Atene contro Siracusa Parte XXVII

Nel frattempo, per sfortuna degli ateniesi, Gilippo non era rimasto con le mani in mano, ma oltre a raccogliere rinforzi in giro per la Sicilia, aveva cominciato a porsi il problema di come rompere il blocco navale di Siracusa. Lo spartano, abbastanza lucidamente, aveva identificato come sua chiave di volta i tre forti del Plemmirio. Per cui, cominciò a buttare un giù un piano, per cercare di conquistarli, il quale però, richiedeva che la flotta siracusana fungesse da esca.

Ora, il problema è come convincere i siracusani a scendere il mare, data la fama della flotta nemica. Gilippo aveva bisogno di un alleato: fortuna volle che Ermocrate, che era stato messo da parte dopo i disastri che aveva combinato, al cambiare del vento, stava tornando in auge. Il siracusano, i cui intenti a lungo termine erano di diventare tiranno della città, o fraintese il piano dello spartano oppure lo infiocchettò parecchio, facendo credere ai suoi concittadini, che il ruolo fondamentale nella vittoria sarebbe stato della flotta.

Dinanzi agli scettici, Ermocrate arrivò a dire che i siracusani non fossero marinai inferiori agli ateniesi e che i nemici, presi di sorpresa con un’azione audace, sarebbero facilmente messi rotta. Insomma, tanto fece, che la polis siciliana cominciò ad armare la sua flotta. Per favorire la vittoria, imitando le navi corinzie, qualche maestro d’ascia ebbe l’idea di aumentare i caponi, strutture sporgenti da entrambe le parti della prua, antenate dei rostri romani, che potevano scalfire e perforare le navi avversarie, impedendone l’abbordaggio.

In Sicilia, circa a quella stessa epoca della primavera, anche Gilippo era rientrato a Siracusa alla testa delle colonne armate che dalle varie città aderenti al suo invito aveva raccolto il più numerose possibile. Riuniti i Siracusani, espresse la necessità di equipaggiare la flotta più potente che riuscivano e di provocare uno scontro sul mare: sperava di ricavare da questa prova un vantaggio proporzionato al rischio, per il futuro corso della guerra. Anche Ermocrate si associava, con fervore non più tiepido, a questo consiglio di gettare la sfida navale agli Ateniesi. La pratica marina, spiegava, non era neppure per gli Ateniesi una qualità ereditaria, né posseduta da sempre.

Anzi erano gente di terraferma più degli stessi Siracusani, e solo l’aggressione persiana li aveva costretti a improvvisarsi uomini di mare. E contro un popolo di ardimentosi, come appunto gli Ateniesi, solo chi li fronteggia con pari audacia può apparire l’antagonista più pericoloso. Quell’arma ateniese la prodezza indomita dell’assalto per sconvolgere le difese morali dell’avversario quando talvolta facesse difetto una concreta supremazia militare, poteva ben servire anche ai Siracusani per sorprendere il nemico. E si disse certo che per Siracusa, se aveva l’audacia di tener testa inaspettatamente alla marina ateniese era quello il mezzo di garantirsi per lo sgomento inflitto da quella temerità inaudita, una prevalenza sugli Ateniesi più netta delle perdite che la loro destrezza nautica avrebbe inferto all’imperizia siracusana. Per finire li spronava a cancellare i dubbi e a correre la rischiosa sfida con la flotta. Così i Siracusani indotti dall’ostinazione di Gilippo, di Ermocrate e di altri personaggi, non vedevano l’ora di battersi sul mare e intanto armavano le navi.

In realtà, come accennato, il piano di Gilippo prevedeva un’azione combinata dell’esercito e della flotta. Sui movimenti delle truppe di terra, Tucidice non fornisce indicazione, ma studiando la situazione sul campo, queste potevavano attaccare il Plemmìrio che scavalcando attraverso l’Epìpole il campo ateniese attestato ormai solo a sbarrare il fianco occidentale della città. Il che implica, per colpa di Nicia, e lo spartano, grazie alle ricognizioni della cavalleria siracusana, ne era ben consapevole, che la guarnigione sulla terrazza dell’Epipole fosse alquanto ridotta.

Percorso che era parecchio lungo, dall’Epìpole al ponte sull’Ànapo e di qui, scansando le paludi e la Milocca, al Plemmìrio, e che doveva avvenire di notte, per attaccare all’alba e massimizzare l’effetto sorpresa, con tutti i rischi dal caso: però la fortuna, come spesso capita aiutò gli audaci.

I Siracusani, in tempi assai ristretti, lavorando giorno e notte, erano riusciti ad armare 80 triremi: a questi gli ateniesi potevano contrapporre 60 triremi in grado di tenere il mare. Così, mentre le loro fanterie avanzavano nella notte, i navarchi siracusani diedero il segnale d’attacco: 35 triremi uscirono dal Porto Grande, accompagnate da altre 40 del porto piccolo, in direzione del Plemmirio.

Sottovalutando le dimensioni della flotta avversaria, gli ateniesi mandarono 25 triremi, mentre i rimanenti 35 rimasero a difesa della del Plemmirio. Ovviamente le navi ateniesi inferiori tre a uno nei confronti del nemico, passarono un brutto quarto d’ora. I 35 triremi rimaste a presidio, che se non si fossero mosse, avrebbero fatto saltare i piani di Gilippo, decisero di andare a dare loro manforte. A dare una mano allo spartano, anche l’imprevidenza ateniese. Gli opliti a difesa dei forti, convinti di non correre nessun rischio, invece di presidiarli, si erano spostati sulla spiaggia, per osservare l’andamento della battaglia navale.

Per cui fu semplice, per le truppe siracusane, prenderli di sorpresa: i forti furono catturati senza colpo ferire e gli opliti, bloccati sulla spiaggia avrebbero fatto la fine del topo: per loro fortuna, un paio di triarchi, ebbero la prontezza di utilizzare i mercantili di supporto alla flotta per organizzare l’evacuazione, in una sorta di Dunkerque.

Le cose cose si sarebbero messe molto male per gli ateniesi, se gli ammiragli siracusani avessero distaccato parte della flotta, per intercettare l’evacuazione, ma convinti di fare strage delle navi nemiche, diedero l’incarico a una sola trireme, che ovviamente, non riuscì a bloccare il trasferimento degli opliti ti es to stratopedon, cioè in quell’accampamento tra il Daskón e alla Milocca.

Nel frattempo, gli ammiragli siracusani combinarono un casino colossale: i loro triremi, presi dalla foga di combattere e con equipaggi poco addestrati persero la formazione e, ostacolandosi a vicenda, permisero a quelle ateniesi di ribaltare le sorti dello scontro; a fine della battaglia, gli ateniesi avevano affondato undici triremi avversari e catturati quattro.

Gilippo, quando la flotta fu in pieno assetto, fece uscire al cader della notte tutte le divisioni di fanteria, muovendo per conto proprio all’assalto via terra dei capisaldi attestati sul Plemmirio. Ad un segnale simultaneo, tutte le unità navali siracusane manovrarono di conserva trenta triremi per una sortita dal porto grande, le altre quarantacinque iniziando a doppiare dalla rada piccola, in cui giaceva anche il loro arsenale, con il proposito di unirsi alla squadra interna in un’offensiva generale contro le installazioni del Plemmirio, sconvolgendo gli Ateniesi con un attacco su un duplice fronte, terrestre e marino. A loro volta, gli Ateniesi allestirono rapidamente sessanta unità, fronteggiando con venticinque triremi la squadra di trentacinque siracusane dislocate nel porto grande, e decidendo di sbarrare con il resto la corsa al gruppo in arrivo dall’arsenale. Si intercettarono direttamente all’ingresso del porto grande e il combattimento divampò: nelle linee opposte si resistette a lungo, gli uni cercando di forzare l’imbocco, gli altri di ostruirlo.

Gilippo colse il momento in cui i presidi ateniesi del Plemmirio, calati verso la riva, erano tutti assorti alle vicende alterne dello scontro navale, e li anticipò all’aurora piombando di sorpresa sui forti. Anzitutto invade il principale, poi i due secondari: nulla la resistenza delle scolte vedendo incontrastata la presa del forte principale. Tra i componenti la guarnigione del forte conquistato per primo, quanti cercarono scampo sui mercantili e a bordo di un legno da carico non la passarono liscia nel tragitto verso il campo. Poiché i Siracusani, che stavano dominando lo scontro con le navi nel porto grande, distaccarono una trireme sola, di ottimo corso, per dar loro la caccia. Invece durante la successiva resa dei due fortini, i Siracusani della flotta stavano ormai cedendo, soverchiati, e le guardie di quelle due postazioni ebbero più comoda la fuga, costeggiando. La squadra navale siracusana impegnata alla bocca del porto, con lo sfondamento delle linee ateniesi, effettuavano l’ingresso, ma in generale disordine. Sicché ostacolandosi da se stesse le navi siracusane consegnarono la vittoria agli Ateniesi, lesti nel travolgere queste ultime e le prime, da cui subivano svantaggio durante la fase precedente disputata all’interno del porto.

Colarono a picco undici unità siracusane, sterminando buona parte degli equipaggi, salvo quelli di tre vascelli, catturati in vita. Delleproprie persero per affondamento tre triremi. Ricuperarono a riva i relitti dei legni siracusani ed eretto nell’isolotto contiguo al Plemmirio un trofeo, rientrarono nei propri alloggiamenti. Per i Siracusani fu questo il risultato del confronto sul mare: ma s’erano impadroniti dei tre forti sul Plemmirio, per i quali elevarono anch’essi tre trofei. Più tardi atterrarono uno dei due bastioni conquistati, mentre gli altri due, dopo i lavori di riparazione, servivano da presidio. Durante l’attacco ai forti numerose furono le vittime e molti i prigionieri: in complesso il bottino raggiunse una somma cospicua.

Lo smacco parziale, però, non aveva offuscato il grande successo strategico di Gilippo: il blocco navale ateniese era stato interrotto, era stata raccolta una quantità di bottino, soprattutto grano, rendendo difficile la situazione degli assedianti, data la scarsità di viveri. Per di più si complicò il problema logistico degli approvvigionamenti in gran parte previsti finora via mare e divenuti quasi impossibili, una volta bloccato dai Siracusani l’accesso al Porto Grande. Restava aperta la via di terra, con tutti i pericoli dovuti al predominio della cavalleria siracusana.

I forti servivano in pratica da depositi agli Ateniesi: sicché giacevano derrate di grano e forti quantitativi di merci, proprietà in parte dei trafficanti, non escluso qualche trierarca. Furono requisite inoltre le velature di quaranta triremi con i diversi attrezzi, e tre scafi tratti in secco. Ma il danno più grave, che colpiva in punti vitali il contingente di spedizione ateniese risultò la perdita del Plemmirio. Ora neppure i punti di sbarco per l’afflusso dei viveri erano più garantiti (i Siracusani, presidiando i dintorni con una squadra tagliavano le vettovaglie e ormai si poteva importare solo battendosi). In generale, per il proseguimento del conflitto, l’infortunio sorprese e fiaccò l’armata.

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