Hieronimus Bosch a Venezia (Parte II)

Può sembrare strano, ma le opere di Bosch presenti a Venezia, poco hanno a che vedere con il suo viaggio nella Serenissima, ma alla passione di uno straordinario collezionista, il cardinal Domenico Grimani, primogenito del futuro doge Antonio e di Caterina Loredan, quindi membro di una delle più ricche e potenti famiglie del patriziato locale. Uomo coltissimo e famoso teologo, fu anche un bibliofilo straordinario: la sua biblioteca comprendeva codici in latino, in greco e in ebraico, che dopo la sua morte furono lasciati in eredità alla Marciana e alla Biblioteca Arcivescovile di Udine.

Come accennavo, il cardinal Grimani possedeva una raccolta di sceltissime sculture classiche, di cui buona parte furono donate alla Repubblica, divenendo il nucleo primigenio del futuro Museo archeologico. Nella sua collezione comparivano inoltre opere di Giorgione, di Tiziano, quattro tavole di Hans Memling, tre di Patinier, tre di Bosch, il cartone di Raffaello della Conversione di Saulo, stampe di Dürer, disegni di Leonardo, Michelangelo e Raffaello.

Uno dei pezzi più preziosi era il Breviario Grimani, codice miniato straordinario, nella storia della miniatura, per numero e qualità delle immagini, dipinto da tre artisti straordinari: Alexander e Simon Bening e il Maestro di Giacomo IV di Scozia. Alexander era il più vecchio del gruppo e recentemente, dall’equivalente delle nostre fatture, abbiamo scoperto come avesse collaborato, in un paio di occasioni, con il padre di Bosch.

Simon, figlio di Alexander, era specializzato in libri delle ore, che al suo tempo erano prodotti solo per membri delle famiglie reali o per clienti comunque molto ricchi. Realizzò anche tavole genealogiche e pale d’altare portatili in pergamena. Molti dei suoi lavori migliori sono lavori dei mesi per libri delle ore costituiti soprattutto da piccoli paesaggi, costituendo una sorta di ponte tra la generazione di Bosch e quella di Brueghel il vecchio.

Secondo Thomas Kren, le sue opere erano caratterizzate da

donne soavi con facce rotonde e bocche di rosa; un’umana e teneramente simpatetica concezione del Cristo adulto, figure solide e colori saturati dominati da forti rossi e blu che vengono usati in maniera espressiva. Altre qualità includono la modellazione delle forme in toni chiari e scuri dello stesso colore, la predilezione per i soggetti notturni, le pennellate a macchie, evidenti soprattutto nelle ambientazioni all’aperto nei lavori dopo il 1530, e un talento nel rappresentare la profondità atmosferica dei paesaggi

In ambito pettegolezzi, Simon Si sposò due volte ed ebbe sei figlie. Due di loro continuarono la tradizione artistica familiare: Levina Teerlinc, che divenne un’importante miniatrice, producendo soprattutto ritratti miniati alla corte di Enrico VIII d’Inghilterra, e Alexandrine Claeiszuene, che divenne una mercante d’arte di successo

Il Maestro di Giacomo IV di Scozia è una sorta di mistero: sappiamo che ha avuto per l’epoca un successo commerciale straordinario, che era a capo di una fiorente bottega, ma non riusciamo ad associargli un’identità. Stilisticamente le miniature del Maestro si distinguono per le loro figure robuste e non idealizzate, dipinte in paesaggi molto colorati, con blu e rossi molto saturi, oppure in interni dettagliati, e un uso della luce come mezzo per definire la profondità degli spazi e come elemento compositivo.La sua innovazione più importante, particolarmente esplicita nel Libro delle ore Spinola,fu probabilmente nel miniare due pagine aperte, riducendo al minimo lo spazio per il testo (a volte del tutto assente) e facendo in modo che le due miniature si guardassero.

Aveva un modo personale di sviluppare la narrazione, e usava frequentemente oscure immagini bibliche nella costruzione dei suoi dipinti; le sue scene di vita quotidiana, disegnate per i calendari miniati, sono considerate particolarmente vivide. Molto importante è il modo in cui il Maestro sperimentava con il formato dei suoi dipinti sulla pagina. Usando vari elementi illusionistici, spesso sfocava la linea tra le miniature e il bordo, anche con funzione narrativa.

Molti studiosi lo identificano con Gerard Horenbout, che un pittore e miniatore di corte che tra il 1515 e il 1522 lavorò per Margherita d’Asburgo, reggente dei Paesi Bassi. Successivamente, come i figli Lucas e Susanna, si trasferì in Inghilterra (forse per ridare vita alla tradizione dei manoscritti miniati in per conto di Enrico VIII), per ritornare poi nel continente, probabilmente dopo il 1531; morì molto probabilmente a Gand nel 1540. Tuttavia, se vediamo le miniature dell’unico manoscritto certamente attribuibile a Gerard, il Libro delle Ore degli Sforza, poco somigliano ai lavori del Maestro di Giacomo IV.

Tornando al nostro cardinal Grimani, aveva senza dubbio un’apertura mentale ben superiore a tanti collezionisti della sua epoca, non guardando dall’alto in basso la pittura fiamminga e considerando l’Arte come un bene pubblico, tanto che alla sua morte, lasciò la sua collezione al governo della Serenissima.

Il più antico dei quadri, anche se la definizione è un poco forzata, di Bosch comprato dal cardinale è costituito dal ciclo delle Quattro visioni dell’Aldilà: siamo ragionevolemente certi che la configurazione iniziale di questo ciclo era assai diversa da come appare oggi. Non è chiaro se Non è chiaro se le quattro tavole fossero le ante laterali di due trittici, o le ante di un unico trittico con pannelli laterali sovrapposti, tipologia più raro in ambito, ma che nelle Fiandre era abbastanza diffusa, specie tra i seguaci della Devotio Moderna

Per cui, possiamo ipotizzare, basandoci anche su un dipinto di un altro artista fiammingo, Dieric Bouts il vecchio, che era il pittore di Lovanio e pur non possedendo la fantasia sfrenata di Bosch, ebbe all’epoca un grande successo, sia per il recupero delle tradizione decorativa gotica, sia per la plasticità delle sue figure, una composizione originale di questo tipo: a sinistra, in basso, ci sarebbe stata il pannello rappresentante l’Inferno, sovrastato da quello rappresentante la Caduta dei Dannati. Al centro, ci sarebbe dovuta essere una pala rappresentante il Giudizio Universale. A destra, in basso ci sarebbe stato il pannello rappresentante l’Ascesa all’Empireo e in alto quello del Paradiso.

Ora questo trittico, per ragioni stilistiche, deve essere stato dipinto prima del suo viaggio veneziano, che a occhio e croce può essere avvenuto tra il 1500 e il 1504. Ora, l’analisi di supporti , basata sulla dendrocronologia determina un terminus post quem al 1482, però questa è poco indicativa, dato che i fiamminghi avevano l’abitudine, per puri motivi di risparmio, di comprare all’ingrosso stock di tavole che venivano utilizzate per anni a secondo delle necessità. Per cui, è probabile che il trittico originale sia stato eseguito tra il 1495 e il 1500.

Alla morte di Bosch, che sappiamo essere avvenuta il 7 o 8 agosto 1516, dato che il 9 si celebrano in forma solenne i suoi nella Cappella di Nostra Signora, appartenente alla Confraternita Nostra Diletta Signora di cui era membro eminente e nei cui registri è ricordato come:

Hieronymus Aquen, alias Bosh, insignis pictor

dato che questa tipologia di trittico è passata di moda, il proprietario decide di suddividerlo in due: da una parte la pala centrale, che non riusciamo a identificare, divenne un dipinto autonomo, dall’altra i quattro pannelli laterali, sfruttando il fatto che il pittore aveva conferito uno spazio proprio a ciascuna scena, sono aggregati, in modo da costituire una rappresentazione dell’Ars Moriendi.

Questa era ispirata a bestseller dell’epoca, che spiegava ai fedeli dell’epoca come morire in grazia di Dio, e tra l’altro fu letto e apprezzato da Bosch, che ricordiamolo, nonostante le teorie che ogni tanto saltano fuori, era tutt’altro che eretico, che lo utilizzò come fonte per molte opere, che ha avuto anche lui una storia interessante: nasce tutto da un saggio, il Tractatus (o Speculum) artis bene moriendi, fu scritta nel 1415 da un frate domenicano anonimo, probabilmente sotto ordine del Concilio di Costanza. Intorno al 1450, fu scritta una sua sintesi nelle Fiandre: qualche anno dopo, sempre nell’ambito dei seguaci della Devotio Moderna, fu tradotta in fiammingo, diventando l’ Het sterfboek (il libro della morte) e i capitoli, per rendere più comprensibili i concetti, furono accompagnati da xilografie.

La trasformazione del trittico originale comportò un’altra modifica dei pannelli: il retro fu dipinto con una decorazione in finto marmo, alquanto sommaria, probabilmente per adattarla all’ambiente in cui dovevano essere esposte. Tra il 1517 e il 1523, data della morte del cardinal Grimani e del lascito al governo veneziano, il proprietario originale le cedette probabilmente a Daniel Bomberg. Questo era un mercante d’arte e tipografo, che ebbe un’idea geniale per l’epoca: dato che il numero di ebrei italiani era aumentato esponenzialmente, a causa della loro espulsione da Spagna e Portogallo, decise di specializzarsi, pur essendo cristiano, in libri in lingua ebraica.

Le presse di Bomberg eventualmente produssero circa 230 libri in ebraico e le sue innovazioni tipografiche in quella lingua fissarono lo standard per i tipografi successivi: tra le principali opere stampate, vi sono l’ editio princeps del Mikraot Gedolot, la Bibbia rabbinica, che comprende il testo ebraico insieme ai commentari rabbinici e prima e più antica serie completa di volumi del Talmud, incensurata, ossia non tagliata e modificata dai censori cristiani.

Dato che Daniel commerciava opere d’arte tra Anversa, dove aveva parenti e Venezia, è probabile che lo smembramento del trittico di Bosch sia avvenuto nella città belga: il quadro fu proposto al cardinal Grimani tramite il suo medico personale, Abraham ben Meir de Balmes, ebreo di Lecce, che era anche studioso di grammatica, poeta e traduttore dall’arabo e che collaborava con la tipografia del fiammingo, cosa che testimonia l’apertura mentale dell’ecclesiastico.

Ora Bosch, nel realizzare questi pannelli si ispirò testi ampiamente diffusi nelle Fiandre Visioni di Tundalo del XII secolo che raccontano le peripezie affrontate dall’anima di un cavaliere mandata in viaggio da Dio tra Inferno, Purgatorio e Paradiso o la stessa Commedia di Dante, tradotta in lingua olandese nel 1484 proprio a ‘s-Hertogenbosch, città del pittore.

L’Inferno, come iconografia è abbastanza tipico di Bosch: è concepito infatti come un acquitrino sulfureo popolato da mostri che torturano i peccatori che disperatamente provano a restare a galla o che si rifiutano di osservare lo spaventoso scenario che li circonda. La riva sinistra è dominata da un promontorio da cui si erge un’alta rupe, sormontata da un cratere in fiamme e che essendo posta in controluce maschera una fonte sfavillante di luce giallo-verde che irradia tutta la parte mediana del paesaggio. Sul promontorio sosta un altro uccello, mentre un diavolo, visto da tergo, sale a riva precedendone un altro che pare urlare nella corrente che intanto trascina con sé un dannato, mani e testa a fior d’acqua, forse inseguito dal diavolo. Tra le due rive, a metà dello stretto, affiora il braccio destro di un dannato che affonda. In primo piano sulla riva destra si nota una figura maschile, ignuda, che si tiene il capo in atto di totale scoramento mentre un mostro diabolico di color verde la tiene per il braccio avvinghiandosi nel contempo con la coda alla gamba sinistra del dannato. Più in là, un altro diavolo colpisce con un lungo pugnale un dannato. In secondo piano due dannati piangenti, rimangono rannicchiati in acqua al riparo della corrente.

A testimoniare la datazione antecedente al viaggio in Italia, vi è la composizione basata sul piani distinti e contrapposti: in compenso, a differenza di altre composizioni, che Bosch, lasciandosi trascinare dalla fantasia, riempie di dettagli, in una sorta di horror vacui, qui per aumentare la drammaticità, con poche figure di dannati e demoni che spiccano tra le tenebre, illuminate dalle fiamme.

Altrettanto legato alla precedente tradizione fiamminga è la rappresentazione del Paradiso, immaginato come un giardino lussureggiante popolato da un’umanità eletta e senza peccato (raffigurata quindi nuda) in cui uomini e donne sono accompagnati da angeli verso una foresta, oltre la quale è visibile una collina dove si trova la fontana della giovinezza, che si staglia in alto, secondo una prospettiva da sogno, sullo sfondo di un lontanissimo paesaggio che sfuma in profondità. A destra, nella boscaglia, si vede un leone che sta divorandone un altro, a simboleggiare le debolezze e le passioni umane, trascese nella nuova condizione di beatitudine.

Totalmente di rottura, invece sono gli altri due pannelli: la Caduta dei dannati è costruita su un movimento discendente. Tre figure di anime malvagie che scaraventate da altrettanti diavoli sprofondano attraverso l’abisso infernale verso una palude di cenere incandescente e di lava rosso fuoco”. Al centro in basso, una quarta figura umana si trova già avvolta dai fumi, mentre in alto a sinistra (a destra per lo spettatore) un quarto diavolo sembra esultare in volo. Il paesaggio vulcanico è appena rischiarato di bagliori delle eruzioni. Nella parte alta, le sagome diaboliche, caratterizzate da un corpo scimmiesco con testa da pesce abissale e tipici barbigli, sono rese con poche sintetiche pennellate luminose di grande modernità che le ritagliano sul fondo nero, con tratti bianchi. Le figure umane sono invece definite da tratti ocra con lumeggiature gialle. I toni cupi e angoscianti che dominano la raffigurazione riescono a dare alla scena un’impressione sinistra di assoluta drammaticità.

Ancora più visionaria, è l’Ascesa: una serie di anime nude, trasportate da coppie di angeli, vengono condotte verso un tunnel con in fondo una grande luce, quella del Paradiso. Si tratta di un’invenzione di grande efficacia, resa con la semplice giustapposizione di cerchi non concentrici scalati nella tonalità dal blu più scuro all’azzurro chiaro, forse ispirata a miniature tardo-medievali. Le anime appaiono come attratte e risucchiate dalla luce e dal colore, presentandosi in ginocchio e senza peso verso il varco, con un andamento ascendente a zig-zag di notevole efficacia. In fondo al tunnel le aspetta un personaggio, forse un angelo o san Pietro, immerso nella luce assoluta.

E’ interessante notare il quadro sembra rispecchiare molto dei racconti delle persone che hanno vissuto un’esperienza di pre-morte o NDE, fenomeni descritti in genere sia da soggetti che hanno ripreso le funzioni vitali dopo aver sperimentato, a causa di gravi patologie o eventi traumatici, la condizione di arresto cardiocircolatorio, sia da soggetti che hanno vissuto l’esperienza del coma. I racconti di chi ha vissuto l’esperienza sono caratterizzati da tre elementi comuni: attraversamento di un “tunnel” buio, visione di una grande ed intensissima luce, non accecante e incontro con un Essere percepito come superiore. Tutti elementi che sono presenti nel pannello di Bosch, come se fosse stato ispirato dal racconto o da un’esperienza di questo tipo

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