Il Tempio di Ercole di Agrigento

La nostra passeggiata virtuale nella Valle dei Templi fa oggi tappa al cosiddetto Tempio di Ercole, in stile dorico arcaico, che sorge su uno sprone roccioso vicino alla Villa Aurea. La denominazione tempio di Ercole è un’attribuzione della cultura umanistica, basata su una testimonianza di Cicerone, di cui parlerò poi. In realtà l’agorà di Akragas sorgesse in questo posto non è però dimostrato, tanto che alcuni studiosi, specie anglosassoni, lo hanno identificato con il tempio di Atena, ricordato da Polieno nei suoi Stratagemmi, in relazione al colpo di stato di Terone.

Polieno, ricordiamolo, è stato un teorico militare e retore macedone antico, vissuto al tempo degli Antonini, dato che dedicò il suo trattato a Marco Aurelio e a Lucio Vero. Trattato, gli Stratagemmi, scritto in greco arcaicizzante e che è diviso in otto libri; il libro era in origine una raccolta di 900 fra aneddoti, esempi di coraggio o di virtù militari, detti memorabili e astuzie di guerra; degli originari otto libri, parti del sesto e settimo libro sono mutile, e dei 900 stratagemmi iniziali ne sono rimasti 833.

L’archeologia ci ha dato alcune informazioni sulla storia dell’edificio, che come succede nella Valle dei Templi, non è per nulla semplice. Nella prima fase, corrispondente ai primi fasi di vita della colonia greca, l’area fu occupata da un piccolo tempio arcaico, a cui si riferiscono alcune terrecotte architettoniche, ma su cui abbiamo parecchi dubbi sia sulla ricostruzione, sia sulla divinità a cui era dedicato.

Negli ultimi anni del VI secolo a.C. il tempietto arcaico fu demolito e una quarantina di metri ad ovest della sua posizione fu eretto questo tempio, che per le sue peculiarià stilistiche, dovrebbe essere il più arcaico tra quelli di Akragas. Poco prima della battaglia di Himera, il complesso fu modificato: da una parte, fu costruito l’altare monumentale, che si sovrapponeva in parte al precedente tempietto arcaico, dall’altra fu restaurata la trabeazione, poiché conosciamo due tipi di sime laterali con gronda a testa leonina, una prima – meno conservata dell’altra – databile al 470-60 a.C. e una seconda della metà circa del V secolo a.C. Per cui sia Terone, sia i suoi successori, in qualche modo misero mano alla decorazione del tempio.

Tempio che negli anni si arricchì di opere d’arte: Plinio il vecchio ci racconta ad esempio che vi fosse custodito un qaudro di Zeusi che rappresentava Ercole bambino in atto di strangolare due serpenti, mentre il possente Giove, attorniato da altre divinità, ammira la straordinaria impresa. Anche i genitori di Ercole, il padre Anfitrione e la madre Alcmena, lo ammirano sorpresi e trepidanti. Così lo descrive l’autore romano

Magnificus est Iuppiter eius in trono, astantibus diis, et Ercules infans dragones strangulans, Alcmena matre coram pavente et Amphitryone

ossia

Magnifico è il suo Giove in trono, attorniato dagli dei, ed il piccolo Ercole che strangola i serpenti dinanzi alla madre Alcmena impaurita ed Amfitrione

Opera che, sempre secondo Plinio, che fu un dono dell’artista

Donare opera sua instituit, quod erat nullo satis digno pretio permutari posse diceret

che in italiano si rende con

Decise di donare la sua opera perché diceva non poter essere permutato ciò che non era di nessun prezzo degno

Nel tempio, poi vi era una splendida statua bronzea di Ercole, che fu, ai tempi dei romani, al centro di una sorta di tangentopoli dell’epoca. Gaio Verre era propretore della provincia di Sicilia, che, durante la sua amministrazione compì uno sproposito di ruberie. I siciliani lo denunciarono, nominando come loro avvocato Cicerone, che chiese un risarcimento di 100 milioni di sesterzi, più o meno 100 milioni dei nostri euro.

Nelle arringhe di accusa, Cicerone racconta

Herculis templum est apud Agrigentinos non longe a foro; omnes sciunt illud sane sanctum esse. Ibi est, ex aere simulacrum ipsius Herculis, quo non facile quidquam dixerim me vidisse pulcrius usque eo, ut rictum eius ac mentum paullo sit attritius, quod in precibus et gratulationibus non solum id venerari, verum etiam osculari solent

ossia

Presso Agrigento, non lontano dal foro, c’è un tempio di Ercole, ragionevolmente santo e da loro venerato. Lì c’è la statua di Ercole, della quale non potrei dire facilmente di aver visto qualcosa di più bello, del resto di quelle cose non capisco tanto quanto necessiterebbero le molte cose che vidi. Bella a tal punto che, o giudici, l’apertura della bocca e il mento sono un po’ logorati, poiché gli Agrigentini non si limitano a venerare la statua, ma hanno l’abitudine di baciarla

Brano che come accennavo, ha permesso l’identificazione del tempio.Tante straordinarie ricchezze non potevano sfuggire all’ingorda rapacità del pretore romano Caio Verre, il quale voleva impadronirsi della statua di Ercole per mezzo dei suoi emissari, guidati da Timarchide. Il colpo venne tentato di notte, ma i ladri non riuscirono a rimuovere la statua e le guardie, che sorvegliavano il tempio, avvertendo rumori sospetti, scoprirono i malfattori e diedero l’allarme. Molti cittadini lasciarono le case ed accorsero, costringendo alla fuga i ladri, salvando la statua.

In età imperiale, il tempio fu modificato: il fondo della cella fu è suddiviso in tre ambienti per la costruzione di un piccolo edificio di culto. La trasformazione è forse legata al trasferimento del culto di Asclepio all’interno del tempio, dove fu rinvenuta una statua del dio di epoca romana durante gli scavi del 1835. Probabilmente il tempio fu distrutto dal terremoto del 853 d.C. negli anni della conquista araba.

Nel 1787 Goethe visitando le rovine del tempio lasciò questa descrizione ne Il viaggio in Italia:

«Il tempio di Ercole, invece, lascia ancora scorgere tracce dell’antica simmetria. Le due file di colonne che fiancheggiavano il tempio dai due lati giacciono a terra nella stessa direzione nord-sud, come se si fossero rovesciate tutte insieme, le une verso l’alto e le altre verso il basso d’una collina che si direbbe sia stata prodotta dal crollo della cella. Tenute insieme probabilmente solo dalla trabeazione, le colonne precipitarono di colpo, forse in conseguenza d’un violento uragano, e ora sono distese allineate, spartite nei blocchi che le componevano.»

Condizione confermata sia dai pittori come Houel, sia dalle descrizione degli studiosi dell’epoca, come il Politi. nel 1832 venne ordinato lo sgombero degli avanzi ed allora la pianta del tempio si presentò in tutta la sua grandezza e ci si rese conto di trovarsi dinanzi al secondo maggiore tempio, per dimensioni, dopo il tempio di Giove, innalzato dagli Agrigentini. Quasi cento anni dopo, nel 1922, il capitano sir Alessandro Hardcastle finanziò e seguì personalmente i lavori per rialzare otto colonne sul lato sud-ovest del tempio. Altri lavori e studi più avanzati vennero eseguiti pochi anni dopo sotto la direzione dell’archeologo Pirro Marconi.

Il tempio fu costruito con pietre estratte dalla Rupe Atenea e dalle rocce circostanti; uno stucco fine e liscio, sul quale sono state ritrovate tracce di colore giallo pallido, rosso vivo e blu splendente, ne faceva sparire l’eccessiva porosità. Ma le modanature superiori dei cornicioni erano realizzate in pietra dura di grana molto fine e decorate con fregi, alcuni dei quali scolpiti con modesto rilievo, altri soltanto lisci. I disegni erano resi evidenti come sui monumenti marmorei di Atene, per mezzo di colori applicati direttamente sulla pietra.

Come accennavo, tutte le sue caratteristiche formali ci danno un’indicazione sulla sua datazione arcaica: pianta allungata, rapporto tra il numero delle colonne dei lati lunghi e quelle dei lati brevi, accentuata rastemazione delle colonne e il carattere del capitello schiacciato sotto il perso della trabeazione. Il tempio, come dicevo, è di ordine dorico: sorge su possente basamento a vespaio, ha una peristasi di 6×15 colonne (m 67,04×25,28 stilobate) cui si accede per un crepidoma di tre gradini. All’interno, è la cella con pronao e opistodomo in antis (due colonne tra le ante). Nello spessore dei due piloni che separano la cella dal pronao è ricavata la scala di servizio al tetto.

Il museo Pitré

Uno dei musei più affascinanti di Palermo è il Pitré che prende nome da un siciliano straordinario, profondamente innamorato della sua terra. Giuseppe Pitrè nacque a Palermo in via Collegio di Maria al borgo (dove al numero civico 83 una lapide lo ricorda), rione Santa Lucia, il 22 dicembre 1841, da famiglia umile: il padre Salvatore, marinaio, era morto di febbre gialla a New Orleans nel 1847, mentre la madre, Maria Stabile, era anche lei figlia di marinai. Giovanissimo, prese parte nel 1860 all’impresa di Garibaldi in Sicilia nelle file della Marina garibaldina. Nonostante le ristrettezze economiche, anche con l’aiuto di un prete amico di famiglia, la madre riuscì dapprima a fargli conseguire il diploma liceale in studi classici presso un istituto dei gesuiti di Palermo, per poi prendere la laurea in medicina e chirurgia.

Dopo avere insegnato per qualche tempo nei licei palermitani, trovo lavoro come medico condotto nei paesini della provincia: il medico condotto, per chi non lo sapesse, era un medico, dipendente del comune, che prestava assistenza sanitaria gratuita ai poveri e, dietro pagamento dei compensi stabiliti secondo un tariffario, agli altri cittadini. La figura è stata sostituita, ai sensi della legge 23 dicembre 1978 n. 833, dal medico di famiglia.

Durante questo lavoro, Giuseppe, invece di integrare il suo onorario con polli, uova e prodotti delle terra, come facevano i suoi colleghi, decise di farsi pagare con oggetti della tradizione popolare e con racconti di fiabe e di leggende: così progressivamente crebbe la sua passione e la sua conoscenza del folklore locale, tanto da renderlo uno dei massimi esperti dell’argomento e autori di saggi meravigliosi, che ho avuto la fortuna di leggere: vi consiglio, se avete occasione Fiabe, novelle e racconti popolari siciliani, Usi natalizi, nuziali e funebri del popolo siciliano e soprattutto La vita in Palermo cento e più anni fa,.

L’importanza culturale di Giuseppe non è valutata quanto meriterebbe: basti pensare ispirò Luigi Capuana, che nel suo repertorio trovò materiale per le proprie fiabe, sia a Giovanni Verga, che di fatto, mise in forma narrativa, nelle sue novelle, come la Guerra dei Santi, alcuni suoi saggio. La grande cantante siciliana Rosa Balistreri inoltre musicò versi tradizionali presenti nei suoi studi per dar vita ad alcune canzoni popolari del suo repertorio.

Giuseppe fu tra i primi a porsi il problema di come organizzare un museo dedicato al folklore. Una prima occasione gli venne fornita dall’incarico, ricevuto dal Comune di Palermo, di allestire un padiglione sulla cultura popolare siciliana presso l’Esposizione industriale italiana che si tenne a Milano nel 1891. Dieci anni dopo, in occasione della Esposizione nazionale tenuta proprio a Palermo (1891-92), l’esperienza fu ripetuta in modo più ampio, con la realizzazione – in collaborazione con Salomone Marino – di una vera e propria Mostra etnografica siciliana. La mostra milanese fu allestita in modo affrettato, inviando per lo più oggetti di valore artistico. In quella di Palermo, invece, le esigenze di selezione e ordinamento su base etnografica e in relazione ai concreti contesti della vita popolare furono più strettamente seguite. In essa, come ha scritto Massimo Tozzi Fontana,

«per la prima volta materiali etnografici italiani venivano esposti con criteri sistematici, attraverso un’articolazione in sezioni dedicate ai molteplici aspetti della vita popolare: costumi, veicoli, illustrazioni di tecniche alimentari, pastorizia, agricoltura, caccia, spettacoli e feste, amuleti e ex-voto, giocattoli e balocchi fanciulleschi, libri e libretti letti dal “popolino”. Ogni oggetto esposto nella mostra era corredato dell’indicazione della relativa denominazione dialettale; il modello espositivo teneva conto della necessità di una comparazione tra i manufatti analoghi di diversa provenienza geografica»

Si tratta dunque di un serio modello di museografia scientifica, che resterà isolato almeno fino alla realizzazione da parte di Lamberto Loria, nel 1906, del Museo di etnografia italiana di Firenze. Alla fine dell’esposizione palermitana, Pitrè conservò gli oggetti proponendo al Comune l’istituzione di una raccolta permanente o museo: obiettivo raggiunto solo diciotto anni dopo, nel 1909, con l’apertura del Museo etnografico siciliano che proprio a Pitrè fu intestato.

La prima sede del museo, messa a disposizione dal Comune, grazie all’interessamento del giurista Empedocle Restivo, furono alcuni locali, quattro stanze e un corridoio, all’interno dell’edificio scolastico sito nel collegio dell’Assunta, in via Maqueda, dove, per l’angustia degli spazi, il percorso espositivo non poté essere organizzato secondo i più razionali principi della museografia come il Pitrè avrebbe voluto. Nel 1934 il professore di antropologia Giuseppe Cocchiara, illustre personalità, considerato il principale continuatore dell’opera del Pitrè, ricevette l’incarico di riordinare il Museo Etnografico. L’anno successivo, nel 1935, molti anni dopo la morte di Giuseppe Pitrè, avvenuta nel 1916, il museo fu trasferito nei corpi di fabbrica attigui alla Palazzina Cinese, che a suo tempo erano utilizzati come locali di servizio per la servitù dei reali Borboni e intitolato al suo fondatore.

Questa dèpandance, troviamo una costruzione dallo schema semplice ma mascherata da elementi decorativi, drappeggi, da farla apparire ricca e complessa, tutto ciò la fa assomigliare ad una tenda esotica di un accampamento militare, ai tempi dei Borboni comprendeva le cucine la scuderia, la stalla, i vari quartini per gli alloggiamenti della servitù, botteghe artigiane, il cortile detto della “strigliata” ed infine la Cappella.

Così Cocchiara commentò la decisione della scelta di tale sede museale

L’idea di sistemare il Museo Pitrè in queste dèpandance, sorse primo fra tutti il desiderio del mio maestro, poi la particolare ubicazione delle suddette in un parco immenso e suggestivo, qual ‘ è quello della Favorita. Un Museo Etnografico, che non è un Museo Archeologico o una Galleria d’Arte, deve vivere in ambienti speciali che sorgano, possibilmente, in aperta campagna, ove più splende la bellezza della natura, ove più immediato è il contatto con la vita delle piante. Un Museo Archeologico accoglie oggetti morti

Io ho avuto la fortuna di visitare il museo subito dopo la riapertura: ero il solo visitatore e mi ha fatto da guida il direttore del museo, che è stato capace di coniugare competenza, passione e una grande capacità di rendere semplici e comprensibili di argomenti di per sè complessi. Il museo si apre con la ricostruzione proprio delle studio di Pitrè. per poi passare a un’analisi a 360 gradi di tutta la vita della Sicilia che fu, dai mestieri, alla casa, dalle ceramiche agli abiti.

Spettacolari sono i vestiti tradizionali delle donne di Piana degli Albanesi. Si tratta di un costume che ha profonda origine nelle fogge bizantine, infatti questo costume ha una derivazione e una datazione precisa: appartiene al mondo albanese rifugiatosi in Italia in seguito alle oppressioni turche, alla fine del XV secolo, e conserva il suo carattere orientale nelle forme, nelle caratteristiche, nei significati e nei colori. Vi sono varie tipologie del costume di Piana degli Albanesi: l’abito nuziale è il più ricco, e rileva la ricchezza e lo sfarzo dei vari indumenti che lo compongono. Le ragazze e le donne di Piana degli Albanesi hanno conservato nei secoli l’arte del ricamo, e impiegano interi anni per ricamare la gonna o la camicia, quando esse non le ricevono in dote dalla madre che le ebbe dalla nonna. Il costume delle donne albanesi di Sicilia si compone, innanzitutto, dalla nzilona, una ricca veste rossa, verde o bianca, ricamata interamente in oro. Vien, poi, il Krashëtë, un bustino ricamato di seta quasi sempre scura, e le mëngëtë, cioè le maniche, anch’esse ricamate. Il brezi è una grande cintura d’argento che raffigura i santi patroni della chiesa bizantina di Piana degli Albanesi: SS. Odigitria, San Giorgio, San Demetrio Megalomartire, San Nicola o San Vito. Sono eloquenti esempi dell’inimitabile e fastosa arte tessile e orafa di Piana degli Albanesi, incentrata sulla tradizione del filo d’oro e dai gioielli del costume. Nel museo sono inoltre esposti esemplari di mandilina, che sono fra i copricapi specifici dell’abbigliamento.

Un cenno a parte meritano gli ex voto commissionati ai “pincisanti” (pittori di immagini sacre) per ringraziare la Madonna e i santi per la loro intercessione salvifica in caso di malattie o di altri mali di ogni genere. Particolare interesse offrono gli oggetti legati alla “stregoneria” che spesso generano sensazioni contrastanti per l’inquietudine che il soprannaturale sa creare: amuleti ed altri oggetti vari usati per fare sortilegi (fatture), testimonianze uniche di un passato che evoca mondi arcaici dove povertà e ignoranza favorivano le credenze superstiziose e scaramantiche che spesso sconfinavano nella “magaria”.

Di notevole interesse è la “sala delle carrozze” dove si possono ammirare due splendide carrozze appartenute al Senato palermitano, con la più grande riporta il blasone intagliato di casa Statella del Cassaro ed è riferibile al principe don Francesco, eletto Pretore di Palermo nel 1794 e l’altra che riporta lo stemma di casa Filangeri e venne utilizzata nel 1810 dal Pretore, principe di Cutò e la “sala Restivo” che ospita carretti siciliani.

Bellissima è la collezione di statuine di presepi, opera di uno straordinario scultore Giovanni Antonio Matera. Le scarse e confuse notizie biografiche narrano che, accusato di un delitto, trovò asilo nelle campagne di Monreale, nel feudo dei marchesi Di Gregorio, i quali per mille onze gli acquistarono sculture. Visse poi nel convento di Sant’Antonino, a Palermo e lì morì. I fratelli Diego, Rosario, e Giuseppe gli furono di aiuto, a bottega.

Realizzava statuine per il presepe, utilizzando legno, tela, cartapesta, gesso e colla, e per questo motivo era noto come “Mastru Giovanni Matera lu pasturaru”. Si formò a contatto con la tradizione barocca palermitana, ispirandosi in particolare ai modi di Giacomo Serpotta. In lui si nota un riferimento al caravaggismo, ma anche e all’arte pittorica barocca meridionale che tende a mescolare realtà e idealità.

In queste sculture di piccolo formato egli raggiunse alti livelli di plasticità e di vigore espressivo, accentuati da una coloritura a forti policromie e da contrasti chiaroscurali, mutuati dalla pittura barocca di ambito realistico. Egli eccelleva nella espressività, anche drammatica, dei volti. Giovanni Antonio Matera è stato il più dotato tra gli artigiani-scultori siciliani del suo tempo che modellavano statuine da presepe, su commissione dei nobili e degli Ordini religiosi.

I suoi pastori sono piccole sculture in tecnica mista. Sul corpo, appena sbozzato in legno di tiglio, egli incastrava la testa, gli arti e le calzature, scolpiti in legno separatamente. Vestiva poi i suoi pastori di tela e di lana, sovrapponendo e morbidamente drappeggiando le stoffe che poi impregnava con una mistura di gesso e di colla di coniglio, per renderle dure e consistenti. La tecnica di collanti a base animale, unita a nuove misture d’argilla, di stucco e di pastiglia, servì a realizzare la scenografia del presepe. Faceva largo uso anche di conchiglie e di corallo trapanese. Le composizioni di Matera si ispiravano, con larga libertà, ai testi sacri e risentivano della tradizione orale e della devozione popolare locale.

Il complesso museale dispone anche di un piccolo teatrino dei pupi di scuola palermitana, con personaggi legati al ciclo dell’epopea carolingia tuttora funzionante: “U pupu avi a caminari sulu” solevano ripetere i pupari, riferendosi al fatto che il pupo deve camminare da solo, deve essere cioè facile da manovrare, senza rischiare sbilanciamenti o pose poco naturali. Per questo motivo alla sua costruzione concorrono sette competenze: costruzione dell’ossatura, scultura e pittura della testa, pittura delle mani e delle gambe, costruzione delle armi, confezione dei vestiti e montaggio.

Giuseppe Pitrè ci dice che ancora a fine 800 queste competenze potevano essere riunite in un solo artigiano, che a volte era lo stesso puparo, proprietario, manovratore e voce del suo teatro. Anzi, il termine “puparo” comunemente usato oggi per indicare i marionettisti siciliani, in origine indicava proprio il costruttore di pupi. Più spesso, però, queste competenze erano divise fra diversi artigiani che ne possedevano più di una. Il puparo allora si avvaleva di questi specialisti, come Puddu Maglio, Emilio, Musmeci, Nino Insanguine, Pippo Napoli, Paolo Marino artigiani costruttori di pupi dell’area catanese che sopperivano ai bisogni degli “opranti” di tutta la Sicilia orientale.

Oltre alle spettacolari cucine, che colpirono, per la loro funzionalità e razionalità Leon Dufourny che nei suoi trattati la propose come modello per tutti i palazzi europei, merita una visita laa Cappella (situata a sinistra dell’ingresso principale delle dèpandance) palizzata intorno al 1803-1804, di perimetro quadrato all’esterno, mentre l’interno è a pianta circolare con fascia anulare, presenta otto colonne con nicchie e passetti. Tramite una galleria si entra al piano superiore dove la famiglia reale poteva assistere al rito religioso. Le otto colonne sostengono un architrave circolare che a sua volta sostiene la cupola a sesto depresso. Questa cappella è particolarmente indicativa perché innovativa nell’architettura siciliana poiché dimostra una sintesi dell’uso del linguaggio classico. L’esterno è molto semplice e bilanciato, rispecchia il perimetro quadrato formando così un cubo, forma geometrica pura, dove è evidenziato l’asse principale dato dalla porta e dalla finestra sovrastante. La cupola emerge sopra un anello gradonato, al centro s’innalza un pinnacolo formato da otto ombrellini in rame. Proprio l’acustica perfetta, ne sta permettendo l’uso come sala concerti.

La Pala di Castelfranco

Come accennato in un altro post, uno dei primi committenti di Giorgione fu un personaggio da romanzo, Tuzio Costanzo. Costui era figlio di Muzio (viceré di Cipro) ed era nato a Messina, insomma era era un buddaci. Si era poi trasferito a Cipro, al servizio della regina Caterina Cornaro (sposa del re cipriota Giacomo II di Lusignano, costretta nel 1489 al ‘dorato esilio’ di Asolo) e, successivamente, celeberrimo condottiero al servizio della Repubblica Veneta.

Tuzio si era trasferito a Castelfranco nel 1475, dove aveva acquistato l’omonima casa (ora Menegotto) in vicolo del Paradiso e intorno al 1495, commissionò a Giorgione la decorazione della facciata del suo palazzo ora perduta. A inizio Cinquecento, diede poi la grande occasione a Giorgione nella pittura religiosa: sino ad allora si dedicava o a piccoli quadri destinati ai seguaci della Devotio Moderna, oppure alla ritrattistica.

Nel 1499, però Tuzio è travolto da un dolore atroce: suo figlio Matteo muore a Ravenna per il contagio di un morbo (forse di peste) nella primavera di quell’anno durante l’impresa militare di Casentino svoltasi tra l’ottobre 1498 e l’aprile 1499. Per cui, il condottiero ottiene la concessione di una cappella, per renderlo un mausoleo della famiglia Costanzo. Cappella che non è quella si trovava infatti nella chiesa ‘vecchia’ (ristrutturata nel 1467), demolita per far posto al Duomo di F.M. Preti (iniziato nel 1724). Proprio le differenze tra quella originale e l’attuale, come vedremo poi, hanno provocato diversi equivoci nell’interpretazione dell’arte di Giorgione.

Ottenuta la Cappella, Tuzio incarica Giorgione di decorarla: dalle descrizioni dell’epoca, sappiamo che il pittore concepì una decorazione che prevedeva nella volta il Redentore in atto di benedire, quattro Evangelisti in altrettanti tondi ed arabeschi decorativi. Un impianto tutto sommato tradizionale, ispirato a Mantegna e a Foppa, che però purtroppo non abbiamo idea di come sia stato realizzato in concreto.

Poi commissione il sepolcro del figlio, a uno scultore straordinario, che purtroppo, non essendo stato citato da Vasari, non gode della fama che meriterebbe: si tratta di Giovanni Giorgio Lascaris, originario di Cipro, e migrato in Veneto al seguito della Cornaro, artista capace di coniugare un’eleganza classicheggiante con una incredibile capacità di rappresentare nel marmo i sentimenti e i moti dell’anima. Purtroppo, della sua vita, sappiamo ben poco: i contemporanei lo soprannominarono Pirgotele, come come il più bravo incisore di gemme del periodo ellenistico, ritrattista ufficiale di Alessandro Magno. Secondo diversi autori dell’antichità, il Pirgotele originale fu l’inventore del cammeo: il fatto che Lascaris avesse questo soprannome fa ipotizzare che si dedicasse anche alla glittica, anche se non riusciamo ad attribuirgli con certezza nessuna opera.

In ogni caso, nonostante il silenzio di Vasari, Lascaris era molto celebrato dai suoi contemporanei: è menzionato per la prima volta in un epigramma del 1496 dell’umanista Giovanni Battista Guarini, che loda la sua Venere flagillifera (opera ora andata persa); anche Pomponio Gaurico lodò la stessa opera nel suo De sculptura

Per concludere la decorazione della cappella, Tuzio incaricò infine Giorgione, a testimonianza della fiducia che aveva nei suoi confronti, di una cosa che non aveva mai affrontato prima: una pala d’altare. Per cui, tra il 1501 e il 1504 il pittore dipinse la nostra pala di Castelfranco. Il 1504 è considerato come termine cronologico massimo perché sappiamo che in quell’anno le spoglie di Matteo furono traslate nella cappella, per cui, i lavori dovevano essere terminati.

Così Giorgione concepì una pala d’altare con Maria,seduta in alto su un trono al centro del dipinto, vestita con i tre colori delle virtù teologali, : il verde la speranza, il bianco la fede e il rosso la carità, e sorregge con la mano destra Gesù Bambino addormentato.Due Santi poi sono in piedi ai lati di Maria. Uno è facilmente identificabile, come San Francesco. Sull’altro, per generazioni gli studiosi si sono scannati: solo da pochi anni si è arrivati a una conclusione condivisa, data la presenza del gonfalone dei Cavalieri Gerosolimitani, i nostri Cavalieri di Malta. Si tratta di San Nicasio Camuto de Burgio. Chi è costui ? Uno dei tanti santi palermitani, nato nella città siciliana da una nobile famiglia di origini arabe. Il padre di Nicasio, reggente del castello di Burgio, sposò una nobile normanna da cui ebbe 4 figli. Il primogenito Ruggero ereditò il castello di Burgio. Il secondogenito, Guglielmo, entrò a far parte della cerchia dei fedelissimi del re Guglielmo II, incoronato nel 1166. Il terzogenito Ferrandino e l’ultimogenito Nicasio si dedicarono invece alla vita religiosa, prendendo i voti e divenendo membri proprio dei cavalieri Gerosolimitani.

Nel 1185, i due fratelli decisero di partire per la Terrasanta, che stava per essere sconvolta dalla violenta guerra tra i crociati e i saraceni di Saladino. I fratelli si dedicarono al servizio di assistenza e protezione degli ammalati e dei pellegrini nell’Ospedale di San Giovanni di Gerusalemme e parteciparono alle operazioni militari del loro Ordine. Fatto prigioniero, durante la cruenta battaglia di Hattin, dove tutti i cavalieri ospedalieri vennero trucidati, venne decapitato alla presenza del sultano Saladino poiché si rifiutò di rinnegare la fede in Cristo.

Ora, se adesso sa Nicasio è quasi sconosciuto, all’epoca il suo culto era molto diffuso sia a Palermo, sia a Messina, patria di origine della famiglia Costanzo. Inoltre, All’ordine gerosolimitano apparteneva il fratello di Tuzio, Matteo, priore di Messina e commendatore di Palermo, Modica e Caltagirone, tanto che alcuni studiosi hanno ipotizzato che San Nicasio fosse un suo ritratto e anche l’altro figlio di Tuzio, Bruto Muzio che nell’ordine ricoprirà importanti cariche. Attraverso San Nicasio Giorgione allude dunque oltre che alla dignità dell’ordine di cui facevano parte importanti membri della famiglia, alla nobiltà dei Costanzo e alle loro glorie militari. San Francesco e San Nicasio i due santi raffigurano simbolicamente, come avviene spesso in Giorgione, anche le. due parti del motto dell’Ordine gerosolimitano: “Tuitio Fidei (difesa della fede) et Obsequium Pauperum (ossequio dei poveri)

I personaggi sacri poggiano su un pavimento decorato con piastrelle che formano un motivo a scacchiera. Dietro di loro poi è presente un parapetto che pare un telo srotolato e teso. Sullo sfondo infine è visibile un ampio paesaggio collinare. Si riconoscono campagne, due piccole figure di soldati a destra e alcune rovine di un villaggio con fortezza a sinistra.

Ora Giorgione, nel dipingere la pala, studiò a fondo la cappella originale, in modo che il dipinto dialogasse con l’ambiente: da una parte, lo abbiamo scoperto di recente, da una pianta della vecchia chiesa, l’opera era illuminata da una luce che entrava da una finestra posta lateralmente a meridione, in modo che le ombre dipinte dei santi coincidessero con quelle naturali. Le due figure fungono da “indicatore – gnomone”, determinandone un’ora solare precisa che fa supporre un’idea ben precisa del pittore.

Tra l’altro, tramite una serie di simulazioni al computer, si è visto come quest’ombra coincidesse con quella che nella cappella si avrebbe avuto in estate, periodo in cui dovrebbe essere morto Matteo, intorno alle 15.00, che potrebbe essere sia l’ora della sua dipartita, sia una citazione momento sacro, venerato dai cristiani, della morte di Gesù in croce nel Venerdì Santo, rendendo così il figlio di Tuzio un Alter Christus. Inoltre, nella cappella originale, la tomba di Matteo era scavata in un muro laterale e chiusa dalla lastra del Lascaris, ora deposta ai piedi dell’altare.

Lastra che è decorata con un bassorilievo che è decorata l’immagine di un giovane guerriero, in armatura completa, con la spada al fianco e un copricapo sui capelli fluenti, il ritratto di Matteo. Ai lati della sua testa vi sono lo stemma dei Costanzo ‘parlante’ (costa/Costanzo) nelle sei costole umane, sovrastate da un leone rampante, e lo stemma dei Verni, la famiglia nobile originaria di Maiorca cui apparteneva Isabella, sposa di Tuzio. L’iscrizione posta alla base della lapide celebra la bellezza e il valore di Matteo Costanzo e sigla una data, agosto 1504, che ci ha permesso di datare l’allestimento della cappella. Sul muro opposto, si trovava il sepolcro di Tuzio, che aveva cosi disposto nel suo testamento del 1510.

Ora le radiografie della pala d’altare hanno mostrato come l’opera era una sorta di seconda versione: nella prima, come i Santi ai suoi piedi, lo sguardo di Maria era diretta allo spettatore, mentre la base del trono era differente. Il quadro non piacque a Tuzio, per cui Giorgione provvide a dei cambiamenti. Modificò i volti della Vergine e del Bambino, in modo che i loro sguardi tristi ed accorati fossero rivolti in direzione della seconda modifica, ‘sarcofago’ di porfido, sepolcro simbolico dei Costanzo, legato visivamente e idealmente, mediante lo stemma dipinto in prospetto, ai sepolcri, che, come detto, erano in origine sui muri laterali. In tal modo gli sguardi della Madonna e del Bambino raccordano i due ‘registri’ della Pala, altrimenti assoggettati ad un ‘irrimediabile’ cesura. Proprio dalla necessità di inserire il ‘sarcofago’ (oggetto di un intenso lavorio e di ‘pentimenti’ del pittore) deriva la verticalità ‘piramidale’ della Pala. Tra l’altro, il sarcofago era sia per la forma, sia per il materiale, il porfido, un richiamo alla nobiltà e alle origini siciliane dei Costanzo, essendo un richiamo ai sepolcri degli Altavilla e di Federico II nella Cattedrale di Palermo.

Le radiografie hanno poi permesso di chiarire meglio la tecnica di Giorgione, che ha innanzitutto inciso nel gesso i contorni delle principali forme, mentre i particolari come il fondo del paesaggio sono stati eseguiti direttamente con il pennello. Il tutto sembra lo abbia eseguito senza un disegno preliminare, rendendo l’artista l’antesignano della pittura tonale veneziana, che affida la costruzione dell’immagine ad una tecnica sapiente fatta di velature sovrapposte di strati colorati, cioè quella “pittura sanza disegno” di cui parlava Giorgio Vasari nelle sue Vite, edite nel 1550, ove il chiaroscuro morbido ed avvolgente annulla i passaggi bruschi tra luce ed ombra.

Tuzio si era ritirato a Castelfranco, sperando in una vita più tranquilla, ma non riuscì mai a sottrarsi alle incombenze militari, che forse gli mancavano e di cui non poteva fare a meno, dando senso alla sua vita. Nel dar forma a questa contraddizione del committente, Giorgione introdusse la seconda novità formale della pala, oltre all’accentuata composizione triangolare. Questa deriva da opere di poco precedenti, come la Pala di San Cassiano di Antonello da Messina, oggi a Vienna, o la Pala dei Santi Giovanni e Paolo di Giovanni Bellini, perduta in un incendio, già nella Basilica di San Zanipolo: ma queste erano ambientate un interno aulico o ecclesiastico. Giorgione invece pone tutto in un paesaggio, amplissimo e profondo, di campagne e colline, che ricordano l’aspirazione alla tranquillità di Tuzio, sempre frustrata. Le due minuscole figure di armati e il villaggio turrito in rovina ‘parlano’ di guerra, generatrice di dolore e di morte, ricordando invece la sua realtà concreta.

Per dare solennità alla composizione, non potendosi basare sull’architettura classica, Giorgione dovette permeare il quadro di un respiro atmosferico, pervaso da un assoluto silenzio. Così, una cortina di rosso velluto identifica i due ‘registri’ della composizione: il mondo delle azioni umane, nel quale ‘vivono’ la Madonna e il Bambino, e lo spazio sacro ai piedi del trono, ove, in una dimensione intima e meditativa, i due santi, evocativi dell’ardimento (Nicasio) e della pietà (Francesco), rivolgono il loro sguardo assorto allo spettatore e al devoto.

Giorgione, ovviamente, nel dipingere la pala dialogò con l’arte contemporanea: se San Francesco è ripreso pari pari dalla Pala di San Giobbe del suo maestro Bellini, la Vergine con il Bambino, ricorda un paio di opere proprio di Lascaris, come la Vergine raffigurata nella lunetta del portale della chiesa di Santa Maria dei Miracoli a Venezia o quella del bassorilievo conservato al Liechtenstein Museum di Vienna. Infine, stoffe preziosamente ricamate si rifà a modelli della pittura del nord Europa, particolarmente all’arte di Hans Memling, che potevano essere conosciuti tramite il solito Bosch, mentre nell’armatura di san Nicasio riprende gli studi già eseguiti nel ritratto dell’Arciere.

La pala, tra l’altro, ha avuto una vita alquanto tormentata, avendo subito almeno otto restauri. Solamente un secolo dopo che l’opera fu dipinta, un vescovo chiese che fosse sostituita a causa del suo stato pietoso di conservazione. Ad esempio, il pittore seicentesco Pietro Muttoni detto della Vecchia proprio per la sua capacità di imitare lo stile degli antichi maestri, e in particolare quello di Giorgione di cui aveva anche realizzato dei falsi, ridipinse il volto di San Nicasio. Oppure il pittore napoletano Aniano Balzafiori che si sbizzarrì a iscrivere una frase sul retro della tavola:

Cara Cecilia/vieni t’affretta/il tuo t’aspetta”

per fornire un fondamento truffaldino alla sua ipotesi che la Madonna ritraesse un’amante o una sorella del Giorgione. O infine Il pittore Paolo Fabbris d’Alpago nel 1851, membro dell’Accademia Veneta di Belle Arti, per coprire le parti del dipinto andate in rovina ridipinse di testa sua il paesaggio, modifcandol con elementi di gusto neo-classico e riaggiustò le torri cadenti e i casolari e vi dipinse un tempietto in alto a destra. Ciliegina sulla torta, il 10 dicembre 1972 la pala fu trafugata dal duomo di Castelfranco Veneto e ritrovata dopo circa tre settimane in un casolare abbandonato, sembra dopo il pagamento di un riscatto.

La Guerra Vandalica Parte II

Per calmare i malumori della corte e ridurre i rischi di fallimento della spedizione di Belisario, sempre presenti, visti i precedenti, Giustiniano si dedico a un’intensa attività diplomatica, fomentando rivolte contro Gelimero, che come suo solito, ci mise del suo. Invece di trovare un modo di rafforzare la sua legittimità, da una parte, tornò a perseguitare la popolazione romana, dall’altra, cominciò a litigare con i suoi sostenitori all’interno dell’aristocrazia vandala, confiscandone le proprietà e giustiziando molti di essi. Questo accentuò le tendenze centrifughe del regno, che, come accennato nello scorso, per la concentrazione della popolazione germanica a Cartagine, erano intrinsechi nella sua struttura e organizzazione.

Così, con il supporto di Costantinopoli, in Tripolitania i romani si ribellarono in massa, sotto la guida di un certo Pudenzio. In Sardegna, poi emerse un moto secessionista, nella primavera del 533, guidato proprio da Goda, il governatore dell’Isola recentemente designato da Gelimero, che si autoproclamò “Rex” e cominciò a coniare monete proprie in bronzo, tra cui una raffigurante sul dritto il suo busto, con la legenda “Cuda” e nel rovescio l’effigie del Sardus Pater, il dio eponimo dei Sardi nuragici venerato presso il tempio di Antas, il Sardopatòros ieròn ricordato dal geografo Tolomeo e situato nella Sardegna meridionale (Sulcis-Iglesiente) a circa 10 chilometri a sud del paese di Fluminimaggiore.

Ora, a Gilimero, essendo la provincia prostrata dalla crisi economica, dovuta al cambiamento climatico che aveva ridotto drasticamente la produttività agricola e al crollo delle esportazioni verso Roma e Costantinopoli, e dalle continue incursione maure, della Tripolitania importava ben poco: se volevano starsene per conto loro, tanto meglio, meno problemi per Cartagine. Ben diversa la questione Sardegna.

Ai tempi dei Vandali, l’amministrazione non era molto differente da quella tardo imperiale. La Sardegna era retta da un governatore detto praeses, scelto fra gli uomini di fiducia della famiglia reale vandala e residente a Caralis, la nostra Cagliari, che aveva sia funzioni civili che militari; egli era assistito da una moltitudine di funzionari ausiliari fra cui i procuratores (procuratori), addetti alla riscossione dei tributi, e i conductores (conduttori), economi dei possedimenti reali.

Il territorio isolano fu suddiviso in vari cleroi (lotti) che furono assegnati in parte alla corona e in parte ai guerrieri. I proprietari terrieri sardo-romani riuscirono in alcuni casi a conservare i propri latifondi in cambio del pagamento di tasse molto salate. La Barbagia, il territorio montano centro-orientale dell’Isola, rimase invece un ducato semi-indipendente così come era avvenuto nel precedente periodo romano e poi anche nella prima parte di quello successivo bizantino.

Dal punto di vista ecclesiastico, le diocesi sarde del periodo romano di Caralis (Cagliari), Forum Traiani (Fordongianus), Sulci (Sulci), Turris (Porto Torres) e Sanafer (forse Cornus, nei pressi della nostra Cuglieri) rimasero operative anche sotto i vandali. La chiesa sarda non fu perseguitata e non venne costretta all’Arianesimo,mentre furono puniti con il confino nell’isola i vescovi cattolici africani nei momenti di più dura contrapposizione tra gli stessi cattolici e i Vandali, di religione ariana. Questo fatto ebbe per la Sardegna conseguenze perfino positive, perché gli esuli ne arricchirono, durante la loro presenza, la vita culturale e religiosa, provocando ad esempio la diffusione del monachesimo.

Nell’isola arrivarono insigni rappresentanti del clero cattolico africano, in cui eccelleva il vescovo di Ruspe Fulgenzio; alla sua opera si deve un’intensa attività edilizia e una grande vitalità culturale e religiosa; a Cara/es, dove giunse, fondò presso uno dei più importanti santuari sardi, quello di San Saturno, un monastero che diventò presto un importante centro di cultura, sede di uno scriptorium. Altro esiliato famoso fu e Feliciano, vescovo di Ippona, che portò con sé le reliquie di Sant’Agostino.

Non tutto il territorio isolano era dunque controllato dalla Chiesa, ma solamente le regioni costiere e una piccola porzione di territori interni presso Forum Traiani. Sebbene l’opera di cristianizzazione fosse ormai avviata, evidentemente non tutti gli strati della popolazione, e soprattutto non tutte le aree dell’isola, avevano conosciuto la nuova religione. Ad ogni modo, la Chiesa sarda rimase sempre fedele alla sede romana.

Dal punto di vista economico, I paesaggi sardi continuavano ad essere caratterizzati dall’intensa produzione cerealicola e dalle strutture ad essa legate, le grandi villa e rustiche dove presumibilmente abitavano ancora ricchi proprietari terrieri appartenenti alle aristocrazie urbane. Non dovevano mancare colture alternative, mentre nelle regioni interne, aspre e montuose, si perpetuava un’economia prevalentemente pastorale.
I commerci erano vivaci. Il flusso maggiore riguardava le merci che provenivano dal Nord Africa , come testimoniano le anfore olearie e le ceramiche fini da mensa. Dalla Spagna giungevano conserve di pesce e nelle mense si consumava vino orientale, prodotto prevalentemente nelle isole delI”Egeo e lungo le coste della Turchia. Questo rendeva la Sardegna tra le principali fonti di entrate fiscali dello stato vandalo; inoltre, Il possesso della Sardegna garantiva ai Vandali la sicurezza sulle rotte commerciali marittime tra Africa settentrionale e il resto del Mediterraneo e l’isola stessa, limes marittimo del regno vandalo, assumeva un importante ruolo strategico. Per cui, per Gelimero, era di fondamentale importanza recuperare il controllo dell’isola.

Goda, per non fare una brutta fine, batté cosi cassa a Costantinopoli, che inviò Cirillo, uno dei comandanti dei foederati, con 400 uomini. Al contempo, Gelimero reagì alla rivolta di Goda inviando la maggior parte della sua flotta, 120 dei suoi migliori vascelli, e 5.000 uomini sotto il comando di suo fratello Tzazon per reprimerla. La decisione del re vandalo giocò un ruolo cruciale nell’esito finale della guerra, facendo il gioco di Giustiniano, in quanto, con la potente flotta vandalica (insieme a parte dell’esercito) impegnata altrove a reprimere la rivolta in Sardegna, lo sbarco dei Romani in Africa poté procedere senza ostacoli.

Al contempo, entrambi i re cercarono di procurarsi degli alleati: Gelimero contattò il re dei Visigoti Theudis, lo zio di Totila (r. 531–548) proponendogli un’alleanza, che però poco poté fare, data la marea di problemi che aveva con i Franchi, che avevano cominciato a fare uno sproposito di scorrerie nel nord della Spagna.

Giustiniano, invece, si assicurò la benevolente neutralità e sostegno del Regno ostrogoto d’Italia, il quale aveva relazioni di inimicizia con i Vandali a causa del maltrattamento ad opera dei Vandali della principessa ostrogota Amalafrida, moglie di Trasamundo. La corte ostrogota accettò prontamente di consentire alla flotta di invasione romana di adoperare il porto di Siracusa in Sicilia e stabilire un mercato per l’approvvigionamento delle truppe romane in quel luogo. Di fatto, a Ravenna applicarono il principio del nutrire un coccodrillo nella speranza di essere divorata per ultima, ignorando il fatto che eliminati i Vandali, gli ostrogoti sarebbero stati l’obiettivo successivo di Costantinopoli

Secondo Procopio, l’esercito consisteva in 10.000 fanti, in parte presi dall’esercito di campo (comitatenses) e in parte tra i foederati, e da 5.000 cavalieri. Vi erano inoltre circa 1.500–2.000 dei soldati privati di Belisario (bucellarii), un reggimento d’élite (che potrebbe essere stato incluso nel totale di Procopio per la cavalleria). In aggiunta, presero parte alla spedizione anche due corpi di truppe alleate, con arcieri a cavallo, 600 Unni e 400 Eruli.

Comandante in capo, era Belisario, come sempre accompagnato dalla moglie Antonina; suoi diretti collaboratori Doroteo, l’eunuco Salomone. e l’ex prefetto del pretorio Archelao, al quale fu affidato il compito di provvedere all’approvvigionamento dell’esercito. Gli altri ufficiali superiori, debitamente elencati da Procopio, erano tutti Traci con l’unica eccezione di Aigano, il comandante della cavalleria, che era Unno. Si trattava, dunque, per la maggior parte di « compaesani » di Giustiniano, uomini che egli conosceva, capiva e di cui poteva fidarsi

L’intera armata fu trasportata su 500 vascelli contenenti 30.000 marinai sotto la guida dell’ammiraglio Calonimo di Alessandria, sorvegliata da 92 dromoni. Secondo la storiografia tradizionale, la forza della spedizione era piccola in numeri, specialmente considerata la reputazione militare dei Vandali, e che forse riflette i limiti della capienza di trasporto della flotta, oppure potrebbe essere stata una mossa intenzionale per limitare l’impatto di una eventuale sconfitta. Ian Hughes, tuttavia, commenta che, persino in confronto con gli eserciti dell’Alto Impero romano, l’esercito di Belisario era “una forza grande e ben equilibrata in grado di sconfiggere i Vandali e che potrebbe aver contenuto una proporzione maggiore di alta qualità, truppe affidabili provenienti dagli eserciti stazionati in oriente”.

Per quanto riguarda i Vandali, la situazione del loro esercito non è altrettanto chiara. L’esercito vandalico, a differenza di quello dell’Impero d’Oriente, non era né professionale né per lo più composto da volontari, ma comprendeva al contrario ogni maschio idoneo al combattimento del popolo vandalico. Per cui le stime moderne delle forze a disposizione dei Vandali variano in funzione delle stime sulla popolazione totale vandalica, da un picco di 30.000–40.000 uomini su un totale di popolazione vandalica stimato sulle 200.000 persone (Diehl e Bury), a un minimo di 25.000 uomini—o persino 20.000, se vengono tenute in considerazione le loro sconfitte contro i Mauri—per una stima della popolazione di 100.000 abitanti (Hughes). Malgrado la loro reputazione, i Vandali erano diventati man mano meno bellicosi, giungendo a condurre una vita lussuosa tra le ricchezze dell’Africa. Inoltre, il loro stile di combattimento era poco adatto per confrontarsi con i veterani di Belisario: l’esercito vandalico era composto esclusivamente di cavalieri, con armatura alla leggera e armati esclusivamente per il combattimento corpo a corpo al punto da trascurare interamente l’uso di archi o giavellotti, in netto contrasto ai catafratti con armature pesanti e agli arcieri a cavallo di Belisario. I Vandali furono inoltre indeboliti dall’ostilità dei suoi sudditi romani, dall’esistenza presso i Vandali di una fazione fedele a Ilderico, e dalla posizione ambivalente delle tribù dei Mauri.

Il tempio della Fortuna Muliebre

Il sei luglio, il giorno che precedeva le None del mese di Quintilis, le matrone romane celebravano l’anniversario della ricostruzione del tempio di Fortuna Muliebris al IV miglio della Via Latina. Dico ricostruzione perché è probabile che epoca arcaica, precedente al sinecismo che porta alla nascita di Roma, fosse un fanum, un’area sacra recintata e in cui era forse presente un altare, di una lega di villaggi dei prischi latini: essendo un culto femminile, celebrato esclusivamente dalle mulier, le donne sposate, guidate da una sacerdotessa. era in qualche modo legato alla Dea Madre.

A riprova di questo, sono presenti gli stessi tabù legati al culto della Mater Matuta, la dea latina delle origini, che proteggeva l’Aurora e la nascita del bambini: gli atti di devozione erano affidati alle neo-spose e comprendevano l’incoronazione rituale della statua della Dea con ghirlande o corone e solo le donne che si erano sposate una volta sola (univirae) potevano compierli o, in generale, toccare la statua della Dea (cosa che era esplicitamente vietato a tutti gli altri, comprese le matrone che si erano sposate più di una volta, bis nuptae).

Come tutti i riti arcaici, i romani, nell’età repubblicana e arcaica continuavano, per paura di violare la pax deorum e di fare irritare qualche misteriosa divinità, a celebrarli, senza però capirne motivo e origini: per cui, per spiegare le sue stranezze, gli eruditi e gli storici classici si inventarono la storiella di Coriolano.

Ricordiamo come la crisi della dinastia dei Tarquini provocò un vuoto di potere nel Latium, di cui ne approfittarono le popolazioni dell’interno, per migrare sulla costa: essendo essenzialmente pastori, con i loro greggi cominciarono a danneggiare i campi dei latini, provocando uno sproposito di guerre. Coriolano, dato che era onorato con un heroon presso i Volsci e celebrato nei loro miti, era probabilmente la trasfigurazione di un loro capo tribale, che sconfisse più volte i gruppi gentilizi romani e impose loro una sorta di tributo. I Romani, per giustificare le loro ripetute sconfitte, nella credenza che solo un condottiero romano avrebbe potuto sconfiggere un esercito romano. La circostanza che Coriolano non appaia tra i Fasti consulares aumenta il dubbio che si sia trattato di un personaggio storico.

Per chi si ricordasse questa storiella, di solito si racconta alle elementari, ne faccio un breve sunto: il comando della guerra contro i Volsci fu dato dai romani, al patrizio Gneo Marcio, che collezionò una marea di successi, tanto da conquistare nel nel 493 a.C., della città di Corioli. Per celebrare questo suo successo ricevette il soprannome di Coriolano. Nello stesso periodo, nel 494 a.C. I plebei di Roma avevano effettuato una secessione, cioè avevano abbandonato in massa la città, ritirandosi sul Monte Sacro, accettando di rientrare, sempre secondo la tradizione con la mediazione di Menenio Agrippa, quello dell’apologo sul corpo umano

Una volta, le membra dell’uomo ritenendo lo stomaco ozioso discostarono da lui e disposero che le mani non portassero cibo alla bocca né che la bocca dovesse accettarlo né che i denti dovessero masticare. Ma, nel momento in cui intesero di dominare lo stomaco, pure esse stessie soffrirono e l’intero corpo giunse a un deperimento estremo, di qui, si palesò che il compito dello stomanco non è affatto essere sfaccendato, ma, dopo avere accolto i cibi, di redistribuirli in virtù di tutte le membra. E esse ritornarono in amicizia con lui. Così, il senato e il popolo romano in quanto sono un unico corpo, con la discordia periscono con la concordia gioiscono.

In cambio del ritorno a Roma, i patrizi creazione di una carica pubblica che avesse il carattere di assoluta inviolabilità e sacralità, caratteristiche sintetizzate dal termine latino sacrosanctitas. Questo significava che lo Stato si assumeva il dovere di difendere i tribuni da qualsiasi tipo di minaccia fisica, e inoltre garantiva ai tribuni stessi il diritto di difendere un cittadino plebeo messo sotto accusa da un magistrato patrizio (ius auxiliandi).

Proprio la dimensione sacra della sua figura, fa pensare invece come la sua origine fosse pù arcaica e fosse una sorta di duplicazione della figura regia, che gestiva villaggi dei prisci latini che si erano aggiunti a Romain tempi successivi al primo sinecismo, i cui abitanti, per entrare nella vita sociale e politica cittadina, si erano fatti “adottare”, in posizione subordinata nei clan gentilizi originari, i patrizi. Tornando alla nostra leggenda, ci fu a Roma una carestia, grave al punto che si dovette importare il grano dall’estero (dalla Sicilia), Coriolano propose che la distribuzione del grano alla plebe fosse concessa solo dopo l’abolizione del tribunato

Secondo quanto racconta Plutarco

…A questo punto Sicinnio, il più impudente dei tribuni, dopo una breve consultazione con i colleghi, proclamò davanti a tutti che Marcio era stato condannato a morte dai tribuni della plebe, e ordinò agli edili di portarlo immediatamente sulla rocca Tarpea e di gettarlo giù nella voragine.

Coriolano, per non fare una brutta fine, se ne andò in esilio, nella città di Anzio, ospite di Attio Tullio, eminente personalità tra i Volsci. Nel frattempo i Romani, a sentire sempre Plutarco, ne combinarono una delle loro.

Marcio e Tullo discutevano di nascosto in Anzio con i più potenti e li spingevano a scatenare la guerra mentre i Romani si combattevano tra loro. Ma mentre i Volsci erano trattenuti dal pudore perché le due parti avevano concordato una tregua e un armistizio di due anni, e furono i Romani a fornire loro stessi il pretesto, annunziando durante certi spettacoli e giochi, sulla base di qualche sospetto o falsa accusa, che i Volsci dovevano lasciare la città prima del tramonto

Così i Volsci affidarono il comando del loro esercito a Coriolano, che dopo averlo riorganizzato, cominciò a prendere a randellate in capo Latini e Romani, sino giungere al IV miglio via Latina, luogo in cui correvano le Fossae Cluiliae, per chi non se lo ricordasse un fossato costruito dell’ultimo Re di Albalonga C. Cluilius (prima del combattimento tra gli Orazi e i Curiazi) per delimitare il confine sacro del suburbio di Roma.

I Romani, vista la malaparata, per patteggiare la pace, inviarono allora consoli, generali, tutte le più alte cariche dello Stato, che furono tutti accolti a pernacchuoni. Alla fine giunsero da Roma, accompagnate dalle matrone romane, la madre Veturia e la moglie Volumnia; ma quando Coriolano corse da loro per abbracciarle, Veturia lo fermò dicendo:

“Prima che tu mi abbracci, vorrei sapere se sono venuta a far visita a mio figlio o ad un nemico della patria”.

E questo rispose Coriolano alla madre disperata che lo implorava di non muovere guerra:

Madre mia, hai ottenuto una vittoria che non porterà felicità nè a te né a me, hai salvato la patria, ma hai perso il tuo Pio e caro figlio”

Così rinunciando ad attaccare. riportò i Volsci ad Anzio. Nel frattempo, il Senato, felice per lo scampato pericolo, chiese alle donne cosa volessero come ricompensa: loro risposero l’edificazione di un tempio alla Fortuna Muliebre, che ricordasse il loro intervento e dove poter pregare per la fine della guerra e di ogni guerra mossa contro Roma. Il Senato accolse la richiesta, ma alla condizione di porre il tempio sotto il proprio controllo, costruendolo cioè con denaro pubblico e sottomettendo i riti al controllo dei pontefici. Le donne chiesero almeno di poter donare una statua della Dea; vistosi rifiutare anche questo, ne fecero scolpire ugualmente una e nottetempo la portarono nel tempio. Così il giorno della dedicazione c’erano due statue: ma quella portata dalle matrone miracolosamente parlò, dicendo

Voi mi avete dato, o matrone, ai riti santi di Roma”.

Così il Senato romano accettò “ab torto collo” per non inimicarsi tutte le donne di Roma. Prima sacerdotessa fu nominata Valeria, la sorella di Valerio Publicola. Una versione alterniva dell’origine del tempio, più sintetica, afferma come fosse termani nel 496 a.c., e fu consacrato dal console Proculo Verginio Tricosto Rutilo, uno dei più forti oppositori alla Lex Cassia agraria, per la quale le terre del demanio pubblico di Roma, andassero divise tra i cittadini di Roma, e quelli degli alleati Latini ed Ernici, purtuttavia di fronte ai pericoli preferì augurarsi la pace colla riedificazione del tempio della Dea Fortuna Muliebre.

Insomma, qualcuno dei leader romani, nel complicato periodo e lungo periodo di trapasso tra Monarchia e Repubblica, dinanzi al rischio di guerra civile, causato dalla crisi economica e dal pericolo esterno, decise di garantirsi la protezione della divinità femminile arcaica, rilanciandone il culto. Collocato su di una collinetta posta a sud -est dell’acquedotto Claudio, subito dopo via del Quadraro, la struttura del tempio era a pianta rettangolare, con quattro colonne frontali. Nel suo interno si trovava un’ara, un altare ossia un’altra dentro il temenos, ossia un recinto sacro, dove vennero collocate le due statue.

Sembra che il tempio si sia protratto, tra restauri e rifacimenti, fino al tardo impero, come da un’iscrizione rinvenuta nel 1831 rivenuta nei pressi stimati dell’edificio, dove si menziona un restauro voluto da Livia, la moglie di Augusto, e poi da Settimio Severo, Caracalla e Giulia Domna.

Risulta che quando nel 1585-87 fu realizzato l’acquedotto Felice utilizzando i resti i resti degli acquedotti Marcio e Claudio, che oramai inutilizzati furono smontati, i resti del tempio fossero ancora visibili. Il dato topografico ci è anche garantito da Valerio Massimo:

Fortunae Etiam Muliebris Simulacrum, Quode Est Latina Via Ad Quartum Miliarum”

e da Festo:

Item Via Latina Ad Miliarum IV Fortunae Muliebris”

Dai tempi di Sisto V in poi, se ne perdono le tracce, tanto che nel 1882, in occasione durante degli scavi per la ferrovia Roma Napoli vennero ritrovate le fondamenta del tempio. Negli anni 90 durante gli scavi in cui venne alla luce la villa romana a sud del Cavalcavia del Quadraro, vennero trovati lungo il basolato dei rocchi delle colonne in peperino, usati per formare il basolato della strada adiacente alla villa che sovrapposti potevano comporre delle colonne che potrebbero provenire dalle colonne del Tempio della Fortuna Muliebre. Del tempio oggi rimangono poche tracce, conservate la maggior parte nell’Antiquarium del Celio, dove troviamo parte delle cornici frontonali che corrisponde alla cornice laterale, con serie di incassi dove dovevano essere collocati originariamente delle decorazioni in bronzo, e alcuni pezzi che facevano parte delle decorazioni Timpano rappresentanti la Dea della Fortuna Muliebre. Dato che questo benedetto Antiquarium è chiuso dal 1939 e il Casino Salvi, che doveva sostituirlo, è abbandonato a se stesso, ennesimo scandalo romano, ho anche il sospetto che questi resti abbiano fatto una pessima fine.

Tra l’altro a riprova di come la memoria di questo tempio fosse perduta, per lungo tempo gli eruditi lo hanno identificato con il sepolcro di via Bisignano, nel luogo dove in origine era il tracciato della strada per Castrimoenium, la quale si staccava dall’Appia antica all’altezza del Casale di S. Maria Nova, presso il V miglio.

La tomba, a pianta quadrata, è costituita da due camere sovrapposte: quella inferiore, la cella funeraria, era illuminata da strette finestrelle ed era coperta da una volta a crociera, di cui rimangono solo i pennacchi agli angoli delle pareti. Lungo le pareti vi sono gli arcosoli dove venivano deposti i sarcofagi. La camera superiore, destinata ai riti funerari, era decorata da una nicchia per ogni lato, probabilmente contenente il ritratto di un defunto. Anche questo ambiente era coperto da una volta a crociera, di cui sono visibili i pennacchi. L’esterno del sepolcro è in laterizio: mattoni gialli per la cortina e rossi per le decorazioni architettoniche. Il sepolcro, del tipo “a tempietto”, simile al quello denominato “Sedia del Diavolo” e al cosiddetto “Tempio del Dio Redicolo”, si data alla seconda metà del II sec. d.C. Nel Medioevo, probabilmente venne riutilizzato come torre di guardia.

Hieronimus Bosch a Venezia (Parte II)

Può sembrare strano, ma le opere di Bosch presenti a Venezia, poco hanno a che vedere con il suo viaggio nella Serenissima, ma alla passione di uno straordinario collezionista, il cardinal Domenico Grimani, primogenito del futuro doge Antonio e di Caterina Loredan, quindi membro di una delle più ricche e potenti famiglie del patriziato locale. Uomo coltissimo e famoso teologo, fu anche un bibliofilo straordinario: la sua biblioteca comprendeva codici in latino, in greco e in ebraico, che dopo la sua morte furono lasciati in eredità alla Marciana e alla Biblioteca Arcivescovile di Udine.

Come accennavo, il cardinal Grimani possedeva una raccolta di sceltissime sculture classiche, di cui buona parte furono donate alla Repubblica, divenendo il nucleo primigenio del futuro Museo archeologico. Nella sua collezione comparivano inoltre opere di Giorgione, di Tiziano, quattro tavole di Hans Memling, tre di Patinier, tre di Bosch, il cartone di Raffaello della Conversione di Saulo, stampe di Dürer, disegni di Leonardo, Michelangelo e Raffaello.

Uno dei pezzi più preziosi era il Breviario Grimani, codice miniato straordinario, nella storia della miniatura, per numero e qualità delle immagini, dipinto da tre artisti straordinari: Alexander e Simon Bening e il Maestro di Giacomo IV di Scozia. Alexander era il più vecchio del gruppo e recentemente, dall’equivalente delle nostre fatture, abbiamo scoperto come avesse collaborato, in un paio di occasioni, con il padre di Bosch.

Simon, figlio di Alexander, era specializzato in libri delle ore, che al suo tempo erano prodotti solo per membri delle famiglie reali o per clienti comunque molto ricchi. Realizzò anche tavole genealogiche e pale d’altare portatili in pergamena. Molti dei suoi lavori migliori sono lavori dei mesi per libri delle ore costituiti soprattutto da piccoli paesaggi, costituendo una sorta di ponte tra la generazione di Bosch e quella di Brueghel il vecchio.

Secondo Thomas Kren, le sue opere erano caratterizzate da

donne soavi con facce rotonde e bocche di rosa; un’umana e teneramente simpatetica concezione del Cristo adulto, figure solide e colori saturati dominati da forti rossi e blu che vengono usati in maniera espressiva. Altre qualità includono la modellazione delle forme in toni chiari e scuri dello stesso colore, la predilezione per i soggetti notturni, le pennellate a macchie, evidenti soprattutto nelle ambientazioni all’aperto nei lavori dopo il 1530, e un talento nel rappresentare la profondità atmosferica dei paesaggi

In ambito pettegolezzi, Simon Si sposò due volte ed ebbe sei figlie. Due di loro continuarono la tradizione artistica familiare: Levina Teerlinc, che divenne un’importante miniatrice, producendo soprattutto ritratti miniati alla corte di Enrico VIII d’Inghilterra, e Alexandrine Claeiszuene, che divenne una mercante d’arte di successo

Il Maestro di Giacomo IV di Scozia è una sorta di mistero: sappiamo che ha avuto per l’epoca un successo commerciale straordinario, che era a capo di una fiorente bottega, ma non riusciamo ad associargli un’identità. Stilisticamente le miniature del Maestro si distinguono per le loro figure robuste e non idealizzate, dipinte in paesaggi molto colorati, con blu e rossi molto saturi, oppure in interni dettagliati, e un uso della luce come mezzo per definire la profondità degli spazi e come elemento compositivo.La sua innovazione più importante, particolarmente esplicita nel Libro delle ore Spinola,fu probabilmente nel miniare due pagine aperte, riducendo al minimo lo spazio per il testo (a volte del tutto assente) e facendo in modo che le due miniature si guardassero.

Aveva un modo personale di sviluppare la narrazione, e usava frequentemente oscure immagini bibliche nella costruzione dei suoi dipinti; le sue scene di vita quotidiana, disegnate per i calendari miniati, sono considerate particolarmente vivide. Molto importante è il modo in cui il Maestro sperimentava con il formato dei suoi dipinti sulla pagina. Usando vari elementi illusionistici, spesso sfocava la linea tra le miniature e il bordo, anche con funzione narrativa.

Molti studiosi lo identificano con Gerard Horenbout, che un pittore e miniatore di corte che tra il 1515 e il 1522 lavorò per Margherita d’Asburgo, reggente dei Paesi Bassi. Successivamente, come i figli Lucas e Susanna, si trasferì in Inghilterra (forse per ridare vita alla tradizione dei manoscritti miniati in per conto di Enrico VIII), per ritornare poi nel continente, probabilmente dopo il 1531; morì molto probabilmente a Gand nel 1540. Tuttavia, se vediamo le miniature dell’unico manoscritto certamente attribuibile a Gerard, il Libro delle Ore degli Sforza, poco somigliano ai lavori del Maestro di Giacomo IV.

Tornando al nostro cardinal Grimani, aveva senza dubbio un’apertura mentale ben superiore a tanti collezionisti della sua epoca, non guardando dall’alto in basso la pittura fiamminga e considerando l’Arte come un bene pubblico, tanto che alla sua morte, lasciò la sua collezione al governo della Serenissima.

Il più antico dei quadri, anche se la definizione è un poco forzata, di Bosch comprato dal cardinale è costituito dal ciclo delle Quattro visioni dell’Aldilà: siamo ragionevolemente certi che la configurazione iniziale di questo ciclo era assai diversa da come appare oggi. Non è chiaro se Non è chiaro se le quattro tavole fossero le ante laterali di due trittici, o le ante di un unico trittico con pannelli laterali sovrapposti, tipologia più raro in ambito, ma che nelle Fiandre era abbastanza diffusa, specie tra i seguaci della Devotio Moderna

Per cui, possiamo ipotizzare, basandoci anche su un dipinto di un altro artista fiammingo, Dieric Bouts il vecchio, che era il pittore di Lovanio e pur non possedendo la fantasia sfrenata di Bosch, ebbe all’epoca un grande successo, sia per il recupero delle tradizione decorativa gotica, sia per la plasticità delle sue figure, una composizione originale di questo tipo: a sinistra, in basso, ci sarebbe stata il pannello rappresentante l’Inferno, sovrastato da quello rappresentante la Caduta dei Dannati. Al centro, ci sarebbe dovuta essere una pala rappresentante il Giudizio Universale. A destra, in basso ci sarebbe stato il pannello rappresentante l’Ascesa all’Empireo e in alto quello del Paradiso.

Ora questo trittico, per ragioni stilistiche, deve essere stato dipinto prima del suo viaggio veneziano, che a occhio e croce può essere avvenuto tra il 1500 e il 1504. Ora, l’analisi di supporti , basata sulla dendrocronologia determina un terminus post quem al 1482, però questa è poco indicativa, dato che i fiamminghi avevano l’abitudine, per puri motivi di risparmio, di comprare all’ingrosso stock di tavole che venivano utilizzate per anni a secondo delle necessità. Per cui, è probabile che il trittico originale sia stato eseguito tra il 1495 e il 1500.

Alla morte di Bosch, che sappiamo essere avvenuta il 7 o 8 agosto 1516, dato che il 9 si celebrano in forma solenne i suoi nella Cappella di Nostra Signora, appartenente alla Confraternita Nostra Diletta Signora di cui era membro eminente e nei cui registri è ricordato come:

Hieronymus Aquen, alias Bosh, insignis pictor

dato che questa tipologia di trittico è passata di moda, il proprietario decide di suddividerlo in due: da una parte la pala centrale, che non riusciamo a identificare, divenne un dipinto autonomo, dall’altra i quattro pannelli laterali, sfruttando il fatto che il pittore aveva conferito uno spazio proprio a ciascuna scena, sono aggregati, in modo da costituire una rappresentazione dell’Ars Moriendi.

Questa era ispirata a bestseller dell’epoca, che spiegava ai fedeli dell’epoca come morire in grazia di Dio, e tra l’altro fu letto e apprezzato da Bosch, che ricordiamolo, nonostante le teorie che ogni tanto saltano fuori, era tutt’altro che eretico, che lo utilizzò come fonte per molte opere, che ha avuto anche lui una storia interessante: nasce tutto da un saggio, il Tractatus (o Speculum) artis bene moriendi, fu scritta nel 1415 da un frate domenicano anonimo, probabilmente sotto ordine del Concilio di Costanza. Intorno al 1450, fu scritta una sua sintesi nelle Fiandre: qualche anno dopo, sempre nell’ambito dei seguaci della Devotio Moderna, fu tradotta in fiammingo, diventando l’ Het sterfboek (il libro della morte) e i capitoli, per rendere più comprensibili i concetti, furono accompagnati da xilografie.

La trasformazione del trittico originale comportò un’altra modifica dei pannelli: il retro fu dipinto con una decorazione in finto marmo, alquanto sommaria, probabilmente per adattarla all’ambiente in cui dovevano essere esposte. Tra il 1517 e il 1523, data della morte del cardinal Grimani e del lascito al governo veneziano, il proprietario originale le cedette probabilmente a Daniel Bomberg. Questo era un mercante d’arte e tipografo, che ebbe un’idea geniale per l’epoca: dato che il numero di ebrei italiani era aumentato esponenzialmente, a causa della loro espulsione da Spagna e Portogallo, decise di specializzarsi, pur essendo cristiano, in libri in lingua ebraica.

Le presse di Bomberg eventualmente produssero circa 230 libri in ebraico e le sue innovazioni tipografiche in quella lingua fissarono lo standard per i tipografi successivi: tra le principali opere stampate, vi sono l’ editio princeps del Mikraot Gedolot, la Bibbia rabbinica, che comprende il testo ebraico insieme ai commentari rabbinici e prima e più antica serie completa di volumi del Talmud, incensurata, ossia non tagliata e modificata dai censori cristiani.

Dato che Daniel commerciava opere d’arte tra Anversa, dove aveva parenti e Venezia, è probabile che lo smembramento del trittico di Bosch sia avvenuto nella città belga: il quadro fu proposto al cardinal Grimani tramite il suo medico personale, Abraham ben Meir de Balmes, ebreo di Lecce, che era anche studioso di grammatica, poeta e traduttore dall’arabo e che collaborava con la tipografia del fiammingo, cosa che testimonia l’apertura mentale dell’ecclesiastico.

Ora Bosch, nel realizzare questi pannelli si ispirò testi ampiamente diffusi nelle Fiandre Visioni di Tundalo del XII secolo che raccontano le peripezie affrontate dall’anima di un cavaliere mandata in viaggio da Dio tra Inferno, Purgatorio e Paradiso o la stessa Commedia di Dante, tradotta in lingua olandese nel 1484 proprio a ‘s-Hertogenbosch, città del pittore.

L’Inferno, come iconografia è abbastanza tipico di Bosch: è concepito infatti come un acquitrino sulfureo popolato da mostri che torturano i peccatori che disperatamente provano a restare a galla o che si rifiutano di osservare lo spaventoso scenario che li circonda. La riva sinistra è dominata da un promontorio da cui si erge un’alta rupe, sormontata da un cratere in fiamme e che essendo posta in controluce maschera una fonte sfavillante di luce giallo-verde che irradia tutta la parte mediana del paesaggio. Sul promontorio sosta un altro uccello, mentre un diavolo, visto da tergo, sale a riva precedendone un altro che pare urlare nella corrente che intanto trascina con sé un dannato, mani e testa a fior d’acqua, forse inseguito dal diavolo. Tra le due rive, a metà dello stretto, affiora il braccio destro di un dannato che affonda. In primo piano sulla riva destra si nota una figura maschile, ignuda, che si tiene il capo in atto di totale scoramento mentre un mostro diabolico di color verde la tiene per il braccio avvinghiandosi nel contempo con la coda alla gamba sinistra del dannato. Più in là, un altro diavolo colpisce con un lungo pugnale un dannato. In secondo piano due dannati piangenti, rimangono rannicchiati in acqua al riparo della corrente.

A testimoniare la datazione antecedente al viaggio in Italia, vi è la composizione basata sul piani distinti e contrapposti: in compenso, a differenza di altre composizioni, che Bosch, lasciandosi trascinare dalla fantasia, riempie di dettagli, in una sorta di horror vacui, qui per aumentare la drammaticità, con poche figure di dannati e demoni che spiccano tra le tenebre, illuminate dalle fiamme.

Altrettanto legato alla precedente tradizione fiamminga è la rappresentazione del Paradiso, immaginato come un giardino lussureggiante popolato da un’umanità eletta e senza peccato (raffigurata quindi nuda) in cui uomini e donne sono accompagnati da angeli verso una foresta, oltre la quale è visibile una collina dove si trova la fontana della giovinezza, che si staglia in alto, secondo una prospettiva da sogno, sullo sfondo di un lontanissimo paesaggio che sfuma in profondità. A destra, nella boscaglia, si vede un leone che sta divorandone un altro, a simboleggiare le debolezze e le passioni umane, trascese nella nuova condizione di beatitudine.

Totalmente di rottura, invece sono gli altri due pannelli: la Caduta dei dannati è costruita su un movimento discendente. Tre figure di anime malvagie che scaraventate da altrettanti diavoli sprofondano attraverso l’abisso infernale verso una palude di cenere incandescente e di lava rosso fuoco”. Al centro in basso, una quarta figura umana si trova già avvolta dai fumi, mentre in alto a sinistra (a destra per lo spettatore) un quarto diavolo sembra esultare in volo. Il paesaggio vulcanico è appena rischiarato di bagliori delle eruzioni. Nella parte alta, le sagome diaboliche, caratterizzate da un corpo scimmiesco con testa da pesce abissale e tipici barbigli, sono rese con poche sintetiche pennellate luminose di grande modernità che le ritagliano sul fondo nero, con tratti bianchi. Le figure umane sono invece definite da tratti ocra con lumeggiature gialle. I toni cupi e angoscianti che dominano la raffigurazione riescono a dare alla scena un’impressione sinistra di assoluta drammaticità.

Ancora più visionaria, è l’Ascesa: una serie di anime nude, trasportate da coppie di angeli, vengono condotte verso un tunnel con in fondo una grande luce, quella del Paradiso. Si tratta di un’invenzione di grande efficacia, resa con la semplice giustapposizione di cerchi non concentrici scalati nella tonalità dal blu più scuro all’azzurro chiaro, forse ispirata a miniature tardo-medievali. Le anime appaiono come attratte e risucchiate dalla luce e dal colore, presentandosi in ginocchio e senza peso verso il varco, con un andamento ascendente a zig-zag di notevole efficacia. In fondo al tunnel le aspetta un personaggio, forse un angelo o san Pietro, immerso nella luce assoluta.

E’ interessante notare il quadro sembra rispecchiare molto dei racconti delle persone che hanno vissuto un’esperienza di pre-morte o NDE, fenomeni descritti in genere sia da soggetti che hanno ripreso le funzioni vitali dopo aver sperimentato, a causa di gravi patologie o eventi traumatici, la condizione di arresto cardiocircolatorio, sia da soggetti che hanno vissuto l’esperienza del coma. I racconti di chi ha vissuto l’esperienza sono caratterizzati da tre elementi comuni: attraversamento di un “tunnel” buio, visione di una grande ed intensissima luce, non accecante e incontro con un Essere percepito come superiore. Tutti elementi che sono presenti nel pannello di Bosch, come se fosse stato ispirato dal racconto o da un’esperienza di questo tipo

Atene contro Siracusa XXIII

Mentre i capi della spedizione ateniese litigavano sul da farsi, tornarono a Siracusa sia Sicano, sia Gilippo, con due risultati tra loro opposti. Sicano, dinanzi al manicomio di Akragas, era stato costretto a tornare indietro: una delle tante rivoluzioni interne alla città, aveva cacciato il partito filo siracusano e portato al potere quello neutralista. Invece Gilippo era tornato con dei rinforzi provenienti da Sparta, che dando finalmente retta ad Alcibiade, aveva deciso di impegnarsi più seriamente nello scenario siciliano.

Tra l’altro, Gilippo, per giungere a Siracusa, dovette passare per i territori cartaginesi, i quali di fatto non l’ostacolarono. A quanto pare, la città punica, che all’inizio della guerra aveva appoggiato più o meno nascostamente, Atene, viste le vicende belliche, aveva cambiato campo.

In quei momenti ricomparvero a Siracusa Sicano e Gilippo. Sicano aveva fallito la prova con Agrigento (era appena giunto all’altezza di Gela che il partito filo-siracusano, vittima di un moto, finiva espulso da Agrigento). Gilippo, invece, ritornava dal suo giro in Sicilia fornito di un potente gruppo di forze fresche, e del contingente oplitico in arrivo dal Peloponneso, passato in primavera sui convogli da carico e approdato dopo uno scalo in Libia a Selinunte. I trasporti erano stati spinti in Libia dai venti, e là Cirene aveva fornito alle truppe due triremi e piloti per la rotta verso la Sicilia. Durante la navigazione lungo la costa, avevano soccorso gli Evesperiti, cinti d’assedio dai Libici e, disfatti i Libici, erano di lì ripartiti veleggiando fino a Città Nuova, un emporio cartaginese, da dove la distanza per passare in Sicilia è la più breve: due giorni e una notte di nave. E staccandosi da quello scalo avevano traversato fino a Selinunte.

L’arrivo dei rinforzi ebbe un impatto notevole sulla politica interna siracusana: il partito della guerra fu rafforzato e i filo ateniesi, si cui Nicia contava per eseguire un colpo di stato e per stipulare un trattato di pace favorevole ad Atene con il nuovo governo, fu isolato e messo da parte. Al contempo, i malumori, negli assedianti, decimati dalla malaria, cresceva sempre più. Di conseguenza, lo stesso Nicia divenne favorevole a prendere armi e bagagli e tornarsene a casa. Ovviamente, e non possiamo dargli torto, per evitare brutte sorprese dal nemico, la ritirata doveva avvenire in segreto

Questi effettivi di rinforzo avevano appena fatto la propria comparsa in città, quando i Siracusani già si accingevano a riprendere la duplice offensiva, di terra e di mare, contro il nemico ateniese. Gli strateghi ateniesi, notando quest’afllusso di nuovi rincalzi e vedendo che lo stato di salute della propria armata non accennava a progredire in meglio, anzi di giorno in giorno si deteriorava sotto ogni profilo, specie per l’incrudelire della malattia, si pentirono di non essersi messi in moto per tempo. E visto che neppure Nicia era più tanto fermo nella sua opposizione, con la riserva che almeno sulla segretezza del piano si manteneva intransigente, gli strateghi comandarono di seppellire nel più geloso riserbo la partenza dell’intera armata dal campo, e di tenersi pronti al segnale d’avvio.

Ma sfortuna volle che la ritirata, con tutti gli opliti che stavano imbarcandosi alla chitichella, avvenne il 27 agosto del 413 a.C. notte in cui si verificò un’eclisse lunare… A questo punto lascio la parola agli espertone dell’INAF Adriano Gaspani

Ma vediamo ora di ricostruire le circostanze dell’evento. Innanzitutto le coordinate geografiche di Siracusa sono: 37° 4′ 0″ N di latitudine e 15° 16′ 59″ E di longitudine; la sua posizione geografica implica una differenza tra il tempo locale ed il UT pari a 1 ora, 1 minuto e 8 secondi in avanti. Eseguendo i calcoli utilizzando la teoria lunare ELP2000-82B (M. Chapront-Touzè e J. Chapront, 1988) includendo i 10000 termini periodici la cui ampiezza è inferiore a 0,001 secondi d’arco, si ottiene una posizione della Luna che differisce dai 5 ai 10 metri rispetto al vero, quindi la posizione prevista dalle effemeridi può differire mediamente meno che 0”,01 rispetto al valore esatto: tale accuratezza è largamente superiore a quanto richiesto per le analisi di tipo storico e archeoastronomico. Tornando all’eclisse del 27 Agosto del 413 a.C., la Luna al plenilunio, posta nella costellazione dei Pesci, entrò nella penombra della Terra alle ore 18:44:55 ad un’altezza di 1°,7 rispetto all’orizzonte astronomico locale, poi raggiunse l’ombra alle 19:51:03 ad un’altezza apparente pari a 13°,4 . La fase di totalità iniziò alle 21:09:59 con la Luna alta 26°,2 ed il massimo dell’eclisse si ebbe alle 21:32:41 a 29°,4 di altezza. La fine della fase di totalità avvenne alle 21:55:19 ad un’altezza pari a 32°,3 e la Luna alta 39°,6 uscì dall’ombra della Terra alle 23:14:15, mentre l’uscita dalla penombra si ebbe alle ore 00:20:32 del successivo 28 Agosto 413 a.C. ad un’altezza pari a 41°,2 rispetto all’orizzonte astronomico locale di Siracusa

Totalmente l’eclisse durò 5 ore 35 minuti e 37 secondi (fase penombrale), mentre la fase di ombra durò 3 ore 23 minuti e 13 secondi; la fase di totalità durò 45 minuti e 20 secondi. La Luna sorse a Siracusa alle ore 18:33:31 ora locale ad un azimut pari a 107°, quindi dal mare, e circa 10 minuti dopo ebbe inizio l’eclisse che evolvendosi accompagnò gradualmente la graduale salita in cielo dell’astro fino a circa il transito al meridiano astronomico locale

Ora se gli astronomi greci sapevano predire con accuratezza il fenomeno, anche se, per il modello geocentrico, avevano qualche problema a spiegare il perchè si verificasse, per l’ateniese medio era un segno premonitore di eventi infausti. Per cui, gli opliti in panico, si rifiutarono di imbarcarsi: per rassicurare le truppe, Nicia, che tra l’altro era parecchio superstizioso di suo, su consiglio del suo indovino personale Stilbides, decise di celebrare gli opportuni riti per placare gli dei e di di attendere il ritorno dell’astro nella stessa configurazione con le stelle, tre giorni prima del plenilunio, ma senza eclisse, quindi dopo un mese siderale esatto poiché essa non rappresentasse, in quel caso, un presagio infausto.

Son già sulle mosse per uscire, tutto è preparato quand’ecco un’eclisse di luna: e capita in una notte proprio di luna piena. Allora la truppa ateniese, prendendosela calda, quasi a una voce pretese che gli strateghi differissero. E Nicia proclive non poco, forse troppo, alle divinazioni e alle altre pratiche di questa specie) rifiutò che si discutesse oltre sui dettagli della partenza, in attesa che spirassero tre volte nove giorni, come prescritto dagli indovini. E così, sul punto di prendere il largo, era nato questo nuovo intralcio alla ritirata ateniese.

Ovviamente, tutto questo caos non passò inosservato a Siracusa: per cui i suoi cittadini decisero di passare all’attacco, per impedire la ritirata del nemico, nel timore che, invece di tornarsene a casa, si trasferissero a Catania, per riprendere, recuperate le forze, la guerra in futuro. I primi di settembre ci fu il primo assalto dei siracusani alle fortificazioni nemico, con risultati deludenti.

Nei Siracusani, prontamente informati, raddoppiò subito il desiderio di non lasciar via libera agli Ateniesi, tanto più che lo stesso nemico s’era resa conto d’aver perduto la propria supremazia navale e terrestre (altrimenti non avrebbe premeditato di salpare). Siracusa voleva impedire che fortificandosi in qualche altro punto della Sicilia, gli Ateniesi opponessero una più accanita resistenza alla disfatta finale. Occorreva costringerli a battersi sul mare, in quelle acque, mentre tutte le circostanze favorivano la marina siracusana. Quindi armarono la flotta e trascorsero quel numero di giorni che parve sufficiente ad addestrarsi. Quando scoccò l’ora propizia, alla vigilia dell’offensiva generale sferrarono un assalto alle trincee fortificate ateniesi. Qualche compagnia di opliti, e una sparuta squadra di cavalieri uscirono da certe pusterle ad affrontare il nemico: un piccolo gruppo di opliti, perso il contatto, fu travolto e inseguito. Ma l’accesso alla linea fortificata era angusto: così settanta cavalieri ateniesi furono annientati, con un esiguo numero d’opliti. Fu tutto, per quella giornata: l’esercito siracusano indietreggiò.

Per cui, decisero di riprendere la strategia di Gilippo, con un attacco combinato da parte della flotta e dell’esercito. Gli ateniesi erano pronti, per cui, decisero di affrontare la navi nemica: stavolta una vittoria non avrebbe facilitato la caduta della polis siciliana, ma rompendo il blocco, aperto la via di fuga. Eurimedonte dispose le navi su una linea lunga e sottile, nel tentativo di accerchiare gli avversari: manovra che avrebbe avuto successo se eseguita in mare aperto, che, nell’interno di un porto, risultava difficoltosa da eseguire.

I Siracusani, invece, concentrarono il grosso delle navi al centro dello schieramento: per la semplice forza di numeri, fu facile sfondare la linea nemica, isolare l’ala destra, quella più vicina alla riva e affondare la stessa ammiraglia. Evento che provocò il fuggi fuggi generale, con le navi ateniese che correvano alla rada per sbarcare gli equipaggi.

Il giorno dopo, con la flotta potente di settantasei navi, i Siracusani escono a battaglia, mentre con le fanterie si accostano ai forti ateniesi. Gli Ateniesi muovevano incontro con una flotta di ottantasei navi e accorciando le distanze attaccarono. Eurimedonte che dirigeva l’ala destra ateniese, allargò troppo verso costa la schiera delle sue triremi, nell’intento di avvolgere le linee avversarie: ma i Siracusani, sorretti dagli alleati, dopo aver subito sfondato il centro ateniese lo sorpresero isolato nella rada interna del porto: Eurimedonte cadde e la sua nave con le altre che la seguivano fu affondata. Poi intervenne un generale cedimento delle squadre ateniesi che sotto la pressione nemica furono gettate verso la riva.

Nel vedere questo manicomio, Gilippo, invece che sbattere la testa sulle fortificazioni nemiche, decise di tentare il colpo gobbo: attaccare con gli opliti gli equipaggi che sbarcavano. Se li avesse catturati o uccisi, dato che l’oplita medio non sapeva certo governare una nave, la ritirata ateniese sarebbe stata impossibile.

Per sua sfortuna, quel tratto di costa era presidiato da un contingente alleato etrusco, che non solo resistette all’attacco, ma mise in rotta i siracusani: per rimediare alla figuraccia dei suoi opliti, Gilippo mandò ulteriori rinforzi. Per sua sfortuna, Nicia si accorse del pericolo e mobilitò le sue truppe, sconfiggendo i nemici e permettendo e agli equipaggio di mettersi in salvo. A questo punto, Sicano ebbe un’idea: se non si poteva eliminare gli equipaggi, si sarebbe provveduto a distruggere le navi. Per cui decise di prendere un vecchio mercantile, lo caricò di sostanze infiammabili, gli diede fuoco e lo diresse verso la flotta ateniese: tuttavia, essendo questi sul chi vive, lo intercettarono prontamente, spegnendo le fiamme

Gilippo assistendo alla vittoria dei suoi sulla flotta ateniese, che veniva spinta all’esterno della palizzata e del proprio campo, pensò subito d’annientare gli equipaggi nemici cogliendoli nella fase di sbarco e di agevolare il rimorchio degli scafi ai Siracusani, impadronendosi di tutto il tratto di costa: sicché accorse, con una parte dei suoi effettivi, in direzione del molo. Senonché i Tirreni, dislocati su istruzione ateniese a proteggere quello spazio d’approdo vedendo che i reparti nemici s’accostavano privi d’inquadramento, scattando al contrattacco urtarono la prima linea avversaria scagliandola nella palude chiamata Lisimeleia. Più tardi, quando ormai s’era adunato a rincalzo un contingente più forte di Siracusani alleati anche gli Ateniesi sopraggiunsero di corsa. Costoro seriamente allarmati per la flotta affrontarono in battaglia quei reparti nemici e dopo essersi imposti ruppero lo schieramento avversario, abbattendo pochi opliti: così il maggior numero di navi fu tratto in salvo e raggruppato al sicuro. all’interno del campo. I Siracusani e gli alleati avevano però conquistato diciotto unità, annientandone le ciurme. Poi vollero incendiare le altre, e stipando su un vecchio mercantile un carico di trucioli e di rami resinosi vi appiccarono il fuoco, affidandolo al vento che, in quell’istante, soffiava verso la darsena ateniese. Gli Ateniesi furono subito preoccupati per la flotta, e si studiarono d’indovinare stratagemmi per soffocare la fiamma: alla fine arrestarono l’incendio e il minaccioso avvicinarsi del bastimento salvandosi anche da quel pericolo

Dopo questo incidente i Siracusani eressero un trofeo per la battaglia navale e per gli opliti isolati e distrutti all’interno presso la catena dei forti, dove avevano intercettato anche le truppe di cavalleria. Gli Ateniesi risposero con un secondo trofeo, a ricordo della rotta verso la palude che prima i Tirreni, poi gli Ateniesi con a fianco le altre forze avevano inflitto al nemico.

Il tempio di Vulcano ad Akragas

Il tempio di Vulcano (in greco Efesto) sorge sulla collina a Ovest dell’odierno giardino della Kolymbetra, che lo separa dall’estremità Sud-ovest della collina dei Templi e dal santuario delle Divinità Ctonie.

La tradizionale denominazione di tempio di Vulcano – come spesso accade ad Agrigento – è soltanto convenzionale e non è supportata né da riscontri archeologici né epigrafici. Il suo nome si deve all’interpretazione di un brano di Solino, autore del Collectanea rerum memorabilium (“raccolta di cose memorabili”). Nel medioevo questa stessa opera fu nota anche sotto i titoli di Polyhistor (“il curioso”, “l’erudito”) oppure, ma più raramente, di De mirabilibus mundi (“sulle meraviglie del mondo”).

L’opera, scritta in un latino molto “manieristico”, è meramente compilativa. Lo scrittore attinge, infatti, a piene mani dalla Naturalis historia di Plinio il Vecchio, dalla Chorographia di Pomponio Mela, dall’opera di Svetonio e, con ogni probabilità, anche da quella di Marco Terenzio Varrone. Il Mommsen teorizza la possibilità che autori o opere non pervenutici altrimenti (per esempio Cornelio Bocco e, come detto, l’enciclopedia Roma di Svetonio) siano tra le altre possibili fonti.

Leggendo tali autori, Solino avrebbe annotato le cose più strane e meravigliose inerenti a popoli, usanze, animali e piante illustrandole all’interno di una cornice geografica.

Il testo è dedicato ad un certo Aventus, forse uno dei consoli per l’anno 258. Segue una trattazione sulla storia di Roma dalle origini al principato di Augusto. Sono poi di seguito esaminate l’Italia, la Grecia, le regioni intorno al Mar Nero, la Germania, la Gallia, la Britannia, la Spagna. Seguono, poi, le province dell’Africa e la descrizione continua con l’Arabia, l’Asia minore, l’India e l’impero dei Parti.

Il testo fu oggetto di notevole rielaborazione, forse dallo stesso Solino, che in effetti, nella seconda epistola dedicatoria, definisce il proprio lavoro polyhistor. Nel medioevo, come detto, il termine divenne anche sinonimo dell’autore stesso.

Il tema meraviglioso del libro e la sua estensione molto ridotta rispetto alle opere di Plinio il Vecchio ne decretarono il successo nel medioevo, con alcuni rimaneggiamenti, di cui, in particolare, si ricordano quelli in esametri tradizionalmente attribuiti a Teodorico e a Pietro Diacono. Frutto dell’ammirazione per la sua opera nel Medioevo è anche il ruolo, parallelo a quello di Virgilio nella Divina Commedia, di accompagnatore del poeta Fazio degli Uberti nel suo Dittamondo.

Tornando al nostro tempio di Vulcano, Solino nel suo libro scrive

“…In lacu Agrigentino oleum supernanat nec longe inde collis Vulcanius, in quo qui divinae rei operantur, ligna vitae super aras struunt ,nec ignis opponitur in hanc congeriem…”

ossia tradotto in italiano

Nel lago agrigentino non lontano dal colle di Vulcano galleggia olio, coloro che svolgono cerimonie religiose dispongono sugli altari i legni della vita , neppure il fuoco si oppone a questo composto

Per cui, il nostro eroe, che in fondo era una sorta di Peter Kolosimov dell’epoca, ci parla di un culto in onore di Vulcano, senza specificare la presenza di un tempio, che si svolgeva nei pressi di un presunto lago, dico presunto perché non ne parlano altre fonti e non è stata mai trovata la minima traccia archeologica, in cui i sacerdoti del dio, per impressionare i fedeli e ottenere più elemosine, operavano una serie di trucchi di prestigiatori: erano posti sull’ara dei sarmenti, che, quantunque verdi, ardevano vivacemente e se la fiamma toccava i sacrificatori senza bruciarli, era segno che gli dei avevano gradito le offerte.

Tra l’altro il dettaglio sull’olio che galleggiava sul lago, ha fatto pensare anche alla presenza di idrocarburi non metanici, oppure, più probabilmente a sorgenti sulfuree. In ogni caso, questa curiosità erudita rimase dimenticata per anni, finché non capitò tra le mani dello storico siciliano di Sciacca Tommaso Fazello, che nel suo tentativo di identificare tutte le rovine della valle dei Templi, affibbiò la dedica a Vulcano, più a casa che altro, alle rovine che vedeva nel fondo La Meda, un paio di colonne senza capitelli e gli esigui tratti dello stilobate. Per la sua posizione periferica, questo tempio non è che sia stato mai molto studiato. Fu ignorato dalle commissioni borboniche che studiarono in lungo e in largo la Valle dei Templi e solo nel 1928 l’archeologo Pirro Marconi portò alla luce le strutture dopo che il capitano Hardcastle acquistò il podere su cui il tempio sorge, rimuovendo le case coloniche addossate alle rovine.

Gli scavi archeologici recenti hanno permesso di ricostruire la storia del tempio. Inizialmente, vi era un tempietto stile ionico, risalente al VI secolo, di cui purtroppo si sa ben poco. Sappiamo soltanto che si trattava di un edificio prostilo con cella e pronao (13,25 x 6,50 m), di cui è stato possibile ricostruire la decorazione architettonica, con lastre a cassetta laterale e frontonale e una sima laterale con doccioni a tubo.

Intorno al 430 a.C. parte la grande ristrutturazione del complesso, con l’edificio arcaico parzialmente demolito e trasformato nella cella del nuovo tempio, che, per l’epoca era di notevoli dimensioni (43 x 20,85 m) e sorgeva su un pianoro digradante da Est a Ovest che, pertanto, nel lato sul quale fu eretto il basamento dell’edificio, presentava un intaglio a tre gradini.

Il tempio era periptero, di ordine dorico, esastilo, con tredici colonne sui lati lunghi. Come accennato, pochi avanzi si conservano dell’elevato (due tratti del crepidoma a quattro gradini e due colonne); all’interno della peristasi si collocava la cella con pronao e opistodomo (rimangono solo tre settori trasversali di muro all’interno del perimetro del basamento, in corrispondenza dell’ingresso del pronao, del muro di fondo della cella e dell’ingresso dell’opistodomo).

Tra l’altro, alcuni degli elementi superstiti dell’elevato denotano influssi ionici (cornice con ovoli e dentelli plastici, fusto delle colonne con scanalature a spigolo battuto) a testimonianza della sperimentazione architettonica dell’Akragas di quel periodo.

La nuova versione del murale di Gaetano

Militia est vita hominis super terram, et sicut dies mercenarii dies eius

Una frase del libro di Giobbe, che ci ricorda come la vita sia una continua battaglia, contro il buio e il caos che che ci circonda: quello che fa la differenza è perché e come combattiamo.

Alcuni lo fanno per soddisfare i propri istinti e il proprio egoismo, altri invece per cercare di rendere un poco migliore il mondo in cui, per caso, ci troviamo a camminare. Lo possiamo faro lamentandosi di tutti e brontolando in continuazione, oppure con il sorriso sulle labbra e la consapevolezza che, nonostante i nostri limiti ed errori e il fatto che non potremmo mai risolvere tutti i problemi, il nostro contributo può sempre fare la differenza.

E’ la lezione che ci ha dato Leonardo, che ricordiamo domani nei giardini di Piazza Vittorio, Gaetano, che è stato il nume tutelare di via Giolitti per una vita e di Mauro, che si fa sempre in quattro per ricordarcelo con il suo impegno…

Lezione che all’Esquilino dovremmo ricordare più spesso, per lavorare assieme, invece di farci la guerra a vicenda per piccoli interessi di bottega, per non dico risolvere, ma almeno mitigare i problemi del nostro Rione

I primi ritratti di Giorgione

In parallelo alla sua produzione di soggetti sacri per una clientela legata alla Devotio Moderna, Giorgione comincia a dedicarsi anche alla ritrattistica. Il suo target di mercato, per utilizzare un brutto termine moderno, è l’alta borghesia veneziana, arricchita con il commercio e con i primi investimenti nell’agricoltura, che vuole crearsi un’immagine che non rispecchi soltanto il successo economica, ma che la proponga come un modello sia etico, sia culturale.

Per questo, nei ritratti, Giorgione adotta un approccio analogo a quello dei quadri religiosi: la rappresentazione ha un duplice piano di lettura. Il primo, quello pubblico, che è il soggetto come vuole apparire e essere ricordato. Il secondo, privato è quello del simbolismo associato all’immagine, che è una guida alla meditazione su temi e spunti, che erano ritenuti centrali dal committente. Questa convergenza tra pittura religiosa e laica è legata anche al fatto che la committenza è la stessa: la stessa ricca borghesia vuole distinguersi dal popolo e dal patriziato, decorando i palazzi alla veronese, con quelli che oggi chiameremmo murales e dedicarsi a una forma di religiosità più intima e meno formale.

Tutta questa ambiguità risalta nel cosiddetto Ritratto del Ragazzo con la freccia, conservato a Vienna, in cui s uno sfondo scuro appare un giovane ragazzo rischiarato dalla luce, con una veste rossa allacciata sulla spalla, una fine camicia bianca e una freccia in mano. A dire il vero, nonostante l’interpretazione tradizionale, sono più convinto che si tratti di un’opera a tema religioso: per prima cosa, l’iconografia risponde a quelle del San Sebastiano diffusa in ambito lombardo. Seconda cosa, il modello presente nel quadro appare in più opere di Giorgione, come il Garzone con flauto o il David con la testa di Golia, cosa che sarebbe difficile da spiegare per il ritratto destinato a uno specifico committente.

Anche se è complicato affermare che Giorgione e Leonardo si siano conosciuti di persona, il pittore probabilmente avrà visto e studiato, in qualche collezione veneta, qualche opera della bottega vinciana: il quadro è ispirata a un paio di opere di Boltraffio, allievo di Leonardo,che ritrasse il famigerato Solai, che furono imitate anche da Raffaello, in cui la freccia diventa un simbolo dell’amore divino che scalda i cuori dell’Uomo. Al contempo, nella tecnica pittorica, vi sono forti richiami allo sfumato leonardesco, soprattutto nel volto che affiora dall’ombra con passaggi tonali delicatissimi, nonché nell’espressione malinconica, che ricorda lo studio dei “moti dell’animo”.

Stessa influenza, relativa all’analisi psicologica del soggetto, è presente nel quadro il Ritratto di Giovane di Budapest, che è un ritratto vero e proprio, che riprende anche l’impostazione di quelli di Antonello da Messina e di Bellini in cui la figura emerge sullo sfondo scuro e con un parapetto, che divide lo spazio dell’effigiato da quello dello spettatore, superato illusoriamente dal braccio poggiato sopra di esso.

La somiglianza con i modelli della tradizione veneziana, in origine, sarebbe stata ancora più spinta in origine, dato che il tempo è stato impietoso sul quadro: lo sfondo appare oggi uniforme, ma anticamente nell’angolo in alto a sinistra si apriva una finestra con paesaggio, le cui tracce sono appena visibili ad occhio nudo.

Il ritratto mostra un uomo giovane, vestito di un’ampia casacca scura trapuntata e ricamata, sopra la camicia bianca. La folta capigliatura castana ricade a caschetto lasciando scoperte le orecchie, con scriminatura al centro, il volto ovale, girato di tre quarti verso sinistra e leggermente piegato in giù, gli occhi grandi ed espressivi, le sopracciglia folte, il naso robusto, la bocca carnosa, il mento appuntito.La mano destra è portata al petto con un gesto enfatico che sembra essere sempre ispirato dalla bottega di Leonardo.

Passando alla chiave di lettura privata, sul parapetto si vede la misteriosa lettera “V” su una targhetta a forma di cappello, oltre a un cammeo all’antica con una tripla testa femminile e una tabella con una minuscola iscrizione quasi illeggibile. Dato che questo parapetto appare anche in altri quadri, probabilmente era una sorta di “attrezzo di scena” di Giorgione. Se la lettera V indica la parola Virtus e il cammeo le Parche o Ecate triforme, il quadro era anche un memento su come la Virtù e il Coraggio siano necessari ad affrontare le avverse vicende della Vita.

Sempre ispirato a Leonardo, sono le Tre età dell’Uomo, conservato a Firenze: da una parte, il fondo scuro fa risaltare l’incisiva scelta cromatica applicata ai personaggi, dall’altra le vesti e gli incarnati emergono dallo sfondo gradualmente, con il procedimento dello “sfumato”. Anche la stesura pittorica con sottili velature deriva dal fiorentio, con attenzione meticolosa nei dettagli, come le capigliature dipinte spesso con sottilissime pennellate.

L’opera viene identificata con quella descritta da Marcantonio Michiel nel Camerino delle anticaglie di Gabriele Vendramin, citata anche in inventario del 1569. Nel 1657 passò nelle collezioni del pittore Niccolò Regnier, in parte poi acquistate dai Medici tra il 1666 e il 1675, entrando nelle collezioni del gran principe Ferdinando de’ Medici. La tavola col triplice ritratto venne inizialmente attribuita a Palma il Vecchio, poi riferita alla “maniera lombarda”. Nel 1880 Morelli fu il primo a riattribuirla a Giorgione, ipotesi per lo più condivisa dalla critica.Nella scena sono presenti tre personaggi, di età differenti, su fondo scuro: il giovane al centro legge un foglio su cui sono vergate due righe di un pentagramma, l’adulto alla sua sinistra indica lo stesso spartito ed un vecchio guarda l’osservatore.

Dato che, in qualche modo, Giorgione aveva conosciuto l’arte di Lorenzo Costa, che era il primo ad aver realizzato quadri dedicati ai musici, non è detto che il pittore abbia voluto, anche per motivi commerciali, introdurre questo genere a Venezia: ora abbiamo identificato il personaggio alla destra del quadro. Si tratta di Philippe Verdelot, un compositore francese all’epoca famosissimo per i suoi madrigali, che divenne uno dei maggiori musicisti di Firenze all’epoca dei Medici.

Philippe Verdelot nacque a Les Loges, Seine-et-Marne, Francia. Non si hanno notizie su i primi anni della sua vita. Egli arrivò in Italia, probabilmente, in giovane età e passò i primi vent’anni del XVI secolo nell’Italia del nord e probabilmente a Venezia. Un dipinto del 1511 descritto dal Vasari ma mai identificato, secondo alcuni musicologi, raffigurerebbe Verdelot a Venezia con un cantante italiano. Essendo Giorgione un grande appassionato di musica è possibilissimo che abbia conosciuto Verdelot di persona.

Alla semplice rappresentazione di una lezione o di un concerto, si sovrappone un forte simbolismo: la musica diviene anche metafora dell’armonia dell’esistenza umana, a sua volta dipendente dall’armonia dell’universo. Il tema delle età introduce quello della vanitas, di un’armonia mondana condizionata inevitabilmente dall’incerta e variabile durata. Per questo è così importante passare il testimone per tempo a colui che ha ancora davanti a sé tutto il tempo; a contrasto con il vecchio dallo sguardo malinconico – straordinario exploit di ricerca psico-fisiognomica – che si volge fuori del quadro a coinvolgere irresistibilmente lo spettatore nella consapevolezza della fine, dell’uscita imminente dall’effimero concerto della vita.

Contenuto simbolico che è presente in un ritratto assai poco studiato, che il ritratto di Arciere di Edimburgo, con lo straordinario pezzo di bravura che è il riflesso della sua mano sul corsetto brunito. E’ senza dubbio un soldato, ma è difficile che abbia combattuto veramente in quella specialità: storicamente, dalla battaglia di Maclodio in poi, l’esercito veneziano ha sostituito gli arcieri prima con i balestrieri, poi con gli archibugieri.

Da una parte, il quadro è un richiamo al libro di Giobbe

Militia est vita hominis super terram, et sicut dies mercenarii dies eius

Con la vita dell’uomo che è come quella di un soldato, piena di sacrifici e di disciplina, in continua lotta contro le proprie debolezze e il male he incontriamo ogni giorno. Concetto che era ampliato anche dal simbolismo ermetico di fine Quattrocento, che era rimasto colpito dal fatto che in greco bios avesse il duplice significato di arco e di vita. Così l’arciere diviene sia il simbolo di cui che, seguendo la Ragione, deve lottare contro l’istinto e la lussuria, sia dell’emanazione della Potenza divina nel mondo, che da forma alla ciò che lo circonda come l’Artista