
Come accennato in un altro post, uno dei primi committenti di Giorgione fu un personaggio da romanzo, Tuzio Costanzo. Costui era figlio di Muzio (viceré di Cipro) ed era nato a Messina, insomma era era un buddaci. Si era poi trasferito a Cipro, al servizio della regina Caterina Cornaro (sposa del re cipriota Giacomo II di Lusignano, costretta nel 1489 al ‘dorato esilio’ di Asolo) e, successivamente, celeberrimo condottiero al servizio della Repubblica Veneta.
Tuzio si era trasferito a Castelfranco nel 1475, dove aveva acquistato l’omonima casa (ora Menegotto) in vicolo del Paradiso e intorno al 1495, commissionò a Giorgione la decorazione della facciata del suo palazzo ora perduta. A inizio Cinquecento, diede poi la grande occasione a Giorgione nella pittura religiosa: sino ad allora si dedicava o a piccoli quadri destinati ai seguaci della Devotio Moderna, oppure alla ritrattistica.
Nel 1499, però Tuzio è travolto da un dolore atroce: suo figlio Matteo muore a Ravenna per il contagio di un morbo (forse di peste) nella primavera di quell’anno durante l’impresa militare di Casentino svoltasi tra l’ottobre 1498 e l’aprile 1499. Per cui, il condottiero ottiene la concessione di una cappella, per renderlo un mausoleo della famiglia Costanzo. Cappella che non è quella si trovava infatti nella chiesa ‘vecchia’ (ristrutturata nel 1467), demolita per far posto al Duomo di F.M. Preti (iniziato nel 1724). Proprio le differenze tra quella originale e l’attuale, come vedremo poi, hanno provocato diversi equivoci nell’interpretazione dell’arte di Giorgione.
Ottenuta la Cappella, Tuzio incarica Giorgione di decorarla: dalle descrizioni dell’epoca, sappiamo che il pittore concepì una decorazione che prevedeva nella volta il Redentore in atto di benedire, quattro Evangelisti in altrettanti tondi ed arabeschi decorativi. Un impianto tutto sommato tradizionale, ispirato a Mantegna e a Foppa, che però purtroppo non abbiamo idea di come sia stato realizzato in concreto.
Poi commissione il sepolcro del figlio, a uno scultore straordinario, che purtroppo, non essendo stato citato da Vasari, non gode della fama che meriterebbe: si tratta di Giovanni Giorgio Lascaris, originario di Cipro, e migrato in Veneto al seguito della Cornaro, artista capace di coniugare un’eleganza classicheggiante con una incredibile capacità di rappresentare nel marmo i sentimenti e i moti dell’anima. Purtroppo, della sua vita, sappiamo ben poco: i contemporanei lo soprannominarono Pirgotele, come come il più bravo incisore di gemme del periodo ellenistico, ritrattista ufficiale di Alessandro Magno. Secondo diversi autori dell’antichità, il Pirgotele originale fu l’inventore del cammeo: il fatto che Lascaris avesse questo soprannome fa ipotizzare che si dedicasse anche alla glittica, anche se non riusciamo ad attribuirgli con certezza nessuna opera.
In ogni caso, nonostante il silenzio di Vasari, Lascaris era molto celebrato dai suoi contemporanei: è menzionato per la prima volta in un epigramma del 1496 dell’umanista Giovanni Battista Guarini, che loda la sua Venere flagillifera (opera ora andata persa); anche Pomponio Gaurico lodò la stessa opera nel suo De sculptura
Per concludere la decorazione della cappella, Tuzio incaricò infine Giorgione, a testimonianza della fiducia che aveva nei suoi confronti, di una cosa che non aveva mai affrontato prima: una pala d’altare. Per cui, tra il 1501 e il 1504 il pittore dipinse la nostra pala di Castelfranco. Il 1504 è considerato come termine cronologico massimo perché sappiamo che in quell’anno le spoglie di Matteo furono traslate nella cappella, per cui, i lavori dovevano essere terminati.
Così Giorgione concepì una pala d’altare con Maria,seduta in alto su un trono al centro del dipinto, vestita con i tre colori delle virtù teologali, : il verde la speranza, il bianco la fede e il rosso la carità, e sorregge con la mano destra Gesù Bambino addormentato.Due Santi poi sono in piedi ai lati di Maria. Uno è facilmente identificabile, come San Francesco. Sull’altro, per generazioni gli studiosi si sono scannati: solo da pochi anni si è arrivati a una conclusione condivisa, data la presenza del gonfalone dei Cavalieri Gerosolimitani, i nostri Cavalieri di Malta. Si tratta di San Nicasio Camuto de Burgio. Chi è costui ? Uno dei tanti santi palermitani, nato nella città siciliana da una nobile famiglia di origini arabe. Il padre di Nicasio, reggente del castello di Burgio, sposò una nobile normanna da cui ebbe 4 figli. Il primogenito Ruggero ereditò il castello di Burgio. Il secondogenito, Guglielmo, entrò a far parte della cerchia dei fedelissimi del re Guglielmo II, incoronato nel 1166. Il terzogenito Ferrandino e l’ultimogenito Nicasio si dedicarono invece alla vita religiosa, prendendo i voti e divenendo membri proprio dei cavalieri Gerosolimitani.
Nel 1185, i due fratelli decisero di partire per la Terrasanta, che stava per essere sconvolta dalla violenta guerra tra i crociati e i saraceni di Saladino. I fratelli si dedicarono al servizio di assistenza e protezione degli ammalati e dei pellegrini nell’Ospedale di San Giovanni di Gerusalemme e parteciparono alle operazioni militari del loro Ordine. Fatto prigioniero, durante la cruenta battaglia di Hattin, dove tutti i cavalieri ospedalieri vennero trucidati, venne decapitato alla presenza del sultano Saladino poiché si rifiutò di rinnegare la fede in Cristo.
Ora, se adesso sa Nicasio è quasi sconosciuto, all’epoca il suo culto era molto diffuso sia a Palermo, sia a Messina, patria di origine della famiglia Costanzo. Inoltre, All’ordine gerosolimitano apparteneva il fratello di Tuzio, Matteo, priore di Messina e commendatore di Palermo, Modica e Caltagirone, tanto che alcuni studiosi hanno ipotizzato che San Nicasio fosse un suo ritratto e anche l’altro figlio di Tuzio, Bruto Muzio che nell’ordine ricoprirà importanti cariche. Attraverso San Nicasio Giorgione allude dunque oltre che alla dignità dell’ordine di cui facevano parte importanti membri della famiglia, alla nobiltà dei Costanzo e alle loro glorie militari. San Francesco e San Nicasio i due santi raffigurano simbolicamente, come avviene spesso in Giorgione, anche le. due parti del motto dell’Ordine gerosolimitano: “Tuitio Fidei (difesa della fede) et Obsequium Pauperum (ossequio dei poveri)
I personaggi sacri poggiano su un pavimento decorato con piastrelle che formano un motivo a scacchiera. Dietro di loro poi è presente un parapetto che pare un telo srotolato e teso. Sullo sfondo infine è visibile un ampio paesaggio collinare. Si riconoscono campagne, due piccole figure di soldati a destra e alcune rovine di un villaggio con fortezza a sinistra.
Ora Giorgione, nel dipingere la pala, studiò a fondo la cappella originale, in modo che il dipinto dialogasse con l’ambiente: da una parte, lo abbiamo scoperto di recente, da una pianta della vecchia chiesa, l’opera era illuminata da una luce che entrava da una finestra posta lateralmente a meridione, in modo che le ombre dipinte dei santi coincidessero con quelle naturali. Le due figure fungono da “indicatore – gnomone”, determinandone un’ora solare precisa che fa supporre un’idea ben precisa del pittore.
Tra l’altro, tramite una serie di simulazioni al computer, si è visto come quest’ombra coincidesse con quella che nella cappella si avrebbe avuto in estate, periodo in cui dovrebbe essere morto Matteo, intorno alle 15.00, che potrebbe essere sia l’ora della sua dipartita, sia una citazione momento sacro, venerato dai cristiani, della morte di Gesù in croce nel Venerdì Santo, rendendo così il figlio di Tuzio un Alter Christus. Inoltre, nella cappella originale, la tomba di Matteo era scavata in un muro laterale e chiusa dalla lastra del Lascaris, ora deposta ai piedi dell’altare.
Lastra che è decorata con un bassorilievo che è decorata l’immagine di un giovane guerriero, in armatura completa, con la spada al fianco e un copricapo sui capelli fluenti, il ritratto di Matteo. Ai lati della sua testa vi sono lo stemma dei Costanzo ‘parlante’ (costa/Costanzo) nelle sei costole umane, sovrastate da un leone rampante, e lo stemma dei Verni, la famiglia nobile originaria di Maiorca cui apparteneva Isabella, sposa di Tuzio. L’iscrizione posta alla base della lapide celebra la bellezza e il valore di Matteo Costanzo e sigla una data, agosto 1504, che ci ha permesso di datare l’allestimento della cappella. Sul muro opposto, si trovava il sepolcro di Tuzio, che aveva cosi disposto nel suo testamento del 1510.
Ora le radiografie della pala d’altare hanno mostrato come l’opera era una sorta di seconda versione: nella prima, come i Santi ai suoi piedi, lo sguardo di Maria era diretta allo spettatore, mentre la base del trono era differente. Il quadro non piacque a Tuzio, per cui Giorgione provvide a dei cambiamenti. Modificò i volti della Vergine e del Bambino, in modo che i loro sguardi tristi ed accorati fossero rivolti in direzione della seconda modifica, ‘sarcofago’ di porfido, sepolcro simbolico dei Costanzo, legato visivamente e idealmente, mediante lo stemma dipinto in prospetto, ai sepolcri, che, come detto, erano in origine sui muri laterali. In tal modo gli sguardi della Madonna e del Bambino raccordano i due ‘registri’ della Pala, altrimenti assoggettati ad un ‘irrimediabile’ cesura. Proprio dalla necessità di inserire il ‘sarcofago’ (oggetto di un intenso lavorio e di ‘pentimenti’ del pittore) deriva la verticalità ‘piramidale’ della Pala. Tra l’altro, il sarcofago era sia per la forma, sia per il materiale, il porfido, un richiamo alla nobiltà e alle origini siciliane dei Costanzo, essendo un richiamo ai sepolcri degli Altavilla e di Federico II nella Cattedrale di Palermo.
Le radiografie hanno poi permesso di chiarire meglio la tecnica di Giorgione, che ha innanzitutto inciso nel gesso i contorni delle principali forme, mentre i particolari come il fondo del paesaggio sono stati eseguiti direttamente con il pennello. Il tutto sembra lo abbia eseguito senza un disegno preliminare, rendendo l’artista l’antesignano della pittura tonale veneziana, che affida la costruzione dell’immagine ad una tecnica sapiente fatta di velature sovrapposte di strati colorati, cioè quella “pittura sanza disegno” di cui parlava Giorgio Vasari nelle sue Vite, edite nel 1550, ove il chiaroscuro morbido ed avvolgente annulla i passaggi bruschi tra luce ed ombra.
Tuzio si era ritirato a Castelfranco, sperando in una vita più tranquilla, ma non riuscì mai a sottrarsi alle incombenze militari, che forse gli mancavano e di cui non poteva fare a meno, dando senso alla sua vita. Nel dar forma a questa contraddizione del committente, Giorgione introdusse la seconda novità formale della pala, oltre all’accentuata composizione triangolare. Questa deriva da opere di poco precedenti, come la Pala di San Cassiano di Antonello da Messina, oggi a Vienna, o la Pala dei Santi Giovanni e Paolo di Giovanni Bellini, perduta in un incendio, già nella Basilica di San Zanipolo: ma queste erano ambientate un interno aulico o ecclesiastico. Giorgione invece pone tutto in un paesaggio, amplissimo e profondo, di campagne e colline, che ricordano l’aspirazione alla tranquillità di Tuzio, sempre frustrata. Le due minuscole figure di armati e il villaggio turrito in rovina ‘parlano’ di guerra, generatrice di dolore e di morte, ricordando invece la sua realtà concreta.
Per dare solennità alla composizione, non potendosi basare sull’architettura classica, Giorgione dovette permeare il quadro di un respiro atmosferico, pervaso da un assoluto silenzio. Così, una cortina di rosso velluto identifica i due ‘registri’ della composizione: il mondo delle azioni umane, nel quale ‘vivono’ la Madonna e il Bambino, e lo spazio sacro ai piedi del trono, ove, in una dimensione intima e meditativa, i due santi, evocativi dell’ardimento (Nicasio) e della pietà (Francesco), rivolgono il loro sguardo assorto allo spettatore e al devoto.
Giorgione, ovviamente, nel dipingere la pala dialogò con l’arte contemporanea: se San Francesco è ripreso pari pari dalla Pala di San Giobbe del suo maestro Bellini, la Vergine con il Bambino, ricorda un paio di opere proprio di Lascaris, come la Vergine raffigurata nella lunetta del portale della chiesa di Santa Maria dei Miracoli a Venezia o quella del bassorilievo conservato al Liechtenstein Museum di Vienna. Infine, stoffe preziosamente ricamate si rifà a modelli della pittura del nord Europa, particolarmente all’arte di Hans Memling, che potevano essere conosciuti tramite il solito Bosch, mentre nell’armatura di san Nicasio riprende gli studi già eseguiti nel ritratto dell’Arciere.
La pala, tra l’altro, ha avuto una vita alquanto tormentata, avendo subito almeno otto restauri. Solamente un secolo dopo che l’opera fu dipinta, un vescovo chiese che fosse sostituita a causa del suo stato pietoso di conservazione. Ad esempio, il pittore seicentesco Pietro Muttoni detto della Vecchia proprio per la sua capacità di imitare lo stile degli antichi maestri, e in particolare quello di Giorgione di cui aveva anche realizzato dei falsi, ridipinse il volto di San Nicasio. Oppure il pittore napoletano Aniano Balzafiori che si sbizzarrì a iscrivere una frase sul retro della tavola:
“Cara Cecilia/vieni t’affretta/il tuo t’aspetta”
per fornire un fondamento truffaldino alla sua ipotesi che la Madonna ritraesse un’amante o una sorella del Giorgione. O infine Il pittore Paolo Fabbris d’Alpago nel 1851, membro dell’Accademia Veneta di Belle Arti, per coprire le parti del dipinto andate in rovina ridipinse di testa sua il paesaggio, modifcandol con elementi di gusto neo-classico e riaggiustò le torri cadenti e i casolari e vi dipinse un tempietto in alto a destra. Ciliegina sulla torta, il 10 dicembre 1972 la pala fu trafugata dal duomo di Castelfranco Veneto e ritrovata dopo circa tre settimane in un casolare abbandonato, sembra dopo il pagamento di un riscatto.
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