Il Monte del grano

In una guida dagli Anni Quaranta del secolo scorso, il Mausoleo di Monte del Grano è così definito

Piccole case accatastate sulla sinistra della Tuscolana e tra di esse si apre, di colpo, quel tal Monte del Grano, antico monumento che il piano particolareggiato della zona vuole sia rimesso in degna luce”

Con il boom edilizio degli anni Sessanta e Settanta e i relativi palazzoni, la situazione è ancora peggiorata e quello che per dimensione, dopo quelli di Adriano e di Augusto, è il terzo mausoleo di Roma, non solo è ignoto al turista, ma di solito passa inosservato. Oggi il monumento appare infatti come oggi come una collina, ricoperta da vegetazione, alta 12 metri e con una circonferenza di ben 140. Tra l’altro, saltuari scavi archeologici hanno mostrato come un tempo facesse parte di una vasta necropoli in una zona suburbana, di cui è rimasto ben poco.

Il mausoleo, conosciuto sin dal medioevo con il nome di Monte del Grano per la sua forma di moggio di grano rovesciato in origine, invece, consisteva in un tamburo circolare a blocchi di travertino, in parte rinvenuti nell’aprile del 1969 durante i lavori di sistemazione del parco pubblico, realizzato attorno al mausoleo. In quell’occasione, sulla sua sommità, fu installato un radio faro dell’aeronautica. Il tamburo era la base di un probabile tumulo troncoconico, ricoperto forse da vegetazione, secondo una consuetudine di derivazione ellenistica il cui esempio più noto e monumentale è il sepolcro di Augusto.

La leggenda popolare vuole invece che fosse un monte di grano trasformato (per punizione divina) in terra, perché raccolto di domenica, giorno dedicato al riposo. Il mausoleo, nei documenti medievali è anche definito come Monte di Onorio, Monte di Nori o ancora lo Montone del Grano

L’accesso avviene attualmente attraverso un portale marmoreo non pertinente all’ingresso originario che immette in un corridoio rivestito di mattoni, lungo 21 metri e coperto da una volta a botte di cui rimane solo il primo tratto. Dal corridoio si accede alla camera sepolcrale a pianta circolare, di circa m. 10 di diametro, coperta a cupola e divisa in altezza da una volta a sesto ribassato, ora crollata, di cui si vede l’imposta a m. 3.40 di altezza.

Nel piano superiore, nel punto il cui corridoio sbocca nella cella sepolcrale è ricavato un piccolo vano coperto con volta a botte che sembra non essere mai stato accessibile e il cui uso, per questo, risulta incomprensibile. Al di sotto dei muri perimetrali della cella e del corridoio grandi blocchi di travertino indicano il livello del pavimento antico, leggermente più alto dell’attuale piano di calpestio. L’areazione e l’illuminazione del sepolcro erano assicurati da un lucernario obliquo che convogliava la luce al termine del corridoio, sostituito in seguito da un pozzo di luce verticale rivestito di mattoni e da un altro lucernario obliquo che illuminava direttamente la cella.

Dopo la caduta dell’Impero Romano, il mausoleo conobbe nel corso dei secoli diversi passaggi di proprietà che probabilmente ne alterarono l’aspetto originario. Sappiamo come nel 1200 fosse di proprietà dellla Chiesa dei Santi Bonifacio e Alessio sull’Aventino, ricevuto in dono, con altri beni terreni, da papa Onorio II quando, nel 1217, fece alcuni lavori edilizi in latifundium quod vocabatur Quadrarium seu de Quadraro, extra Porta s. Iohannis in monte Honorii, come riportato nel relativo Regesto, connessi probabilmente alla costruzione di una sovrastante torre medievale

All’epoca, il mausoleo faceva parte della tenuta chiamata “Casale delle Forme”, dove formae nel latino medioevale, sono gli archi degli acquedotti, molto comuni in zona, da cui deriva anche il nome di Porta Furba -Porta Forma- dato all’arco lungo la Via Tuscolana. A inizio Trecento, la tenuta fu acquistata dal monastero di Santa Maria Nova, che nel 1370, la rivendette Nicolò Valentini, uno dei tre nobili veneziani che, durante il giubileo del 1350, offrirono alla basilica di San Pietro una pulcherrimam et myrabilem tabulam de Chrystallo, pulchris laminis argenti deaurati (una tavola di cristallo) per custodire la reliquia del sudario del volto di Cristo, che aveva preso la residenza nel Rione Monti.

Il nome di Monte del grano era divenuto comune già nel 1386, così risultando da alcuni documenti conservati nell’Archivio Storico Capitolino. Nicolò Valentini nel 1387 stipulò un contratto con Giovanni Branca, calcarario del Rione Pigna, per fargli rompere e asportare i blocchi di travertino dei rivestimenti interni ed esterni del Mons Grani, che all’epoca doveva essere quindi ben conservato, per farne calce. Il 23 febbraio del 1420 gli eredi Valentini vendettero per 1500 fiorini a Bartolomeo, fratello di Paolo di Cola di Stefano di Capranica, il casale delle Forme, con la torre e cum toto Monte qui vocatur Lo Montone dello Grano.

Una iscrizione, ora perduta, ricordava il restauro nel 1505 della torre da parte di Antonio Alberti, il quale, a scanso di equivoci, vi aggiunse anche il suo stemma: una croce bizantina con ai lati una stella ad otto raggi ed una mosca. La torre subì ulteriori modifiche fra il 1600 ed il 1800 come testimoniano stampe dell’epoca. Nel 1870 vennero eseguiti interventi di consolidamento da Filippo Lovatti ma solo trent’anni dopo la torre crollò, durante un violento nubifragio ed oggi ne rimane solo parte della fondazione

Essendo un importante punto di riferimento per i viaggiatori provenienti dai Castelli, fu rappresentato da Eufrosino della Volpaia nella sua pianta di Roma e dintorni del 1547. nel maggio del 1582 un certo Fabrizio Lezaro estrasse il sarcofago che fu attribuito all’imperatore Alessandro Severo, basandosi su un brano dell’Historia Augusta, in conseguenza della identificazione delle due figure distese, presenti sul coperchio, come Alessandro Severo e sua madre Giulia Mamea. Venne poi, in modo inesatto, riconosciuto come il ratto delle sabine la scena rappresentata sui lati del sarcofago, quando invece si trattava delle vicende di Achille a Sciro, quando, l’eroe greco, per evitare di partecipare alla Guerra di Troia, si travestì da donna

Dopo il rinvenimento le trattative per l’acquisto da parte del Comune non furono brevi, sappiamo che il sarcofago venne collocato nel cortile del palazzo dei Conservatori nel 1590, venne poi trasferito nel cortile del Museo capitolino nel 1722 ed infine, nel 1817 venne posto nella III sala terrena a destra nello stesso Museo dove tutt’ora si trova.

Così descrive il ritrovamento del sarcofago Flaminio Vacca nelle sue Memorie di varie antichità trovate in diversi luoghi di Roma (1594):

Mi ricordo, fuori di Porta S. Gio[vanni] un miglio passati l’Acquedotti, dove si dice il Monte del Grano, vi era un gran massiccio antico fatto di scaglia; bastò l’animo ad un Cavatore di romperlo, ed entratovi dentro, calò giù tanto, che trovò un gran Pilo storiato con il Ratto delle Sabine, e sopra il coperchio vi erano due figure distinte con il Ritratto di Alessandro Severo, e Giulia Mammea sua madre, dentro del quale vi erano delle ceneri; ed ora si trova nel Campidoglio in mezzo al Cortile del Palazzo de’ Conservatori.

Nel 1750 Piranesi fu cosi affascinato dal monumento, tanto da rappresentarlo nelle sue incisioni, anche se diverse sue deduzioni e ricostruzioni non sono state confermate dall’archeologia, tanto da definirlo

uno dei più superbi sepolcri della Romana grandezza”

A chi apparteneva il Mausoleo ? Probabilmente, non ad Alessandro Severo: l’analisi dei bolli ne ha infatti anticipato la costruzione ai tempi di Adriano. In più, l’iconografia del sarcofago è senza dubbio relativa a quella di una coppia sposata. Recentemente, il nome del Mausoleo è stato invece associato alla ricchissima gens Grania, originaria di Pozzuoli, che in quella zona della Tuscolana era proprietaria di un’ estesa tenuta

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