Il museo Pitré

Uno dei musei più affascinanti di Palermo è il Pitré che prende nome da un siciliano straordinario, profondamente innamorato della sua terra. Giuseppe Pitrè nacque a Palermo in via Collegio di Maria al borgo (dove al numero civico 83 una lapide lo ricorda), rione Santa Lucia, il 22 dicembre 1841, da famiglia umile: il padre Salvatore, marinaio, era morto di febbre gialla a New Orleans nel 1847, mentre la madre, Maria Stabile, era anche lei figlia di marinai. Giovanissimo, prese parte nel 1860 all’impresa di Garibaldi in Sicilia nelle file della Marina garibaldina. Nonostante le ristrettezze economiche, anche con l’aiuto di un prete amico di famiglia, la madre riuscì dapprima a fargli conseguire il diploma liceale in studi classici presso un istituto dei gesuiti di Palermo, per poi prendere la laurea in medicina e chirurgia.

Dopo avere insegnato per qualche tempo nei licei palermitani, trovo lavoro come medico condotto nei paesini della provincia: il medico condotto, per chi non lo sapesse, era un medico, dipendente del comune, che prestava assistenza sanitaria gratuita ai poveri e, dietro pagamento dei compensi stabiliti secondo un tariffario, agli altri cittadini. La figura è stata sostituita, ai sensi della legge 23 dicembre 1978 n. 833, dal medico di famiglia.

Durante questo lavoro, Giuseppe, invece di integrare il suo onorario con polli, uova e prodotti delle terra, come facevano i suoi colleghi, decise di farsi pagare con oggetti della tradizione popolare e con racconti di fiabe e di leggende: così progressivamente crebbe la sua passione e la sua conoscenza del folklore locale, tanto da renderlo uno dei massimi esperti dell’argomento e autori di saggi meravigliosi, che ho avuto la fortuna di leggere: vi consiglio, se avete occasione Fiabe, novelle e racconti popolari siciliani, Usi natalizi, nuziali e funebri del popolo siciliano e soprattutto La vita in Palermo cento e più anni fa,.

L’importanza culturale di Giuseppe non è valutata quanto meriterebbe: basti pensare ispirò Luigi Capuana, che nel suo repertorio trovò materiale per le proprie fiabe, sia a Giovanni Verga, che di fatto, mise in forma narrativa, nelle sue novelle, come la Guerra dei Santi, alcuni suoi saggio. La grande cantante siciliana Rosa Balistreri inoltre musicò versi tradizionali presenti nei suoi studi per dar vita ad alcune canzoni popolari del suo repertorio.

Giuseppe fu tra i primi a porsi il problema di come organizzare un museo dedicato al folklore. Una prima occasione gli venne fornita dall’incarico, ricevuto dal Comune di Palermo, di allestire un padiglione sulla cultura popolare siciliana presso l’Esposizione industriale italiana che si tenne a Milano nel 1891. Dieci anni dopo, in occasione della Esposizione nazionale tenuta proprio a Palermo (1891-92), l’esperienza fu ripetuta in modo più ampio, con la realizzazione – in collaborazione con Salomone Marino – di una vera e propria Mostra etnografica siciliana. La mostra milanese fu allestita in modo affrettato, inviando per lo più oggetti di valore artistico. In quella di Palermo, invece, le esigenze di selezione e ordinamento su base etnografica e in relazione ai concreti contesti della vita popolare furono più strettamente seguite. In essa, come ha scritto Massimo Tozzi Fontana,

«per la prima volta materiali etnografici italiani venivano esposti con criteri sistematici, attraverso un’articolazione in sezioni dedicate ai molteplici aspetti della vita popolare: costumi, veicoli, illustrazioni di tecniche alimentari, pastorizia, agricoltura, caccia, spettacoli e feste, amuleti e ex-voto, giocattoli e balocchi fanciulleschi, libri e libretti letti dal “popolino”. Ogni oggetto esposto nella mostra era corredato dell’indicazione della relativa denominazione dialettale; il modello espositivo teneva conto della necessità di una comparazione tra i manufatti analoghi di diversa provenienza geografica»

Si tratta dunque di un serio modello di museografia scientifica, che resterà isolato almeno fino alla realizzazione da parte di Lamberto Loria, nel 1906, del Museo di etnografia italiana di Firenze. Alla fine dell’esposizione palermitana, Pitrè conservò gli oggetti proponendo al Comune l’istituzione di una raccolta permanente o museo: obiettivo raggiunto solo diciotto anni dopo, nel 1909, con l’apertura del Museo etnografico siciliano che proprio a Pitrè fu intestato.

La prima sede del museo, messa a disposizione dal Comune, grazie all’interessamento del giurista Empedocle Restivo, furono alcuni locali, quattro stanze e un corridoio, all’interno dell’edificio scolastico sito nel collegio dell’Assunta, in via Maqueda, dove, per l’angustia degli spazi, il percorso espositivo non poté essere organizzato secondo i più razionali principi della museografia come il Pitrè avrebbe voluto. Nel 1934 il professore di antropologia Giuseppe Cocchiara, illustre personalità, considerato il principale continuatore dell’opera del Pitrè, ricevette l’incarico di riordinare il Museo Etnografico. L’anno successivo, nel 1935, molti anni dopo la morte di Giuseppe Pitrè, avvenuta nel 1916, il museo fu trasferito nei corpi di fabbrica attigui alla Palazzina Cinese, che a suo tempo erano utilizzati come locali di servizio per la servitù dei reali Borboni e intitolato al suo fondatore.

Questa dèpandance, troviamo una costruzione dallo schema semplice ma mascherata da elementi decorativi, drappeggi, da farla apparire ricca e complessa, tutto ciò la fa assomigliare ad una tenda esotica di un accampamento militare, ai tempi dei Borboni comprendeva le cucine la scuderia, la stalla, i vari quartini per gli alloggiamenti della servitù, botteghe artigiane, il cortile detto della “strigliata” ed infine la Cappella.

Così Cocchiara commentò la decisione della scelta di tale sede museale

L’idea di sistemare il Museo Pitrè in queste dèpandance, sorse primo fra tutti il desiderio del mio maestro, poi la particolare ubicazione delle suddette in un parco immenso e suggestivo, qual ‘ è quello della Favorita. Un Museo Etnografico, che non è un Museo Archeologico o una Galleria d’Arte, deve vivere in ambienti speciali che sorgano, possibilmente, in aperta campagna, ove più splende la bellezza della natura, ove più immediato è il contatto con la vita delle piante. Un Museo Archeologico accoglie oggetti morti

Io ho avuto la fortuna di visitare il museo subito dopo la riapertura: ero il solo visitatore e mi ha fatto da guida il direttore del museo, che è stato capace di coniugare competenza, passione e una grande capacità di rendere semplici e comprensibili di argomenti di per sè complessi. Il museo si apre con la ricostruzione proprio delle studio di Pitrè. per poi passare a un’analisi a 360 gradi di tutta la vita della Sicilia che fu, dai mestieri, alla casa, dalle ceramiche agli abiti.

Spettacolari sono i vestiti tradizionali delle donne di Piana degli Albanesi. Si tratta di un costume che ha profonda origine nelle fogge bizantine, infatti questo costume ha una derivazione e una datazione precisa: appartiene al mondo albanese rifugiatosi in Italia in seguito alle oppressioni turche, alla fine del XV secolo, e conserva il suo carattere orientale nelle forme, nelle caratteristiche, nei significati e nei colori. Vi sono varie tipologie del costume di Piana degli Albanesi: l’abito nuziale è il più ricco, e rileva la ricchezza e lo sfarzo dei vari indumenti che lo compongono. Le ragazze e le donne di Piana degli Albanesi hanno conservato nei secoli l’arte del ricamo, e impiegano interi anni per ricamare la gonna o la camicia, quando esse non le ricevono in dote dalla madre che le ebbe dalla nonna. Il costume delle donne albanesi di Sicilia si compone, innanzitutto, dalla nzilona, una ricca veste rossa, verde o bianca, ricamata interamente in oro. Vien, poi, il Krashëtë, un bustino ricamato di seta quasi sempre scura, e le mëngëtë, cioè le maniche, anch’esse ricamate. Il brezi è una grande cintura d’argento che raffigura i santi patroni della chiesa bizantina di Piana degli Albanesi: SS. Odigitria, San Giorgio, San Demetrio Megalomartire, San Nicola o San Vito. Sono eloquenti esempi dell’inimitabile e fastosa arte tessile e orafa di Piana degli Albanesi, incentrata sulla tradizione del filo d’oro e dai gioielli del costume. Nel museo sono inoltre esposti esemplari di mandilina, che sono fra i copricapi specifici dell’abbigliamento.

Un cenno a parte meritano gli ex voto commissionati ai “pincisanti” (pittori di immagini sacre) per ringraziare la Madonna e i santi per la loro intercessione salvifica in caso di malattie o di altri mali di ogni genere. Particolare interesse offrono gli oggetti legati alla “stregoneria” che spesso generano sensazioni contrastanti per l’inquietudine che il soprannaturale sa creare: amuleti ed altri oggetti vari usati per fare sortilegi (fatture), testimonianze uniche di un passato che evoca mondi arcaici dove povertà e ignoranza favorivano le credenze superstiziose e scaramantiche che spesso sconfinavano nella “magaria”.

Di notevole interesse è la “sala delle carrozze” dove si possono ammirare due splendide carrozze appartenute al Senato palermitano, con la più grande riporta il blasone intagliato di casa Statella del Cassaro ed è riferibile al principe don Francesco, eletto Pretore di Palermo nel 1794 e l’altra che riporta lo stemma di casa Filangeri e venne utilizzata nel 1810 dal Pretore, principe di Cutò e la “sala Restivo” che ospita carretti siciliani.

Bellissima è la collezione di statuine di presepi, opera di uno straordinario scultore Giovanni Antonio Matera. Le scarse e confuse notizie biografiche narrano che, accusato di un delitto, trovò asilo nelle campagne di Monreale, nel feudo dei marchesi Di Gregorio, i quali per mille onze gli acquistarono sculture. Visse poi nel convento di Sant’Antonino, a Palermo e lì morì. I fratelli Diego, Rosario, e Giuseppe gli furono di aiuto, a bottega.

Realizzava statuine per il presepe, utilizzando legno, tela, cartapesta, gesso e colla, e per questo motivo era noto come “Mastru Giovanni Matera lu pasturaru”. Si formò a contatto con la tradizione barocca palermitana, ispirandosi in particolare ai modi di Giacomo Serpotta. In lui si nota un riferimento al caravaggismo, ma anche e all’arte pittorica barocca meridionale che tende a mescolare realtà e idealità.

In queste sculture di piccolo formato egli raggiunse alti livelli di plasticità e di vigore espressivo, accentuati da una coloritura a forti policromie e da contrasti chiaroscurali, mutuati dalla pittura barocca di ambito realistico. Egli eccelleva nella espressività, anche drammatica, dei volti. Giovanni Antonio Matera è stato il più dotato tra gli artigiani-scultori siciliani del suo tempo che modellavano statuine da presepe, su commissione dei nobili e degli Ordini religiosi.

I suoi pastori sono piccole sculture in tecnica mista. Sul corpo, appena sbozzato in legno di tiglio, egli incastrava la testa, gli arti e le calzature, scolpiti in legno separatamente. Vestiva poi i suoi pastori di tela e di lana, sovrapponendo e morbidamente drappeggiando le stoffe che poi impregnava con una mistura di gesso e di colla di coniglio, per renderle dure e consistenti. La tecnica di collanti a base animale, unita a nuove misture d’argilla, di stucco e di pastiglia, servì a realizzare la scenografia del presepe. Faceva largo uso anche di conchiglie e di corallo trapanese. Le composizioni di Matera si ispiravano, con larga libertà, ai testi sacri e risentivano della tradizione orale e della devozione popolare locale.

Il complesso museale dispone anche di un piccolo teatrino dei pupi di scuola palermitana, con personaggi legati al ciclo dell’epopea carolingia tuttora funzionante: “U pupu avi a caminari sulu” solevano ripetere i pupari, riferendosi al fatto che il pupo deve camminare da solo, deve essere cioè facile da manovrare, senza rischiare sbilanciamenti o pose poco naturali. Per questo motivo alla sua costruzione concorrono sette competenze: costruzione dell’ossatura, scultura e pittura della testa, pittura delle mani e delle gambe, costruzione delle armi, confezione dei vestiti e montaggio.

Giuseppe Pitrè ci dice che ancora a fine 800 queste competenze potevano essere riunite in un solo artigiano, che a volte era lo stesso puparo, proprietario, manovratore e voce del suo teatro. Anzi, il termine “puparo” comunemente usato oggi per indicare i marionettisti siciliani, in origine indicava proprio il costruttore di pupi. Più spesso, però, queste competenze erano divise fra diversi artigiani che ne possedevano più di una. Il puparo allora si avvaleva di questi specialisti, come Puddu Maglio, Emilio, Musmeci, Nino Insanguine, Pippo Napoli, Paolo Marino artigiani costruttori di pupi dell’area catanese che sopperivano ai bisogni degli “opranti” di tutta la Sicilia orientale.

Oltre alle spettacolari cucine, che colpirono, per la loro funzionalità e razionalità Leon Dufourny che nei suoi trattati la propose come modello per tutti i palazzi europei, merita una visita laa Cappella (situata a sinistra dell’ingresso principale delle dèpandance) palizzata intorno al 1803-1804, di perimetro quadrato all’esterno, mentre l’interno è a pianta circolare con fascia anulare, presenta otto colonne con nicchie e passetti. Tramite una galleria si entra al piano superiore dove la famiglia reale poteva assistere al rito religioso. Le otto colonne sostengono un architrave circolare che a sua volta sostiene la cupola a sesto depresso. Questa cappella è particolarmente indicativa perché innovativa nell’architettura siciliana poiché dimostra una sintesi dell’uso del linguaggio classico. L’esterno è molto semplice e bilanciato, rispecchia il perimetro quadrato formando così un cubo, forma geometrica pura, dove è evidenziato l’asse principale dato dalla porta e dalla finestra sovrastante. La cupola emerge sopra un anello gradonato, al centro s’innalza un pinnacolo formato da otto ombrellini in rame. Proprio l’acustica perfetta, ne sta permettendo l’uso come sala concerti.

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