In parallelo alla sua produzione di soggetti sacri per una clientela legata alla Devotio Moderna, Giorgione comincia a dedicarsi anche alla ritrattistica. Il suo target di mercato, per utilizzare un brutto termine moderno, è l’alta borghesia veneziana, arricchita con il commercio e con i primi investimenti nell’agricoltura, che vuole crearsi un’immagine che non rispecchi soltanto il successo economica, ma che la proponga come un modello sia etico, sia culturale.
Per questo, nei ritratti, Giorgione adotta un approccio analogo a quello dei quadri religiosi: la rappresentazione ha un duplice piano di lettura. Il primo, quello pubblico, che è il soggetto come vuole apparire e essere ricordato. Il secondo, privato è quello del simbolismo associato all’immagine, che è una guida alla meditazione su temi e spunti, che erano ritenuti centrali dal committente. Questa convergenza tra pittura religiosa e laica è legata anche al fatto che la committenza è la stessa: la stessa ricca borghesia vuole distinguersi dal popolo e dal patriziato, decorando i palazzi alla veronese, con quelli che oggi chiameremmo murales e dedicarsi a una forma di religiosità più intima e meno formale.
Tutta questa ambiguità risalta nel cosiddetto Ritratto del Ragazzo con la freccia, conservato a Vienna, in cui s uno sfondo scuro appare un giovane ragazzo rischiarato dalla luce, con una veste rossa allacciata sulla spalla, una fine camicia bianca e una freccia in mano. A dire il vero, nonostante l’interpretazione tradizionale, sono più convinto che si tratti di un’opera a tema religioso: per prima cosa, l’iconografia risponde a quelle del San Sebastiano diffusa in ambito lombardo. Seconda cosa, il modello presente nel quadro appare in più opere di Giorgione, come il Garzone con flauto o il David con la testa di Golia, cosa che sarebbe difficile da spiegare per il ritratto destinato a uno specifico committente.
Anche se è complicato affermare che Giorgione e Leonardo si siano conosciuti di persona, il pittore probabilmente avrà visto e studiato, in qualche collezione veneta, qualche opera della bottega vinciana: il quadro è ispirata a un paio di opere di Boltraffio, allievo di Leonardo,che ritrasse il famigerato Solai, che furono imitate anche da Raffaello, in cui la freccia diventa un simbolo dell’amore divino che scalda i cuori dell’Uomo. Al contempo, nella tecnica pittorica, vi sono forti richiami allo sfumato leonardesco, soprattutto nel volto che affiora dall’ombra con passaggi tonali delicatissimi, nonché nell’espressione malinconica, che ricorda lo studio dei “moti dell’animo”.

Stessa influenza, relativa all’analisi psicologica del soggetto, è presente nel quadro il Ritratto di Giovane di Budapest, che è un ritratto vero e proprio, che riprende anche l’impostazione di quelli di Antonello da Messina e di Bellini in cui la figura emerge sullo sfondo scuro e con un parapetto, che divide lo spazio dell’effigiato da quello dello spettatore, superato illusoriamente dal braccio poggiato sopra di esso.
La somiglianza con i modelli della tradizione veneziana, in origine, sarebbe stata ancora più spinta in origine, dato che il tempo è stato impietoso sul quadro: lo sfondo appare oggi uniforme, ma anticamente nell’angolo in alto a sinistra si apriva una finestra con paesaggio, le cui tracce sono appena visibili ad occhio nudo.
Il ritratto mostra un uomo giovane, vestito di un’ampia casacca scura trapuntata e ricamata, sopra la camicia bianca. La folta capigliatura castana ricade a caschetto lasciando scoperte le orecchie, con scriminatura al centro, il volto ovale, girato di tre quarti verso sinistra e leggermente piegato in giù, gli occhi grandi ed espressivi, le sopracciglia folte, il naso robusto, la bocca carnosa, il mento appuntito.La mano destra è portata al petto con un gesto enfatico che sembra essere sempre ispirato dalla bottega di Leonardo.
Passando alla chiave di lettura privata, sul parapetto si vede la misteriosa lettera “V” su una targhetta a forma di cappello, oltre a un cammeo all’antica con una tripla testa femminile e una tabella con una minuscola iscrizione quasi illeggibile. Dato che questo parapetto appare anche in altri quadri, probabilmente era una sorta di “attrezzo di scena” di Giorgione. Se la lettera V indica la parola Virtus e il cammeo le Parche o Ecate triforme, il quadro era anche un memento su come la Virtù e il Coraggio siano necessari ad affrontare le avverse vicende della Vita.

Sempre ispirato a Leonardo, sono le Tre età dell’Uomo, conservato a Firenze: da una parte, il fondo scuro fa risaltare l’incisiva scelta cromatica applicata ai personaggi, dall’altra le vesti e gli incarnati emergono dallo sfondo gradualmente, con il procedimento dello “sfumato”. Anche la stesura pittorica con sottili velature deriva dal fiorentio, con attenzione meticolosa nei dettagli, come le capigliature dipinte spesso con sottilissime pennellate.
L’opera viene identificata con quella descritta da Marcantonio Michiel nel Camerino delle anticaglie di Gabriele Vendramin, citata anche in inventario del 1569. Nel 1657 passò nelle collezioni del pittore Niccolò Regnier, in parte poi acquistate dai Medici tra il 1666 e il 1675, entrando nelle collezioni del gran principe Ferdinando de’ Medici. La tavola col triplice ritratto venne inizialmente attribuita a Palma il Vecchio, poi riferita alla “maniera lombarda”. Nel 1880 Morelli fu il primo a riattribuirla a Giorgione, ipotesi per lo più condivisa dalla critica.Nella scena sono presenti tre personaggi, di età differenti, su fondo scuro: il giovane al centro legge un foglio su cui sono vergate due righe di un pentagramma, l’adulto alla sua sinistra indica lo stesso spartito ed un vecchio guarda l’osservatore.
Dato che, in qualche modo, Giorgione aveva conosciuto l’arte di Lorenzo Costa, che era il primo ad aver realizzato quadri dedicati ai musici, non è detto che il pittore abbia voluto, anche per motivi commerciali, introdurre questo genere a Venezia: ora abbiamo identificato il personaggio alla destra del quadro. Si tratta di Philippe Verdelot, un compositore francese all’epoca famosissimo per i suoi madrigali, che divenne uno dei maggiori musicisti di Firenze all’epoca dei Medici.
Philippe Verdelot nacque a Les Loges, Seine-et-Marne, Francia. Non si hanno notizie su i primi anni della sua vita. Egli arrivò in Italia, probabilmente, in giovane età e passò i primi vent’anni del XVI secolo nell’Italia del nord e probabilmente a Venezia. Un dipinto del 1511 descritto dal Vasari ma mai identificato, secondo alcuni musicologi, raffigurerebbe Verdelot a Venezia con un cantante italiano. Essendo Giorgione un grande appassionato di musica è possibilissimo che abbia conosciuto Verdelot di persona.
Alla semplice rappresentazione di una lezione o di un concerto, si sovrappone un forte simbolismo: la musica diviene anche metafora dell’armonia dell’esistenza umana, a sua volta dipendente dall’armonia dell’universo. Il tema delle età introduce quello della vanitas, di un’armonia mondana condizionata inevitabilmente dall’incerta e variabile durata. Per questo è così importante passare il testimone per tempo a colui che ha ancora davanti a sé tutto il tempo; a contrasto con il vecchio dallo sguardo malinconico – straordinario exploit di ricerca psico-fisiognomica – che si volge fuori del quadro a coinvolgere irresistibilmente lo spettatore nella consapevolezza della fine, dell’uscita imminente dall’effimero concerto della vita.

Contenuto simbolico che è presente in un ritratto assai poco studiato, che il ritratto di Arciere di Edimburgo, con lo straordinario pezzo di bravura che è il riflesso della sua mano sul corsetto brunito. E’ senza dubbio un soldato, ma è difficile che abbia combattuto veramente in quella specialità: storicamente, dalla battaglia di Maclodio in poi, l’esercito veneziano ha sostituito gli arcieri prima con i balestrieri, poi con gli archibugieri.
Da una parte, il quadro è un richiamo al libro di Giobbe
Militia est vita hominis super terram, et sicut dies mercenarii dies eius
Con la vita dell’uomo che è come quella di un soldato, piena di sacrifici e di disciplina, in continua lotta contro le proprie debolezze e il male he incontriamo ogni giorno. Concetto che era ampliato anche dal simbolismo ermetico di fine Quattrocento, che era rimasto colpito dal fatto che in greco bios avesse il duplice significato di arco e di vita. Così l’arciere diviene sia il simbolo di cui che, seguendo la Ragione, deve lottare contro l’istinto e la lussuria, sia dell’emanazione della Potenza divina nel mondo, che da forma alla ciò che lo circonda come l’Artista