringendola in una morsa
Lamaco non perse la calma: spostò dall’ala sinistra, che probabilmente, a causa sempre della palude, aveva difficoltà a incrociare il nemico un reparto di arcieri cretesi, che tennero sotto pressione le fece intervenire le riserve, costituite dal contingente di opliti di Argo. Sfortuna volle che in tutte queste manovre lo stratega si trovasse isolato dal grosso dell’esercito; così fu assalito da un gruppo consistente di soldati siracusani e assieme a cinque o sei soldati cadde combattendo.
Nonostante questo, i Siracusani, in enorme difficoltà, cominciarono a ripiegare.
Esplose una battaglia in cui gli Ateniesi ebbero la meglio. I Siracusani schierati all’ala destra si disposero verso la città: quelli del fianco sinistro scamparono lungo la sponda del fiume. Con l’intenzione di ostacolarne il guado i trecento soldati scelti ateniesi accorsero di volo al ponte. I Siracusani in allarme (ma forti del nerbo di cavalleria schierato, in quella fase, al loro fianco) si volgono con prontezza contro questo corpo di trecento, li travolgono e assaltano il fianco destro ateniese. Sotto la violenta pressione anche la prima schiera dell’ala destra vacilla e si sfalda. Lamaco avvista il cedimento: preleva dalla sua ala sinistra un reparto modesto di arcieri, lo rinforza con gli Argivi e via di corsa. Ma valicato un canale e perso il contatto è annientato a fianco di cinque o sei del drappello che l’aveva seguito sull’altra sponda. I Siracusani sono rapidi a sottrarne i cadaveri oltre il fiume, dove nessuno li può più toccare. Poi, minacciati dal resto del fronte ateniese, sempre più vicino, ripiegarono.
Ermocrate, dall’altro delle mura, approfittando del caos e non sapendo che gli Ateniesi erano provvisoriamente senza capi, ordinò una sortita, per rendere loro pan per focaccia: l’idea era di approfittare della situazione per distruggere parte della cinta d’assedio, ed effettivamente i Siracusani ci riuscirono in parte.
A salvare la situazione fu Nicia che nonostante il dolore, diede ordine di dare fuoco alle cataste di legna, che erano poste presso la palizzata: i Siracusani, per non finire dorati e fritti, allora si ritirarono. Per loro fortuna, con Lamaco morto, il suo piano per conquistare la polis siciliana, andò a farsi friggere.
Gli opliti ateniesi, invece di avanzare verso le mura cittadine, decisero di attaccare i soldati nemici che avevano effettuato la sortita: così quando la flotta ateniese violò il Porto Grande, i Siracusani, pur sconfitti, invece di essere chiusi in una tenaglia riuscirono a scappare in fretta e furia verso la polis
Intanto i Siracusani che si erano rifugiati entro la cinta, vedendo questi sviluppi dello scontro, ripresero animo e irrompendo all’esterno si riordinarono in formazione per contrastare il passo all’offensiva ateniese. Una loro divisione è in marcia per il fortino circolare in vetta alle Epipole, con l’intento di prenderlo, poiché lo si ritiene deserto. Conquistarono effettivamente radendolo al suolo, un tratto avanzato della cerchia protettiva lungo dieci pletri, ma per un’idea di Nicia la distruzione completa fu evitata. Egli, colto da una malattia, era rimasto nel forte. Quando comprese che per scarsità di forze gli sarebbe riuscito inattuabile ogni altro piano difensivo, dette ordine ai servi di incendiare le macchine e tutte le cataste di legname erette in prossimità degli spalti.
E il risultato fu quello atteso: le fiamme distolsero i Siracusani dall’avanzata e li convinsero a ritirarsi. Ormai infatti anche dalla pianura risaliva un corpo di soccorso ateniese, gettatosi subito sulle tracce di quegli aggressori. In quel momento, eseguendo l’ordine impartito la flotta in arrivo da Tapso faceva il suo ingresso nel porto grande. A quella scena i reparti impegnati sull’altura, imitati dal resto dell’esercito siracusano, calarono di gran carriera verso la città, rassegnandosi oramai a ritener fallito, per inferiorità di forze, il tentativo di sbarrare agli Ateniesi la strada verso il mare e verso un blocco completo della città.
Per cui, la flotta, invece di sbarcare i soldati, impose soltanto il blocco. Nonostante il fallimento tattico, le cose sembravano essersi messe bene per gli Ateniesi: il muro d’assedio potè proseguire nella costruzioni senza troppi problemi, le città italiche, convinte del successo di Nicia, erano uscite dalla loro neutralità e stavano fornendo viveri agli assedianti ed era arrivato un contingente di Etruschi, cosa di cui ho parlato in un altro post, provenienti da Tarquinia e guidati da Velthur Spurinna, che nelle vicende future dell’assedio, si comportarno molto meglio degli Ateniesi.
Inoltre, visto che i tanto anelati aiuti spartani non arrivavano e dato che Nicia aveva fama di essere propenso al compromesso, Ermocrate e gli altri esponenti del partito della guerra, che sino ad furono esautorati e sostituti da altri strateghi
Gli Ateniesi, conclusi gli scontri, elevarono un trofeo e restituirono ai Siracusani le salme dei loro caduti, ricuperando a propria volta il cadavere di Lamaco e dei suoi. Ormai s’era aperto un generale ricongiungimento delle forze ateniesi, terrestri e navali: e si prolungò, partendo dallo sprone roccioso delle Epipole, lo sbarramento fino al mare, cingendo così Siracusa con un doppio bastione. L’armata riceveva viveri da ogni punto dell’Italia. Molte genti sicule, che prima tentennavano, si presentavano a porgere la propria alleanza. Dalla Tirrenia comparvero tre navi a cinquanta remi. L’avvenire s’apriva lieto alle speranze. Poiché Siracusa non poteva intravedere la salvezza in una ripresa del conflitto: dal Peloponneso non c’era indizio di una riscossa, di una spedizione di soccorso. Sicché si infittivano, in seno alla stessa cittadinanza, ma anche con Nicia che, deceduto Lamaco deteneva il sommo comando, i colloqui tendenti a un accordo. Una posizione risolutiva non emerse: ma, umanamente, quella fase difficile la povertà di risorse e il sacrificio, ora più acerbo, dell’assedio esigevano un più intenso scambio di vedute con Nicia e conversazioni anche più approfondite dentro le mura. Dilagò il sospetto tra uomo e uomo, alimentato dalle attuali miserie. Gli strateghi sotto il cui comando s’era giunti a quelle disfatte furono deposti. S’imputò alla sorte infelice o al tradimento dei generali quella crisi: e altri furono eletti, Eraclide, Euclea e Tellia
Tutto è bene quello che finisce bene per gli ateniesi? No, perchè Nicia, cone le indecisioni, non era all’altezza di un militare esperto come Lamaco… Ucronicamente, possiamo chiederci come sarebbero cambiate le vicende dell’assedio, se questi fosse sopravvissuto
Nel V secolo, prima con le grandi tirannidi, poi con l’esperienza democratica, Akragas ha una sorta di boom edilizio. dovuto dall’akmè della sua potenza politica ed economica. Il 480 a.C. inaugura la stagione delle grandi opere pubbliche, quale l’articolato sistema di condotti d’acqua ideati da Feace. Si tratta di un complesso ipogeico di canali che dalla Rupe Atenea e dalla collina di Girgenti scendono con varie diramazioni attraverso la valle, alcuni con sbocco nell’ampia depressione ubicata alla estremità occidentale della collina dei templi, identificata con la Colimbetra di cui parla Diodoro: magnifica piscina profonda 20 braccia dal perimetro di sette stadi (m 180×7) nella quale, ci dice
“condottevi le acque delle fonti e dei ruscelli ne venne viavaio di pesci per i banchetti e la allietavano cigni e altri volatili; trascuratasi in seguito essa interrò”.
Il V secolo a.C. segna anche l’avvio delle grandi opere monumentali: sorge così, nel settore occidentale della collina dei templi, l’imponente tempio di Zeus Olimpio, mentre alcuni interventi interessano l’area del santuario delle divinità ctonie; vengono eretti, inoltre, sulle pendici orientali della Rupe Atenea il c.d. tempio di Demetra, e sul colle di Girgenti il tempio di Athena. Ma è sotto la spinta democratica, particolarmente tra il 450 e il 430 a.C., che sorgono i monumenti più significativi sotto il profilo dell’immagine di città sacra che Akragas ha tramandato ai nostri giorni: l’opera di monumentalizzazione interessa, innanzitutto, la collina meridionale il cui carattere sacro viene esaltato dalla costruzione dei templi peripteri cosidetti di Giunone e della Concordia, eretti tra il 450 e il 430 a.C., quando nel settore occidentale, ad Ovest di porta V, il santuario ctonio si arricchisce dei templi I (o dei Dioscuri) ed L, mentre, al di là della Colimbetra, il sito del tempietto arcaico è occupato da un nuovo tempio periptero (c.d. Tempio di Vulcano).
Si ha ragione di credere che, durante il V secolo a.C., l’altura di San Nicola, alla quale si riconosce per il periodo arcaico e classico una precipua destinazione sacra (santuario del terrazzo sommitale distrutto dalla katatomè (sbancamento) dell’ekklesiasterion; tempietto e portico terrazzato sul margine settentrionale), costituisse anche il cuore della vita politica della città democratica (resti di costruzione al di sotto dell’edificio del bouleuterion). Una testimonianza a favore di tale ipotesi e interpretazione dei resti si coglie in un passo di Diogene Laerzio
Inoltre la storia Akragas classica si riassume tutta in quella della necropoli di contrada Pezzino, il più vasto e ricco tra i cimiteri agrigentini. E’ ubicata nei pressi del vallone Hypsas, nel settore sud-occidentale del colle di Girgenti, in un’area esterna alle mura tra le porte VI e VII. Depredata nel corso del secolo scorso, ha contribuito all’ arricchimento delle collezioni vascolari di molti musei stranieri. Gli scavi regolari intrapresi dal 1985 hanno evidenziato l’organizzazione complessa del sito, il cui elemento caratteristico e di maggiore evidenza è costituito dalla situazione di estremo affollamento delle tombe e dalla presenza di due assi stradali, uno dei quali è connesso con l’arteria che usciva da porta VII (obliterata dalle tombe più recenti, modeste per numero e tipologia, che datano al IV secolo a.C.).
Particolarmente ricchi e significativi i corredi databili tra il 480 e il 430 a.C., periodo corrispondente a quello di maggiore prosperità e floridezza della città. La necropoli di contrada Pezzino è probabilmente da identificare con quella ricordata da Diodoro (XIII, 86, 1-4) a proposito dell’assedio cartaginese di Imilcone e Annibale, ai quali la fonte ascrive la distruzione di monumenti funerari per la costruzione di terrapieni all’altezza delle mura allo scopo di rendere incisivo e risolutorio l’attacco alla città.
Agli ultimi decenni del V secolo a.C. riportano alcuni corredi della necropoli ubicata ad una certa distanza dalla città, in località Villaseta. La necropoli di contrada Mosè è utilizzata durante il V secolo a.C., epoca alla quale si fa risalire una fossa di purificazione ricca di statuette fittili arcaiche raffiguranti Demetra. Allo stesso periodo classico si ascrive la fase più significativa della necropoli che presenta caratteri di una certa monumentalità (data la natura del banco argilloso, si tratta per lo più di tombe interamente costruite in conci squadrati di arenaria, talvolta, quasi veri e propri monumenti sepolcrali).
In un caso la tomba ha restituito un magnifico sarcofago marmoreo con coperchio monolitico a spioventi e acroteri agli spigoli, al cui interno furono trovati lo scheletro di una giovane donna e il relativo corredo (Museo Archeologico Regionale). Oltre al rito della inumazione è attestato in due casi quello della incinerazione con pozzetti contenenti il cratere cinerario Si segnala, particolarmente, lo splendido cratere bronzeo a volute (Museo Archeologico Regionale) dell’ultimo quarto del V secolo a.C.
Terminiano il nostro giro a Palazzo Mirto, passando al secondo piano, che pur contenendo ambienti destinati ad un uso sociale, ma per una più ristretta cerchia di amici, era riservato alla vita privata della famiglia. In esso sono ubicati la camera da letto dei principi, la sala da pranzo, due biblioteche ed una sequenza di studi e salotti che presentano analoghi elementi decorativi del piano nobile.
La nostra visita comincia ovviamente dall’ingresso, arredato con dei cassoni antichi e sedie rivestite in cuoio dai motivi secenteschi. Alle pareti un arazzo di produzione francese del XVIII secolo e ritratti di antenati: Bernardo, insignito del collare e della placca di cavaliere dell’ordine di San Gennaro, Leone, gran giustiziere e Giordano. Nell’arredo anche una statua che raffigura il celebre oratore Demostene, copia della statua eretta nell’agorà di Atene intorno al 280 a.. e probabilmente realizzata da Polieucto.
Si passa poi al salotto dello Spagnoletto che prende il nome, con poca fantasia, da un dipinto del grande pittore barocco Jusepe De Ribera, che rappresenta Sant’Onofrio: ricordiamoci, che in condizioni non di pandemia, il 12 giugno, nel Capo, viene celebrata la grande festa in onore di questo santo, chiamato dai palermitani “Santu ‘Nofriu u pilusu”, la cui statua, portata in processione, fu realizzata nel 1603 da un palermitano di cui non si sa il vero nome e conosciuto come “il Cieco di Palermo”, uno scultore ritenuto cieco dalla nascita.
I palermitani ritenevano che Sant’Onofrio, come San Pasquale Baylon a Roma, avesse il dono i fare trovare marito alle donne nubili. Bastava mettersi in ginocchio e recitare una preghiera per nove giorni consecutivi. Bisognava però avere introdotto una monetina in una fessura della porta:
Sant ‘Nofriu pilusu, io vi pregu di ccà jusu: Vui sta grazia m’ati a fari: io mi vogghiu maritari
ossia
Sant’Onofrio peloso, io vi prego da qua sotto, voi questa grazia mi dovete fare: io mi voglio sposare.
Se la monetina cadeva dalla fessura prima dei nove giorni, la grazia sarebbe stata concessa, altrimenti bisognava aspettare l’anno successivo. Tornando a Palazzo Mirto, il salotto è arredato con mobile in stile Luigi XV e consolles in legno dorato di manifattura meridionale. Posto su una delle due consolles un piccolo monetiere con minuscoli cassetti in legno dipinto. La bacheca contiene oggetti in porcellana napoletana dei primi del XIX secolo, da notare le tazzine ed i piattini che riproducono raffinate vedute di Napoli. Nelle vetrine rare porcellane orientali ed europee, la vetrina sulla sinistra espone anche una fragile tazzina in bianco di Cina che fu dono di Umberto di Savoia al principe di Mirto per il Natale del 1930. Tra gli oggetti anche un vasetto cinese con coperchio del XVI secolo e la serie degli “immortali” in biscuit dipinto della metà del XVII secolo. In questo salotto porcellane di Meissen del primo periodo e porcellane viennesi. Le vetrine contengono esemplari di antichi ventagli, al di sopra di esse alcune compostiere in vetro soffiato di Murano con pomoli a forma di frutta databili tra la fine del XVIII secolo e gli inizi del XIX.
Si pasa poi alla Sala da Pranzo, La sala da pranzo presenta un soffitto ligneo decorato con motivi secenteschi ripetuti anche in alto, lungo il perimetro delle pareti. Il sopraporta della stanza è una riproduzione del celebre mosaico pompeiano della battaglia di Isso. La battaglia si svolse nel 333 a.c. a Isso, in Cilicia, fra Alessandro Magno e Dario III. Questa copia è tratta dal mosaico della casa del Fauno di Pompei ed è riproduzione, a sua volta, di una pittura di Philoxenos del 301-297 a.c. Le due vetrine, decorate con eleganti cornici a specchio, contengono altri pezzi del servizio di Meissen. Sul tavolo un magot del XVIII secolo in pasta tenera, quasi certamente di fattura italiana, ad imitazione dei “bianchi di Cina”. Di pregio le due consolles settecentesche in legno dorato.
La sala successiva è la cosiddetta Biblioteca Rossa, arredata con librerie ottocentesche in cui sono evidenti gli stemmi del casato sugli sportelli, alle pareti i ritratti di tre antenati medievali, Lotario, Ernando e Alperico; accanto, una coppia di avi settecenteschi e una piccola pittura del XVIII secolo in cui è raffigurato un giovane intento allo studio. Sul tavolo a impero è poggiato un piccolo scrittoio portatile, intarsiato in avorio, con lo stemma dei Filangeri e le fotografie con dedica della famiglia reale dei Savoia, l’ultima principessa di Mirto era infatti dama di compagnia della Regina.
Di seguito si entra nel Salotto Verde, sul cui pavimento in maiolica è riprodotto lo stemma del casato Lanza-Filangeri. Le pareti sono decorate con arazzi di area francese del XVII secolo che raffigurano un lago con cigni e un giardino all’italiana con due personaggi, arredano le pareti anche i ritratti di due antenati, Riccardello e Giovanni, vissuti intorno al 1258 il primo e al 1447 il secondo. Presenti anche due oli del Velasco raffiguranti dei nudi e dei pannelli serici del XVIII secolo con scene e motivi orientali. I mobili in stile neoclassico sono ottocenteschi e di produzione napoletana. Il tavolino bacheca conserva gioielli e onorificenze, tra queste sono esposte la placca di cavaliere di San Gennaro, ordine fondato da Carlo di Borbone nel 1738, e le chiavi d’oro di gentiluomo di camera del re. Di pregio, oltre che di rara bellezza, il lampadario in vetro di Murano
La tappa successiva è la Camera da letto in stile impero. Al centro del soffitto, all’interno di una cornice che raffigura un paradiso ricco di fiori e uccelli, è raffigurata l’Aurora che tinge di rosa il cielo del mattino. I cassettoni in ebano violetto sono settecenteschi e di fattura siciliana, sopra uno di essi, all’interno di un’edicola a vetri, alcuni personaggi di presepe napoletano della fine del XVIII secolo (in corso di restauro). Al di sopra del letto una quadro ricamato che descrive il Riposo dalla fuga in Egitto. La piccola scala oltre la camera da letto conduce ad una serie di piccoli studi, tutti arredati con mobili e oggetti di pregio.
La sala seguente è quella dei Cannoni, arredata con delle stampe antiche con carte geografiche della Sicilia, del Regno delle due Sicilie, e un’interessante carta di Roma della seconda metà del XVII secolo. Le stampe riproducono territori legati alla storia e alla grandezza del casato. In questa stanza è conservata anche la raccolta delle armi dei principi e antichi modellini di cannoni.
Segue poi uno studio in cui sono esposte delle lucerne antropomorfe di maiolica siciliana di Caltagirone, Burgio e Palermo risalenti ai secoli XVII, XVIII e XIX , e albarelli di Burgio e Caltagirone risalenti al XVIII secolo. Di pregio il raro orologio con organo, costruito a Napoli da Antonio Bajer, contenente rulli con musiche di Strauss, Donizetti, Pasini e le arie tratte da “I Puritani” di Vincenzo Bellini.
Da questo si entra in uno studiolo, arredato con mobili in stile Carlo X, alle pareti stampe di illustri antenati tra i quali si distinguono il leggendario Augerio, fondatore del casato, Annibale, al quale fu concesso da Ferdinando II l’onore di aggiungere all’arme lo stemma imperiale austriaco, Gaetano, che scrisse una Scienza della Legislazione, e Riccardo che dà origine al ramo siciliano dei Filangeri.
Si passa poi alla Sala di Lettura, valorizzata da un elegante armadio ottocentesco, di fattura siciliana, decorato con degli intarsi in madreperla e in legni diversi che imitano la pietra dura. All’interno di una libreria siciliana in stile Luigi XVI è esposta una serie di bottiglie antropomorfe. Di pregio anche la scultura in alabastro di Ercole e Anteo, di periodo neoclassico. La scultura raffigura la lotta tra Ercole e Anteo, il gigante figlio di Poseidone e di Gea, che aveva promesso al padre la costruzione di un tempio realizzato con crani umani. Ercole per riuscire ad ucciderlo lo tenne sollevato dal suolo e lo soffocò stringendolo a sé. Sulla base dell’oggetto sono scolpite altre fatiche dell’eroe.
La Sala Lettura funge da anticamera alla Biblioteca Hackert che conserva numerose edizioni raccolte in epoche diverse dai membri della famiglia. Si possono ammirare classici latini in edizioni del XVI e XVII secolo, compendi di storia e letteratura in lingua italiana, inglese, francese del XVIII secolo, trattati di scienza e filosofia, dissertazioni di politica o religione, manuali di arte militare; da notare anche i tomi che riguardano la “Scienza della Legislazione” scritta da Gaetano Filangeri in un’edizione del 1830. Alle pareti stampe tratte dalla serie “Porti delle due Sicilie” disegnata per Ferdinando IV di Borbone da Jacob Hackert e realizzate dal fratello George. In particolare: Porto e badia di Gaeta, La rada di Napoli, Veduta di Mola di Gaeta, Veduta del porto di Taranto, Veduta del porto e badia di Palermo, Il cantiere di Castellammare di Stabia, Veduta di pizzo Falcone e del castel del Molo a Napoli, Veduta del tempio della Sibilla a Tivoli e Veduta del tempio di Giunone a Lacinia. Da notare anche lo scrittoio a cilindro della fine del XVIII secolo con lo stemma dei Filangeri.
Usciti dalla Biblioteca, si visita la Stanza delle Tabacchiera, che prende il nome da una raccolta di tabacchiere posta all’interno di una delle vetrine a impero, nell’altra piatti in porcellana dei primi anni dell’ottocento di produzione napoletana, firmati Giovine, inoltre vi sono dei pastori da presepe di Giuseppe Antonio Matera. La parete in pietra della stanza testimonia le origini antiche di questa ala del palazzo. Arreda l’ambiente un antenato del pianoforte, il fortepiano, inventato da Bartolomeo Cristofori nel 1709, gemello di quelli conservati nel Museo degli Strumenti Musicali dell’Esquilino.
Questo strumento possiede la potenza sonora del clavicembalo e la varietà timbrica del clavicordo, è anche dotato di un dispositivo, lo scappamento, che consente la ripetizione della nota riuscendo ad eseguire ad esempio un trillo. Tale strumento diverrà pianoforte nel 1800. Questo esemplare ha il telaio in legno, la meccanica di tipo viennese, ed è dotato di pedali che azionano altrettanti registri: Banda alla Turca (campanelli, piatti, grancassa), Forte e Fagotto.
Nell’ultima stanzetta, , affacciandosi sul vicoletto coperto si possono ammirare sulla parete della casa di fronte i resti di decori di due finestre trecentesche e di un coronamento a traforo. Inoltre si nota lo scorcio del nucleo originario del palazzo. In questa stanza sono presenti alcuni esemplari di pastori del presepe in terracotta dipinta e stoffa provenienti da Napoli ( sec. XVIII – XIX).
Come molti sanno, sino a qualche settimana fa seguivo come Clienti, le principali industrie nel comparto Difesa, cosa che, di rado, mi portava dalle parti di Baia e di Fusaro. Il perchè quel zona del Napoletano, che consiglio di visitare per le sue bellezze archeologiche e naturalistiche, abbia quest’importanza per questo tipo di industria, è presto detto.
La zona, tra le due guerre mondiali, fu sede uno dei tre stabilimenti di fabbricazione di siluri in Italia, insieme al Silurificio Whitehead di Fiume e al Silurificio Moto Fides di Livorno. Le origini del silurificio risalgono al 1914 quando venne impiantato presso Napoli nell’isolotto di San Martino con la denominazione di “Società Anonima Whitehead” dalla Whitehead di Fiume controllata dal 1905 dalla società inglese Vickers-Armstrong.
Al termine della prima guerra mondiale essendo la società oberata di debiti il gruppo britannico decise di vendere l’impianto. Alla fine del 1921 il silurificio venne posto in liquidazione ma nell’aprile del 1922 la Comit, che era il maggiore creditore dell’azienda, rilevò lo stabilimento che venne denominato “Silurificio Italiano” che venne impiantato in via Gianturco a Napoli riconvertendo un vecchio stabilimento per la fabbrica di automobili Dymler e relativo poligono nel vecchio stabilimento sull’isolotto di San Martino. Alla crisi dell’azienda venne incontro la Regia Marina proponendo la sostituzione del siluro da 450mm con il siluro da 533mm ritenuto più efficiente.
Nel 1922 venne aperto nel silurificio un reparto termomateriali finalizzato alla produzione di radiatori e di caldaie in ghisa. Ma i costi elevati di produzione, la forte concorrenza della Società Nazionale dei Radiatori di Brescia, e la lontananza dalle zone di mercato del nord Italia causarono il fallimento di questa attività collaterale del Silurificio Italiano. Nel 1929 il silurificio impiegava 1300 persone con una capacità di produzione di 10 siluri al mese.
Nel 1933 l’IRI entrò in possesso del 40% del pacchetto azionario del “Silurificio Whitehead” attraverso la Società Finanziaria Italiana, la finanziaria del Credito Italiano, e di tutte le azioni del “Silurificio Italiano” per mezzo della Società Finanziaria Industriale Italiana, la finanziaria della Comit. Nel 1934 al vertice dell’Azienda venne posto l’Ammiraglio Eugenio Minisini che nello stesso tempo era membro del Comitato Tecnico per lo studio dei problemi della siderurgia bellica e ricopriva inoltre anche la carica di vice presidente dell’IRI.
Il silurificio ebbe una notevole ripresa negli anni trenta e alla fine del 1935 impiegava 1260 operai che arrivarono a 1400 nel marzo successivo e per far fronte alle nuove commesse il silurificio venne trasferito nella zona flegrea riconvertendo nel 1939 il cantiere navale di Baia che apparteneva alla “Società Cantieri e Officine Meridionali” di proprietà della stessa IRI. Il cantiere era sorto intorno agli inizi degli anni venti, quando vennero realizzati al riparo del castello aragonese i capannoni dei cantieri navali e nella zona adiacente, sulla collina tra il golfo di Pozzuoli e la spiaggia di Cuma cominciò a svilupparsi il primo quartiere operaio legato alle nuove attività portuali. A differenza di altri cantieri, nel dopoguerra, i cantieri di Baia non soffrirono una grande crisi, sia perché erano in stretto contatto con i cantieri di Genova, sia per il sostegno alla loro attività da parte del governo fascista; inoltre i cantieri di Baia potevano avvalersi dell’apporto dei lavoratori procidani espertissimi nelle realizzazioni navali. Le capacità di questi lavoratori vennero molto apprezzate dai genovesi, che investirono nella cantieristica baiana; tra questi il direttore della Società Navigazione Generale Italiana di Genova Brunelli, che fu tra i promotori dell’attività industriale di Baia. Nonostante gli investimenti del governo per il rilancio dell’attività marittima a Baia, la crisi del 1929 ebbe gravi ripercussioni sulle attività dello stabilimento ed il cantiere venne riconvertito e, a partire dal 1936, i capannoni riutilizzati per la produzione di siluri, mentre il vecchio stabilimento di San Martino continuò ad essere utilizzato come siluripedio.
I lavori di adattamento procedono lentamente sotto la direzione dell’ingegnere Raffaelli e il trasferimento, che avvenne sotto la direzione dell’Ammiraglio Eugenio Minisini, massimo esperto di armi militari subacquee, previsto nel 1938 venne completato nel 1939. I siluri partivano da Baia, imbarcati su dei pontoni e arrivavano a San Martino per essere collaudati prima di essere spediti al fronte.
Per facilitare questo processo, il silurificio commissionò a una ditta di Bacoli i lavpri per collegare l’isolotto di San Martino con un pontile a palafitte ed uno stretto tunnel lungo 1.150 metri che in località Cappella si riconnette alla viabilità stradale. In origine il collegamento fra gli impianti pensato da Minisini contempla una funivia, così come si evince da un suo promemoria del 17 maggio 1935 intitolato “Riorganizzazione del Silurificio Italiano”. Probabilmente Minisini pensa a questa soluzione osservando alcune funivie che esistono nelle vicine cave di pozzolana, ma il progetto non è realizzato perché questa funivia avrebbe dovuto superare ben due dislivelli rappresentati dal Parco Monumentale di Baia e dal promontorio di Monte di Procida.
Il Podestà di questo comune chiede che la costruendo galleria sia adeguata a permettere il passaggio di autocarri e sia fornita di un binario ferroviario ad eventuale uso del vicino porto di Acquamorta raggiungibile, allora come oggi, da una inadatta e scoscesa strada caratterizzata da molti tornanti. Questa aspirazione non viene accolta e la galleria risulterà a malapena adatta al transito di automobili.
Nel contempo anche sull’isolotto è scavata una galleria di 250 metri che permette un agevole collegamento tra la parte iniziale dell’isola, in cui arriva il ponte di calcestruzzo ed in cui ci sono gli edifici di ricezione, con l’altra estremità dove sono ubicati i locali più riservati con relativo pontile di lancio. Locali sono ricavati anche sotto la collinetta, all’interno del tunnel, dove c’è il reparto dei compressori che caricano l’aria indispensabile al lancio dei siluri. Gli edifici costruiti nella parte superiore dello scoglio sono utilizzati come torre telemetrica e posti di controllo durante i lanci di prova.
Nel corso della seconda guerra mondiale le esigenze belliche imposero di aumentare la produzione, ma per non concentrare un’attività così importante in un unico impianto, la direzione del silurificio decise di realizzare nel 1942 un nuovo impianto nella zona pianeggiante del Fusaro; al Fusaro sarebbero state trasferite le lavorazioni meccaniche e la fonderia mentre a Baia sarebbero continuate le prove alla vasca oltre al montaggio delle parti dell’arma. La costruzione del nuovo impianto venne realizzata con materiale del luogo: tufo, pozzolana, lapillo, pomice. I lavori terminarono verso la metà del 1943 ed il macchinario occorrente fu importato per la maggior parte dalla Germania.
Lo stabilimento del Fusaro venne collegato a quello di Baia mediante una galleria lunga 1.300 metri: nel gennaio 1940 il Silurificio Italiano impiegava 1848 operai ma nel 1941 il numero passò da 2196 a 3668 tra luglio e dicembre. Nel periodo bellico 1940-1943 il silurificio produsse la maggior parte dei 3700 siluri italiani per sommergibili, torpediniere, MAS ed aerei impiegati in guerra. Nel 1943 l’organico era di 7000 unità con capacità di produzione di 160 siluri al mese.
La produzione fu costellata di luci ed ombre: le prime furono importanti innovazioniu, introdotte da Franco Smith e da Carlo Caloisi, che sarà poi il fondatore della Selenia. Il primo, che non era neppure laureata in ingegneria, progettò un siluro estremamente efficiente, con un motore a 2 tempi, con prestazioni di gran lunga superiori a quelle della sua epoca.
Carlo Calosi, oltre a inventare il siluro rotante, risolse un problema che stava facendo impazzire gli ingegneri militari di tutto il mondo. I siluri per risultare più efficaci dovevano colpire la parte più vulnerabile delle navi, cioè sotto la chiglia, questo perchè una esplosione sotto la carena della nave produce una bolla di gas in espansione che genera una forte onda d’urto. Quando l’acqua riempie la cavità della bolla, genera un getto ad alta velocità che colpisce la carena con effetti devastanti. Un modo per ottenere l’esplosione sotto la nave è quello di dotare i siluri di un dispositivo sensibile alla variazione del campo magnetico terrestre provocato dalla nave stessa. Questa soluzione era già stata applicata efficacemente nelle mine navali. Le Marine di molti paesi decisero di adottare la stessa soluzione per i siluri, sottovalutando le differenze operative tra questi e le mine. Le mine essendo stazionarie non risentono delle variazioni del campo magnetico terrestre; al contrario, poteva capitare che i siluri con acciarino magnetico, per problemi dovuti proprio a queste variazioni, non esplodessero affatto o esplodessero in anticipo, suscitando così la reazione delle navi attaccate
La marina tedesca vide verificarsi molti fallimenti di operazioni utilizzanti i siluri, specialmente quelli magnetici, suscitando la dura reazione dell’Ammiraglio Karl Dönitz ; la cosiddetta “torpedokrise” (crisi dei siluri). Problemi analoghi si verificarono con i sommergibili statunitensi di stanza nell’Oceano Pacifico, tanto da portare l’ammiraglio Nimitz nel giugno del 1943 ad ordinare la disattivazione degli esploditori magnetici Calosi sviluppa una soluzione innovativa: dotare il siluro di un proprio campo magnetico mediante la magnetizzazione del serbatoio in acciaio contenente l’aria compressa. Il siluro, in questo modo, risulta insensibile alla variabilità del campo magnetico terrestre
Altro grande esperimento, però ben poco efficace dal punto di vista bellico, fu il progetto del sottomarino d’assalto. I motori dei sommergibili, al pari dei loro equipaggi, dovevano fare periodiche e furtive emersioni, che esponevano il battello alla scoperta e alla caccia da parte delle unità nemiche. Per cercare di risolvere il problema, negli anni ’30 il Maggiore del Genio Navale Pericle Ferretti inventò un dispositivo, contraddistinto dalla sigla “ML” (iniziali del nome della moglie Maria Luisa) che permetteva la navigazione a quota periscopica con i motori a combustione interna tipo Diesel, mentre per la navigazione completamente subacquea era sempre necessario il motore elettrico con le pesanti batterie ricaricabili dallo stesso Diesel.
Il dispositivo “ML“ fu istallato sperimentalmente nel 1934 su alcuni battelli tipo “Sirena“ in costruzione al cantiere CRDA di Monfalcone. Ma l’incremento di soli 1.7 nodi ottenuto in immersione con il diesel e il dispositivo ML, rispetto al motore elettrico, ne giustificò l’abbandono e l’accantonamento. I tedeschi invece, lo perfezionarono, dopo averlo trovato dopo l’otto settembre 1943 abbandonato nei magazzini del cantiere di Monfalcone, chiamandolo snorkel.
Ferretti non si arrese e proseguì le sue ricerche, cercando di eliminare motore elettrico e della sua batteria, sostituendoli con un motore termico “unico“ ed indipendente dalla aspirazione atmosferica. Secondariamente, lo studio e la determinazione di una forma idrodinamica per un vero battello sottomarino e non sommergibile, capace di sviluppare forti velocità subacquee. Così mise a punto un motore aeronautico a quattro tempi Isotta Fraschini “Asso“ da 350 CV alimentato ad alcool al 97 % e ossigeno conservato allo stato liquido in bombole ad alta pressione. L’alcool solubile in acqua salata depurava i gas di scarico raffreddati dai residui di combustione e li faceva ritornare nel ciclo. Le prove a terra nel 1936 dimostrarono l’impossibilità di raggiungere ulteriori grandi potenze con questo sistema che ne riduceva l’utilizzazione a battelli di piccole dimensioni e quindi di limitato valore strategico.
A Baia, però venne l’idea di utilizzare questa soluzione per progettare dei piccoli sottomarini d’assalto, che avrebbero reso ancora più efficaci le incursione della X Mas. Questi sottomarini erano di due modelli, il primo, formato dagli S.A.1 e S.A.2 (soprannominati Sandokan e Yanez, per la passione di Minisini per Salgari e dal fatto nel 1941 uscisse il film “I Pirati della Malesia ), varati per le prove alla fine del 1941. Questi battelli dislocavano solo 13 tonnellate circa, e viaggiavano fino a 15 nodi, con due eliche contro rotanti che, stranamente, erano traenti e non spingenti. Avevano un armamento di 2 siluri (non ricaricabili, ovviamente) sganciabili ad impulso e di 450 mm, potevano immergersi fino a 25 metri di profondità (quindi molto poco nelle trasparenti acque del Mediterraneo), e tendevano ad emergere quando lanciavano i siluri. Erano armi tecnicamente innovative ed avanzate, ma inadatte all’impiego militare; anche se si pensò di montarle su un caccia torpediniere lanciatore e rilasciarle in prossimità di un bersaglio pagante (avevano infatti una ridottissima autonomia). Dei prototipi di studio, viziati dai problemi al motore, non molto efficiente nella inusuale configurazione scelta, che continuava a guastarsi e richiedeva che nell’equipaggio di soli 3-4 uomini ben due fossero motoristi di grande esperienza, visto che anche nei più brevi viaggi si potevano verificare numerose piccole (e facilmente riparabili) avarie. Il successivo prototipo S.A.3 soprannominato “Kammamurì”; altro personaggio di Salgari, un ragazzino indiano, il cui nome (con un semplice spostamento di accento) si trasformava nell’espressione dialettale napoletana “Qua dobbiamo morire” a testimonianza di quanto, progettisti e collaudatori, avessero nel progetto.
Il nuovo motore un Diesel, probabilmente un O.M. a due tempi, la cui miscela comburente è costituita, oltre al gasolio, da una base di ossigeno allo stato liquido che successivamente è diluita nell’elio che è un gas neutro. I gas di scarico usati per diluire l’ossigeno liquido vengono direttamente espulsi in mare, mentre il loro residui, arricchiti di ossigeno, vengono iniettati nei cilindri; inoltre rispetto al S.A.2 sono introdotte una serie di modifiche nello scafo nel tubo lanciasiluri. Il nuovo motere garantiva, sulla carta, ben 40 Cv per litro di cilindrata, con un peso di tre Kg per CV. La velocità saliva a 20 nodi (ovviamente in immersione); che fine abbia fatto Kammamurì, non si è mai capito.
Passando alle ombre, gli incursori della X Mas si erano resi conto, durante le loro azioni, che alcune partite di siluri, benché lanciate in maniera corretta ed impattassero regolarmente contro le navi avversarie, facevano pietosamente cilecca. Dato che questo si stava verificando troppo spesso, i nostri vertici dei Servizi Segreti cominciarono a sospettare qualche sabotaggio da parte degli inglesi: l’inchiesta scoprì poi che tutti i siluri provenivano da Baia ed erano stati collaudati da uno stesso ingegnere, che fu preso e sbattuto al gabbio.
Per sua fortuna, il proseguo dell’inchiesta portò poi ad accertare che non si trattava di sabotaggio ma di semplice imperizia. Il nostro ingegnere, anziché effettuare i collaudi utilizzando per ogni siluro il proprio apparato guidasiluro, impiegava un unico guidasiluri per tutti i collaudi, cosa che di fatto falsava l’esito delle prove. Il che salvò l’ingegnere dalla fucilazione, ma un processo per truffa, dato che questo comportamente, affrettando l’esecuzione dei test e non scartando i siluri difettati, gonfiava la produzione e l’utile d’esercizio. Il processo, avviato ’43, ebbe termine solo a guerra finita, nel 1948 con l’assoluzione perché il fatto non costituiva reato.
Dopo l’8 Settembre 1943 i tecnici del silurificio vennero incaricati da Raffaele De Courten, Ministro della Marina nel governo Badoglio, di collaborare con gli Anglo-Americani. L’Office of Strategics Services venne mobilitato per trasferirli negli Stati Uniti, sottraendoli alla cattura da parte dei nazisti. La sensazionale operazione (“Progetto McGregor”) ha ispirato il romanzo “Cloak and dagger” e l’omonimo film. Il che avvenne appena in tempo.
Dal 15 al 22 settembre i tedeschi distrussero in modo sistematico gli stabilimenti di Baia, del Fusaro e il siluripedio di S. Martino. Gli impianti di Baia furono minati ed incendiati. All’impianto del Fusaro furono fatte crollare le coperture dei capannoni e al siluripedio di S. Martino fu bombardato il ponte che collegava lo scoglio alla terra ferma. Appena fu possibile i dirigenti del silurificio iniziarono la rimozione delle macerie ed il recupero dei macchinari. Le truppe alleate, entrate il 18 ottobre negli stabilimenti, iniziarono a caricare numerosi automezzi trasportando altrove macchinario e materiale di ogni tipo e gli stabilimenti di Baia e del Fusaro vennero occupati dalla Royal Navy. Solo il 20% dell’impianto di Baia rimase affidata al silurificio per svolgere lavori di revisione su 700 siluri della marina italiana.
Gli impianti di Baia e del Fusaro ritornarono in mano italiana nel settembre del 1945 ma subito pose il problema di avviare una nuova lavorazione industriale per continuare ad impegnare le maestranze e riassorbire quelle presenti prima del settembre del 1943. Sin dalla fine del 1944 si era pensato a delle lavorazioni di tipo meccanico o navale come la costruzione di motori diesel, di motopompe e di compressori oppure di motopescherecci, di motobarche e di motoscafi.
Gli stabilimenti vennero rilevati da Finmeccanica, società a partecipazioni statali costituita per gestire le industrie meccaniche e cantieristiche acquisite, che fino a quel momento avevano prodotto su commesse belliche e non erano in grado di riconvertirsi rapidamente. Il silurificio venne riconvertito in fabbrica motociclistica denominata Industria Meccanica Napoletana, che a partire dal 1950 iniziò a costruire su licenza il motore Mosquito di 38 cc. della Garelli, un propulsore ausiliario da applicare su una comune bicicletta per trasformarla in un veicolo a motore; successivamente l’azienda realizza un proprio telaio monotrave aperto in lamiera stampata e vende il veicolo completo. A dirigere lo stabilimento venne chiamato l’ingegner Gian Luigi Capellino, progettista della Ducati, altra azienda entrata a far parte dello stesso gruppo della galassia IRI.
Nel 1952 l’azienda produce il ciclomotore Paperino, che usa ancora il motore Mosquito, cui nel 1954 si affiancheranno il Superpaperino ed il Superpaperino Sport con motore a due tempi, tre marce, realizzato in proprio e nel 1953 viene prodotta la motoleggera Baio con motore a quattro tempi di 100 cc.
Nel 1958 la produzione viene interrotta e gli stabilimenti ospitarono la Microlambda, la prima industria radaristica italiana, fondata proprio da Calosi impiantata nel 1951 presso il Lago Fusaro e che il 22 marzo 1960, in seguito alla fusione con Sindel costituì la Sipel – Società industriale prodotti elettronici S.p.A., che nel 1960 avrebbe assunto la denominazione di Selenia. Gli stabilimenti dove prima era ubicato il silurificio sono poi diventati la sede del Museo del radar, inaugurato il 5 aprile 2009.
Il Museo si sviluppa su di un’area di circa 500 mq in tre elementi: spazio espositivo, area di simulazione e area conferenze. Allo spazio espositivo è associata anche un’area esterna ma prospiciente ad esso, lungo la quale sonocollocate alcune fra le antenne dei prodotti radar più significativi sviluppati e costruiti dalla Selenia. L’interno accoglie il visitatore guidandolo in un percorso lungo il quale gli vengono proposti in sequenza:
una serie di pannelli che illustrano documenti e personaggi che appartengono alla storia del radar (spero abbiano messo anche il professore Picardi)
una serie di bacheche in cui sono esposti strumenti storici utilizzati in ambito progettazione e/o produzione dei radar
un’area tecnologica che si sviluppa con otto espositori. In essi sono esposti componenti e parti tipici di prodotti di epoche diverse, inclusa quella attuale. Sono assiemi del tipo: dispositivi di potenza; dispositivi if/rf; assiemi a microonde; dispositivi di alimentazione; componenti di antenne; assiemi di microelettronica; dispositivi circuitali. Il contenuto di ciascun espositore è illustrato da una scheda in cui si rappresenta l’evoluzione di quella specifica tecnologia nel tempo, mentre per ciascun assieme vi è una targa con l’indicazione di cosa sia, quali fossero le principali caratteristiche e l’impiego;
tre consolles utilizzate quali simulatori radar. Le consolles sono configurate per mostrare ciascuna uno scenario operativo, sorveglianza terrestre, sorveglianza navale e controllo del traffico aereo, con il visitatore può interagire;
all’uscita della sala simulazione il visitatore incontra l’area dei sistemi radar. Vi è una serie di pannelli illustrativi che, seguendo un ordine cronologico, mostrano i sistemi radar più significativi sviluppati in Italia, con una dettagliata descrizione delle sue caratteristiche funzionali e delle sue peculiarità tecnologiche. L’attenzione è concentrata sui miglioramenti tecnologici intervenuti fra una generazione e la successiva dei sistemi, a partire dagli anni ’50.
Le Terme di Diocleziano sono un complesso monumentale unico al mondo per le dimensioni e per l’eccezionale stato di conservazione. Furono costruite in soli otto anni tra il 298 e il 306 d.C. e si estendevano su una superficie di 13 ettari, per servire quelle che all’epoca erano le zone più popolose della roma dell’epoca, Quirinale, Viminale ed Esquilino, e per la loro realizzazione fu smantellato un intero quartiere, con insulae ed edifici privati regolarmente acquistati e con lo sconvolgimento della viabilità preesistente.
Siano riusciti a datarle, grazie al ritrovamento dell’iscrizione dedicatoria
D(omini) N(ostri) Diocletianus et Maximianus invicti seniores Aug(usti) patres Imp(eratorum) et Caes(arum), et d(omini) n(ostri) Constantius et Maximianus invicti Aug(usti), et Severus et Maximianus nobilissimi Caesares thermas felices Diocletianas, quas Maximianus Aug(ustus) rediens ex Africa sub praesentia maiestatis disposuit ac fieri iussit et Diocletiani Aug(usti) fratris sui nomine consecravit, coemptis aedificiis pro tanti operis magnitudine omni culta perfectas Romanis suis dedicaverunt
ossia in italiano
I nostri signori Diocleziano e Massimiano invitti, Augusti “seniores”, padri degli Imperatori e dei Cesari, e i nostri signori Costanzo e Massimiano invitti Augusti, e Severo e Massimiano nobilissimi Cesari, dedicarono ai loro Romani le terme felici Diocleziane, che Massimiano Augusto al suo ritorno dall’Africa, in presenza della sua maestà decise e ordinò di costruire e consacrò al nome di Diocleziano, suo fratello, acquistati gli edifici ad un’opera di tanta grandezza, e completate sontuosamente in ogni particolare
Iscrizione che cita tutti i Tetrarchi e che ci da delle date precise: Massimiano tornò dall’Africa nell’autunno del 298 e dopo che Diocleziano e Massimiano abdicarono il 1º maggio del 305, ma prima che morisse Costanzo Cloro, il 25 luglio 306. L’edificio era in mattoni, tutti con bolli del periodo dioclezianeo, sebbene all’epoca l’uso dei bolli laterizi fosse declinato: probabilmente venne ripreso proprio per costruire le terme.
L’impianto restò in funzione fino alla metà del VI secolo quando la guerra greco-gotica, come per tutte le altre terme romane, causò gravi danneggiamenti alla città e ai suoi acquedotti, interrompendo l’alimentazione idrica. Dato l’abbandono della zona nel Medievo, le Terme si conservarono decentemente, tanto da essere rappresentate in dettaglio da Palladio.
Le cose cambiarono a metà Cinquecento, quando i suoi spazi furono progressivamente riutilizzato: il primo ad averne responsabilità, fu un buddaci, pardon un messinese, Antonio del Duca, zio del fedele discepolo di Michelangelo, Jacopo del Duca.
Antonio Del Duca sollecitò a lungo la costruzione, a seguito di una visione avuta nell’estate del 1541, quando avrebbe visto una “luce più che neve bianca” che si ergeva dalle Terme di Diocleziano con al centro i sette martiri (Saturnino, Ciriaco, Largo, Smaragdo, Sisinnio, Trasone e Marcello papa); questo lo avrebbe convinto che doveva sorgere un tempio dedicato ai sette Angeli, quindi segnò il nome dei sette angeli sulle colonne all’interno del frigidarium. Così cominciò ad ideare una possibile costruzione della chiesa dedicata ai sette angeli ed ai sette martiri, ma il pontefice Paolo III non sostenne l’idea.
Nel 1543 Antonio del Duca fece realizzare un quadro raffigurante la Madonna fra sette angeli, copia del mosaico della Basilica di San Marco. Il dipinto è attualmente posto al centro dell’abside della Basilica di Santa Maria degli Angeli e dei Martiri. Tuttavia per vedere, seppur brevemente, attuato il sogno della costruzione di quest’ultima basilica, Antonio dovette aspettare a lungo visto che con l’elezione di Giulio III i nipoti del papa realizzarono un recinto di caccia e maneggio per cavalli all’interno delle terme. Tuttavia col pontificato di Marcello II e di Paolo IV cominciarono a verificarsi le condizioni per la realizzazione della basilica. Chiesa che fu poi fortemente modificata dal Vanvitelli, che nel 1749 modificò di 90° l’orientamento aprendo l’attuale ingresso nel calidarium.
Per il Giubileo del 1575 Gregorio XIII utilizzò l’aula ottagona e tre grandi aule fino alla basilica per farne i nuovi magazzini del grano. La scelta ricadde su quest’area perché offriva condizioni climatiche e morfologiche particolarmente vantaggiose: più in alto rispetto all’abitato, al sicuro dalle frequenti inondazioni del Tevere, meno umida e più ventilata, condizioni queste indispensabili per la conservazione del cereale. Il progetto di Ottavio Mascarino fu portato a termine da Martino Longhi il Vecchio: si trattava del primo nucleo dell’Annona Pontificia, che fu successivamente ampliata nel 1609 da Paolo V (Granaio Paolino), nel 1630 da Urbano VIII (Granaio Urbano) e nel 1705 da Clemente XI.
Ricordiamo come nello Stato Pontificio già a partire dal Medioevo, il Papa Re tenevano sotto controllo la produzione cerealicola, emanando una notevole quantità di provvedimenti legislativi. Tre erano le magistrature preposte a questo importantissimo compito di controllo della produzione dei cereali, ma anche di altre derrate alimentari: l’Annona frumentaria, l’Annona olearia ed il Tribunale della Grascia. L’Annona frumentaria si occupava dell’acquisto e della requisizione di ingenti quantitativi di grano che venivano poi conservati nei granai annonari, in previsione di annate di scarso raccolto, ne fissava il prezzo d’acquisto e ne curava la distribuzione e la vendita agli stessi fornai. Gli stessi compiti, ma per il commercio dell’olio, esercitava l’Annona olearia. Il Tribunale della Grascia invece esercitava il suo potere sugli altri commestibili (vino, olio, carne, bestiame ed altre derrate alimentari), requisendoli, fissandone il prezzo, decidendo se proibirne l’esportazione o no.
Con la soppressione dell’Annona nel 1816, per volontà di Pio VII e del suo segretario di Stato cardinal Consalvi, l’edificio fu destinato nei due secoli successivi a vari usi civili: nel 1817 divenne il Deposito della mendicità, nel 1824 Pia Casa d’Industria e di Lavoro, dove i ragazzi poveri potevano imparare un mestiere, poi ospizio per anziani. Nel 1827 vi fu trasferito il carcere femminile di S.Michele a cui si aggiunse, nel 1831, quello maschile. Dopo il 1874 il Comune di Roma fece degli ex-granai gregoriani, dove era il carcere femminile, la sede della Scuola Normale Femminile. Nel 1992 l’edificio divenne la sede della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università Roma Tre, mentre oggi è sede della Facoltà di Scienze della Formazione
Tra il 1586 e il 1589 papa Sisto V ordinò per la costruzione della sua villa sull’Esquilino, la demolizione, anche con l’ausilio di esplosivi, resti nella zona del calidarium rapportabili a circa 100000 m³ di materiale. I confini della villa corrispondono al terreno circoscritto dalle moderne Via del Viminale / Viale Enrico Nicola, e Via Marsala (che corre accanto alla stazione di Roma Termini), fino a Porta San Lorenzo e a Via Agostino Depretis. Il papa commissionò i lavori a Domenico Fontana i lavori di costruzione; l’architettro realizzò il palazzo di fronte alla strada, prima chiamato “delle terme” e poi “a termini” per la vicinanza alle Terme di Diocleziano, noto come “Palazzo di Sisto V alle Terme”; l’altro era il palazzo che sorgeva all’angolo della moderna “Via Cavour” con “Via Farini”, noto come “Casino Felice”. Fontana era anche responsabile del paesaggio del giardino: di proporzioni enormi, il giardino era diviso in terrazze e intersecato da viottoli che offrivano splendide viste, alcune fiancheggiate da cipressi. Numerose opere d’arte e più di trenta fontane (alimentate dal nuovo acquedotto Felice) erano distribuite in tutta la proprietà.
Nel 1860, in occasione della costruzione della stazione ferroviaria di Roma, iniziò lo smembramento della villa. La metà della proprietà esisteva ancora alla fine del 1872. In pratica erano rimasti circa 8000 m2, incluso il Palazzo di Sisto V, ma sia questo che il Casinò Felice furono demoliti nel 1887. Dov’era il palazzo principale, fu costruito l’attuale Palazzo Massimo alle Terme e dov’era il Casino Felice c’è il Palazzo Giolitti. Il nuovo rione, chiamato “Castro Pretorio” “, fu istituito il 20 agosto 1921. Di tutte le fontane del giardino, ne sopravvivono quelle del Prigione, ora montata nei pressi di San Pietro in montorio e quella di “Nettuno e Tritone”, del Bernini, fu venduta nel 1786 da Staderini e si trova al Victoria and Albert Museum, a Londra. Tra l’altro, portale d’entrata principale della villa (visibile in un’incisione di Vasi) funge da ingresso a Villa Celimontana.
Tornando alle nostre Terme, nel 1598 un suo spheristerium (sala per i giochi con la palla), gemello di quello diacente alla Casa del passeggero,fu trasformata nella chiesa di San Bernardino alle Terme, affidata ai francesi dell’ordine dei Cistercensi, i Foglianti, per intercessione di Caterina Sforza di Santafiora. Dopo la Rivoluzione francese e lo scioglimento dei Foglianti, l’edificio con l’annesso monastero fu ceduto alla congregazione di Bernardo di Chiaravalle, al quale venne dedicata la chiesa.
Similmente al Pantheon, anche San Bernardo ha una forma cilindrica, con un diametro di 22 m e con una cupola dotata di oculo, la cui decorazione interna ricorda quella della basilica di Massenzio. Una serie di nicchie ricavate nelle pareti è occupata da statue di santi scolpite con gusto affine al Manierismo internazionale da Camillo Mariani. La struttura originale ha visto l’aggiunta della cappella di san Francesco. Il pittore tedesco Johann Friedrich Overbeck, fondatore del movimento dei Nazareni, è sepolto qui.
Nel 1754 Benedetto XIV fece trasformare da Giuseppe Pannini parte degli ambienti adiacenti all’Aula Ottagona nella chiesa di Sant’Isidore alle Terme, sconsacrata e poi demolita nel 1940 per il recupero delle precedenti strutture delle terme di Diocleziano. Nel 1764 infatti papa Clemente XII autorizzò la costruzione di una riserva d’olio che, garantendo l’approvvigionamento per la città, calmierasse i prezzi del prodotto. I pozzi per lo stoccaggio dell’olio furono realizzati proprio nei sotterranei dei granai. Per la conservazione dell’olio era infatti necessario un luogo fresco e con temperatura costante ed i sotterranei gregoriani furono considerati ideali. I lavori per la realizzazione delle olearie papali furono affidati all’architetto Piero Camporesi il Vecchio, il quale fece abbattere antiche ed imponenti strutture delle Terme di Diocleziano e realizzare un gran numero di pilastri per sorreggere i granai superiori. Purtroppo non vi fu alcuna attenzione a preservare l’antico edificio termale: furono smantellati gli antichi sistemi di riscaldamento e lo stesso portale bugnato d’ingresso fu aperto nella muratura del calidarium. I pozzi realizzati furono dieci, posti su due file da cinque, all’interno di un ambiente composto da cinque corridoi con ampie volte a crociera su possenti pilastri. Le bocche delle cisterne, ognuna delle quali poteva contenere 44.000 litri, emergono dal pavimento rialzandosi da esso con una grande vera in travertino.
Nonostante l’intensa urbanizzazione di quel settore della città seguito all’unità d’Italia, la progettazione dei nuovi edifici rispettò le dimensioni e il tracciato della grande esedra d’ingresso, costituendo una vasta quinta scenografica alla nuova via Nazionale che doveva collegare la stazione ferroviaria al centro rinascimentale e barocco. La piazza fu così denominata piazza dell’Esedra, nome ancora frequentemente usato nonostante il cambio in “piazza della Repubblica” avvenuto dopo la guerra e la proclamazione della Repubblica.
Ora le Terme di Diocleziano erano poste in un recinto di 380 x 365 m e ancora nel V secolo Olimpiodoro affermava che contavano 2400 vasche. Il blocco centrale misurava 250 x 180 m e potevano accedere al complesso fino a tremila persone contemporaneamente. Erano alimentate da un ramo dell’Acqua Marcia che partiva da Porta Tiburtina e, con un tragitto ad arcate utilizzato fino al 1879 dall’Acqua Felice, conduceva l’acqua in una cisterna lunga più di 90 m, detta la botte di Termini; fu distrutta nel 1876 per fare spazio alla Stazione Termini, che prese il nome dalle “terme” stesse.
La loro pianta, ovviamente, replicava in grande quella inventata dagli architetti di Nerone: analogamente alle Terme di Traiano, aveva l’esedra semicircolare e il calidarium rettangolare con tre nicchie semicircolari. L’esedra era forse usata forse come teatro, e intervallata da aule rettangolari con colonne, forse biblioteche. Nelle terme si trovavano dopotutto, per ordine imperiale, i libri già nella Biblioteca Ulpia del Foro di Traiano, a quell’epoca semiabbandonato.
Al centro si trovava una grande basilica, dove si incontravano i due assi di simmetria del complesso. Lungo l’asse minore erano allineati i bagni (calidarium, tepidarium e frigidarium), mentre sull’asse maggiore (nord-ovest/sud-est) si trovavano le palestre.
Sul lato nord-orientale di piazza della Repubblica sono ancora visibili i resti di una delle absidi che si aprivano nel calidarium, accanto all’ex Facoltà di Magistero. Un’altra di queste absidi ospita l’ingresso della Basilica di Santa Maria degli Angeli, che è stata ricavata nell’aula centrale delle terme, la “basilica” appunto. La chiesa ingloba anche il tepidarium, subito dopo l’ingresso, composto da una piccola sala circolare con due nicchie quadrate, e due ambienti laterali alla navata centrale; a parte le aggiunte e modifiche di Michelangelo e del Vanvitelli (il pavimento sopraelevato e le nuove colonne in mattoni imitanti il granito), l’aspetto antico dell’interno si è mirabilmente conservato. L’abside sorge dove si trovava la grande piscina rettangolare della natatio. Le tre volte a crociera superstiti del transetto della basilica, sorrette da otto enormi colonne monolitiche in granito, forniscono ancor oggi uno dei pochi esempi dell’originale splendore degli edifici romani.
Un’altra parte del complesso fa oggi parte del Museo delle Terme: qui si trovano gli ambienti del lato nord-orientale tra la basilica e la palestra, che anticamente era un cortile colonnato oggi quasi completamente scomparso. Qui si vede anche una parte superstite della natatio, con gli elementi decorativi delle pareti, come le mensole che sostenevano colonnine pensili, elemento tipico dell’architettura dioclezianea presente anche nel suo palazzo di Spalato. L’angolo dell’edificio conserva una grande sala ovale (probabilmente l’apodyterium, lo spogliatoio) e una rettangolare (l’atrio). Questo gruppo di ambienti doveva avere i corrispettivi simmetrici sull’altro lato, ma oggi sono completamente scomparsi sotto via Cernaia e via Parigi. Dal giardino del museo si può ammirare un tratto della facciata, mentre dall’altro lato del giardino si vedono le due esedre che appartenevano all’angolo nord-orientale del recinto, abbastanza ben conservate, dove forse si tenevano le conferenze e letture pubbliche (auditoria): una mantiene anche l’originario pavimento mosaicato.
Fino al 1980, all’incrocio tra l’attuale Via Latina e la Via Cesare Baronio, si ergeva una brutta collinetta di terra, non si sapeva di che origine, che gli abitanti della zona avevano soprannominato “er montarozzo” perché tale appariva allo sguardo. Tutt’intorno ad esso girava una viuzza stretta, dove spesso parcheggiava mia mamma, quando andava a fare la spesa da quelle parti.
Nel 1981, mi pare, il Campidoglio decise di dare una ripulita alla zona e di ampliare via Baronio, per cui er montarozzo fu una sorta di vittima sacrificale al fine di adeguare e modernizzare la viabilità della zona. Così a sorpresa, saltò fuori una grande vasca romana.
Questa, a pianta rettangolare, ha in un angolo gli scalini per scendere all’interno, e nell’angolo opposto un pozzo per lo scarico dell’acqua. Le pareti sono in opus signinum, un conglomerato formato da scaglie di selce impastate nella calce magra ben allettata, caratteristico delle cisterne romane. Sono presenti anche tracce dell’intonaco di rivestimento in cocciopisto, ottenuto con laterizio triturato e impastato con calce e olio fino a diventare compatto e impermeabile; la superficie di rifinitura è fatta con polvere di marmo.
Al centro, quasi intatta, si vede la fontana, l’interno della quale è percorso da una serie di canalette in terracotta, di forma conico-elicoidale versava l’acqua in una serie di vaschette poste a quote diverse e comunicanti fra loro creando un effetto di piccole cascate. La tecnica di costruzione in opera reticolata e laterizio (la stessa del ninfeo di Egeria in Caffarella) consente di attribuire il complesso alla prima metà del II sec. d.C.
La vasca rappresentava un elemento decorativo e monumentale di una villa di età imperiale (I-II secolo) che si estendeva lungo la via Latina all’altezza del II miglio. Resti di una villa corrispondente a queste caratteristiche, dotata di impianti di approvvigionamento idrico e riscaldamento, venne rinvenuta alla fine del XIX secolo nei pressi delle attuali via Omodeo e via Luzio. Da alcune iscrizioni presenti sulle condutture idriche in piombo (fistulae aquariae) si è ipotizzato che la villa sia appartenuta al senatore Quinto Vibio Crispo, citato da Tacito nella sua opera Dialogus de oratoribus, un testo dedicato all’arte della retorica. Tacito attribuisce l’enorme successo conseguito da Vibio Crispo alla sua grande eloquenza. Un successo che lo rese famoso in “tutto il mondo”, a tal punto, che il suo nome era noto nelle più “lontane parti della terra”, tanto quanto lo era nella sua città natale: Vercelli.
Ecco il brano di Tacito
Oserei sostenere che questo Eprio Marcello, di cui ho appena parlato, e Crispo Vibio (preferisco in effetti ricorrere a esempi moderni e di fresca data che a quelli del passato e dimenticati) godono nelle più lontane parti della terra di una notorietà non minore che a Capua o a Vercelli, dove si dice che siano nati. E questa notorietà non si deve ai duecento milioni di sesterzi dell’uno o ai trecento dell’altro, benché appaia credibile che siano giunti a tanta ricchezza grazie all’eloquenza, bensì proprio alla loro eloquenza. In effetti, l’essenza divina e il potere soprannaturale della parola ci hanno, in tutte le età, fornito molti esempi della fortuna a cui possono elevarsi gli uomini con la forza dell’ingegno; ma gli esempi ora citati sono vicinissimi a noi, e li possiamo conoscere non per averne sentito parlare, ma perché li abbiamo sotto gli occhi. Quanto è più bassa e spregiata la loro origine e quanto più sono notorie la povertà e le ristrettezze che li hanno circondati sul nascere, tanto più costituiscono un esempio di luminosa evidenza, valido a dimostrare i vantaggi pratici offerti dall’eloquenza del vero oratore. Perché, senza la raccomandazione dei natali, senza il solido sostegno della ricchezza, senza una moralità ineccepibile, entrambi, e uno dei due spregiato anche per il fisico, da molti anni sono ormai i più potenti
Contando che il valore di un sesterzio è pari a quello di un nostro euro, potete rendervi conto di quanto guadagnato come avvocato e oratore dal senatore in questione. Sappiamo che si trasferì a Roma ai tempi di Claudio, facendo una rapida carriera politica, diventando consul suffectus durante l’operato dell’Imperatore Nerone mentre nel ’68 d.C è nominato curator acquarum, responsabile della gestione degli acquedotti pubblici dell’Urbe.
Il potere di Quinto Vibio Crispo cresce ulteriormente sotto Vespasiano, di cui era grande amico, tanto che l’Imperatore lo utilizzò spesso e volentieri per mediare le dispute con il Senato, specie in materia fiscale. Diventa anche Proconsole d’Africa tra il 72 e 75 d.C. e due anni più tardi è nominato Legato dell’Imperatore per la riscossione delle imposte in tutta la Spagna. Nell’83 d.C ottenie il suo terzo e ultimo consolato, per poi ritirasi a vita privata e morire ultra ottantenne. Alla sua dipartita, la villa fu ereditata da un altro senatore, originario di Faenza, Tito Avidio Quieto ricoprì la carica consolare nel 93 e quella di governatore della Britannia romana nel 98 circa; alla sua morte, 107 d.C. la villa fu incorporata nel demanio imperiale.
La struttura sembra raffrontabile ad una natatio: i frequentatori potevano sedere presso l’acqua contenuta nella vasca,all’asciutto, sul bancone. In una fase successiva la vasca fu trasformata in un acquario con l’inserzione di tubuli fittili destinati a tane per pesci. Resta invece un mistero il modo in cui la fontana avrebbe ricevuto l’acqua, tenendo conto che l’unico acquedotto conosciuto che passava da queste parti (l’acquedotto Antoniniano) fu costruito 50-100 anni più tardi. Una indicazione può comunque venire dal ritrovamento di una cisterna all’interno della catacomba scoperta nel 1995 sul lato opposto di via Latina.
Il complicato sistema idraulico della fontana centrale sembra avere delle analogie con quello della “Meta sudante”, la grande fontana che si trovava di fronte al Colosseo, purtroppo rasa al suolo nel 1936: il nome “meta” deriva dalla forma conica dell’oggetto, simile alle mete dei circhi romani, “boe” attorno alle quali giravano le quadrighe in gara; la meta era detta “sudante”, perché l’acqua stillava come se la fontana “trasudasse”. Questa fontana che vediamo è oggi poi particolarmente importante in quanto costituisce un esemplare unico dell’edilizia romana
La convenzione di Stans sembrava avere risolto tutte le diatribe interne alla Confederazione; in più, dopo secoli, sembrava essersi finalmente risolta, con un compromesso, la lunga disputa con gli Asburgo. Nel 1487 la Confederazione riuscì a costringere Massimiliano a riconoscere i diritti e i territori della Confederazione. Per la prima volta il capo della Casa d’Austria riconosceva l’esistenza della Confederazione come entità territoriale e giuridica. I confederati si impegnarono a loro volta a riconoscere Massimiliano
“imperatore del Sacro Romano Impero, e a fare tutto ciò che essi sono obbligati a fare in quanto sudditi del Sacro Romano Impero”
Il tutto andò in crisi per motivi che poco avevano a che fare con la Svizzera e molto, sembra destino, con la Borgogna: Massimiliano d’Asburgo aveva sposato Maria, la figlia di Carlo il Temerario e aveva dichiarato guerra a Luigi XI, per difendere l’eredità della moglie. La Confederazione, che forniva mercenari ad ambo le parti, venne inevitabilmente coinvolta nel conflitto. In ogni villaggio della Svizzera vi era un partito francese ed un partito asburgico, che concorrevano – talvolta violentemente – per assoldare il numero maggiore di mercenari. Mentre la Svizzera interna teneva verso la Francia, Berna e Zurigo appoggiavano gli Asburgo. Massimiliano, senza successo, tentò, nella sua qualità di imperatore, di impedire l’arruolamento da parte dei francesi di mercenari svizzeri. E poiché i picchieri svizzeri preferivano servire la Francia, Massimiliano cominciò ad arruolare i Lanzichenecchi, soldati mercenari originari della Svevia. Tra i mercenari svizzeri ed i Lanzichenecchi nacque per questo una forte concorrenza, che si manifestava in infinite canzonature e reciproche accuse di tradimento.
A questo si aggiungeva anche la rivalità con la Lega Sveva, voluta dall’Imperatore Federico III, proprio per limitare l’espansionismo svizzero nella Germania del Sud; le città sveve che tradizionalmente erano ai ferri corti con i confederati, sia per rivalità economiche, sia perché gli svizzeri avevano l’abitudine di saccheggiare i loro territori, si sentirono così abbastanza forti da potere contrastare con le armi i fastidiosi vicini. Inoltre,Nei due anni tra il 1489 e il 1491 gli Asburgo si ripresero dalla terribile crisi in cui erano caduti.
Massimiliano entrò finalmente in possesso della Borgogna, e nel 1490 di Tirolo e dell’Austria Anteriore. L’improvvisa morte di Mattia Corvino alleggerì la posizione ad oriente, e Federico III ritorno in possesso dei suoi territori. Nel 1493 Federico morì, e Massimiliano, per la prima volta dopo molti anni, riuscì a riunire sotto un’unica corona tutti i territori dinastici. In questo modo la Confederazione trovava ad avere lungo tutto il confine settentrionale e orientale, un vicino potente e potenzialmente ostile .Divenuto imperatore, Massimiliano primo diede avvio ad una riforma volta a rafforzare il potere centrale nel Sacro Romano Impero, promulgandola nel 1495, in occasione della Dieta di Worms.
La prima innovazione fu l’introduzione di Reichspfennig, una tassa per sostenere le guerre contro i francesi in Italia e le guerre contro i Turchi. Doveva essere versato da ogni suddito dell’impero di età maggiore di 15 anni, e assumeva diverse forme (imposta fissa per persona, imposta sul reddito, imposta sul patrimonio) a seconda di status e condizione economica. Inoltre la dieta emanò il cosiddetto Landfrieden, la tregua di Dio perpetuo, con lo scopo di mettere fine alle guerre private, sulla cui vigilanza era chiamato a vegliare un tribunale apposito, il Reichskammergericht (Corte della Camera imperiale). Gli svizzeri, però, erano come tradizione poco propensi a pagare le tasse agli Asburgo, per cui non riconobbero le decisione della dieta di Worms. Per cui, la situazione divenne improvvisamente tesa e bastava un nonnulla per scatenere di nuovo la guerra.
La causa immediata dello scoppio delle ostilità fu l’intricata situazione nei Grigioni. Gli Asburgo avevano acquisito, sino al 1496, otto giurisdizioni nel Prättigau, e avevano antichi diritti in Bassa Engadina, in Val Monastero e in Val Venosta, che però erano contestati da parte dei Prinpici Vescovi di Coira. In questi territori – a cavallo tra la sfera d’influenza degli Asburgo e quella della Confederazione, si erano formate tre leghe: la Lega Grigia, la Lega Caddea e la Lega delle Dieci Giurisdizioni. La pressione degli Asburgo spinse la Lega Caddea ad allearsi con la Confederazione (1498), mettendo in gravissima difficoltà il Vescovo di Coira, che, contemporaneamente, era Principe Imperiale – ovvero suddito di Massimiliano – e suo avversario, in quanto associato alla Lega Caddea, alleata della Confederazione e ostile all’Imperatore.
Nel gennaio 1499, il reggente asburgico del Tirolo, per far valere i diritti imperiali nei confronti del Vescovo di Coira e della Lega Caddea, occupò militarmente la Val Venosta e la Val Monastero. L’obiettivo reale era però di ottenere il controllo del Giogo di Santa Maria, che consentiva una comunicazione diretta tra Milano e Innsbruck. Si trattava di un collegamento di vitale importanza per gli interessi militari degli Asburgo in Lombardia.
Mentre il Vescovo di Coira era impegnato in trattative con Massimiliano, riuscendo ad ottenere un armistizio, la Lega Caddea chiese l’appoggio della Confederazione, mentre il reggente del Tirolo si rivolse alla Lega Sveva. Agli inizi del febbraio del 1499 ambedue le parti raggiunsero con le loro truppe la bassa valle del Reno nei pressi di Sargans e Feldkirch. Anche se, il 26 gennaio, a Glorenza, gli ordini del Tirolo avevano sottoscritto con il Vescovo di Coira un accordo che prevedeva una soluzione pacifica del conflitto investendo della questione il Reichskammergericht, a Balzers si giunse a scontri armati tra formazioni di Lanzichenencchi e contingenti svizzeri. Vi furono provocazioni da ambo le parti. Il 6 di febbraio, un piccolo contingente del cantone di Uri attraversò il Reno e bruciò alcuni edifici. Questo incidente fornì agli svevi un eccellente pretesto per occupare il passo di S. Luzi e Maienfeld nei Grigioni (7 febbraio). Da quel momento in poi vi fu l’escalation di violenza.
Nei giorni dell’11 e 12 febbraio le truppe svizzere scacciarono gli svevi da Maienfenld, e entrarono nell’attuale principato del Liechtenstein. Nella battaglia di Triesen venne sconfitto un contingente svevo, e gli svizzeri avanzarono sino al lago di Costanza. Nei pressi di Bregenz si scontrarono con un altro esercito nemico, che venne distrutto nella Battaglia di Hard. Nel frattempo un altro esercito svizzero entrava nell’Hegau, saccheggiando e distruggendo diversi villaggi e città. Ben presto, però, gli svizzeri fecero ritorno nei loro confini. Qualche tempo dopo gli svevi assalirono Dornach, subendo però un disfatta nella battaglia di Bruerholz.
Massimiliano, che sino ad allora era rimasto neutrale, convocata una dieta a Magonza, dichiarò guerra alla confederazione. Ambedue le parti presero a saccheggiare il territorio del nemico lungo il Reno. Sia gli svizzeri che gli imperiali combatterono con estrema crudeltà, anche nei confronti della popolazione civile. Gli svizzeri, inoltre, stabilirono che non dovessero essere fatti prigionieri in battaglia. Questa decisione era volta a rafforzare la disciplina delle truppe, per impedire che i singoli soldati si allontanassero dal campo di battaglia dopo la cattura di un nemico, mettendo in pericolo un eventuale successo. Nel corso di guerre precedenti, per esempio durante le guerre borgognone, era comune che gli svizzeri lucrassero sui riscatti dei prigionieri. Al fine di imporre questa decisione, tutti i contingenti di truppe furono costretti a prestare un giuramento. Questo ordine degli svizzeri spiega l’elevata incidenza delle perdite sveve: chiunque rimanesse sul campo, o cadesse, vivo, in mano svizzera, veniva ucciso.
L’11 aprile le truppe della Lega Sveva tentarono un vasto attacco nel Thurgau. A sud di Costanza vennero saccheggiati alcuni villaggi. Quando le truppe sveve vennero in contatto con quelle elvetiche, nelle vicinanze di Triboltingen, subirono però una cocente sconfitta. Morirono circa 1300 svevi, tra cui 150 cittadini di Costanza, e gli svizzeri catturarono tutta le artiglierie e le vettovaglie. Le truppe della confederazione proseguirono quindi invadendo le zone del Klettgau e dell’Hegau territori posti a nord del Reno e a ovest del Lago di Costanza, e saccheggiarono numerose città, tra cui Tiengen e Stühlingen. Tutta la guerra fu di fatto caratterizzata da attacchi e saccheggi di piccola portata, interrotti da battaglie più importanti. Il 20 di aprile una di queste puntate svizzere si era addentrata in Vorarlberg, e nei pressi di Frastanz si scontrò con una serie di difese approntate dalla Lega Sveva, che avrebbero dovuto impedire l’avanzata svizzera verso Feldkirch e Montafon. Ma anche lo scontro presso Frastanz finì con una vittoria degli svizzeri. Nel frattempo Massimiliano, rendendosi conto che non riusciva a raccogliere truppe a sufficienza per un attacco diretto alla confederazione, decise di colpire in un teatro molto distante: la Val Monastero, contando anche sul fatto che le truppe elvetiche erano occupate lungo il Reno e nel Sundgau. Infatti il 21 maggio, per la terza volta, un esercito svizzero invadeva l’Hegau, ricacciato però dietro il Reno da un più forte contingente svevo, pur senza giungere ad una battaglia.
L’obiettivo principale di questa guerra, per Massimiliano, era anzitutto la conquista dell’Engadina e della Val Monastero, mentre per gli svizzeri la posta in gioco era l’indipendenza dagli Asburgo. A fine marzo 1499 truppe austriache e sveve irruppero nella bassa Engadina, fino a Zernez, e in Val Monastero. Il rappresentante del Vescovo a Burgusio dovette darsi alla fuga, mentre la badessa del monastero di S. Giovanni venne presa in ostaggio assieme ad altre 33 persone. Tra Malles e Glorenza Massimiliano, in vista di una battaglia decisiva contro gli svizzeri, riunì un esercito di 12.000 uomini, che comprendeva truppe tirolesi, compagini sveve e mercenari italiani. A difesa dell’accampamento, tra Tubre e Laudes venne costruito un vallo con pietre e legna, fortemente munito e rafforzato da 8 bocche da fuoco, che tagliava in due la Val Monastero, dove il Rio Ram si getta nell’Adige.
uidate da Benedikt Fontana, le tre leghe decisero di affrontare l’esercito asburgico. L’11 maggio le truppe asburgiche furono scacciate dal Passo del Forno. Il 17 maggio la forza principale dei confederati (all’incirca 6300 uomini) si mosse da Zuoz verso la val Monastero, e il 21 maggio furono a ridosso del vallo difensivo. Decisero di non attendere oltre e di attaccare gli austriaci il giorno seguente: i rifornimenti delle truppe erano molto difficili, e si sapeva che Massimiliano stava sopraggiungendo con un altro esercito. Nella casa detta Chalavaina (da cui la denominazione reto-romana battaglia da Chalavaina) si tenne un breve consiglio di guerra, durante il quale venne approntato il piano della battaglia.
2000 circa dei 12.000 uomini di Massimiliano erano stazionati lungo il vallo, 1200 mercenari italiani coprivano il fianco destro e 200 tirolesi presidiavano il ponte al di dietro del vallo. Un paio di chilometri a monte del vallo, a Tubre, anche la rocca di Castel Rotund era occupata dagli asburgici. Il resto dell’esercito era schierato come riserva in Val Venosta, tra Burgusio e Glorenza.
Il piano svizzero prevedeva l’aggiramento delle truppe asburgiche, piuttosto che tentare un disperato attacco frontale al vallo. Un contingente di 2-3000 uomini, al comando dei capitani Wilhelm von Rigk e Niklaus Lombrins, condotto da guide locali salì sino ai 2300 metri di cima Slingia per giungere in questo modo alle spalle del nemico. Castel Rotund, dal quale era impossibile non notare la manovra, rappresentava un problema, occupato come detto da truppe austriache. La manovra aggirante ebbe quindi inizio verso mezzanotte, ragion per cui parte delle truppe si perse nel buio, e invece di puntare direttamente su Laudes si mosse verso la Val Arunda.
I confederati raggiunsero la val Venosta sul far del giorno, dove immediatamente si scontrarono con le truppe asburgiche. Ma quando si sparse la voce dell’arrivo di una forza di 30.000 svizzeri, tra le file asburgiche scoppiò il panico, e parte delle truppe si diede alla fuga. Le truppe svizzere puntarono verso il ponte dietro al vallo, dove però parte degli austriaci in ritirata si unì ai Tirolesi, resistendo con grande tenacia. La lotta si protrasse per alcune ore, ma il ponte non venne conquistato, e il vallo non fu preso alle spalle. Il piano degli svizzeri stava fallendo.
Nel frattempo la forza principale degli svizzeri aveva ricevuto il segnale convenuto per l’attacco, che però non aveva ancora avuto luogo, per timore di subire perdite troppo elevate, e in attesa che il vallo venisse attaccato alle spalle. Ma quando giunse la notizia del fallimento della manovra aggirante, gli svizzeri decisero di attaccare frontalmente, e riuscirono, a prezzo di gravi perdite, ad espugnare il vallo. Tra i morti vi fu anche Benedikt Fontana, il condottiero delle forze confederate. Secondo una leggenda, ferito a morte sul vallo, avrebbe spronato i propri uomini con le parole «Hei fraischgiamank meiss matts, cun mai ais be ün hom da fear, quai brichia guardad, u chia hoatz Grischuns e Ligias u maa non plü» (Avanti ragazzi miei, io sono solo un uomo, non guardate me, oggi Leghe e Grigioni, o mai più). Lo sfondamento del vallo provocò la fuga dei difensori, che coinvolse anche i mercenari italiani.
Gli svizzeri inseguirono i fuggitivi lungo la Val Venosta. Numerosi lanzichenecchi in fuga morirono nell’Adige, in piena per il disgelo primaverile, quando i ponti cedettero sotto il loro peso. Morirono circa 5000 uomini, tra svevi, tirolesi e italiani. Le perdite svizzere ammontarono a 2000 uomini. Gli svizzeri, avanzando in Val Venosta, bruciarono e saccheggiarono undici paesi della valle, fra cui Malles, Burgusio e Silandro, e una sola città quella di Glorenza. Le truppe della Lega assediarono anche alcuni castelli, ma senza alcun successo, e uccisero tutti i maschi di più di 12 anni. Per rappresaglia, a Merano 38 ostaggi della Lega vennero torturati a morte.
Il 25 maggio gli svizzeri si ritirarono oltre il passo del Forno, portando con sé 300 cannoni di piccolo calibro e 8 cannoni di grosso calibro, predati all’esercito imperiale. Quattro giorni dopo Massimiliano giungeva a Glorenza, rasa al suolo. Per vendetta inviò un esercito forte di 15.000 uomini in Engadina, che però dovette ritirarsi poco dopo, perché i confederati, ritirandosi, avevano bruciato tutti i villaggi e asportato viveri e foraggio. La battaglia della Calva fu la battaglia decisiva della guerra sveva. Massimiliano non riuscì a convincere i suoi alleati svevi ad inviare nuovi contingenti nei Grigioni, e dovette ben presto far ritorno al Lago di Costanza.
Finalmente, in luglio, l’esercito imperiale giunse a Costanza, forte di 2.500 cavalieri e circa 10.000 fanti. La confederazione temeva ora un attacco nel Thurgau, per cui radunò un forte esercito nei pressi di Schwaderloh. Ma Massimiliano non si risolse ad agire, per motivi poco chiari, ma probabilmente ciò avveniva sia perché non vi era unità d’intenti tra i principi alla guida dell’esercito, sia perché si riteneva troppo forte l’esercito svizzero. Il 22 luglio Massimiliano lasciò il campo presso Costanza, e con parte delle truppe si diresse verso Lindau. Dopo che il sovrano ebbe lasciato Costanza, anche gli svevi se ne andarono con la maggior parte delle loro truppe, in direzione opposta, verso Sciaffusa.
La parola fine sulla guerra doveva però arrivare da ovest, dove le truppe della Lega Sveva avevano tentato una sortita nel Solothurn ed erano giunte sino ad Hauenstein, sconfiggendo un contingente elvetico presso Laufen an der Birs. Ma non avevano ottenuto alcun successo, oltre alla conquista della valle del Birs. A luglio, per Massimiliano, iniziarono a farsi sentire i problemi finanziari, quando, nell’ovest, i mercenari minacciarono di ritirarsi se non avessero ricevuto il loro compenso. Un resoconto del comandante del contingente, il conte Heinrich von Fürstenberg, riporta che per la guardia italiana, cavalleria mercenaria, erano necessari 6.000 fiorini, per la fanteria 4.000, e per i nobili a cavallo con il loro seguito 2.000. Anche le truppe lanzichenecche mostravano segni d’impazienza, perché si avvicinava la stagione del raccolto, e la fine della guerra non era ancora in vista. Dopo un consiglio di guerra si decise un attacco su Solothurn, con l’obiettivo di conquistare e saccheggiare tutti i territori sino al fiume Aare, in modo da tacitare, almeno in parte, le richieste degli armati.
Dal 19 luglio 1499 le truppe asburgiche di Massimiliano I marciarono verso il Castello di Dornach e, con lo scopo di respingere l’assalto, la cittadinanza di Solothurn chiese aiuto militare alla vicina Berna la quale, ricevuta la richiesta di rinforzi, inviò circa 5.000 soldati, insieme ad un contingente di 400 uomini provenienti da Zurigo ed altri contingenti minori provenienti da Uri, Unterwalden e Zugo. Ad esse, il 20 luglio 1499 si aggiunsero altri 600 uomini da Lucerna. Gli Imperiali, dal canto loro, erano forti di circa 16.000 complessivamente. Pensando erroneamente che gli svizzeri si trovassero ancora molto lontani, i soldati asburgici, per sfuggire alla calura estiva, si bagnarono in massa nelle acque del fiume Birs, ma questa scelta, piuttosto leggera, si rivelò fatale quando sui soldati disarmati di Massimiliano si precipitarono in massa i nemici della Vecchia Confederazione, massacrandone così la maggior parte, compreso il loro comandante, Heinrich von Fürstenberg, che cadde proprio durante le prime fasi della battaglia. Quando Massimiliano I, acquartierato ad Überlingen, ebbe la notizia della disfatta ne venne devastato.
Dopo la sconfitta subita a Dornach gli svevi avevano perso la fiducia nelle capacità militare di Massimiliano, e si rifiutarono di riunire un nuovo esercito. La Lega Sveva aveva pagato un tributo di sangue molto più alto degli svizzeri, la Svevia meridionale era stata invasa e saccheggiata più volte, e praticamente tutta l’artiglieria era stata catturata dalle truppe elvetiche. Anche gli svizzeri, però, respinsero un’offerta di pace di Massimiliano, anche se, a partire dalla fine di luglio, non avevano più intrapreso alcuna puntata in territorio svevo, anche perché si approssimava la stagione del raccolto. La guerra sveva venne infine decisa da avvenimenti accaduti al di là delle Alpi. Mentre Massimiliano era occupato a combattere gli svizzeri, il re di Francia, Luigi XII aveva conquistato il Ducato di Milano. Ludovico Sforza, nel tentativo di portare sia l’impero che la confederazione dalla propria parte, si offrì come mediatore tra i due contendenti. Senza la pace era impossibile reclutare mercenari, svizzeri o lanzichenecchi che fossero, per una campagna contro i francesi. A dispetto dell’intervento di agenti francesi, Ludovico riuscì nel suo intento, ricorrendo anche, con larghezza, alla corruzione. Il 22 settembre venne sigillata la pace di Basilea tra Massimiliano e la Confederazione.
A prima vista il testo, salvo che per due articoli sui diritti di sovranità, si limitava a ripristinare la situazione antecedente alla guerra: Massimiliano conservava le otto giurisdizioni nella Prettigovia, mentre l’alta giurisdizione sulla Turgovia passò nell’ottobre dello stesso anno dalla città di Costanza ai Conf. Le cause reali del conflitto, ossia il fatto che la Dieta imperiale di Worms del 1495 aveva ordinato l’introduzione del denaro comune e l’istituzione del tribunale imperiale, non vennero invece menz. dal trattato di pace. L’imperatore Massimiliano si impegnava unicamente a cessare ogni “ostilità, sfavore, bando, processo e oppressione” (vechden, ungnad, acht, processen und beswärungen) e, in caso di future liti, ad accettare l’arbitrato del vescovo di Costanza o di Basilea e del Consiglio basilese; lo stesso valeva per la Lega di Svevia. Anche se il trattato non lo enunciava espressamente, il tribunale imperiale non era dunque più considerato istanza giuidica suprema.
Così, terminò la storia della Svizzera Medievale e cominciò il suo lungo cammino verso l’indipendenza…
Ricapitoliamo la situazione: dopo avere sconfitto i Siracusani e conquistato le Epipoli, gli Ateniesi cominciarono a stringere d’assedio la città, costruendo un bastione che iniziava presso l’odierna Scala greca, passando per il quartiere di Tiche e terminando a Portella del Fusco, per una lunghezza superiore ai cinque chilometri. Secondo la ricostruzione, molto discussa, di Holm il muro si sarebbe unito alla fortificazione del colle Temenite (nei pressi del teatro greco).
Al centro di tale bastione, chiamato Syka, secondo l’interpretazione tradizionale fu costruito il cosiddetto kyklos, dal termine greco che significa cerchio. L’interpretazione tradizionale è quella di torrione rotondo: a parte la stranezza dell’edificio e la sua totale inutilità ai fini della guerra in corso, è il contesto degli avvenimenti che porta a interpretare quel termine in senso analogico e non strettamente architettonico. Si tratta di un “cerchio”, di un “giro” di mura che era destinato a “chiudere” la città, bloccandola dall’uno all’altro mare: per cui probabilmente, Tucidide intendeva in qualche modo indicare l’intero estendersi della palizzata ateniese utilizzata per l’assedio.
Tale costruzione fu realizzata alla base delle colline, su un territorio non troppo scosceso, in modo da velocizzare i tempi di ultimazione. Il giorno successivo, metà dell’esercito ateniese si dedicò alla costruzione del muro nord, che comunque rimarrà sempre incompiuto, l’altra raccoglieva materiale nel luogo chiamato Trogilo, per costruire il muro sud che giungesse sino al Porto Grande. I Siracusani, dinanzi a tali lavori, invece di affrontare in battaglia i nemici, visto il precedente, decisero di agire con furbizia, dando retta a una proposta di Ermocrate.
L’idea fu invece di realizzare un muro trasversale a quello ateniese, in modo sia da impedirne il completamento, sia di dividere le truppe ateniesi, isolandole. Il che da una parte implicava una corsa contro il tempo, i genieri Siracusani dovevano essere più veloci di quelli nemici: per cui, questo muro, più che un’opera compatta doveva consistere in una struttura prevalentemente di legno (stauroma), per la quale utilizzarono gli ulivi che numerosi crescevano nel temenos-Temenite. Inoltre, probabilmente, per affrettare l’esecuzione dei lavori, linea continua ma per cantieri separati. il che spiega gli eventi successivi.
Dall’altra, dovevano impedire che gli opliti Ateniesi intervenissero, uccidendo o catturando i genieri Siracusani: per cui, in concomitanza dei lavori, organizzarono una sortita, probabilmente con la cavalleria.
Il mattino dopo l’armata ateniese si divise: gli uni posero mano a fabbricare un muro a settentrione del fortilizio circolare, mentre il resto, raccogliendo pietrame e tronchi, lo accumulava senza lasciare varchi verso il punto designato con il nome di Trogilo cui metteva capo la linea per loro più breve da seguire per l’erezione di uno sbarramento che congiungesse il porto grande con il mare opposto. I Siracusani frattanto, consigliati in questo senso specialmente da Ermocrate e dagli altri colleghi, erano restii ad arrischiare l’intera armata in campo aperto contro gli Ateniesi: parve allora più conveniente attraversare con una linea di contrafforti la direttrice lungo la quale il nemico si disponeva a protendere la sua cinta, per ostruirla isolando, se la mossa riusciva con tempestività, le truppe ateniesi.
A respingere una eventuale azione nemica di disturbo mentre il lavoro era in corso, s’era pensato d’avanzare intanto una parte degli effettivi siracusani, col proposito di guadagnare, se l’espediente riusciva, un duplice vantaggio: assicurarsi il tempo di precludere al nemico, con la tecnica delle palizzate, i punti di accesso allo sbarramento trasversale in costruzione,e insieme costringerlo a sospendere il proprio lavoro per fronteggiare, con uno sforzo generale, il contrattacco siracusano. Così iniziarono i lavori, all’esterno della cerchia urbana: muovendo da essa e seguendo una direttrice a meridione del baluardo circolare ateniese distendevano un contrafforte destinato a intercettare il bastione avversario. Gli ulivi del recinto sacro furono abbattuti e si eressero alcune torri lignee. Fino a quel momento la flotta ateniese non si era ancora trasferita da Tapso nel porto grande e poiché la fascia costiera era ancora proprietà siracusana gli Ateniesi importavano da Tapso, per via di terra, i rifornimenti.
A quanto apre, il piano di Ermocrate ebbe successo: solo che i Siracusani, fecero l’errore di sottovalutare il nemico, lasciando a difesa del loro muro una manica di imbecilli: invece di fare la guardia, alcuni soldati si dedicavano alla pennica pomeridiana oppure se ne tornavano a casa per per pranzare.
Per cui, gli Ateniesi, decisero per il raid offensivo. Per prima cosa, tagliarono gli acquedotti che alimentavano la città, poi attaccarono il muro trasversale: trecento opliti, con l’appoggio di una compagnia di fanti leggeri, attaccò il cantiere più esterno. Un altro contingente, guidato da Nicia, si dispose davanti alle mura di Siracusa, per impedire sortite, mentre Lamaco guidò l’attacco al cantiere più interno.
Ovviamente, i difensori impegnati nella pennica, nel vedersi piombare addosso una marea di opliti nemici, fecero la cosa più logica, ossai scapparono a gambe levate e il panico fu tale, che si scordarono di chiudere le porte della città alle loro spalle, tanto che alcuni opliti Ateniesi riuscirono ad entrare.
Grazie al cielo, Lamaco non fu pronto a cogliere l’occasione e i Siracusani mantennero la calma, tanto che gli invasori furono buttati fuori. Però, nonostante l’occasione non colta, il muro trasversale fu distrutto e il suo materiale venne portato via, per contribuire alla costruzione della palizzata ateniese.
Quando i Siracusani giudicarono soddisfacenti i progressi del lavoro – solidità della palizzata e livello del contrafforte – mentre gli Ateniesi non erano disposti a scatenare l’offensiva per interrompere l’opera (per timore, dividendosi, di offrirsi più vulnerabili al contrattacco nemico, e anzitutto per la premura di completare il proprio blocco murario) i Siracusani, distaccando un unico reparto a presidio della barricata trasversale si ritirarono in città. Gli Ateniesi ne approfittarono per metter fuori uso i condotti che sotto il livello del suolo portavano l’acqua potabile alla città. Sennonché avevano anche notato che parte dei Siracusani sceglieva l’ora di mezzogiorno per ripararsi nelle tende, mentre alcuni addirittura erano rientrati in città e gli altri, quelli preposti alla palizzata, compivano con indolenza quel turno di guardia.
Sicché ordinarono a trecento opliti scelti, rafforzati da una compagnia speciale di fanti leggeri opportunamente attrezzati, di piombare all’improvviso correndo, sul contrafforte. Il resto dell’esercito si divise: una metà, guidata dal primo stratego, si mise in marcia verso la cinta di Siracusa, pronta a spezzare la reazione da quella parte, la seconda metà, agli ordini dell’altro collega, mosse verso il settore della palizzata contiguo alla posterla. D’impeto i trecento invadono la palizzata, mentre le sentinelle, disertando il loro posto si ritraggono a precipizio a riparo della muraglia avanzata a copertura di Temenite. Sullo slancio si abbatterono all’interno, alle costole dei fuggitivi, anche gli inseguitori: ma trovandosi dentro non resistettero all’urto dei Siracusani e furono gettati fuori. Caddero pochi Ateniesi e qualche Argivo in quest’azione. Durante la manovra generale di ritirata le truppe spianarono il contrafforte strappando da terra la palizzata: trascinarono via il legname ed eressero un trofeo.