Etruscheria

La pubblicazione di De Etruria Regali di quel pazzo scatenato di Thomas Dempster, da parte di Thomas Coke, curata da Filippo Buonarroti ebbe un’inaspettato effetto collaterale. Gli etruschi, che erano un argomento per eruditi, divennero improvvisamente di moda, dando origine al fenomeno culturale dell’Etruscheria. Cosa che, di positivo, portò alla nascita dei primi musei dedicati esclusivamente a questo popolo. Di negativo, uno sproposito di polemiche tra intellettuali ed eruditi, che oggi sembrerebbero folli.

Alcune riguardavano il ruolo storico della civiltà etrusca: da una parte, vi erano gli intellettuali di buon senso, che lo ritenevano importante, affermando che gli etruschi avevano influenzato i romani e a loro volta, erano stati influenzati dai greci. Dall’altra i fomentati, che, per orgoglio campanilistico, tendevano ad attribuire agli Etruschi acquisizioni culturali, invenzioni, e manufatti artistici dell’antichità: insomma, in Sardegna, con la fanta archeologia dei Shardana conquistatori del Mediterraneo, non si sono inventati niente.

Per giustificare tali inferenze storico-archeologiche, ricorrevano con disinvoltura alla distorsione delle fonti, oppure, senza porsi troppi problemi, citavano il buon Annio da Viterbo come massima autorità sul tema. Alcuni di questi fomentati, lo facevano per interesse personale: Giovan Battista Passeri, senza questa esaltazione a prescindere dei Tirreni, sarebbe rimasto un oscuro avvocato di provincia, senza assumere la fama, immeritata, di grande erudito ed archeologo.

Altri, per darsi un tono e per il puro, semplice gusto della polemica, come il buon Piranesi, con l’anti-ellenismo romanocentrico ed etruscocentrico espresso nelle sue opere teoriche, quando invece, erano le incisioni che rappresentavano creativamente i monumenti romani, a procurargli la pagnotta.

Altri ancora, invece, ci credevano veramente, come Mario Guarnacci, fondatore della biblioteca pubblica e del museo etrusco di Volterra, il quale scrisse un’opera dal titolo chilometrico

Origini italiche o siano memorie istorico – etrusche sopra l’antichissimo regno d’Italia e sopra i di lei primi abitatori nei secoli più remoti

che fu stampata tra il 1767 e il 1772 in tre tomi stampati a Lucca da Leonardo Venturini.

È un’opera molto erudita sulle origini mitiche e storiche dei popoli che per primi abitarono la penisola italiana, popoli che l’autore fa discendere dagli Etruschi, dei quali analizza la lingua, le monete, le arti e le scienze. Mario voleva dimostrare che le arti e le scienze non erano state introdotte, come si pensava comunemente, in Italia dalla Grecia, ma viceversa.

Poi, per non farsi mancare nulla, rimproverò i romani per la loro opera di cancellazione perfino delle memorie etrusche, soprattutto per il mancato riconoscimento del debito di civilizzazione contratto con l’antico popolo italico da cui avevano derivato studi, leggi, arti, monumenti e riti. Oggi, una tesi del genere avrebbe avuto spazio al massimo su siti come Informare per resistere o altri bufalari di questo tipo, ma all’epoca scatenò polemiche a non finire tra oppositori e sostenitori, tanto che l’Accademia etrusca di Cortona nominò Mario sui Lucumone, ossia presidente.

Un secondo filone della mania etrusca si rivolse non solo ai prodotti architettonici e artistici, ma anche agli studi linguistici e vide coinvolti figure di antiquari di spicco come Scipione Maffei e Anton Francesco Gori. I problemi principali di questo interesse linguistico riguardavano la classificazione della lingua etrusca e del suo alfabeto, secondo il quadro di conoscenze dell’epoca. In tale ambito, si fronteggiavano due opposte prese di posizione. La prima tendenza, facente capo a Scipione Maffei, pretendeva di inserire la genealogia linguistica dell’etrusco nell’ambito delle lingue semitiche e aramaiche. La seconda teoria, facente capo al Gori, pretendeva di inserire l’etrusco tra le lingue classiche, ossia per usare un termine moderno, nella famiglia delle lingue europee.

C’era poi una terza posizione, molto ridotto come sostenitori, ma paradossalmente molto più moderna: ossia che la lingua etrusca aveva origine da quella parlata dagli antichi aborigeni che abitavano l’Europa prima degli arrivi degli antenati dei greci, dei latini e dei galli, che con il tempo, si era modificata per l’influenza dei vicini. Tesi che, ovviamente con termini differenti, è adottata anche dagli attuali linguistiche. Le lingue del gruppo Tirsenico, Retico ed Etrusco, discenderebbero, quindi, dalle lingue preindoeuropee parlate in Europa almeno sin dal neolitico prima dell’arrivo degli indoeuropei durante l’età del bronzo: l’etrusco in particolare, sarebbe stato influenzato dalle lingue indoeuropee circostanti.

Benché giudicata negativamente dagli studiosi successivi, data anche la litigiosità degli eruditi che vi si dedicarono, però la moda dell’etruscheria, riproponendo la questione tirrenica all’opinione pubblica, ebbe l’effetto di rilanciare alla grande ricerche e studi su tale popolo

Atene contro Siracusa XXVIII

Gli effetti della battaglia del Plemmirio, che di fatto rendeva impossibile qualsiasi blocco navale da parte degli ateniesi, si videro subito: i Siracusani ripresero il dominio del mare e ne approfittarono alla grande. Per prima cosa, mandarono un’ambasciata a Sparta, con gli opportuni ringraziamenti per Gilippo, evidenziando sia le difficoltà ateniesi, sia chiedendo la ripresa delle offensive in Grecia. In questo modo, Atene, in difficoltà in casa non avrebbe mandato i temuti rinforzi e magari avrebbe affrettato i tempi di ritiro delle truppe.

Al contempo, si dedicarono alla guerra di corsa, che gli ateniesi non riuscirono a contrastare adeguatamente, finalizzata sia a danneggiare i rifornimenti diretti agli assedianti, sia a proteggere l’arrivo dei rinforzi lacedomini

Dopo questo episodio, i Siracusani fecero salpare dodici navi, affidate ad Agratarco, loro compatriota. A bordo d’una di esse, passò nel Peloponneso un’ambasceria con una relazione sul loro stato attuale, aperto a ogni speranza: e a stimolare una vigorosa ripresa delle ostilità in Grecia. Le altre undici navi puntarono sulla costa dell’Italia appena si apprese che un convoglio di mercanzie di valore era in navigazione verso le truppe ateniesi. Questi trasporti furono intercettati: i più finirono distrutti. Inoltre i Siracusani incendiarono nella regione di Caulonia cataste di legname pronte per gli Ateniesi. Effettuato il sabotaggio, passarono a Locri e, mentre attendevano alla fonda, attraccò in arrivo dal Peloponneso uno dei bastimenti da trasporto con un carico di opliti tespiesi. I Siracusani li fecero passare a bordo della propria flotta e costeggiando veleggiarono in patria. Ma gli Ateniesi li attendevano al varco, forti di venti triremi, nelle acque di Megara: finisce in loro mano una nave completa d’equipaggio. Ma si lasciarono sfuggire il resto della squadra, che accelerò la fuga a Siracusa.

Nel tentativo di bloccare l’attività navale nemica, gli Ateniesi tentarono di danneggiare l’Arsenale vecchio, che era protetto da un duplice sbarramento: palizzate e l’equivalente dei nostri ricci cechi, che noi utilizziamo contro i carri armati, con le punte a pelo d’acqua, pronte a bucare le chiglie dei triremi attaccanti.

Per superare tali difese, gli ateniesi ricorsero a un azione da commandos. Ora, che risultato ebbe ? Tucidide, non ce lo dice, però dato che le azioni navali siracusane diminuirono bruscamente, possiamo ipotizzare un esito positivo

Dopo, esplose anche una zuffa nel porto grande, intorno alla palizzata che i Siracusani avevano conficcato sul fondo della rada a protezione dei cantieri vecchi per fornire alle proprie squadre un ormeggio sicuro, evitando le perdite inferte da un eventuale assalto delle unità ateniesi. Gli Ateniesi accostarono alla palizzata un bastimento di forte stazza, armato di torrette lignee e parapetti. Montati su scialuppe leggere assicuravano gomene all’estremità dei pali e con la trazione di un argano li sradicavano: intanto li segavano immergendosi. I Siracusani insistevano dagli arsenali con il tiro degli arcieri, cui dal bastimento si replicava: e alla fine gli Ateniesi misero fuori uso il maggior tratto dello sbarramento. Il settore più micidiale della palizzata era tuttavia quello nascosto sotto il pelo dell’acqua: tronchi acuminati, confitti in modo che la punta superiore non fuoriuscisse dalla superficie. Rischio terribile a scivolarvi sopra con la chiglia: quasi scogli per chi incauto vi urtasse la nave. Ma tuffatori mercenari, nuotando sott’acqua riuscivano a segare anche quelli. Accorgimenti svariati, di ogni tipo, erano messi in pratica; come si usa tra due eserciti contigui, schierati l’uno contro l’altro. Ricorrevano ad assalti volanti, e a tranelli di diverse specie.

Nel frattempo, i Siracusani, sfruttarono dal punto di vista propagandistico la conquista di Plemmirio, mandando ambasciatori in tutta la Sicilia, per chiedere rinforzi: oltre a evidenziare l’oggettiva difficoltà ateniese, dato che non aveva digerito il fatto che Gilippo avesse usato come esca la loro flotta, invece di evidenziare la vittoria strategica, dissero che la vittoria navale ateniese, che era stata sostanzialmente inutile, fosse dovuta più alla loro indisciplina che all’abilità nemica.

In più bisognava affrettarsi a mandare i rinforzi, perchè purtroppo li stavano ricevendo anche gli Ateniesi e per il buon esito della guerra, bisognava anticiparli

I Siracusani spedirono anche in molti centri della Sicilia ambasciatori corinzi, di Ambracia e di Sparta, a riferire la cattura del Plemmirio e a fornire un’interpretazione della battaglia navale: s’era perduta, ma l’origine della sconfitta si doveva attribuire più alla propria indisciplina che alla potenza nemica. Per il resto dovevano chiarire che le speranze erano ottime e richiedere che si unissero tra loro città per organizzare una spedizione a soccorso,per terra e per mare. Anche gli Ateniesi, dovevano soggiungere gli ambasciatori, erano in attesa di nuovi rinforzi; se si riusciva ad anticiparli, annientando l’armata già presente sull’isola si sarebbe inferto un colpo risolutivo alla guerra. Ed erano questi i movimenti in Sicilia.

Nel frattempo, Demostene decise di replicare la tattica che aveva avuto successo ai tempi di Pilo e di Sfacteria: occupare una testa di ponte, che avrebbe costituito un rifugio agli iloti ribelli e mettere a ferro e fuoco le terre spartani

Demostene, appena ebbe adunate a sua disposizione le truppe con cui doveva passare in Sicilia, salpando da Egina si diresse verso il Peloponneso per riunirsi a Caricle e alle trenta triremi ateniesi. Raccolti a bordo gli ospiti argivi, puntarono sulla Laconia. Devastarono
per primo il territorio di Epidauro Limera, in parte: poi, sbarcati nella zona della Laconia opposta rispetto a Citera, dove sorge il santuario di Apollo, la distrussero in più punti, e fortificarono una località a foggia di istmo al preciso scopo d’offrire ricetto agli Iloti di Sparta rei di diserzione e per attrezzarla a propria base corsara, sul modello di Pilo. Demostene non perdeva tempo. Perfezionò l’occupazione di quella lingua, e prosegui direttamente, lungo la costa, diretto a Corcira. Intendeva aggregarsi contingenti di alleati locali e accelerare il tragitto per la Sicilia. Caricle, invece, si attardò a rifinire la fortezza ed assegnatala a un presidio si ritirò anch’egli, qualche tempo dopo, rientrando in patria con le trenta navi. Gli Argivi lo seguivano. In quei giorni Demostene, dopo aver attrezzato la testa di ponte fortificata in Laconia, mise fuori uso una nave da trasporto nemica sorpresa ancora all’ormeggio nella rada di Fea, località dell’Elide, e a bordo della quale dovevano passare in Sicilia gli opliti corinzi. I soldati riuscirono ad evitare la cattura, e procuratosi più tardi una seconda nave, presero il largo. Dopo questo incidente Demostene, approdato a Zacinto e a Cefallenia, fece salire a bordo alcuni opliti ed altri opliti messenici mandò a reclutare da Naupatto. Quindi traversò sull’opposta terraferma dell’Acarnania, toccando Alizea ed Anattorio, due basi ateniesi. In Demostene, che si trovava ancora in quel tratto di costa, s’imbatté Eurimedonte, sulla rotta di ritorno dalla Sicilia. Costui a suo tempo, quando correva ancoral’inverno, era stato inviato all’esercito di Sicilia per rifornirlo di fondi
.

Mentre raccoglieva rinforzi, arrivarono però le brutte notizie: la caduto del Plemmirio e il fatto che i corinzi avessero imposto il blocco navale a Naupatto. Proprio per romperlo, Demostene dovette cedere a Conone parte delle navi e provvedere quindi a reintegrare le forze.

Tra le altre notizie fresche, egli ne annunziò una che aveva appreso quando si trovava già per mare: i Siracusani erano ormai padroni del Plemmirio. Approdò da loro anche Conone, comandante di Naupatto, la base navale, avvisando che le venticinque unità corinzie
stazionavano in permanenza di fronte alla sua squadra e che invece di deporre le ostilità mostravano chiari intenti aggressivi. Onde la sua richiesta urgente di navi, poiché le diciotto triremi ateniesi non erano in grado di reggere all’urto delle venticinque avversarie. Così
Demostene ed Eurimedonte consegnano a Conone le dieci navi di miglior corso scelte dalla propria flotta, perché le aggreghi alla squadra di Naupatto. Intanto essi si preparavano a raccogliere l’armata. Eurimedonte, passato a Corcira, impose laggiù l’armamento di quindici
navi, mentre per conto suo arruolava opliti (ritornato dalla Sicilia, Eurimedonte divideva ormai con Demostene il comando, su espressa nomina del popolo ateniese). Demostene inoltre radunava dalle regioni contigue all’Acarnania frombolieri e lanciatori di giavellotto.

Il tempio dei Dioscuri ad Agrigento

Tornando al santuario delle Divinità Ctonie, nel V secolo a.C. si assiste ad una definizione del complesso monumentale con la costruzione di due templi, che di fatto, hanno provocato diversi mal di testi agli studiosi che hanno provato ad analizzarne caratteristiche, dedica e origine. Il primo è diventato un simbolo di Agrigente ed è comunemente noto come Tempio dei Dioscuri, a causa di un passo del poeta greco Pindaro, che riferisce – a proposito di Akragas – di un culto e di una festività in onore dei Dioscuri.

Il Tempio fu scoperto nel 1836, sgombrato dalle pietre e dalla terra da che per molti secoli lo avevano ricoperto. Villareale e Cavallari furono gli archeologi che , per ordine del Duca di Serradifalco, rilevarono la pianta del tempio ed eressero su tre gradoni, tre colonne alle quali, nel 1856, ne aggiunsero una quarta. In questa ricostruzione, però, per complicare la vita ai posteri, furono utilizzati elementi architettonici di un altro edificio, ad oggi non identificato, che essendo decontestualizzati, hanno portato gli archeologi a due diverse datazioni, tra loro diversissimi. Alcuni, intravedendo un’ispirazione ionica, li hanno attribuiti all’epoca arcaica, altri, invece, a quella tardo romana.

In ogni caso, è abbastanza condiviso che il tempo fosse ricostruito intorno al 450 a.C. e restaurato in epoca tardo ellenistica. La sua alta piattaforma, montata su 3 gradoni estesi all’interno perimetro, misurava m. 31,12 in lunghezza e m 15,86 in larghezza, poco meno di un doppio quadrato che occupava una superficie di mq 541,14. Delle 34 colonne, che si presentavano 6 sui frontoni e 13 sui lati lunghi contando anche quelle degli angoli, soli 4 si stagliavano in mezzo a tutte quelle rovine; altre 4 colonne delimitavano la cella nei due lati corti. Sono formati da tre rocchi tufacei, con un fascio di 20 scanalature a spigolo vivo, raggiungono un’altezza di m 5,27 ed hanno un diametro di m 1,10. Il tempio mostra, inoltre, una decorazione figurativa fogliata ricca e varia. Lo spigolo esistente mostra un rosone, simbolo di Rodi. Ai 4 lati del tetto si notano esemplari di grondaia dalla forma a testa di leone con la lingua rossa. Il ruolo della figura del leone, di cui questo tempio come quello di Demetra e di Ercole si avvaleva, era sopratutto quello di spaventare le potenze del male e di allontanarle. Le maschere leonine avevano dipinte in turchese la criniera, giallo il muso e rossa la lingua che serviva da canale di scorrimento. Alle teste di leone si alternavano le antefisse a forma di palmette, simbolo del trionfo, alternativamente di colore rosso e turchese. Una smagliante policromia, svrapposta allo stucco, indispensabile per proteggere il materiale, completava la decorazione. Il fregio del tempio, tagliato orizzontalmente, ci dà una strana sensazione: è come se la parte superiore della trabeazione sia stata “posata” successivamente sulla parte inferiore.

Il rivestimento di stucco bianco che si nota sulle colonne e su parte della trabeazione è della stessa epoca del tempio. Gli architetti akragantini adoperarono tale materia per proteggere dagli agenti atmosferici la friabile pietra porosa di cui si servivano per costruire i tempi, per imitare il colore del marmo e per dare l’illusione che le colonne fossero monolitiche. La parte superiore dell’architrave era coperta con stucchi colorati che tutt’oggi si osservano. Sul vano del le metope, probabilmente, erano degli affreschi inerenti al culto della divinità a cui il tempio era dedicato

Ancora più complicata per gli archeologi la questione del vicino tempio L, i cui resti, sino al 1932 erano stati identificati come quelli di una basilica romana: solo in quell’anno, in quell’anno, in seguitò ad uno scavo, per i dettagli delle opere scoperte, per gli oggetti votivi ed i frammenti architettonici rinvenuti, gli archeologi modificarono il loro giudizio.

Le rovine del del tempio L consistono con resti all’intorno dell’alzato (colonne e trabeazione) e, sulla fronte orientale, del grande altare rettangolare. Si tratta di un tempio completamente distrutto, della metà del V secolo a.C. (altri ritengono l’edificio ellenistico), di 41,80×20,20 metri allo stilobate (i tagli nella roccia misurano 44,30×21,20 m), cui nel III secolo a.C. sarebbe stata sovrapposta una barocca trabeazione ellenistica.

A cui erano dedicati questi due templi ? Viste le caratteristiche del santuario, sarebbe ovvio pensare a Demetra e Kore. Però, negli scavi del tempio dei Dioscuti sono emersi alcuni elementi a favore di un’altra ipotesi, come un cantaros a forma di asino in atteggiamenti lussuriosi, con sulla soma il vaso vero e proprio, decorato con immagini di Sileni. Per cui si potrebbe ipotizzare come il Tempio dei Dioscuri fosse dedicato a Dioniso Zagreo, il dio bambino che muore e rinasce, il cui culto era particolarmente sentito a Creta, il che spiegherebbe bene alcune caratteristiche dei temenos, e il tempio L a sua madre Core.

Una recente interpretazione dei complessi sacri sin qui esaminati lascia intravedere la possibilità che la successione delle tre aree sacre di culto ctonio fosse funzionale alla articolazione delle feste che vi si celebravano in onore di Demetra e Kore; si tratterebbe in particolare delle tesmophorie; tali feste, in assonanza con quelle che avevano luogo in Atene, duravano tre giorni: il primo comprendeva l’arrivo della processione di donne che si suppone entrasse nell’area sacra da Porta V trovando, nel santuario subito ad Est di questa, il luogo deputato ad accogliere e far sostare i partecipanti alle cerimonie (il boschetto sacro ipotizzato avrebbe ricevuto le tende o skenai, mentre la leske avrebbe funzionato, sino alla fine del V secolo, quale luogo di assemblea delle donne; nel III secolo a.C., l’edificio ad L dovette assumere, infine, la funzione di luogo di soggiorno e consumazione dei pasti).

Il secondo giorno, quello del digiuno, le cerimonie si sarebbero svolte nell’area sacra ad Ovest della Porta, nell’area dei recinti e degli altari (recinto 1 e 2 in particolare): qui avevano luogo i magarizein, cerimonie che consistevano nel buttare i porcellini femmina vivi nei megara o chasmata (luoghi voraginosi identificati con i borthroi o altari rotondi) i cui resti putrefatti venivano poi recuperati nel terzo ed ultimo giorno della festa per concimare il terreno; il terzo giorno, denominato kalligeneia, cioè della generazione di cose belle, avuto termine il digiuno, si svolgeva il pasto comune e forse a queste ultime cerimonie era destinata l’area sacra all’estremità occidentale della collina.

Palazzo del Conte Federico

Uno delle perle nascoste di Palermo è il il Palazzo del Conte Federico, ancora abitato dalla famiglia nobiliare, e trae le sue origini da Federico d’Antiochia, uno dei figli del grande Imperatore Federico II. Palazzo che sorge dietro le antiche mura della città punica, tra l’omonima Piazza Conte Federico e la via dei Biscottari, nel quartiere antico di Ballarò; questa strada, un tempo di grande importanza nella viabilità della Palermo antica, è una delle vie dei mestieri presenti in città, infatti qui si trovavano molti forni a legna.

Alla fine della strada, nei pressi dell’arco dei Biscottari, si trova un’edicola votiva dell’Ecce Homo particolarmente famosa per la figura smagrita e malconcia del Cristo, che ha fatto nascere il popolare modo di dire “Pari l’Ecce Homo di li Viscuttara”, che sta ad indicare una persona dall’aspetto particolarmente sciupato o malaticcio.

In origine, sul luogo del palazzo, vi sorgeva l’antica porta araba di Bab al Sudan, la Porta dei Negri, perchè nelle sue vicinanza, vi era il mercato coperto in cui venivano venduti gli schiavi africani, che fu utilizzato, data la necessità di mano d’opera servile per le piantagioni di canna da zucchero, sino a metà Cinquecento. Porta che si trovava di fronte ai Haddadin, ossia alla strada o contrada dei “fabbri.

L’ultima citazione del mercato degli schiavi risale infatti al 1549, quando un atto di compravendita, si usa come riferimento per la posizione della casa

edificium morum nigrorum in quarterio albergarie, in contrata hospitalis“.

Con il tempo, il nome arabo della porta fu trasformato in Busaudan, Sautin, Busuldeni, Busuemi, Busué. La porta era difesa da una torre chiamata dello Scrigno, perchè probabilmente vi erano custodite le paghe della guarnigione, che fu ristrutturata in epoca normanna, sveva e aragonese. A riprova di questi restauri, vi sono due bellissime finestre, una stupenda bifora chiaramontana impreziosita da ricchi intarsi di pietra lavica, e l’altra d’epoca aragonese, dove si trovano gli stemmi autentici della città di Palermo, degli Svevi, e degli Aragonesi, visibili dall’interno

Con la costruzione delle mura rinascimentali, l’area perde qualsiasi valenza difensiva, tanto che la porta e le torre furono cedute come parziale rimborso agli Olivetani dello Spasimo, visto che erano di fatto stati sfrattati dalla loro sede originale proprio per la costruzione dei bastioni difensivi: Olivetani che utilizzarono la struttura come Ospizio per i Poveri.

A metà del XVII secolo, i frati, in grave difficoltà economica, vendettero l’ospizio a Gaspare Federico e Balsamo, conte di San Giorgio, il quale commissionò una prima ristrutturazione del complesso. Successivamenteil conte Nicolò Federico e Opezzinga,e commissionò ai pittori Vito D’Anna e Gaspare Serenario gli affreschi dei saloni, e all’architetto Venanzio Marvuglia la decorazione delle parti esterne del cortile, e il grande scalone in marmo.

Superato l’androne d’ingresso, si apre un ampio cortile interno tra i più belli e meno conosciuti di Palermo, con quattro prospetti finemente decorati in pietra da intaglio, opera del grande architetto Giuseppe Venanzio Marvuglia nel 1750, ed attraverso uno scenografico scalone in marmo rosso si sale al piano nobile.

Davanti all’ingresso principale spiccano due spegnitorce in marmo rosso, usati dai portantini all’arrivo al piano, prima di entrare nei saloni. Poi, in grandiosa successione, si apre la sequenza di saloni e sale di rappresentanza, dove si rivivono le varie epoche, attraverso le quali é passata la storia di questo palazzo.

Nella Sala blu e nella Sala degli stemmi ammiriamo i soffitti a cassettoni in legno dipinto, risalente al XV secolo; la Sala verde vanta delle porte in oro zecchino, uniche nel loro genere; la Sala rossa, inoltre, presenta gli affreschi di Vito D’Anna, pittore palermitano considerato uno dei massimi artisti del rococò siciliano; Infine, la Sala delle armi custodisce tutti gli strumenti bellici che furono usati nelle varie battaglie che coinvolsero Palermo.

Il fulcro della visita è però il grande Salone da Ballo, che è stato anche il tempio massonico più importante a sud di Roma e, proprio in questa sala, Giuseppe Garibaldi ricevette il 33° grado della massoneria, il più alto, oltre che sostegno ed aiuto dai fratelli massoni alla sua impresa di unificazione dell’Italia. Altri importanti massoni che si sono ritrovati in questa sala sono Giuseppe Verdi, Vincenzo Bellini, Richard Wagner.
Tutti quanti si dilettarono a suonare il pianoforte a coda, su cui Wagner compose alcune parti del Parsifal.

Ricordiamolo, ne ho parlato in dettaglio in altri post, che il compositore tedesco trascorse a Palermo l’inverno 1881-82, soggiornando inizialmente al Grand Hotel et des Palmes insieme con la moglie Cosima, alcuni dei suoi figli e una “piccola tribù” di collaboratori, domestici e nurse. In quel periodo ha completato la sua ultima opera (Parsifal), ha scritto una breve Elegia per pianoforte datata Palermo 26 dicembre 1881, ha preso parte ad alcuni concerti e ha persino posato per un celebre ritratto di Pierre-Auguste Renoir (oggi al Musée d’Orsay di Parigi).

Fratello massone fu anche Gaspare Serenario che nel magnifico affresco realizzato sulla volta del Salone, raffigurante Il Trionfo della Purezza tra le Virtù sul Tempo, si divertì a nascondere molti simboli della massoneria (un triangolo con un occhio – posto sulla testa della Purezza – ed ancora un vecchietto con la clessidra in mano, il compasso, il gallo, il sole dei medaglioni con raggi triplici). L’affresco è impreziosito dagli stucchi dorati di Giacomo Serpotta (una delle figure allegoriche presenti reca in mano il serpente, simbolo dell’artista) mentre il magnifico pavimento riporta lo stemma dei Conti Federico, costituito dall’aquila sveva. La grande tela di fine XVI secoche trionfa al centro della parete principale è probabilmente opera del pittore Annibale Carracci e rappresenta “Gesù e la Cananea”.

Lo storico palazzo, ben tenuto dagli attuali proprietari, il conte Alessandro Federico e la sua famiglia, prima del Covid, ora non ho idea se le cose siano cambiate, era visitabile tutti i giorni, tranne il mercoledì, dalle 11,00 alle 16,00. Le visite guidate durano un’ora e il biglietto costava, se non ricordo male, 10 euro, ma li merita tutti.

L’influenza architettonica di Villa Adriana

Fece costruire con eccezionale sfarzo una villa a Tivoli dove erano riprodotti con i loro nomi i luoghi più celebri delle province dell’impero, come il Liceo, l’Accademia, il Pritaneo, la città di Canopo, il Pecile e la valle di Tempe; e per non tralasciare proprio nulla, vi aveva fatto raffigurare anche gli inferi

Così l’Historia Augusta racconta quella che è stata la più grande e famosa opera di Adriano, ristrutturando una villa periodo sillano, ingrandita all’epoca di Giulio Cesare, ereditata poi dalla moglie, Vibia Sabina. In pochi anni, dai bolli laterizi ritrovati in circa metà degli edifici emergono tre fasi di costruzione particolarmente attive tra il 118 e il 121, il 125 e il 128 e il 134-138, costruì una macchina architettonica dai molteplici significati.

Il primo, ovviamente, è una celebrazione del suo ego, che quasi anticipa quanto accadrà nel Tardo Impero, con la divinizzazione della figura imperiale. Per accentuare questo monumento a se stesso, Adriano rompe decisamente con la tradizione progettuale romana, che in fondo è un evoluzione dei concetti definiti da Ippodamo da Mileto, basata una matrice ortogonale, quasi una forma platonica, per adottare una composizione multipolare, individuabile solo in poche altre realtà, molto sofisticate, del mondo greco-romano, riferibili tutte ad impianti monumentali sacri.

Le origini della composizione della Villa Adriana devono essere trovate non nelle presunte regge ellenistiche, che gli architetti romani conoscevano da secoli e avevano ampiamente digerito e replicato, basti vedere le realizzazioni dei tempi delle dinastie Giulio Claudia e Flavia, ma nei luoghi sacri del mondo greco ed ellenistico: l’Acropoli di Atene, l’Acropoli di Pergamo, l’Altis di Olimpia e il santuario di Iside a Phylae, tutti complessi architettonici ordinati secondo una composizione polare radial.

Adriano, rompendo con il mos maiorum, vuole farsi percepire, in maniera inconscia, come un dio in terra, garante della civiltà e dell’ordine cosmico, da venerare e da celebrare. Costruzione simbolica dello spazio, che avrà enormi conseguenze, nell’architettura e nella percezione della politica, che all’epoca era ulteriormente accentuata da numerosi espedienti: la conformazione differenziata dello spazio interno e la collocazione di isolati corpi di fabbrica in spazî liberi e interni capricciosamente separati, nell’altezza scalata delle loro coperture a volta, nella studiata discrepanza fra asse ottico, che aveva come fulcro il teatro marittimi, e asse del percorso, incentrati sulla Piazza d’Oro, nella disposizione calcolata di giochi d’acqua verso aperture nelle pareti e vedute otticamente graduate e limitate.

A questo si associa l’ambizione di rendere la villa una sorta di sintesi della Res Publica, con la sua pace e prosperità garantite dalla figura dell’Imperatore. Per cui, le riproduzioni degli edifici delle provincie, dal Campo all’Eretteo, non sono una bizzarra raccolta di ricordi di viaggio, ma creano una geografia sacra: così gli elementi architettonici sono rappresentati in modalità che oggi definiremmo post moderna, decontestualizzati e defunzionalizzati, trasfigurati in pura, nostalgica e ironica, evocazione.

Infine, la villa è anche un manifesto delle capacità sperimentali dell’architettura romana: l’invenzione della costruzione finestrata, dai grandi sviluppi futuri, e degli edifici centrali a volta ripartiti in piani come spazi interni, nonché arricchiti all’esterno da elementi di facciata, che preludono agli autonomi monumenti a cupola, si ritrovano per la prima volta qui, con l’utilizzo della luce e della geometria come strumenti per la ricostruzione dello spazio

Pure ricca di sviluppi è la costruzione delle volte monumentali a crociera (Grandi e Piccole Terme, Biblioteca Greca e Latina), la cui stabilità statica all’attacco delle volte tramite blocchi di travertino decorati e aggettanti è già sottolineata nel vestibolo della Piazza d’Oro per mezzo di colonne inserite. Altre innovazioni mostra il primo sistema struttivo monumentalizzato di travatura su colonne secondo lo schema ad arcate (Grandi Terme, Tempio di Venere, il complesso a tre esedre, il Canopo): il problema costituito dalla grande ampiezza degli intercolumni venne superato grazie all’uso di archi di piattabanda in mattoni, armati, legati con blocchi di pietra a cuneo e rivestiti di marmo, che vennero usati qui per la prima volta.

Il fulcro di tutto è la Piazza d’Oro, in cui, per la prima volta la struttura costruttiva della cupola a ombrello divisa in otto spicchi, sorretta in apparenza da colonne, diventa immediatamente percepibile nello spazio esterno, e prepara così la strada per lo sfondamento ideale del muro nei suoi segmenti murarî secondari.

Tutto questo, che rende Villa Adriana molto di più di un capriccio stravagante a uso privato di un imperatore che si dilettava di architettura, sin dal Rinascimento lo ha resa una scuola per generazioni di architetti. Il primo a studiarla e a riutilizzare i suoi moduli architettonici è proprio Brunelleschi,che studiando a fondo proprio volta del triclinio della Piazza d’Oro, ne imitò la cpertura innovativa nella volta a creste e vele nella Sagrestia Vecchia della Basilica di San Lorenzo a Firenze e nella Cappella Pazzi, imitato poi da Giuliano da Sangallo nella Basilica di Santa Maria delle Carceri a Prato.

Sempre Brunelleschi, partendo dal Canopo , riprese sia la Serliana, come elemento decorativo, sia l’utilizzo portante dell’arco, come nell’Ospedale degli Innocenti, ell’Ospedale degli Innocenti a Firenze, l’ordine diviene struttura portante dell’arco che a sua volta è struttura portante dell’edificio. Ultieriori studi su Villa Adriana furono compiuti da Michelangelo; nella scalinata della Biblioteca Laurenziana, quella che Argan definì “colata lavica”, le colonne rastremate verso il basso, appositamente per generare un senso di instabilità nell’osservatore, derivavano dalla Sala a Pilastri Dorici, un ambiente basilicale forse di ricevimento, che presenta la stessa soluzione.

Sala che ispirò anche Frank Lloyd Wright per la costruzione del Johnson Wax Headquarters nel 1936. All’interno della Workroom vi sono i giganteschi “mushrooms”, veri e proprio “funghi” in calcestruzzo che presentano una rastremazione quasi esagerata: alla base il diametro è pari a 30 cm, nella parte superiore diviene di 1,50 m. Questa scelta destò scalpore e gli ispettori di cantiere cheisero, prima di avviare la costruzione, di provare quanto peso potesse assorbire un solo fungo. La prova fu basata sulle 60 tonnellate, ma la risposta della struttura soprese, infatti fu di 3 volte superiore.

Nel 1549 Pirro Ligorio cominciò lavorare per il Cardinale di Ferrara, Ippolito, figlio di Lucrezia Borgia, che lo incaricò di eseguire degli scavi a Villa Adriana, per recuperare statue per la sua collezione. Pirro non si limitò solo a questo: scrisse infatti una relazione sugli spazi della villa, analizzandoli, cercando di stabilire dei nomi precisi per le loro funzioni, e di interpretarne il simbolismo. Questo rese da una parte Villa Adriana una sorta di prontuario di modelli architettonici, dall’altra influenzò il capolavoro di Pirro Ligorio, Villa d’Este.

Da una parte, Pirro riprende da Villa Adriana la struttura policentrica, incentrata su più assi visivi, accentuata dall’utilizzo di una struttura a terrazza che sfrutta l’andamento digradante del terreno, che sovrappone a una simmetria retta da un asse principale diversi assi trasversali che moltiplicano i percorsi e le prospettive.

Inoltre, riprende una visione citazionista dell’Antico, che serve a costruire una macchina combinatoria, generatrice di simboli e di metafore che quasi anticipa il Barocco. Per citare Fiorella Rabello
.
Gli elementi simbolici, che esaltano la casa d’Este e fanno riferimento alla figura e alle vicende pubbliche del cardinale Ippolito, sono disposti secondo uno schema bipolare che mette in contrapposizione la Roma capitale dello stato pontificio – che ha in certo modo “rifiutato” Ippolito – e la città di Tivoli – di cui il cardinale diventa governatore dopo essere stato escluso dal seggio papale – che diventa allegoricamente la sede eccelsa delle arti e della bellezza, in una rinnovata creazione di un Giardino delle Esperidi.

L’acqua è l’elemento di continuità che oppone e insieme mette in relazione i poli opposti. Il primo degli assi trasversali è quello “geografico”: da una parte sta Tivoli, rappresentata dalla fontana dell’Ovato che ripropone le vicine cascate dell’Aniene, al suo opposto si ergono le rovine della Rometta. Le unisce il viale delle Cento Cannelle, animato da simboli araldici (aquile e gigli) su tre livelli differenti che richiamano i tre fiumi del Lazio.

L’asse mitologico ripropone il mito di Ippolito e della castità – si tratta pur sempre della residenza di un cardinale – e della Virtù che vince il Vizio nei percorsi contrapposti che portano alle grotte di Venere e Diana. E ancora la mitologia e il mito di Ercole e del giardino delle Esperidi domina l’intero complesso nel punto baricentrico di intersezione degli assi, dove la fontana del Dragone ci ricorda come l’eroe riuscì a rubare i Pomi d’Oro dal giardino incantato protetto dal feroce drago. Al contrario, i preziosi Pomi sono ora al sicuro, come ci ricordano gli affreschi all’interno della Villa, custoditi dall’Aquila estense.

Altro grande architetto affascinato da Villa Adriana è Borromini, che ne fu ne ispirato in diversi progetti: la sintesi di tale influenza è in un’opera incompiuta, di gran fascino, ma lontana dai tradizionali circuiti turistici di Roma, chiesa di Santa Maria dei Sette Dolori, posta alle pendici del Gianicolo.

La chiesa venne costruita accanto al monastero sui juris delle oblate agostiniane, il cui ordine venne fondato attorno al 1640, da Camilla Virginia Savelli Farnese, duchessa di Latera, su consiglio di sua cugina Giacinta Marescotti. Il monastero ammetteva alla vita religiosa le giovani di nobile famiglia ma di salute cagionevole: le oblate, infatti, osservavano una regola mitigata, approvata da papa Alessandro VII il 16 giugno 1663.

La facciata della Chiesa, ispirata al Canopo, delimitata con due ali sporgenti, utili a sottolineare la spigolosità degli angoli, creando così un effetto di chiusura, allusivo alla vita stessa delle suore, appartate nelle mura del convento. Dal portale si accede a un vestibolo mistilineo con volta piana e pareti convesse, riferita in particolare all’edificio delle Piccole Terme di Villa Adriana a Tivoli, che in quel periodo venne rilevata grazie alle campagne di scavo intraprese per volontà di Francesco Barberini.

L’interno, parallelo alla facciata, è a navata unica, di impianto rettangolare con angoli arrotondati – utilizzato anche in altri edifici, quali la sacrestia di San Carlino alle Quattro Fontane e la cappella di Propaganda Fide – e con effetto estremamente dinamico, grazie anche all’utilizzo di coppie di colonne con alta cornice, che mettono in risalto le quattro brevi cappelle laterali e l’altare maggiore, con un’impostazione derivata dalla Piazza d’Oro.

Chiesa e convento, ora un resort di lusso, che ebbe una vita avventurosa: nel corso dell’occupazione francese le suore furono costrette ad abbandonare il convento; rientrate nel 1815, parteciparono attivamente alla cura dei feriti nel corso della repubblica romana del 1849, prestando assistenza a entrambe le parti. Nel 1870 il convento subì le cannonate di Nino Bixio, mentre nell’ultimo conflitto, durante l’occupazione nazista, numerosi ebrei vi trovarono rifugio.

Villa Adriana destò l’attenzione Le Corbusier, che la visitò durante il voyage d’Orient iniziato nel 1911, effettuando trentasette disegni a matita delle rovine con didascalie sintetiche ma piuttosto acute che evidenziano il grande interesse che il complesso suscitò in lui.

Agli occhi di Le Corbusier Villa Adriana è il luogo dove l’artificio e la natura si compenetrano, uno spazio in cui le forme dell’architettura appaiono come materializzazione della natura stessa. I resti della residenza adrianea colpirono l’immaginazione di Le Corbusier proprio nella loro essenza di rovine, forme quasi primigenie che sembravano rivelare l’essenza del processo costruttivo, elementi archetipi dell’architettura. Ne citò quindi l’impostazione in diversi progetti urbanisti e in alcuni edifici: ad esempio riprodusse il fascio di luce che illumina e squarcia l’interno tenebroso dall’abside terminale del Serapeo, nella Cappella di Notre Dame du Haut, realizzata a Ronchamp tra il 1950 e il 1955. .

Louis Kahn, invece, dopo i suoi viaggi in Italia e sorpreso anch’egli dalla grandezza di Villa Adriana sia in ambito architettonico che urbanistico, la studia a fondo per ricreare un ambiente tanto ricco quanto aperto. Per il progetto del Salk Institue for Biological Studies in California, utilizza le conoscenze acquisite presso la Villa per riproporre una grande complesso architettonico unico, ma formato da tante parti ben integrate tra loro. In particolare, la progettazione degli alloggi del centro di ricerca riprende l’assetto planimetrico dell’edificio detto Hospitalia, ossia una grande “piazza” rettangolare con alloggi ai lati

Frans Hals

Nonostante il suo straordinario e indiscusso genio, Frans Hals è spesso citato di sfuggita nei libri di storia dell’arte italiani, perchè oscurato da Rembrandt. Eppure il grande ritrattista di Haarlem, instancabile esploratore della psiche, ne avrebbe di cose da insegnare, a chi ha il coraggio di ascoltarlo.

Frans nacque intorno al 1580 ad Anversa, in un momento molto difficile per la città, figlio mercante di stoffe Franchois Fransz Hals van Mechelen e della sua seconda moglie Adriaentje van Geertenryck: il 4 novembre 1576, i tercios spagnoli ammutinatisi iniziarono a saccheggiare Anversa, portando tre giorni di terrore ed orrori tra la popolazione della città che era uno dei principali centri culturali, economici e finanziari delle Diciassette Province. Sacco che ebbe due effetti collaterali, che provocarono parecchi mal di pancia a Filippo II. Il primo, la recessione economica della zona: i commercianti inglesi, che compravano dalla città essenzialmente stoffe e vestiti, ossia la principale fonte di reddito Hans padre non volendo rischiare visitando la città che ora si trovava in una zona di guerra, cercarono altri collegamenti commerciali con altri porti. Dal 1582, tutto il commercio inglese ad Anversa poteva dirsi cessato, provocando a crisi irreversibile di quello che era il polo culturale ed economico dei Paesi Bassi, il che provocò una diminuzione drastica delle entrate di Madrid, che provocò ulteriori grattacapi alla Corona Spagnola, che aveva già dichiarato bancarotta.

Inoltre, la brutalità dei tercios, facendo tracollare anche la reputazione di Filippo II. Gli Stati Generali, influenzati dal sacco, firmarono la Pacificazione di Ghent appena quattro giorni dopo, unificando le province ribelli con quelle lealiste con l’intento di rimuovere tutti i soldati spagnoli dai Paesi Bassi e porre fine alle persecuzioni degli eretici. Così l’opinione pubblica moderata, favorevole a un possibile compromesso con Madrid, si schierò dalla parte dei ribelli.

La crisi economica, più che simpatie protestanti, Frans in tutta la sua vita fu più o meno un criptocattolico, convinsero gli Hals a prendere armi e bagagli e trasferirsi nella più ricca e tranquilla Haarlem, dove nel 1591 nacque suo fratello Dirk: essendo anche lui un pittore è probabile che la famiglia Hals non avesse particolari antipatie per questo mestiere.

Frans andò a studiare pittore fiammingo Karel van Mander, che aveva soggiornato a Roma e che aveva importato in Olanda uno stile manierista di ispirazione italiana. Karel aveva fondato un’accademia ad Haarlem, in cui di fatto, applicava un metodo di insegnamento straordinariamente moderna per l’epoca: allo studio e alla riproduzione dei quadri degli autori precedenti, sia italiani, sia fiamminghi, associava il disegno dal vivo e inoltre faceva di tutto affinché i suoi allievi trovassero uno stile personale

Karel aveva poi pubblicato un best seller della storia dell’arte dell’epoca, intitolato, con poca fantasia, il Libro della Pittura, composto da tre volumi. Il primo era una traduzione delle vite del Vasari. Il secondo, una sorta di integrazione, comprendente le biografie di pittori fiamminghi e tedeschi. L’ultimo, una sorta di miscellanea, con traduzione de Le Metamorfosi di Ovidio seguita da una spiegazione iconografica e dalla descrizione della collezione d’arte del municipio di Haarlem.

Tra l’altro Frans, dopo essersi diplomato ed essere entrato nell’associazione di categoria dei pittori olandesi dell’epoca, la Gilda di San Luca, nel 1610 fu assunto dal consiglio cittadino, su raccomandazione di Karel, proprio come restauratore di quella collezione che comprendeva le opere di Geertgen tot Sint Jans , Jan van Scorel e Jan Mostaert, tutti ispirati dall’arte italiana, che decoravano la chiesa cattolica di Haarlem.

Questi quadri erano stati sequestrati nel 1578, quando proprio a seguito del sacco di Anversa, era stata abolita da parte dei protestanti la Dichiarazione di Haarle, che concedeva la parità di diritti ai cattolici. Ufficialmente, la collezione divenne proprietà pubblica nel 1625, quando una specifica commissione del consiglio cittadino decidette quali opere potevano essere esposte nel Municipio e quali, troppo “cattoliche romane”, quali invece fossero vendute, a prezzo di favore, a condizione che la rimuovesse dalla città, a Claesz van Wieringen, segretario della sezione locale della Gilda di San Luca e amico intimo di molti consiglieri.

Casualmente, le opere da epurare risultarono essere quelle di maggior pregio, che rivendute a collezionisti esteri, resero Claesz smodatamente ricco: lo scandalò che ne seguì, oltre a provocare l’arresto di diversi consiglieri, ebbe come effetto collaterale la restituzione di parte dei diritti ai cattolici. In questo contesto, però, non c’era mercato per soggetti di natura religiosa, per cui Frans, per campare, si dedico ai ritratti. A testimonianza delle sue simpatie religiose, il suo primo cliente è Jacobus Zaffius. che era stato priore del convento De Blinken a Heiloo e parroco di una chiesa ad Haarlem. Jacobus non solo si era rifiutato di consegnare le proprietà parrocchiale al Consiglio Municipale, ma gli aveva anche fatto causa, vincendola. Il Consiglio Municipale, condannato a pagare un indennizzo a Jacobus, non solo aveva fatto orecchie da mercante, ma lo aveva addirittura fatto arrestare. L’avvenimento fece così scandalo, all’epoca, che Guglielmo il taciturno dovette concere l’amnistia a Jacobus e convincere più con le cattive che con le buone Haarlmen a pagare il dovuto. Proprio per celebrare questa vittoria, Jacobus commissionò il suo ritratto.

Nello stesso anno, Frans sposò la sua prima moglie Anneke Harmensdochter intorno. Essendo Frans era di nascita cattolica, tuttavia, quindi il loro matrimonio fu registrato nel municipio e non in chiesa. Sfortunatamente, la data esatta è sconosciuta perché i più antichi atti di matrimonio del municipio di Haarlem prima del 1688 non sono stati conserva. Per sfortuna di Frans, ad Haarlem vi era un suo omonimo, un poco di buono, ubriacone, donnaiolo e famoso per malmenare la moglie: questo provocò diversi grattacapi al pittore, che ogni tanto dovette pagare le multe dell’altro Frans, dall’altra contribuì a costruire la sua leggenda del suo stile di vita dissoluto, poichè gli furono attribuite dai biografi postumi, tutte le malefatte dell’omonimo. Il problema di Frans, che fu sempre alla base dei suoi assilli economici, fu la numerosa famiglia, aveva otto figli, che in qualche modo doveva mantenere. Per questo fu un lavoratore energico, assiduo, infrenabile.

Al contempo, per costruirsi una rispettabilità, entrò sia alla locale camera di retorica, dove si interesso sia al teatro e lavorò a una traduzione dei caratteri di Teofrasto, sia nella guardia civica degli Schutterij, istituita nei Paesi Bassi durante il Medioevo allo scopo di proteggere la città in caso di attacco nemico e per mantenere l’ordine pubblico in caso di rivolta o incendio. Il loro centro di addestramento di solito era un luogo aperto all’interno della città, vicino alle mura cittadine. I gruppi di schutter erano suddivisi per quartiere e in base alle armi usate: arco, balestra o moschetto.

La schutterij operava come supporto del governo locale ed erano le autorità cittadine a nominarne gli ufficiali. Gli ufficiali erano ricchi cittadini appartenenti alla Chiesa riformata. Il capitano non sempre era originario del quartiere e il sottufficiale spesso era un giovane ricco e scapolo (spesso riconoscibile, nei ritratti di gruppo delle schutterijen, dai vestiti particolarmente eleganti e dalla bandiera che porta).

Di solito, essere un ufficiale della schutterij per un paio di anni era necessario per ottenere altre cariche importanti nel consiglio cittadino. I membri dovevano provvedere a comprarsi l’equipaggiamento: un’arma e un’uniforme. Ogni notte una coppia di uomini faceva la guardia in due turni, dalle venti alle due e dalle due alle sei, chiudendo e aprendo le porte della città. Ogni mese gli schutter marciavano in parata sotto il comando di un ufficiale. Una volta l’anno organizzavano un banchetto a base di birra e manzo arrosto. Un pittore locale veniva invitato per ritrarre e immortalare la scena. Il più famoso di questo ritratto è la Ronda di Notte di Rembrandt.

Di solito per ogni cento abitanti tre appartenevano alla schutterij. Nel XVI, XVII e XVIII secolo i mennoniti olandesi furono esclusi dal servizio nella schutterij e invece di prestare il servizio pagavano una tassa doppia. I cattolici potevano entrare nelle schutterijen solo in alcune regioni. Le persone che erano al servizio della città (come il pastore, i medici, l’insegnante, il sagrestano, i portatori di birra, i portatori di torba) e gli ebrei della città non dovevano prestare il servizio. I portatori di birra e di torba dovevano servire come pompieri.

Frans essendo menbro della milizia fu la prima scelta nell’eseguire il ritratto e vi si buttò a capofitto, nel tentativo di utilizzarlo come pubblicità della sua abilità artistica

Affinché questo ritratto di gruppo fossero efficaci, soddisfasse i clienti ed evitasse che lo aspettassero fuori di casa, Frans si è trovato a risolvere un insieme di problemi. Per prima cosa, dovette mediare mediare tra le esigenze dei suoi conoscenti, che ricordiamolo, pagavano una quota inerente alla commissione del ritratto, che dipendeva sia dal suo ruolo, sia dalla sua posizione e l’esigenza di rappresentare il gruppo come un insieme. Per cui, da una parte dovette uscire scemo per assegnare i posti, dall’altra dovette dare evidenza sia alle esperienze comuni che trasformavano i singoli in un gruppo, sia allo status dei soggetti del ritratto, fondamentale in una cultura calvinista, dove l’ascesa sociale era considerata come un “segno” della benevolenza divina

Frans ha affrontato e risolto efficacemente questi nodi problematici, dipingendo una simmetrica divisione in due sottogruppi, ciascuno dei quali occupa metà dello spazio pittorico. Questi due gruppi sono collegati tra loro dalle diagonali formate dallo stendardo sulla destra e dalle teste di alcuni personaggi sulla sinistra, che si incrociano al centro sotto la finestra nel gesto del locandiere che porge un bicchiere. I due sottogruppi sono riuniti in un tutto unico dalla figura con il cappello, seduta con un coltello in mano davanti ad un piatto pieno di aragoste: il capitano Gilles de Witt. Un portabandiera, il secondo da sinistra, con la mano sinistra priva del guanto porge un bicchiere vuoto e al rovescio al locandiere, cosa inusuale per il suo ruolo. Il colonnello indossa una fusciacca arancione di foggia diversa da quella degli altri; come negli altri ritratti, il colonnello è raffigurato seduto e con il bicchiere sollevato, al centro del gruppo di sinistra e mentre si rivolge con un gesto teatrale al portabandiera con il cappello in mano, alla sua sinistra. Anche qui si può individuare un “genius loci”, una figura carica di affettività e bonarietà, nel personaggio con la barba, magnificamente dipinto nel sottogruppo di sinistra, disposto sotto al braccio disteso del portabandiera che porge il bicchiere al contrario all’oste, colto mentre volge l’intera figura, con lo sguardo e la mano tesa verso il centro della tavola. E anche in questo ritratto parte fondamentale di “immagine marca” la svolgono le fusciacche indossate da tutti gli ufficiali ed i portabandiera, e gli stendardi.

Uno degli aspetti più interessanti dei ritratti di questo periodo è che i componenti del gruppo raffigurato sono tutti identificati con nome e cognome, come in una moderna fotografia di gruppo; si cerca così di rappresentare l’insieme senza che il singolo perda la sua identità. Anche se i personaggi sono impegnati in una relazione tra loro hanno la consapevolezza della presenza dello spettatore, qualcuno lo guarda esplicitamente, come a rompere la quarta parete teatrale.

L’espressione dei singoli personaggi è in relazione con la presenza degli altri membri del gruppo, cioè dell’essere nel gruppo. Se questi personaggi fossero ritratti singolarmente sarebbero resi in un atteggiamento diverso, con caratteristiche diverse: dubito ad esempio che l’ebbrezza alcolica evidente nei visi dei personaggi ritratti sarebbe apparsa in maniera così evidente nel caso di ritratti singoli. In più, nella speranza di guadagnare qualche commissione in più, Frans si impegnò a rappresentare la tovaglia damascata di Haarlem, i cuscini di broccato sulle sedie e le alabarde appese alla parete e lo sfondo alberato, mostrando i suoi notevoli talenti come pittore: ritrattistica, natura morta e paesaggio.

Nel maggio 1615, Frans rimase vedovo: così assunse la giovane figlia di un pescivendolo, Lysbeth Reyniers, per prendersi cura dei suoi figli che mise incinta e sposò nel 1617 a Spaarndam, fuori Haarlem per evitare lo scandalo. La numerosa famiglia di Frans, tra l’altro, gli impose anche un modo di lavorare che era un unicum nei Paesi Bassi dell’epoca. I contemporanei come Rembrandt trasferirono le loro famiglie secondo i capricci dei loro clienti, ma Hals rimase ad Haarlem e insistette affinché i suoi clienti venissero da lui. In più, all’attività di pittore dovette associare un’infinità di altri mestieri, dal banditore d’aste al perito per cause in tribunale.

Sempre nel tentativo di guadagnare qualche soldo in più, visto che la pittura di genere stava avendo un boom tra i collezionisti, si avvicinò tra il 1620 e il 1630 ai caravaggisti di Utre ht, soprattutto nella rappresentazione di mezze figure a grandezza naturale: nascono cosi “ritratti” di attori, bevitori, musici, ispirati alle commedie popolari. L’accostamento ai pittori di Utrecht fu soprattutto tematico, perchè Frans non fu mai interessato alla ricerca di contrasti drammatici di chiaroscuro, ottenuti con la luce artificiale, comune ai caravaggisti olandesi; predilesse invece una luminosità diffusa e reale, talvolta con effetti di “plein-air”.

Tra questi ritratti spicca quello della zingara, raffigurata al centro del dipinto con il corpo rivolto a sinistra ma lo sguardo a destra verso l’esterno. Ha un’espressione felice e maliziosa e non sembra essere consapevole del ritrattista e di essere osservata. Ha il volto robusto e rubicondo un po’ adolescenziale. La fronte è larga spaziosa e coperta da alcuni ciuffi di capelli scomposti che ricadono anche intorno agli occhi. Il naso popolare e piccolo la bocca sorridente e sottile. Gli occhi sono grandi e molto espressivi. Gli zigomi ampi e distanziati. Sotto il mento sfuggente il collo è nudo. La camicetta che indossa ha una scollatura molto ampia che lascia esposti i seni molto prosperosi. I capelli sono lunghi, ricadenti dietro le spalle ma non composti in un acconciatura. Oltre alla camicetta indossa un grembiule stretto alla vita. I tessuti sono poveri e un po’ sgualciti.

Nonostante tutto il suo lavoro, il dover mantenere la famiglia lo fece stare perennemente in bolletta: i uoi creditori lo portarono più volte in tribunale, e vendette i suoi averi per saldare il suo debito con un fornaio nel 1652. L’inventario dei beni sequestrati menziona solo tre materassi e cuscini, un armadio, un tavolo e cinque quadri. Rimasto indigente, nel 1664 ricevette dal comune una rendita di 200 fiorini, a testimonianza della stima di cui godeva.

Frans morì ad Haarlem nel 1666 e fu sepolto nella chiesa di San Bavone della città .Dopo la sua morte, la sua vedova chiese aiuto e fu ricoverata nell’ospizio locale, dove morì in seguito. Negli ultimi decenni Frans non dipinse quasi più scene di genere e si dedicò solo al ritratto: la sua pennellata divenne ancora più audace ed essenziale, manifestando anche nei ritratti ufficiali la libertà tipica delle scene di genere. La sua pittura si fece più semplice e severa, sostituendo i colori splendenti del periodo precedente con effetti quasi monocromatici, mentre i personaggi sorridenti si immergono in austera meditazione. Questo processo si approfondì nell’ultima stagione del pittore in opere di allucinante potenza evocativa.

Nonostante sia stato spesso paragonato a Rembrandt, Frans mantiene una propria originalità al di là del suo più illustre contemporaneo. Nella scelta delle atmosfere, innanzitutto, Frans ha sempre privilegiato la luce del giorno e i riflessi del sole sulle ombre argentate, mentre Rembrandt è famoso per i propri studi di contrasti notturni ed il proprio utilizzo di innaturali e ricercati effetti di luminescenza. Si può affermare, in un certo senso, che i due autori siano in qualche modo complementari: stilisticamente Rembrandt costituisce un’ombra laddove Frans si concentra sulla luce, mentre la scelta dei soggetti li vede ricoprire i due ruoli opposti.

Il Monte del grano

In una guida dagli Anni Quaranta del secolo scorso, il Mausoleo di Monte del Grano è così definito

Piccole case accatastate sulla sinistra della Tuscolana e tra di esse si apre, di colpo, quel tal Monte del Grano, antico monumento che il piano particolareggiato della zona vuole sia rimesso in degna luce”

Con il boom edilizio degli anni Sessanta e Settanta e i relativi palazzoni, la situazione è ancora peggiorata e quello che per dimensione, dopo quelli di Adriano e di Augusto, è il terzo mausoleo di Roma, non solo è ignoto al turista, ma di solito passa inosservato. Oggi il monumento appare infatti come oggi come una collina, ricoperta da vegetazione, alta 12 metri e con una circonferenza di ben 140. Tra l’altro, saltuari scavi archeologici hanno mostrato come un tempo facesse parte di una vasta necropoli in una zona suburbana, di cui è rimasto ben poco.

Il mausoleo, conosciuto sin dal medioevo con il nome di Monte del Grano per la sua forma di moggio di grano rovesciato in origine, invece, consisteva in un tamburo circolare a blocchi di travertino, in parte rinvenuti nell’aprile del 1969 durante i lavori di sistemazione del parco pubblico, realizzato attorno al mausoleo. In quell’occasione, sulla sua sommità, fu installato un radio faro dell’aeronautica. Il tamburo era la base di un probabile tumulo troncoconico, ricoperto forse da vegetazione, secondo una consuetudine di derivazione ellenistica il cui esempio più noto e monumentale è il sepolcro di Augusto.

La leggenda popolare vuole invece che fosse un monte di grano trasformato (per punizione divina) in terra, perché raccolto di domenica, giorno dedicato al riposo. Il mausoleo, nei documenti medievali è anche definito come Monte di Onorio, Monte di Nori o ancora lo Montone del Grano

L’accesso avviene attualmente attraverso un portale marmoreo non pertinente all’ingresso originario che immette in un corridoio rivestito di mattoni, lungo 21 metri e coperto da una volta a botte di cui rimane solo il primo tratto. Dal corridoio si accede alla camera sepolcrale a pianta circolare, di circa m. 10 di diametro, coperta a cupola e divisa in altezza da una volta a sesto ribassato, ora crollata, di cui si vede l’imposta a m. 3.40 di altezza.

Nel piano superiore, nel punto il cui corridoio sbocca nella cella sepolcrale è ricavato un piccolo vano coperto con volta a botte che sembra non essere mai stato accessibile e il cui uso, per questo, risulta incomprensibile. Al di sotto dei muri perimetrali della cella e del corridoio grandi blocchi di travertino indicano il livello del pavimento antico, leggermente più alto dell’attuale piano di calpestio. L’areazione e l’illuminazione del sepolcro erano assicurati da un lucernario obliquo che convogliava la luce al termine del corridoio, sostituito in seguito da un pozzo di luce verticale rivestito di mattoni e da un altro lucernario obliquo che illuminava direttamente la cella.

Dopo la caduta dell’Impero Romano, il mausoleo conobbe nel corso dei secoli diversi passaggi di proprietà che probabilmente ne alterarono l’aspetto originario. Sappiamo come nel 1200 fosse di proprietà dellla Chiesa dei Santi Bonifacio e Alessio sull’Aventino, ricevuto in dono, con altri beni terreni, da papa Onorio II quando, nel 1217, fece alcuni lavori edilizi in latifundium quod vocabatur Quadrarium seu de Quadraro, extra Porta s. Iohannis in monte Honorii, come riportato nel relativo Regesto, connessi probabilmente alla costruzione di una sovrastante torre medievale

All’epoca, il mausoleo faceva parte della tenuta chiamata “Casale delle Forme”, dove formae nel latino medioevale, sono gli archi degli acquedotti, molto comuni in zona, da cui deriva anche il nome di Porta Furba -Porta Forma- dato all’arco lungo la Via Tuscolana. A inizio Trecento, la tenuta fu acquistata dal monastero di Santa Maria Nova, che nel 1370, la rivendette Nicolò Valentini, uno dei tre nobili veneziani che, durante il giubileo del 1350, offrirono alla basilica di San Pietro una pulcherrimam et myrabilem tabulam de Chrystallo, pulchris laminis argenti deaurati (una tavola di cristallo) per custodire la reliquia del sudario del volto di Cristo, che aveva preso la residenza nel Rione Monti.

Il nome di Monte del grano era divenuto comune già nel 1386, così risultando da alcuni documenti conservati nell’Archivio Storico Capitolino. Nicolò Valentini nel 1387 stipulò un contratto con Giovanni Branca, calcarario del Rione Pigna, per fargli rompere e asportare i blocchi di travertino dei rivestimenti interni ed esterni del Mons Grani, che all’epoca doveva essere quindi ben conservato, per farne calce. Il 23 febbraio del 1420 gli eredi Valentini vendettero per 1500 fiorini a Bartolomeo, fratello di Paolo di Cola di Stefano di Capranica, il casale delle Forme, con la torre e cum toto Monte qui vocatur Lo Montone dello Grano.

Una iscrizione, ora perduta, ricordava il restauro nel 1505 della torre da parte di Antonio Alberti, il quale, a scanso di equivoci, vi aggiunse anche il suo stemma: una croce bizantina con ai lati una stella ad otto raggi ed una mosca. La torre subì ulteriori modifiche fra il 1600 ed il 1800 come testimoniano stampe dell’epoca. Nel 1870 vennero eseguiti interventi di consolidamento da Filippo Lovatti ma solo trent’anni dopo la torre crollò, durante un violento nubifragio ed oggi ne rimane solo parte della fondazione

Essendo un importante punto di riferimento per i viaggiatori provenienti dai Castelli, fu rappresentato da Eufrosino della Volpaia nella sua pianta di Roma e dintorni del 1547. nel maggio del 1582 un certo Fabrizio Lezaro estrasse il sarcofago che fu attribuito all’imperatore Alessandro Severo, basandosi su un brano dell’Historia Augusta, in conseguenza della identificazione delle due figure distese, presenti sul coperchio, come Alessandro Severo e sua madre Giulia Mamea. Venne poi, in modo inesatto, riconosciuto come il ratto delle sabine la scena rappresentata sui lati del sarcofago, quando invece si trattava delle vicende di Achille a Sciro, quando, l’eroe greco, per evitare di partecipare alla Guerra di Troia, si travestì da donna

Dopo il rinvenimento le trattative per l’acquisto da parte del Comune non furono brevi, sappiamo che il sarcofago venne collocato nel cortile del palazzo dei Conservatori nel 1590, venne poi trasferito nel cortile del Museo capitolino nel 1722 ed infine, nel 1817 venne posto nella III sala terrena a destra nello stesso Museo dove tutt’ora si trova.

Così descrive il ritrovamento del sarcofago Flaminio Vacca nelle sue Memorie di varie antichità trovate in diversi luoghi di Roma (1594):

Mi ricordo, fuori di Porta S. Gio[vanni] un miglio passati l’Acquedotti, dove si dice il Monte del Grano, vi era un gran massiccio antico fatto di scaglia; bastò l’animo ad un Cavatore di romperlo, ed entratovi dentro, calò giù tanto, che trovò un gran Pilo storiato con il Ratto delle Sabine, e sopra il coperchio vi erano due figure distinte con il Ritratto di Alessandro Severo, e Giulia Mammea sua madre, dentro del quale vi erano delle ceneri; ed ora si trova nel Campidoglio in mezzo al Cortile del Palazzo de’ Conservatori.

Nel 1750 Piranesi fu cosi affascinato dal monumento, tanto da rappresentarlo nelle sue incisioni, anche se diverse sue deduzioni e ricostruzioni non sono state confermate dall’archeologia, tanto da definirlo

uno dei più superbi sepolcri della Romana grandezza”

A chi apparteneva il Mausoleo ? Probabilmente, non ad Alessandro Severo: l’analisi dei bolli ne ha infatti anticipato la costruzione ai tempi di Adriano. In più, l’iconografia del sarcofago è senza dubbio relativa a quella di una coppia sposata. Recentemente, il nome del Mausoleo è stato invece associato alla ricchissima gens Grania, originaria di Pozzuoli, che in quella zona della Tuscolana era proprietaria di un’ estesa tenuta

Lo scozzese etruscologo

L’eredità di Annio da Viterbo fu presa da uno scozzese dalla vita assai affascinante, Thomas Dempster, benché questi, in tutti modi, per darsi un tono da intellettuale, cercasse di negarla in tutti i modi, accusando, a ragione, il predecessore di essere un ciarlatano e un truffatore: già la sua famiglia è un incredibile accozzaglia di fenomeni da baraccone.

Il suo clan era famoso per essere costituito da feroci attaccabrighe, tanto che, pur essendo costituito da convinti papisti, nessuno dagli Stuart al più povero degli highlander osò contestare questa convinzione religiosa. In un ambiente del genere, in cui l’ignoranza era una virtù, Thomas stupì tutti per le sue attitudini intellettuali, tanto che il padre, Thomas senior, non solo ingaggiò un precettore per il figlio, Andrew Ogston, che a quanto pare, nelle sue memorie riferì che il nostro eroe imparasse a leggere e scrivere a tre anni, ma primo del suo clan, Grammar School di Aberdeen, e nel 1588, al Pembroke College (Cambridge), cosa assai notevole, sia perché era un’università degli odiati inglesi, sia perchè tenuta da scismatici anglicani, che i Dempester avevano dalle loro parti, la strana abitudine di coprire di pece e piume.

Nel frattempo, Thomas senior, che sarà stato anche bigotto, ma che amava tanto le belle donne, fregandosene della moglie, si era presa un’amante di trent’anni più giovane, Isabella del clan Gordon, la quale, però, poco gradì la situazione, tanto da scappare con il suo primogenito, James Dempster.

La reazione di Thomas senior fu repentina: diseredò suo figlio maggiore. James e una banda dei Gordon tesero un’imboscata a Thomas e ai suoi compagni sulla strada tra le proprietà. Thomas fu colpito parecchie volte alle gambe con un’arma da fuoco e ricevette un colpo di spada alla testa: in conseguenza di ciò, James divenne un fuorilegge, dandosi al brigantaggio, per traferirsi nelle isole di Shetland e nelle isole Orcadi, dove si improvvisò pirata. Avendo avuto un’incompresione sulla spartizione del bottino con i suoi colleghi, fuggì arruolandosi volontario per il servizio militare nei Paesi Bassi, dove fu poi sbudellato e squartato per insubordinazione.

Dinanzi a questo manicomio, lo zio intelligente di Thomas, John, che era scappato dal clan e aveva rinunciato al titolo nobiliare, per fare l’avvocato ad Edimburgo, per allontanarlo da quell’ambiente, letteralmente lo rapì a Cambridge o lo spedì assieme al suo precettore a Parigi; benché strana, fu una decisione sensata. Thomas Senior, nell’ordine: per non fare ereditare nulla ai figli, vendette tutte le proprietà, con i soldi ottenuti finanziò una guerra civile tra clan delle Highlander, così, per sport, senza alcun motivo sensato, tante che gli Stuart fece finta di non vedere e infine, sempre per finanziare suddetta guerra, cominciò a battere moneta per conto suo, cosa, che, finalmente, lo portò all’arresto e alla decapitazione.

Intanto, Thomas junior, appena sbarcato in Francia, fu malmenato e derubato da una compagnia di soldati, tanto che il suo precettore morì per le ferite.Tuttavia, un buon samaritano si fece avanti: Walter Brus, un ufficiale dell’esercito francese, che era di discendenza scozzese e, a giudicare dal nome, forse non di umilissima origine, che organizzò una colletta tra connazionali per permettere a Thomas di studiare nel Collegio Scozzese di Parigi.

Ora, il tutto non che sia solo frutto della bontà d’animo: con l’appoggio spagnolo, gli scozzesi esiliati stavano organizzando una sorta di ritorno con le armi in patria, per rimporre a randellate il cattolicesimo ai riottosi connazionali. Nel far questo, però serviva anche una nuova classe dirigenze, che era formata proprio nel Collegi Scozzesi. Per cui, da quel momento in poi, Thomas affiancò, alla sua attività di intellettuale, quella di spia e di cospiratore, cosa in cui deve essere stato anche particolarmente abile, tanto che fu spedito a un corso di perfezionamento.

Con la scusa che soffrisse di una non meglio specificata peste, fu trasferito ufficialmente a Lovanio; in realtà la sua meta era Collegio Scozzese di Douai, gestito dal gesuita William Crichton, che era una sorta di scuola superiore per spie dell’epoca. Date le sue doti, fu spedito a Roma, per un ulteriore perfezionamento, ma dovette combinarla grossa, tanto che, sempre con la scusa della peste, fu rispedito a pedata a Douai. Per sua fortuna, fece simpatia a James Cheyne, che aveva sostituito Crichton come rettore, tanto che da una parte convinse Filippo II a fornirgli una borsa di studio, dall’altra, con le buone e con le cattive, costrinse Thomas, anarchico come il resto del suo clan, a finire gli studi. Fu una decisione azzeccata: Thomas divenne docente a contratto di studi umanistici all’Università di Douai. Dopo un breve soggiorno, ritornò a Parigi, per prendere la sua laurea di dottore in diritto canonico.

Laureato, il suo primo lavoro fu professore ordinario, del Collège de Navarre, all’età di 17 anni. Presto lasciò Parigi per Tolosa, che a sua volta fu costretto ad abbandonare per l’ostilità delle autorità cittadine, suscitata dalla sua violenta rivendicazione dei diritti dell’università, riconducibili al non vogliamo pagare le tasse.

Fu poi eletto professore di eloquenza all’accademia di Nîmes. Un tentativo di omicidio contro di lui da parte di uno dei candidati sconfitti e dei suoi sostenitori, finì assai male per gli assalitori, tanto che fecero causa a Thomas per violenza privata: ovviamente vinse la causa, ma dovette cambiare aria, trasferendosi prima in Spagna, dove se ne dovette andare a causa un’epocale rissa a Madrid, che ispirò parecchi romanzi picareschi, tornando con il massimo della faccia tosta in Scozia, dove provò a reclamare l’eredità paterna, venendo accolto come Brancaleone da Norcia

Lo patre mio, barone di Norcia, morette quando io era in età di anni nove. Mia madre riandette a nozze con uno malvagio, lo quale avido dei beni miei mi consegnò ad uno sgherro, homo di facile pugnale, acché mi uccidesse. Ma non lo facette: preso di rimorsi mi abbandonò in uno bosco, ov’io sopravvissi, solo, e crebbi libero e forte come una lonza. Arrivato all’età degli anni venti mi appresentai allo castello per reclamare il mio, ma infrattanto matre et patrigno si erano morti dopo aversi scialacquato cose et ogni bene. Tanto che quando io dissi: “Brancaleone sono, unico legittimo erede di ogni cosa che avvi”, lo capitan de’ birri gridò: “Bene, e tu pagherai li debiti! Afferratelo!”. Al che io brandii l’arma, ferii due guardie e fuggii… da allora vado errando e pugnando.

Ritornò a Parigi nel 1609, dove rimase per sette anni, diventando professore in vari collegi, finchè non fu cacciato per avere malmenato le guardie del corpo del Re di Francia. Così un erudito dell’epoca, Gian Vittorio Rossi, noto anche come Giano Nicio Eritreo, racconta la vicenda

Ma, non so per quale patto, quelle mitissime sorelle (le Muse) … hanno abbracciato Thomas Dempster, uno scozzese, un uomo fatto per la guerra e la contesa … non lasciava passare quasi nessun giorno senza liti … ma in cui dovesse combattere un altro con la spada o, se non aveva una spada, con i pugni …”

Nella storia, Thomas frusta uno studente sulla schiena nuda per essersi battuto in duello, ma lo studente, incapace di sopportare l’insulto, chiama in aiuto tre parenti che si dà il caso appartengano ai custodes corporis Regis, le guardie del corpo del re. In risposta Thomas arma gli altri studenti, circonda le guardie e le rinchiude in catene nel campanile. Nell’inchiesta che ne risultò, “si levò una tale tempesta” che Thomas partì alla volta dell’Inghilterra.

Così si recò a Londra, dove Giacomo I l’aveva invitato come storico di corte, attirandolo con un dono di 200 sterline. A Londra sposò Susanna Waller, donna di grande bellezza, ma di carattere assai instabile. Secondo quanto raccontò, cosa da prendersi con le molle, dato che il nostro ereo che intendeva costruirsi una fama di cattolico perseguitato a causa della sua religione, i ministri anglicani e soprattutto James Montague, vescovo di Bath e Wells, infastiditi nel constatare che il re favoriva un dichiarato cattolico, lo obbligarono a congedarlo. Lasciata la moglie in Inghilterra, Thjomas si recò allora a Roma dove, scambiato per una spia, venne iniprigionato, ma subito rilasciato. A Roma riuscì ad ottenere la protezione di cardinali ed alti prelati, in particolare del cardinale Maffeo Barberini. Tali appoggi gli facilitarono la nomina a docente di diritto all’università di Pisa, che mantenne dal 1616 al 1619.

Al suo arrivo a Pisa, Curzio Pichena, segretario di Cosimo II, scriveva all’ambasciatore del granduca a Roma Pietro Guicciardini di aver sentito dere che Thomas era uomo di straordinaria erudizione, ma si dubitava del suo cervello e della sua pazienza. A ogni modo, entrò nelle simpatie del Granduca di Toscana, che gli diede l’incarico di scrivere una storia degli etruschi, sempre a scopi di propaganda politica. Prima di prendere servizio a Pisa Thomas si recò in Inghilterra a riprendere la moglie. che che, giunta in Italia, dette scandalo per il suo modo di vestire, come riportato da Giovanni Vittorio Rossi e vi tornò nel 1617 per acquistare libri con fondi datigli da Cosimo Il.

Nel 1619 morì la figlia appena nata, la sola che avrebbe mai avuto. Nel 1620, dopo l’esecuzione di suo padre, cominciò a fregiarsi del titolo di barone di Muiresk, il che in Scozia era però considerato una pretesa illegittima, per il suo diritto ereditario. A Pisa Thomas lavorava molto duramente alla sua commissione, a volte 14 ore al giorno. La tensione era troppa per sua moglie, forse anche depressa per la perdita della loro bambina, fuggì con Robert Dudley, conte di Warwick, inglese dalla vita assai avventurosa, che intorno al 1612 si era stabilito a Firenze, dopo essersi convertito al cattolicesimo, ed era stato nominato capitano del porto di Livorno; la donna ritornò da Thomas, ma questo scatenò una feroce faida tra lui e Dudley, con reciproche accuse di eresia, di titoli nobiliari usurpati e di concubinaggio.

Alla fine, Cosimo II, stanco di queste liti, mandò un ultimatum ai due: nel caso non si fossero rappacificati, li avrebbe licenziati in tronco. Dudley piegò la testa, mentre Thomas, pur di averla vinta, preferì rinunciare alla cattedra. Dopo questo casino, Thomas era deciso a tornarsene in Francia, era deciso a lasciare l’Italia, ma fermatosi a Bologna fu convinto dal cardinal legato Luigi Capponi a stabilirsi in quella città, dove, sempre grazie al decisivo appoggio di quel prelato, venne nominato professore di umanità all’università, superando l’opposizione di numerosi professori locali che ambivano a quella cattedra.

Continuava però a pendere sul suo capo l’accusa di eresia rivoltagli da Robert Dudley, che aveva fatto sì che una delle sue opere maggiori, l’Antiquitatum Romanorum corpus absolutissimum, fosse sottoposta all’esame della congregazione dell’Indice. Per riconquistare la fiducia e l’appoggio della corte pontificia, il Thomas si recò a Roma e vi rimase nell’estate del 1620, seguendo la corte medesima anche a Frascati nei mesi più caldi. Dopo essere stato ricevuto in parecchie udienze dal papa, che probabilmente prese per stanchezza riuscì a rimuovere l’opinione negativa che si aveva di lui, e la sua lite con Dudley, sottoposta all’arbitrio di due cardinali, venne finalmente risolta con la firma di un documento soddisfacente per entrambe le parti. Il 16 marzo 1621, peraltro, il libro sulle antichità romane fu inserito nell’elenco dei libri proibiti con la clausola “donec corrigatur”.

Risolte le liti, cominciò per Thomaa un periodo di relativa tranquillità. Il suo insegnamento a Bologna ebbe notevole successo e risonanza, tanto che presto il suo appannaggio fu aumentato; l’università di Padova gli offrì, per una cifra superiore, la cattedra di diritto, ma egli rifiutò. A Bologna l’Accademia della Notte lo accolse tra i suoi membri col nome di Evantius. Maffeo Barberini, divenuto papa col nome di Urbano VIII, lo creò cavaliere e lo gratificò di una pensione.

Fu a Bologna che Thomas fece amicizia con Matteo Pellegrini, che doveva completare la sua autobiografia postuma e descrisse “Dempsterus” come un uomo

“notevole per il corpo e per la mente: la sua statura era al di sopra della statura media dell’uomo comune: i suoi capelli erano quasi neri e il colore della sua non distante da quelli: la sua testa era enorme e il portamento del suo corpo completamente regale; la sua forza e la sua ferocia erano notevoli quanto quelle di un soldato…

Era destino che Thomas non godesse a lungo i suoi onori. Con la moglie abitava entro l’ambito della parrocchia di San Procolo, in una posizione centralissima e vicina all’Archiginnasio, dove avvenivano i suoi contatti giornalieri. Forse anche la moglie lo accompagnava alle lezioni e rimaneva ad ascoltarlo. Sembra che Dempster non godesse di grande popolarità presso i suoi studenti. Era un uomo iroso e forse un professore eccessivamente esigente. Alcuni suoi studenti si ribellarono e uno di essi ebbe persino una relazione con sua moglie, con la quale fuggì, aiutato – sembra – dagli amici.

L’episodio viene narrato da Matteo Peregrini in questi termini: era estate, la canicola imperversava, e Dempster si mise a inseguire la moglie infedele. Arrivò a Vicenza dove venne informato da un amico ecclesiastico che la coppia ormai aveva raggiunto il confine delle Alpi ed era meglio che lui se ne tornasse a Bologna. Affaticato e indebolito, Dempster se ne andò in campagna, a Budrio, dove non riuscì più a riprendersi. Infatti, pochi giorni dopo tornò nella sua casa di Bologna e morì. Il giorno 7 settembre 1625 fu sepolto nel chiostro dei crocesegnati nella chiesa di San Domenico.

Thomas Dempster continuò a godere di grandi riconoscimenti anche dopo la morte. Altri viaggiatori inglesi, recandosi sul suolo italico, nel corso degli anni ne vollero onorare la memoria: sembra che John Milton nel 1638 si sia recato in San Domenico a Bologna per cercare la tomba dell’erudito scozzese.

Il suo capolavoro è De Etruria Regali, il primo studio dettagliato su quanto all’epoca si sapeva sulla civiltà etrusca, in cui c’è più un atteggiamento compilativo, da filologo, che uno da storico. Nonostante l’influenza di Annio, Thomas noncredeva all’origine aramaica dell’etrusco, che all’epoca andava tanto di modoa, e riteneva gli Etruschi l’unico popolo autoctono della regione, il che spiegava la singolarità della loro lingua. Nel corso dell’opera Thomas si sforzò di assecondare gli intenti dei Medici, che già al tempo di Cosimo I avevano mostrato di apprezzare i tentativi volti a collegare la Toscana moderna con gli Etruschi; egli tentò anche di affrontare in modo scientifico le origini della famiglia (mise in rilievo che nella lingua etrusca “meddix” è sinonimo di magistrato supremo, pur aggiungendo che era trascorso troppo tempo per trovare un collegamento).

Per le sue tumultuose dimissione da professore dell’università di Pisa, il manoscritto dell’opera era stato dimenticato. Fu riesumato da palazzo Pitti, dove si trovava, quando, nel corso del suo viaggio in Italia dal 1713 al 1719, il nobile inglese Thomas Coke l’acquistò insieme con numerosissimi altri testi. Erede di un ricchissimo patrimonio, a 15 anni, con il permesso del nonno sir John, Thomas intraprese un Grand Tour di Francia, Germania, Paesi Bassi, Fiandre, Malta, Sicilia e Italia, viaggiando in una carrozza a sei cavalli, con carri supplementari, un numero di domestici e un compagno, il giovane Lord Burlington. Seguendo l’interesse di sua madre, Thomas imparò il greco e il latino (lungo la strada) e mise i suoi contatti all’erta per la ricerca di manoscritti classici rari, specialmente opere di Tito Livio. In Etruria Thomas fece amicizia con il granduca Cosimo III, che gli fece conoscere Anton Maria Salvini, il proprietario del manoscritto, che era tra l’altro uno dei principali grecisti dell’epoca.

Coke apprezzò assai il manoscritto e gli venne in mente di stamparlo: lo inviò di nuovo a Firenze e decise di sostenere le spese per la stampa. Di quest’ultima si occuparono Anton Maria Biscioni, che copiò il manoscritto, Filippo Buonarroti, lontano discendente di Michelangelo e Giovanni Gaetano Bottari. Il vero editore fu il Buonarroti, che si era formato nell’atmosfera antiquaria della Roma papale, svolgendo dal 1684 le funzioni di conservatore del museo e della biblioteca del cardinal Carpegna; le sue aggiunte all’opera rivelano un atteggiamento antiquario che contrasta con quello meramente erudito di Thomas; Buonarroti aggiunse all’opera anche un vasto apparato illustrativo, con figure incise su rami sotto la sua direzione.

Atene contro Siracusa Parte XXVII

Nel frattempo, per sfortuna degli ateniesi, Gilippo non era rimasto con le mani in mano, ma oltre a raccogliere rinforzi in giro per la Sicilia, aveva cominciato a porsi il problema di come rompere il blocco navale di Siracusa. Lo spartano, abbastanza lucidamente, aveva identificato come sua chiave di volta i tre forti del Plemmirio. Per cui, cominciò a buttare un giù un piano, per cercare di conquistarli, il quale però, richiedeva che la flotta siracusana fungesse da esca.

Ora, il problema è come convincere i siracusani a scendere il mare, data la fama della flotta nemica. Gilippo aveva bisogno di un alleato: fortuna volle che Ermocrate, che era stato messo da parte dopo i disastri che aveva combinato, al cambiare del vento, stava tornando in auge. Il siracusano, i cui intenti a lungo termine erano di diventare tiranno della città, o fraintese il piano dello spartano oppure lo infiocchettò parecchio, facendo credere ai suoi concittadini, che il ruolo fondamentale nella vittoria sarebbe stato della flotta.

Dinanzi agli scettici, Ermocrate arrivò a dire che i siracusani non fossero marinai inferiori agli ateniesi e che i nemici, presi di sorpresa con un’azione audace, sarebbero facilmente messi rotta. Insomma, tanto fece, che la polis siciliana cominciò ad armare la sua flotta. Per favorire la vittoria, imitando le navi corinzie, qualche maestro d’ascia ebbe l’idea di aumentare i caponi, strutture sporgenti da entrambe le parti della prua, antenate dei rostri romani, che potevano scalfire e perforare le navi avversarie, impedendone l’abbordaggio.

In Sicilia, circa a quella stessa epoca della primavera, anche Gilippo era rientrato a Siracusa alla testa delle colonne armate che dalle varie città aderenti al suo invito aveva raccolto il più numerose possibile. Riuniti i Siracusani, espresse la necessità di equipaggiare la flotta più potente che riuscivano e di provocare uno scontro sul mare: sperava di ricavare da questa prova un vantaggio proporzionato al rischio, per il futuro corso della guerra. Anche Ermocrate si associava, con fervore non più tiepido, a questo consiglio di gettare la sfida navale agli Ateniesi. La pratica marina, spiegava, non era neppure per gli Ateniesi una qualità ereditaria, né posseduta da sempre.

Anzi erano gente di terraferma più degli stessi Siracusani, e solo l’aggressione persiana li aveva costretti a improvvisarsi uomini di mare. E contro un popolo di ardimentosi, come appunto gli Ateniesi, solo chi li fronteggia con pari audacia può apparire l’antagonista più pericoloso. Quell’arma ateniese la prodezza indomita dell’assalto per sconvolgere le difese morali dell’avversario quando talvolta facesse difetto una concreta supremazia militare, poteva ben servire anche ai Siracusani per sorprendere il nemico. E si disse certo che per Siracusa, se aveva l’audacia di tener testa inaspettatamente alla marina ateniese era quello il mezzo di garantirsi per lo sgomento inflitto da quella temerità inaudita, una prevalenza sugli Ateniesi più netta delle perdite che la loro destrezza nautica avrebbe inferto all’imperizia siracusana. Per finire li spronava a cancellare i dubbi e a correre la rischiosa sfida con la flotta. Così i Siracusani indotti dall’ostinazione di Gilippo, di Ermocrate e di altri personaggi, non vedevano l’ora di battersi sul mare e intanto armavano le navi.

In realtà, come accennato, il piano di Gilippo prevedeva un’azione combinata dell’esercito e della flotta. Sui movimenti delle truppe di terra, Tucidice non fornisce indicazione, ma studiando la situazione sul campo, queste potevavano attaccare il Plemmìrio che scavalcando attraverso l’Epìpole il campo ateniese attestato ormai solo a sbarrare il fianco occidentale della città. Il che implica, per colpa di Nicia, e lo spartano, grazie alle ricognizioni della cavalleria siracusana, ne era ben consapevole, che la guarnigione sulla terrazza dell’Epipole fosse alquanto ridotta.

Percorso che era parecchio lungo, dall’Epìpole al ponte sull’Ànapo e di qui, scansando le paludi e la Milocca, al Plemmìrio, e che doveva avvenire di notte, per attaccare all’alba e massimizzare l’effetto sorpresa, con tutti i rischi dal caso: però la fortuna, come spesso capita aiutò gli audaci.

I Siracusani, in tempi assai ristretti, lavorando giorno e notte, erano riusciti ad armare 80 triremi: a questi gli ateniesi potevano contrapporre 60 triremi in grado di tenere il mare. Così, mentre le loro fanterie avanzavano nella notte, i navarchi siracusani diedero il segnale d’attacco: 35 triremi uscirono dal Porto Grande, accompagnate da altre 40 del porto piccolo, in direzione del Plemmirio.

Sottovalutando le dimensioni della flotta avversaria, gli ateniesi mandarono 25 triremi, mentre i rimanenti 35 rimasero a difesa della del Plemmirio. Ovviamente le navi ateniesi inferiori tre a uno nei confronti del nemico, passarono un brutto quarto d’ora. I 35 triremi rimaste a presidio, che se non si fossero mosse, avrebbero fatto saltare i piani di Gilippo, decisero di andare a dare loro manforte. A dare una mano allo spartano, anche l’imprevidenza ateniese. Gli opliti a difesa dei forti, convinti di non correre nessun rischio, invece di presidiarli, si erano spostati sulla spiaggia, per osservare l’andamento della battaglia navale.

Per cui fu semplice, per le truppe siracusane, prenderli di sorpresa: i forti furono catturati senza colpo ferire e gli opliti, bloccati sulla spiaggia avrebbero fatto la fine del topo: per loro fortuna, un paio di triarchi, ebbero la prontezza di utilizzare i mercantili di supporto alla flotta per organizzare l’evacuazione, in una sorta di Dunkerque.

Le cose cose si sarebbero messe molto male per gli ateniesi, se gli ammiragli siracusani avessero distaccato parte della flotta, per intercettare l’evacuazione, ma convinti di fare strage delle navi nemiche, diedero l’incarico a una sola trireme, che ovviamente, non riuscì a bloccare il trasferimento degli opliti ti es to stratopedon, cioè in quell’accampamento tra il Daskón e alla Milocca.

Nel frattempo, gli ammiragli siracusani combinarono un casino colossale: i loro triremi, presi dalla foga di combattere e con equipaggi poco addestrati persero la formazione e, ostacolandosi a vicenda, permisero a quelle ateniesi di ribaltare le sorti dello scontro; a fine della battaglia, gli ateniesi avevano affondato undici triremi avversari e catturati quattro.

Gilippo, quando la flotta fu in pieno assetto, fece uscire al cader della notte tutte le divisioni di fanteria, muovendo per conto proprio all’assalto via terra dei capisaldi attestati sul Plemmirio. Ad un segnale simultaneo, tutte le unità navali siracusane manovrarono di conserva trenta triremi per una sortita dal porto grande, le altre quarantacinque iniziando a doppiare dalla rada piccola, in cui giaceva anche il loro arsenale, con il proposito di unirsi alla squadra interna in un’offensiva generale contro le installazioni del Plemmirio, sconvolgendo gli Ateniesi con un attacco su un duplice fronte, terrestre e marino. A loro volta, gli Ateniesi allestirono rapidamente sessanta unità, fronteggiando con venticinque triremi la squadra di trentacinque siracusane dislocate nel porto grande, e decidendo di sbarrare con il resto la corsa al gruppo in arrivo dall’arsenale. Si intercettarono direttamente all’ingresso del porto grande e il combattimento divampò: nelle linee opposte si resistette a lungo, gli uni cercando di forzare l’imbocco, gli altri di ostruirlo.

Gilippo colse il momento in cui i presidi ateniesi del Plemmirio, calati verso la riva, erano tutti assorti alle vicende alterne dello scontro navale, e li anticipò all’aurora piombando di sorpresa sui forti. Anzitutto invade il principale, poi i due secondari: nulla la resistenza delle scolte vedendo incontrastata la presa del forte principale. Tra i componenti la guarnigione del forte conquistato per primo, quanti cercarono scampo sui mercantili e a bordo di un legno da carico non la passarono liscia nel tragitto verso il campo. Poiché i Siracusani, che stavano dominando lo scontro con le navi nel porto grande, distaccarono una trireme sola, di ottimo corso, per dar loro la caccia. Invece durante la successiva resa dei due fortini, i Siracusani della flotta stavano ormai cedendo, soverchiati, e le guardie di quelle due postazioni ebbero più comoda la fuga, costeggiando. La squadra navale siracusana impegnata alla bocca del porto, con lo sfondamento delle linee ateniesi, effettuavano l’ingresso, ma in generale disordine. Sicché ostacolandosi da se stesse le navi siracusane consegnarono la vittoria agli Ateniesi, lesti nel travolgere queste ultime e le prime, da cui subivano svantaggio durante la fase precedente disputata all’interno del porto.

Colarono a picco undici unità siracusane, sterminando buona parte degli equipaggi, salvo quelli di tre vascelli, catturati in vita. Delleproprie persero per affondamento tre triremi. Ricuperarono a riva i relitti dei legni siracusani ed eretto nell’isolotto contiguo al Plemmirio un trofeo, rientrarono nei propri alloggiamenti. Per i Siracusani fu questo il risultato del confronto sul mare: ma s’erano impadroniti dei tre forti sul Plemmirio, per i quali elevarono anch’essi tre trofei. Più tardi atterrarono uno dei due bastioni conquistati, mentre gli altri due, dopo i lavori di riparazione, servivano da presidio. Durante l’attacco ai forti numerose furono le vittime e molti i prigionieri: in complesso il bottino raggiunse una somma cospicua.

Lo smacco parziale, però, non aveva offuscato il grande successo strategico di Gilippo: il blocco navale ateniese era stato interrotto, era stata raccolta una quantità di bottino, soprattutto grano, rendendo difficile la situazione degli assedianti, data la scarsità di viveri. Per di più si complicò il problema logistico degli approvvigionamenti in gran parte previsti finora via mare e divenuti quasi impossibili, una volta bloccato dai Siracusani l’accesso al Porto Grande. Restava aperta la via di terra, con tutti i pericoli dovuti al predominio della cavalleria siracusana.

I forti servivano in pratica da depositi agli Ateniesi: sicché giacevano derrate di grano e forti quantitativi di merci, proprietà in parte dei trafficanti, non escluso qualche trierarca. Furono requisite inoltre le velature di quaranta triremi con i diversi attrezzi, e tre scafi tratti in secco. Ma il danno più grave, che colpiva in punti vitali il contingente di spedizione ateniese risultò la perdita del Plemmirio. Ora neppure i punti di sbarco per l’afflusso dei viveri erano più garantiti (i Siracusani, presidiando i dintorni con una squadra tagliavano le vettovaglie e ormai si poteva importare solo battendosi). In generale, per il proseguimento del conflitto, l’infortunio sorprese e fiaccò l’armata.

Il santuario delle Divinità Ctonie ad Agrigento

Adiacente al famoso tempio dei Dioscuri di Agrigento, vi è un importante complesso di edifici sacri dedicati al culto delle divinità ctonie, Demetra e Kore (forse un Thesmophorion), coppia tanto popolariea Gela, e poi nella sua colonia, da far affermare a Pindaro che Agrigento era un vero e proprio Persephònas hédos (“sede di Persefone”).

Il sito del santuario conosciuto fin dal 1833, grazie agli scavi del Serradifalc, fu oggetto per tutto il XIX secolo di vari studi ed esplorazioni. Di esso ebbero ad interessarsi, tra gli altri, il Cavallari, il Picone, lo Schubring, il Koldewey e il Puchstein. Negli anni 1927-1932, Marconi, cui si deve l’esplorazione di gran parte di Agrigento antica, condusse sul posto regolari campagne di scavo rimettendo in luce tutti i monumenti e dimostrando la pertinenza dell’intero complesso a Demeltra e Kore.

L’area messa in luce dagli scavi Marconi è costituita da una spianata vasta più di 8.000 mq, di forma pressoché rettangolare, estesa per un centinaio di metri in senso N-S e per circa 90 metri in senso E-0. I limiti sono costituiti: a Nord dal profondo burrone della kolymbethra, l’invaso artificiale celebrato dalle fonti come luogo di estrema bellezza, ora un lussureggiante aranceto; ad Ovest dall’antico muro di recinzione, di cui rimangono alcuni tratti, che isolava il santuario dallo spazio limitrofo con ogni verisimiglianza destinato a donari; a Sud dalla linea delle mura di fortificazione della città; ad Est, molto probabilmente, dalla strada, orientata in senso N-S, che ha origine dalla porta V, che era tra le principali della città e che era difesa da un torrione posto ad Ovest e da due torri minori poste ai lati dell’ingresso e di poco arretrate

Il santuario fu in vita dall’età arcaica a quella ellenistica. Alla metà del VI secolo a.C. si fanno risalire i due recinti a cielo aperto, con uno o più altari all’interno, destinati a manifestazioni rituali, segrete, legate alla particolare natura del culto, le cui peculiarità stanno facendo da decenni impazzire gli studiosi.

Il Recinto 1 è a pianta rettangolare, ed è articolato in più ambienti collegati da un angusto corridoio trasversale. Si tratta di un edificio, con altare circolare al suo interno che per il suo orientamento e per la disposizione degli spazi, è un unicum ben diverso dai tipi dell’architettura canonica greca; ricordiamo che questa prevede che un tempio, di qualsiasi grandezza, sia sempre suddiviso in tre ambienti disposti sullo stesso asse est-ovest, con l’ingresso aperto verso est.

Come accennato, non vale per questo edificio, che rispetta invece l’orientamento nord sud tipico dell’architettura italica e che sarà ad esempio ripreso dai templi romani: è come se, i coloni greci avessero voluto inglobare nel loro pantheon una divinità aborigena, identificandola con Demetra, ma rispettandone le peculiarità cultuali. Sull’ingresso al temenos, vi sono due ipotesi, entrambe molto interessante.

La prima ritiene che a Nord vi fosse stato un unico ingresso monumentale, in corrispondenza dell’ambiente centrale, data la disposizione delle porte interne, il cammino che un sacerdote o un fedele doveva compiere per giungere al grande altare semicircolare, posto nell’ambiente occidentale. seguiva un percorso specifico, in senso orario, che costrigeva a passare in tutte le stanze del Recinto 1. Prima si accedeva all’ambiente centrale, poi si passava in quello orientale e, infine, attraversando il corridoio meridionale, si giungevà al vano occidentale dove si celebravano i sacrifici.

Percorso che probabilmente aveva un valore espiatorio e che farebbe corrispondere i tre ambienti, nonostante la strana disposizione planimetrica, verrebbe a corrispondere, almeno per quanto riguarda la funzione, aí tre ambienti dell’architettura templare greca. L’ambiente centrale fungerebbe da pronao, quello orientale da cella, quello occidentale da adyton.

La seconda, che è vi fossero tre ingressi monumentali distinti per ognuno degli ambienti: in questo caso, il recinto riprenderebbe la struttura degli antichi santuari minoici e micenei, a testimonianza dell’arcaicità del culto e visti i rapporti dell’età del Bronzo tra Sicilia, ad esempio la cultura di Pantalica e Thapsos, ed Egeo, sarebbe l’ulteriore riprova della ripresa di un culto locale.

Il Recinto 2 è poco più a Sud ed ha forme più semplici, simili a quelle di un sacello arcaico; è bipartito nel senso della lunghezza e aperto sul lato orientale; è dotato di due altari interni, uno circolare e uno rettangolare: di fatto, per i coloni il ribadire l’assimilazione del culto, nonostante le peculiarità, alla religione ellenica.

Ora la definizione di Recinto, per questi due edifici, è dovuta al fatto che in tutti gli scavi che si sono succeduti negli anni, non si sono mai trovate tracce di una loro copertura. Alcuni archeologi, data la presenza di un isolato bizantino, hanno ipotizzato che le tegole fosse state riutilizzate dai loro costruttori come materiale edilizio… Però, manca un’evidenza concreta.

Se però partiamo dall’ipotesi che si tratti del recupero e dell’ellenizzazione di un culto locale, gli altari costituirebbero il nucleo più antico del santuario e che la loro costruzione, risalente forse ad epoca pregreca, fosse stata dettata da necessità culturali quali l’esistenza di una polla d’acqua o l’epifania di una divinità. Attorno ad essi si sarebbe praticato per un certo tempo un culto all’aperto fino a quando, con l’arrivo dei Greci, non si sentì l’esigenza, essendo i riti di natura misterica, altra riprova della loro arcaicità, di nasconderli agli occhi profani. Per cui la costruzione dei recinti, sarebbe stata condizionata da esigenze pregresse.

Nel santuario sono poi presenti numerosi altari circolari e quadrati disseminati nell’area circostante ai recinti, a riprova che coesistessero sia rituali misterici, sia rituali aperti al pubblico, oltre a due tempietti tripartiti con pronao, cella, e adyton. Un terzo edificio ha invece la cella più larga che lunga, successivamente ingrandita.

Alcuni tagli nella roccia, visibili a ridosso del lato orientale proprio di questo tempietto, sono ascrivibili ai tentativi operati nella seconda metà del VI secolo a.C. e successivamente, agli inizi del V secolo a.C., di costruire un grande tempio periptero, tuttavia non portato a compimento.