La Tempesta di Giorgione

Per finire l’anno in bellezza, parlo di uno dei più discussi quadri non solo del catalogo di Giorgione, ma dell’intera Arte Occidentale, ossia la Tempesta, che può sembrare strano, per la sua incomprensibilità, sta anche sulle scatole a diversi storici e critici: cito ad esempio il buon Augusto Gentile, di solito pacato e misurato e non è facile ironia.

La Tempesta non è il capolavoro di Giorgione né il caposaldo della pittura veneziana del Cinquecento: un capolavoro definisce con chiarezza il suo soggetto e lo serve funzionalmente con proprietà e coerenza d’iconografia e di linguaggio, senza costringere lo spettatore a giochi d’indovinelli; un caposaldo genera una rete di relazioni e sviluppi, di esperimenti e superamenti, e non due o tre semianonime imitazioni. È particolarmente difficile anche la datazione, perché la discontinuità esecutiva fa saltare i parametri del giudizio “stilistico” (che dunque si rivelano approssimativi, congetturali, illusori). Non c’è narrazione o informazione, non ci sono indicazioni gestuali o suggerimenti espressivi, e nemmeno elementi simbolici repertorialmente riconoscibili: la Tempesta è il più reticente fra tutti i reticenti quadri di Giorgione.

Questo può significare che il soggetto è ancora più esclusivo del solito e che ancora ci manca la chiave, il codice, il contesto, la cultura; oppure che nell’originario processo da invenzione a esecuzione del dipinto, e magari nella sua storia materiale successiva, c’è qualcosa che non va; oppure che, dopo cent’anni e più d’indagini e proposte, gli elementi della ricostruzione possibile si sono irrimediabilmente mescolati e confusi; o forse un po’ di tutte queste cose

Premesso che non ne condivido il giudizio estetico, sulla questione dell’interpretazione, non posso che dargli ragione. La Tempesta, per chi non l’avesse presente è un dipinto a tempera a uovo e olio di noce (83×73 cm) di Giorgione, databile intorno al 1505, conservato nelle Gallerie dell’Accademia a Venezia.

L’opera è citata nel 1530 da Marcantonio Michiel, che parlò di un “paesetto in tela con la tempesta con la cingana e il soldato, fu de man de Zorzi de Castelfranco” nell’abitazione di Gabriele Vendramin, che probabilmente ne era stato il committente. Chi diavolo sono questi due ? Marcantonio, di cui ho parlato altre volte, che era un patrizio veneziano, oltre a essere un grande collezionista, possedeva quadri di Giorgione, a Jacopo de’ Barbari e Giovanni Bellini per la pittura e sculture del Riccio, il Bellano e Severo da Ravenna, si dedicò a un’attività per l’epoca innovativa: catalogò le opere presenti nelle collezioni d’arte più rilevanti di Padova, Milano, Pavia, Bergamo, Crema e Venezia. I suoi appunti, che probabilmente avrebbe voluto sviluppare in una storia dell’arte analoga a quella di Vasari, che tra l’altro ignorò la Tempesta, considerando Giorgione non un pittore di paesaggi, ma sommo ritrattista, scrivendo

Lavorò in Venezia nel suo principio molti quadri di Nostre Donne et altri ritratti di naturale, che sono e vivissimi e belli

furono raccolti ne Notizia d’opere di disegno, il cui manoscritto fu però ignorato per secoli, per essere pubblicati 1800. Gabriele Vendramin era esponente di una casata “nuova” che dové la propria fortuna ad Andrea Vendramin, vissuto nella seconda metà del XIV secolo. Di origine friulana, fece fortuna grazie al commercio di derrate alimentari e, entrato nel ceto cittadinesco, fu nominato guardian grande della Scuola Grande di San Giovanni Evangelista; in questa veste, fu protagonista del miracolo della Croce, caduta nel canale di San Lorenzo durante una processione nel 1370 e che si lasciò recuperare solo dal Vendramin (l’episodio fu immortalato in un celebre dipinto di Gentile Bellini per la stessa Scuola Grande).Il 4 settembre 1381, grazie al finanziamento di uomini e galee da impegnare nella guerra di Chioggia, il Vendramin e la sua famiglia entrarono nella nobiltà veneziana, assieme ad altre ventinove casate di estrazione popolare

Ora Gabriele ebbe una vita molto più normale del suo antenato: ricco sfondato, frequentò il circolo intellettuale di Caterina Corner, si interessò con Bembo alla “questione della lingua” e al neoplatonismo ed ebbe come hobby l’alchimia, l’astrologia e la filosofia naturale. Sappiamo poi come fosse particolarmente legato alla sua collezione di quadri, tanto che nel suo testamento citò esplicitamente “molte picture a ogio et a guazo in tavole et tele, tute de man de excelentissimi homeni, da pretio et da farne gran conto”. Si raccomandò quindi agli eredi di non alienare né smembrare per alcuna ragione la raccolta. Ricordiamo come tra il Settecento e l’Ottocento La tempesta ebbe un altro titolo, alquanto bizzarro, di la Famiglia di Giorgione, citato tra l’altro anche da Byron… Come possa venire in mente una cosa del genere, nel vederlo, è una cosa che non sono mai riuscito a spiegarmi. A titolo di pettegolezzo, all’epoca si pensava che Paris Bordon, il pittore di Treviso, nato nel 1500, fosse supposto figlio naturale del Giorgione, sulla scorta di un’interpretazione assai forzata di un passo di Vasari della sia vita di Tiziano

Ma quegli che più di tutti ha imitato Tiziano è stato Paris Bondone, il quale nato in Trevisi di padre trivisano e madre viniziana, fu condotto d’otto anni a Vinezia in casa alcuni suoi parenti. Dove, imparato che ebbe gramatica e fattosi eccellentissimo musico, andò a stare con Tiziano, ma non vi consumò molti anni, perciò che vedendo quell’uomo non essere molto vago d’insegnare a’ suoi giovani, anco pregato da loro sommamente et invitato con la pacienza a portarsi bene, si risolvé a partirsi, dolendosi infinitamente che di quei giorni fusse morto Giorgione, la cui maniera gli piaceva sommamente, ma molto più l’aver fama di bene e volentieri insegnare con amore quello che sapeva. Ma poi che altro fare non si poteva, si mise Paris in animo di volere per ogni modo seguitare la maniera di Giorgione. E così, datosi a lavorare et a contrafare dell’opere di colui, si fece tale, che venne in bonissimo credito, onde nella sua età di diciotto anni gli fu allogata una tavola da farsi per la chiesa di San Niccolò de’ frati minori; il che avendo inteso Tiziano, fece tanto con mezzi e con favori, che gliele tolse di mano, o per impedirgli che non potesse così tosto mostrare la sua virtù, o pure tirato dal disiderio di guadagnare

Dopo vari passaggi di proprietà, nel 1932 il Comune di Venezia lo acquisì dal principe Giovannelli. A partire dal XIX secolo l’opera è divenuta oggetto di innumerevoli tentativi di interpretazione, dispute tra gli studiosi e saggi critici. Ora il quadro è il primo olio su tela dedicato alla rappresentazione di un paesaggio: in precedenza il tema era stato affrontato in disegni, come quelli di Leonardo, o negli acquarelli di Durer. Non è nemmeno detto che il paesaggio sia realmente il soggetto del dipinto, poiché vi compaiono tre figure in primo piano, che probabilmente alludono ad un significato allegorico o filosofico che è il reale soggetto della tela e che non è ancora stato convincentemente spiegato dagli studiosi. Che cosa rappresentano queste figura ? In primo piano, sulla destra, una donna seminuda che allatta un bambino (la “cingana” o “zigagna” cioè la gitana o zingara), mentre a sinistra un uomo in piedi li guarda, appoggiato a un’asta (il “soldato”); tra le due figure sono rappresentate alcune rovine. I personaggi sono assorti, non c’è dialogo fra loro, sono divisi da un ruscelletto. Tra l’altro, la donna seminuda è la stessa modella che poserà per il successivo quadro di Giorgione intitolato Laura.

Sullo sfondo, invece, si nota un fiume che costeggia una città, recentemente identificata con Padova, passando sotto un ponte, che sta per essere investito da un temporale: un fulmine, infatti, balena da una delle dense nubi che occupano il cielo. Da un punto di vista stilistico, in quest’opera Giorgione rinunciò alla minuzia descrittiva dei primi dipinti (come la Prova di Mosè e il Giudizio di Salomone agli Uffizi), per arrivare a un impasto cromatico più ricco e sfumato, memore della prospettiva aerea leonardiana (verosimilmente mutuata dalle opere dei leonardeschi a Venezia), ma anche delle suggestioni nordiche, della scuola danubiana. La straordinaria tessitura luminosa è leggibile, ad esempio, nella paziente tessitura del fogliame degli alberi e del loro contrasto con lo sfondo scuro delle nubi

Il significato di questo quadro ? Come dicevo, si stanno scannando da un paio di secoli critici e storici dell’arte. L’interpretazione più antica, campata in aria, perchè legata al titolo immaginario di Famiglia di Giorgione, come se a Vendramin avesse avuto interesse per un quadro del genere, è quello di una metafora della Paternità, il soldato, e di come la nascita di un figlio cambia la vita dell’uomo, con la tempesta che rappresenta il tumulto di passioni, angosce speranze e illusione che travolgono, davanti a tale evento l’animo umano. Il primo a contestare tale interpretazione fu D’Annunzio, che, tra le tante cose fu anche un sensibile e colto amante dell’arte. Il Vate evidenziò come la totale mancanza di interazione ed empatia tra la figura dell’Uomo e la Donna con il Bambino, che non si scambiano neppure uno sguardo. L’Uomo, infatti è concentrato su se stesso e sui suoi pensieri, cosa che ha portato D’Annunzio, idea che è tornata più volte nella critica, che la figura della donna e del bambino non siano reali, ma una sorta di sogno e visione.

Nel 1895 Franz Wickhoff, storico dell’arte austriaco, fu il primo a cercare di dare un’interpretazione mitologica ed erudita del quadro, collegandola a un episodio della Tebaide di Stazio: l’uomo sarebbe Adrasto, re di Argo, alla guida di un esercito in marcia contro Tebe, mentre la donna sarebbe con Hypsipyle, figlia in esilio del re di Lemno, e sta allattando Ofelte, figlio del re di Nemea di cui ora schiava. Adrasto alla ricerca di acqua per i soldati assettati e trova nel bosco Hypsipyle, che lo conduce sino al fiume Langia. Hypsipyle, però, perde di vista il bambino, che muore morso da un serpente. I problemi di tale interpretazione sono molteplici: non c’entra nulla con la scena rappresentata, non abbiamo prove di un particolare interesse di Vendramin per il poema di Stazio e sembrerebbe strano il fatto che i protagonisti non siano rappresentati all’Antica.

Tra l’altro l’uomo sembrerebbe indossare gli abiti tipici dei membri della Compagnia della Calza, delle compagnie di giovani nobili veneziani che organizzarono la vita di spettacolo veneziana tra il XV e il XVI secolo. Come dice un memorialista nate:

«per rendere più pompose le feste, gli spettacoli o altre giullerie e divertimenti, a’quali la Città fu sempre inclinata»

Ogni anno, all’inizio di carnevale, ogni Compagnia organizzava una serie di spettacoli riservati alla nobiltà veneziana nei quali venivano impiegati (a spese della compagnia) celebri buffoni del tempo, ma anche dei veri e propri spettacoli teatrali con la presenza anche di famosi autori come il Ruzante e Pietro Aretino.

Fra gli spettacoli precipui di Venezia promosse dalle compagnie della calza vi erano le Momarie, sorta di processioni mascherate fatte lungo i canali dove venivano rappresentate le battaglie fra Vizi e Virtù, il trasporto di teatri galleggianti apparati lungo i principali canali, cene preparate sui ponti per gli ambasciatori e i sovrani in visita a Venezia.

Durante la festa della Sensa veniva poi allestita in piazza San Marco la Caza al toro (la caccia al toro), una specie di corrida con la partecipazione di buffoni e autori-attori della commedia alla villanesca, di cui erano autori fra gli altri Ruzante, Menato e Cherea. Secondo le fonti coeve Ruzante lavorò per la compagnie degli Immortali e gli Ortolani anche se spesso le sue commedie furono censurate a causa delle sconcezze contenute nei suoi testi

Ora i membri della Compagna della Calza appaiono in uno sproposito di quadri veneziani di fine Quattrocento: li ritrae Carpaccio, nel miracolo della Croce, che ricordiamolo, coinvolgeva il capostipite della famiglia Vendramin e lo stesso Giorgione in un suo affresco perduto del Fondaco dei Tedeschi. Dato che Gabriele la frequentava, non è da escludere che la figura dell’Uomo sia un suo ritratto idealizzato o quello di un suo conoscente. Tra l’altro uno storico anglosassone, Thomas Keydoor, ha ipotizzato come il dipinto sia una sorta di rappresentazione di una Momaria, con la Donna e con il Bambino che rappresentano la Carità e l’Uomo l’egoismo, ma difficilmente Vendramin avrebbe fatto dare un significato negativo al sodalizio di cui faceva parte.

Sempre in quest’ottica di morality play, per dirla all’inglese, Edgard Wind sostenne che la Tempesta sia un grande collage dove la figura maschile rappresenterebbe un soldato, simbolo di forza, mentre la figura femminile andrebbe letta come la Carità, dato che, nella tradizione romana, la carità era rappresentata da una donna che allatta. Forza e carità dovrebbero quindi convivere con i rovesci della natura (il fulmine). Il problema, come ha sottolineato più volte Gentili, che la figura dell’Uomo, tutto sembra rappresentare, tranne che un guerriero.

Altra opera classica a cui la Tempesta è associata sono le Metamorfosi di Ovidio: secondo Schrey, il tema del quadro sarebbe ispirato all’episodio di Deucalione e Pirra, i progenitori dell’umanità, scampati, secondo il mito greco, al Diluvio Universale. La scena raffigurerebbe il momento in cui le acque del diluvio si stanno ritirando. Battisti, invece, ritiene che rappresenti uno dei tanti amori di Giove, il Fulmine, con una Ninfa, con Mercurio, l’Uomo, costretto a tenere bordone. Problemi di questa interpretazione sono gli stessi della Tebaide.

Sempre nell’ottica dell’intepretazione letteraria, nel 1941, Luigi Stefanini collega la Tempesta al bestsellers dell’epoca, Hypnerotomachia Poliphili, di cui sappiamo il nome dell’autore, Francesco Colonna, su cui però ci stiamo scannando sull’effettiva identità: libro, ricordiamolo, stampato a Venezia da Aldo Manuzio il Vecchio nel dicembre 1499, che ispirato alle Metamorfosi di Apuleio, descrive un viaggio iniziatico che ha per tema centrale la ricerca della donna amata, metafora di una trasformazione interiore alla ricerca dell’amore platonico. Cinque i collegamenti principali messi in evidenza dallo Stefanini: il contrasto tra le rovine e la vita; le colonne spezzate che richiamano il cognome dell’autore del romanzo; il tempio di Venere, individuato nell’ edificio con cupola; l’Orto del destino del romanzo rappresentato nel dipinto dalla città e dal fiume; la Venere Genitrice del romanzo rappresentata dalla giovane che allatta. Il problema è che il romanzo è accompagnato da 169 illustrazioni xilografiche, che come stile e contenuti, fanno a botte con il dipinto di Giorgione.

Un’altra ipotesi “mitologica” ricollega la Tempesta al Ritrovamento di Paride: sappiamo da Michiel che Giorgione dipinse un quadro per i Contarini di questo soggetto e magari Vendramin, invidioso, abbia voluto avere una sua versione. Il problema è che questo quadro è andato perduto: abbiamo solo due riproduzioni, entrambe bruttarelle: l’incisione di Van Kassel per il Theatrum Pictorium di David Teniers e una copia parziale a Budapest. Cosa unirebbe i due quadri ? Il fatto che siano due paesaggi, con figure: in quelle che comparirebbero nel Ritrovamento di Paride, a sinistra vi sarebbe una figura simile all’Uomo della Tempesta, mentre a destra una figura femminile, pur non allattando, ricorda nella posizione quella dell’altro. Il problema è che mancando l’originale e ulteriori copie, non sappiamo quanto Teniers si sia attenuto all’originale o quanto abbia interpolato, facendo un mix tra il Ritrovamento e la Tempesta. Oppure, visto che Contarini apparteneva anche lui alla Compagnia della Calza, Giorgione si sia limitato a citare questa peculiarità per fare contento il committente.

Altro filone di interpretazione è quello religioso, ispirata dal fatto che Vendramin, per tradizione della sua famiglia, avesse una particolare venerazione per la Croce e un legame legame molto stretto con la chiesa di Santa Maria dei Servi a Cannaregio (luogo dove fu sepolto) e con l’omonimo ordine che l’officiava. La studiosa De Grummond il quadro rappresenterebbe uno degli episodi della vita leggendaria di San Teodoro, che ricordiamolo è il primo protettore di Venezia.

Secondo il racconto popolare, in cui si mescolano sacro e profano, in una grotta sotto Acerenthia (individuata in una delle grotte carsiche di cui la zona è ricca), viveva un drago con sette teste, che ogni anno pretendeva dalla città il sacrificio di sette fanciulle illibate. Quando arrivò il turno della figlia del principe, che doveva essere sacrificata al mostruoso tiranno insieme ad altre sei ragazze, si trovò a passare da Acerenthia Teodoro (secondo l’etimologia: dono di Dio), valoroso soldato della legione dei Mirmidoni di Amasea nel Ponto. Egli uccise il drago, tagliandogli le sette teste una ad una (che il suo cane prontamente portava fuori dalla grotta affinché il mostro non se le riattaccasse), liberando così la città da questa orribile tirannide. Per questo fu portato in trionfo dagli antichi abitatori di Acerenthia, che lo elessero patrono e protettore della città. In essa il culto durò per oltre un millennio, per poi trasferirsi nell’attuale Cerenzia. Insomma la versione cristiana della lotta di Ercole contro l’Idra di Lerna… Ora, premesso che l’Uomo tutto sembra tranne che un guerriero, ma nel quadro dove starebbe il drago ?

Analogo discorso si potrebbe fare per la prima interpretazione di Calvesi, Mosè salvato dalle acque del Nilo dalla figlia del faraone alle acque del Nilo e restituito alla nutrizione della madre ebrea, in cui manca la maggior parte dei protagonisti del dramma sacro e quella di Settis, trovando invece un precedente in un rilievo dell’Amadeo sulla facciata della Cappella Colleoni (Condanna divina e destino dei progenitori dopo il Peccato originale) ritenne che le figure si potessero interpretare come Adamo, con una vanga, ed Eva che sta allattando Caino, dopo la cacciata dal Paradiso; il fulmine equivarrebbe alla spada fiammeggiante dell’angelo e il bagliore che questo produce alla presenza inequivocabile dell’Eterno che, adirato, allontana i peccatori; suggestiva è poi l’interpretazione data delle colonne spezzate e delle rovine antiche, che indicherebbero la caducità dei beni terreni e la mortalità dell’uomo. La tempesta diverrebbe così una metafora della condizione umana dopo il peccato, alla luce della dottrina cristiana. Tesi ripresa recentemente da Sergio Alcamo nella tela un inedito quarto protagonista, un minuscolo angelo stante sul ponte in legno e mimetizzato tra la vegetazione retrostante, a ricordare la cacciata dall’Eden. Il problema è che immaginare Adamo vestito alla moda della Venezia dell’epoca, piuttosto che nudo è una bella forzatura…

Altro filone è quello mistico filosofico: Arnaldo Ferraguto, il primo a individuare nel paesaggio sullo sfondo una rappresentazione della città di Padova, il quadro rappresenterebbe una sintesi degli studi filosofici neoaristotelici che andavano per la maggiore nella sua università in quegli anni. Il problema è che il committente era molto più vicino alla filosofia neoplatonica. Hartlaub nel 1925 vide nel dipinto l’allegoria di un’iniziazione alchemica forse destinata ad una setta segreta veneziana. Su questo solco si è mosso anche Maurizio Calvesi che vi ha letto l’allegoria dell’unione di cielo e terra, ispirata al filososfo neoplatonico Leone Ebreo. Anche se suggestiva, lo dico da appassionato di alchimia, mancano però molti degli elementi simbolici che spingerebbero a tale interpretazione.

Infine, partendo dalla rappresentazione di Padova sullo sfondo, c’è anche un filone storico: per alcuni studiosi, rappresenterebbe la fondazione di Padova da parte di Antenore, mentre Ugo Soragni, direttore regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici del Veneto, vede nel quadro un’allegoria della conquista di Padova da parte della Serenissima, avvenuta all’inizio del 1400. Enrico Guidoni e Antonio Boscardin, nel paesaggio si riconoscono elementi dell’architettura padovana dell’epoca, in particolare “uno spaccato di Padova preso da una posizione a nord dell’antica porta Codalunga” oppure “il fianco occidentale delle antiche mura carraresi, dove scorre il Meoacus, tra il castello di Ezzelino all’estrema destra del quadro e la zona esterna a Ponte Molino sullo sfondo” (Boscardin). Le prove a sostegno di questa tesi sarebbero la presenza dello stemma dei Carraresi, signori di Padova (il Carro con quattro ruote rosse inframmezzate da una stanga) sul muro della prima porta a destra; l’identificazione del ponte con il ponte di San Tomaso; la raffigurazione della Chiesa dei Carmini; la torre isolata che potrebbe essere la torre di Ezzelino. Per quanto riguarda le figure umane, la donna simboleggerebbe la città di Padova spogliata di tutto e costretta ad allattare (a mantenere) la Serenissima (Padova raffigurata “adulta” perché fondata nel 1200 a.C., Venezia infante perché di origine molto più recente); mentre il soldato sarebbe uno Stradioto, soldato di ventura di origine albanese, utilizzato come mercenario dalla Repubblica di Venezia

Sinceramente, io non mi azzardo a formulare ipotesi di nessuna sorta: però una riflessione, da ignorante, permettemela. Dalle radiografie, sappiamo che questo benedetto quadro ha avuto una genesi straordinariamente complicato, segno del fatto che sia Giorgione, sia Vendramin abbia cambiato più volte idea, sul tema e sull’aspetto del quadro.

La Tempesta è stata sottoposta a numerose radiografie sin dal 1939: da questa emerge il fatto che Giorgione abbia realizzato almeno tre versioni di questo quadro. La prima prevedeva, al posto dell’Uomo, una donna nuda seduta sulla riva del fiume, le gambe immerse nell’acqua fino al ginocchio. Nella seconda versione, questa fu sostituita dall’Uomo e Giorgione introdusse una serie di varianti minime rispetto alla nostra, la definitiva: al di sopra delle due colonne spezzate, era dipinta una grande torre con accanto un albero non finito, a parte superiore del seno della donna era ricoperta da una camicia, nell’edificio a destra il ballatoio proseguiva lungo un lato, i calzoni dell’uomo si allungavano sino al ginocchio e sullo sfondo, vi era un uomo con una lunga veste he cammina a sul ponte, con nella mano sinistra bastone, mentre sulla spalla destra era poggiata una pertica con un carico, in una sorta di citazione dei quadri di Bosch.

Il fatto che queste figure siano state cambiate senza troppi problemi, fa sospettare come, nell’economia simbolica e formale del quadro, avessero in fondo un ruolo secondario, cosa che sembrerebbe evidenziato anche nella descrizione di Michiel, che da maggiore importanza al paesaggio e alla tempesta che hai personaggi…

Per cui, la Tempesta doveva essere legata a un’esperienza, probabilmente drammatica, vissuta da Vendramin a Padova… Quale sia stata, non abbiamo però elementi per ipotizzarlo…

I Manuali artistici longobardi

Le competenze tecniche delle botteghe pittoriche tardo antiche, di cui abbiamo testimonianza nei manuali come quelli contenuti nel Papiro di Leida e in quello di Stoccolma, non andarono perdute, come afferma una certa retorica, di origine ottocentesca, sulle invasioni barbariche, ma si adattarono a un diverso contesto, figlio di nuovi contenuti e di nuove specifiche esigenze della committenza.

A riprova di questa continuità, vi sono tre manoscritti, risalenti a un periodo e a un’area geografica, che a torto viene considerata come l’epitome della barbarie: l’Italia longobarda. Pregiudizio che è durato per decenni, a causa degli studiosi tedeschi e francesi, che per nazionalismo, consideravano la rinascita carolingia caduta dal cielo, senza padre né madre, come Melchidesec, capace di saltare fuori all’improvviso come uan cesura che reimposta il dialogo con l’Antichità, gettando le basi per l’intensa stagione ottoniano-salica e per la fioritura romanica. In realtà, la politica artistica e culturale di Carlo Magno è diretta conseguenza ed evoluzione delle corti della Langobardia Maior e Minor, quest’ultima composta dai ducati di Spoleto e Benevento, che ebbero un ruolo chiave nella trasmissione della cultura della tarda Antichità all’Occidente medievale.

Ruolo che non fu quello di una meccanica imitazione, ma di una rielaborazione creativa, frutto del dialogo serrato tra l’esperienza dell’arte germanica e delle steppe, il polo di neoclassicismo cristiano che era Bisanzio e quel complesso laboratorio di sperimentazione che era la Roma altomedievale un microcosmo in grado di mediare i processi politici della Penisola e perciò incidere sulle strategie di rappresentazione del potere, anche grazie ad un serbatoio inesauribile di modelli.

Ad esempio, l’idea di allestire sontuosi palazzi con spazi di rappresentanza e cappelle a due livelli, come ad Aquisgrana, è frutto della conoscenza che Carlo Magno aveva sia di Ravenna, sia di Pavia, il cuo palazzo reale longobardo, distrutto nel 1024, stiamo riuscendo a ricostruire a spizzichi e bocconi grazie all’archeologia. A testimonianza della capacità di creazione e di rielaborazione del linguaggio artistico tardo antico da parte dei Longobardi, abbiamo uno sproposito di edifici, alcuni notissimi, San Salvatore a Brescia, il Tempietto di Cividale, il monastero di Torba, Santa Maria foris portas a Castelseprio, San Vincenzo al Volturno (anche se sulla questione sarebbe cosa giusta che qualcuno, invece di sparare giudizi a destra e manca sui gruppi FB dell’Esquilino, spesso su temi di cui non sa nulla, si impegnasse di più a risolvere il casini che ha provocato nella gestione del parco archeologico…), Tempietto del Clitunno e Santa Sofia a Benevento, altri come le tante chiese dell’Irpinia, assai meno conosciuti e studiati.

Tornando ai nostri manoscritti, la cui esistenza implica ovviamente quella di potenziali utilizzatori, il più antico consiste nella prima e seconda sezione dell’Eraclio, scritte in versi, esametri latini nel VIII secolo, il cui titolo originale era De coloribus et artibus romanorum. Già il titolo fa riferimento alle tecniche dei Rhomanoi, non quelli dell’antichità, ma i contemporanei dell’Impero di Bisanzio. L’autore infatti, deve averle apprese, se non a Costantinopoli, almeno a Roma o nei possessi bizantini della Campania; tra l’altro, nell’introduzione, consiglia al lettore di non diffonderle, non per motivi mistici od esoterici, ma semplicemente per garantire la superiorità della sua bottegra rispetto alla concorrenza, il che implicherebbe, come dire, un mercato artistico alquanto turbolento e conflittuale.

Dato che nel testo non ci sono particolari riferimenti religiosi, è probabile che l’autore non fosse un chierico, ma un laico, pittore e miniatore, che lavorava sia per le corti ducali longobarde, sia per i ricchi monasteri e scriptoria vescovili: il fatto che fosse scritto in versi, oltre a dimostrare la profonda cultura dell’autore, scrivere in esametri virgiliani non era da tutti, ci da due interessanti indicazioni sia sulla zona di stesura, sia sul suo utilizzo. Abbiamo infatti un termine di paragone, il Carmen medicinalis, un poemetto didascalico di epoca alto medievale sulla farmacologia scritto da Benedetto Crispo, un chierico milanese vissuto agli inizi dell’VIII secolo, che frequentava la corte di Pavia, in esametri latini. Nel proemio del Carme l’autore si rivolge al discepolo Mauro, incitandolo all’amore per lo studio e spingendolo a fare la riprova dei precetti riportati prima di proseguire negli studi. Contiene 26 ricette in 214 versi ed è caratterizzato da un elevato livello linguistico, senza barbarismi, con cura formale nella metrica e nella prosodia. Vi si cita Plinio il Vecchio.

Le somiglianze formali con il Carmen e il fatto che l’autore dell’Eraclio citi anche lui Plinio il Vecchio in due aneddoti ( il primo racconta come, dove e quando fu scoperto il vetro in Medio Oriente; il secondo racconta di uno sfortunato inventore del vetro infrangibile, che venne fatto decapitare da Tiberio perché non divulgasse il suo segreto che averebbe fatto crollare il prezzo di oro e argento per la scoperta di una nuova materia ben più utile e preziosa) ci da un’idea precisa del suo ambiente culturale: le scholae e le botteghe presenti nella capitale longobarda. In più è probabile che l’Eraclio sia stato scritto allo stesso scopo: facilitare la formazione degli apprendisti, dato che la ritmica semplificava l’apprendimento e la memorizzazione delle ricette tecniche. A questo punto, possiamo ipotizzare come le botteghe artistiche longobarde fossero articolate su due livelli: l’artifex, il capo bottega e i suoi stretti collaboratori, colti, che sapevano leggere e scrivere e conoscevano i classici e una bassa manovalanza artigianale, che era in possesso di specifiche competenze tecniche.

A riprova di questo, nel si notano alcuni termini medievali che non appartengono al latino classico. Tra questi c’è husa (I 8,3) usato per indicare una specie di storione: si tratta di un germanismo e il fatto che sia chiarito tramite una parafrasi (piscem qui dicitur husa) lascia intendere che il destinatario dell’opera poteva anche non essere di origine longobarda. Per cui, gli artifex potevano anche provenire da Roma o dai territori bizantini bilingue del Sud Italia, Gaeta, Napoli, Amalfi, più che Rhegion o la Sicilia, a maggioranza grecofoni. Cosa che ci da un’interessante indicazione sulla circolazione di artisti e idee in quel periodo.

Parlando dei contenuti, i colori descritti per la produzione di miniature (rosso dall’edera, verde artificiale e vegetale, giallo orpimento e scrittura d’oro) sono quelli tipici dell’VIII secolo in Italia. Queste ricette tecniche sono molto preziose per capire come gli antichi artefici arrivassero alle opere d’arte, come creassero e applicassero i colori e come ottenessero particolari effetti. Tra l’altro, l’Eraclio, a causa del suo successo, ebbe una vita editoriale alquanto travagliata: nel XII secolo, un copista, in Francia o in Inghilterra, tolse letteralmente l’epilogo in versi e lo sostituì con un trattato in prosa, relativa alla lavorazione dell’avorio, che all’epoca, grazie alle zanne di tricheco provenienti dalla Groenlandia, stava avendo un grosso boom… Purtroppo, quella che ci giunta solo questa revisione.

Lievemente differenti solo il Manoscritto di Lucca e il Mappae clavicula, entrambi scritti nell’VIII secolo, una ventina d’anno dopo l’Eraclio, nella città toscana, che ricordiamolo, era la capitale del Ducato longobardo di Tuscia, sede di una zecca e di almeno due scuole artistiche di architettura e di scultura.

Il Codex Lucensis 490 è in realtà una sorta di antologia di testi tra loro differenti, in cui è presente la raccolta Compositiones ad tingenda musiva, pelles et alia, ad deaurandum ferrum, ad mineralia, ad chrysographiam, ad glutina quaedam conficienda, aliaque artium documenta, ante annos nongentos scripta, titolo inventato dal buon Muratori, che come suo solito, ci ha infilato di tutto e di più. Le Compositiones, diciamola tutta, non era un testo di studio, ma un prontuario, del tipo che fare se, probabilmente conservato, come il papiro di Leida, in una qualche biblioteca.

È scritto in latino barbarico ricco di grecismi (chiara traccia del collegamento con gli analoghi ricettari di epoca ellenistica). Nel ricettario sopra indicato si trovano procedimenti per la preparazione di pigmenti, di inchiostri dorati e d’argento, per colorare pietre artificiali e vetri da mosaico, per tingere pelli e tessuti, per fare dorature e per la lavorazione di metalli e leghe.

Molto più empirico, era il Mappae clavicula, una sorta di brogliaccio di bottega, che conteneva tutte le informazioni che l’artifex riteneva utili per la realizzazione di un quadro: già, il nome che sembra cosi tanto esoterico, in realtà è alquanto terra terra. Indicava infatti la il baule, chiuso a chiave, perchè i concorrenti sono sempre pronti a rubarsi i segreti professionali, in cui si custodivano le mappae, le strisce di garza sottile che i pittori usavano per conservare i colori, che veniva usato ammorbidendolo con pennelli bagnati, le antenate dei nostri tubetti, per capirci e gli appunti che servivano a spiegare come utilizzarli al meglio e riprodurli, nel caso fossero terminati.

Nel ricettario sono comprese circa 300 ricette, senza un preciso ordine logico, con talvolta contraddizioni e ripetizioni, dato che per le esigenze pratiche, serviva più la quantità di informazioni, della serie può fare sempre comodo, non si sa mai, che l’effettiva precisione. Vi si trovano varie operazioni chimiche e talvolta con suggestioni più alchemiche, che riguardano la preparazione di coloranti, inchiostri per la miniatura, lacche e pigmenti vari, oltre al nucleo consistente sulla lavorazione dei metalli e altri scopi vari, come l’avvelenamento delle frecce. Il che non per nulla strano, tenete conto che Lucca era anche una delle manifatture longobarde d’armi e le botteghe d’arte, si dedicavano probabilmente anche a questa attività.

Tipicamente medievale è l’abitudine di arricchire di dettagli superflui un processo semplice, nella convinzione che la maggiore complessità corrispondesse un risultato migliore. Così si trovano ingredienti come l’urina (una delle rare fonti di ammoniaca) che talvolta dev’essere maschile altre femminile, altre prelevata da soggetti con i capelli rossi e così via; analogamente alcuni ingredienti devono essere recuperati durante la canicola, altri da animali sottoposti a un’alimentazione purificativa.

Probabilmente, questo buttarla in caciara era legato anche al tentativo di confondere le idee ai concorrenti che in qualche modo, si fossero impadroniti dei segreti della bottega: per evitare questo, nel testo erano presenti anche una serie di trucchetti crittografici, con la sostituzione di alcune parole con i relativi termini tecnici arabi, lingua che non era certo diffusa nella Lucca dell’epoca, oppure in alcune ricette i termini erano addirittura traslitterati secondo il Cifrario di Cesare.

I resti della Cappella di Santa Maura

Pochi lo sanno, ma per le strane vicende della topografia romana, Torre Maura prende il nome da l’ononima cappella, che sembra strano, è visibile da via di Torre Spaccata, mentre la parte interna, che ricade in un giardino privato, può essere osservata da un piccolo slargo sito in corrispondenza del civico 242.

Paradossalmente, questa chiesa ha poco a che vedere con le vicende, assai leggendarie relative alla santa della presunta dedica: le info che abbiamo su Maura e la sua compagna Fosca, infatti risalgono al tardo Medioevo e sono descritte in maniera assai differenti, a seconda dei codici che la trascrivono. Tra le varie versioni si segnala per ampiezza quella contenuta nel Codex Carthusiae Coloniensis.

Secondo la tradizione, Fosca e la sua nutrice Maura sarebbero vissute a Sabrata, una città della Libia, nel III secolo. Fosca, figlia di genitori pagani, sentì parlare della religione cristiana all’età di quindici anni. Rivelò il desiderio di conoscere meglio i misteri di tale religione dapprima alla nutrice e poi alla madre. Senza dire nulla al padre, le tre donne si recarono in segreto da un sacerdote cristiano, Ermolao, che istruì e battezzò le due giovinette. Venuto a conoscenza del battesimo, il padre Siroo, decise di punire la figlia: la rinchiuse in una stanza per tre giorni senza darle cibo. Tentò più volte di convincerla ad abiurare il Cristianesimo, ma Fosca rimase ferma nella sua decisione.

Giunto in città il nuovo proconsole Quinziano, il padre gli consegnò Fosca e Maura. I soldati inviati a trarle in arresto le trovarono in casa in compagnia di un angelo, cosicché non osarono condurle con sé. In seguito le due donne si consegnarono spontaneamente alle autorità. Poiché entrambe si rifiutavano di abiurare il Cristianesimo, furono prima torturate ed infine uccise con un colpo di spada nel fianco, un 13 febbraio. Quando la Libia fu conquistata dai musulmani, le loro spoglie furono portate a Torcello, un’isola della laguna veneta, da un marinaio di nome Vitale. Le spoglie di Santa Maura sono attualmente raccolte nel transetto di destra della chiesa di Santa Maria di Lourdes in Milano.

Dato che le vicende, dalla datazione che che riportano alcuni codici, coincidono con il periodo di validità dell’editto di tolleranza di Gallieno, in cui l’impero aveva tutt’altri problemi che rompere l’anima alle minoranze religiose, possiamo dire che si tratta di bieca propaganda. Secondo un calendario liturgico veneziano del secolo XI (Kalendarium venetum), il 3 novembre viene ricordato il miracoloso ritrovamento delle reliquie di santa Fosca da parte del marinaio Vitale, che poi le avrebbe portate a Torcello.

Sulla base delle cronache storiche possiamo affermare che il suo culto si diffuse a partire dal XII secolo. In quell’epoca la Repubblica di Venezia si stava affermando nello scenario mediterraneo. La sua politica di potenza passava anche per l’acquisizione di prestigio religioso. Quest’ultimo veniva conseguito anche mediante l’acquisizione delle reliquie del maggior numero possibile di martiri. Di certo, comunque, il più antico libro degli anniversari della basilica di Aquileia, codice scritto a partire dalla fine del XIII secolo, riporta, sotto la data del 13 febbraio e con la mano del primo copista (che termina le sue registrazioni nel 1308), la seguente frase: Fusce virg. et mart. passio.

In questo clima di “corsa alle reliquie” si colloca anche l’arrivo in Laguna dei corpi delle sante Fosca e Maura. Vitale in qualche modo rimediò delle ossa proveniente da qualche antica basilica cristiana e per guadagnare di prestigio alla cattedrale di Santa Maria Assunta, che stava perdendo all’epoca di importanza, per la decadenza dell’isola, costruirono a tavolino la storia delle presunte martiri. Siccome queste provenivano dal Nord Africa è abbastanza evidente perché le due donne fossero state chiamate Fosca (cioè “scura”) e Maura (cioè “originaria della Mauritania”), per sottolinearne il luogo d’origine.

Ora, la chiesa di Roma è del periodo paleocristiano, per cui molto precedente alla costruzione di questa tradizione: la chiesa si trova in quello che nel IV secolo d.C. era il grande latifondo imperiale labicano anche detto Subaugusta, che si estendeva dalla chiesa di S. Croce in Gerusalemme (Sessorianum), fino a Centocelle, che divenne di proprietà del Capitolo Lateranense. Nel catalogo dei beni del patrimonio di San Pietro, risalente all’XI secolo, nel dettagliare quella tenuta, chiamato Massa Varvariana, si cita il Fundus Mauricius, il fondo di Maurizio, dal nome dell’amministratore, più che del proprietario.

Per cui, a un certo punto, la cappella fu chiamata ecclesia mauritii, chiesa del fondo di Maurizio, che divenne con il tempo ecclesia Maurii ossia chiesa di Mauro; intorno al 1400, l’area fu affittata come investimento da mercanti di Torcello, che equivocando sul nome, fu reso femminile. Ora l’archeologia sembra indicare, per la tipologia di laterizi e la loro disposizione, come data di costruzione il IV o V secolo d.C. Sappiamo dall’Armellini, nel suo libro sulle chiese di Roma che papa Gelasio I, come si legge nella sua biografia nel Libro pontificale, nel luogo detto Villa Pertusa, che coincide con l’area del Fundus Mauricius dedicò una chiesa ai santi Nicandro ed Eleuterio, che sappiamo da un’altra fonte dell’epoca essere connessa a una piccola catacomba.

Per cui, probabilmente la nostra San Maura era in origine la chiesa dei santi Nicandro ed Eleuterio; attribuzione confermata dal fatto che, a inizio anno Ottanta, vi fu una grossa polemica relativa a una piccola area catacombale distrutta dalla speculazione edilizia, che si trovava nella nostra via di Torre Spaccata.

Dei resti, che consistono in un’abside orientata a sud-est compresa tra due brevi tratti di muri con tracce di intonaco, si è potuta ricostruire la pianta, di tipo basilicale a tre navate, larga 17,6 metri e lunga 14,8 metri circa, divise da archi impostati su pilastri. Nella copertura della volta sono inserite alcune anfore che, secondo l’uso già notato in altri monumenti, avevano lo scopo di alleggerire la massa del conglomerato cementizio.

Jebel al-Mutawwaq

Ci troviamo lungo lo Zarqa, il biblico Iabbok, scenario della lotta di Giacobbe con l’angelo del Signore, che lo azzoppò in un furioso combattimento mentre attraversava questo fiume. Qui, al confine fra la regione di Zarqa e quella di Jerash, dove il paesaggio fonde i dolci pendii ricoperti di ulivi con le aride distese orientali del deserto, fra il 3500 e il 3300 a.C. alcune comunità si stabilirono sulla cime di un monte, che gli arabi chiamano Jebel al-Mutawwaq, ‘la montagna circondata’ o ‘la montagna circolare’.

In effetti, guardando l’alto colle su cui si estendono le ampie rovine di pietra di questo insediamento della prima età del Bronzo, si notano subito la sua forma circolare e, insieme, i corsi d’acqua e le sorgenti che lo circondano. La possibilità di approvvigionamento idrico e il contatto fra due ecozone caratterizzate dal passaggio stagionale delle greggi favorì, nella seconda metà del IV millennio a.C., la nascita di un insediamento lungo il limite meridionale della montagna, esteso per oltre diciotto ettari e dove per due secoli si calcola che abbiano vissuto circa milleduecento abitanti.

E’ l’incipit di un articolo di Archeologia Viva, che racconta gli scavi dell’Università di Perugia a Jebel al-Mutawwaq, in Giordania, nome che difficilmente dirà qualcosa a qualcuno, ma che ci sta dando delle informazioni importantissime sull’evoluzione, nell’età del Bronzo, tra il modello abitativo cantonale, basato su villaggi distribuiti, spesso a frequentazione stagionale e siti di aggregazione periodica, dedicati alle cerimonie religiose e ai commerci, e quello urbano, incentrato sull’occupazione stabile delle città e la costruzione delle relative infrastrutture.

Questo sito archeologico, che tra l’altro è poco tutelato dal governo locale, sotto la continua minaccia della distruzione provocata dall’agricoltura e dalle cave di pietra, insomma, nulla di nuovo sotto il sole, è stato esaminato per la prima volta in modo completo per primo da Airling Robin Hanbury-Tenison nel 1987, nome che a noi italiani dice pochissimo, ma che è uno dei più famosi esploratori e ambientalisti della Gran Bretagna, autore di uno sproposito di libri. Nella sua vita ha viaggiato in ogni angolo del mondo, ha attraversato foreste pluviali e deserti, la sua passione. Ha vissuto tra le tribù indigene per le quali ha fondato in loro difesa la Survival International, un movimento mondiale per i diritti dei popoli indigeni.

Capitato per caso in Giordania, scoprì sia villaggio di 13 ettari delimitato da una rudimentale cinta muraria, sia il complesso monumentale costituito da un migliaio di dolmen. Hanbury-Tenison esegui alcuni sondaggi, definendo una cronologia di massima del sito: il periodo di massima espansione del viaggio coincide con la prima età del bronzo I (ca. 3500-2900 a.C.), mentre la sua vita è continuata nelle età del bronzo medio e tardo, nell’età del ferro e nell’epoca islamica. Il luogo cadde provvisoriamente nel dimenticatoio, finchè un articolo di Hanbury-Tenison cadde sotto gli occhi del grande archeologo spagnolo Juan Antonio Fernández-Tresguerres Velasco, morto il 30 maggio 2011, a poche settimane dalla pensione, pensate che iella, il quale, incuriosito, convinse l’università di Oviedo, dove insegnava archeologia preostorica, a finanziare una campagna di scavi, che si concentrarono sul villaggio e che dimostrarono la coesistenza nella fase EBI con la necropoli megalitica. Tuttavia è evidente dalla grande estensione della necropoli megalitica che i dolmen dovettero essere utilizzare da una popolazione ben più estesa di quella degli abitanti di Jebel al-Mutawwaq, svolgendo quindi il ruolo di polo sacro e funerario per l’intero comprensorio. Che sia stato questo il motore dello sviluppo del villaggio o viceversa, è ancora oggetto di discussione da parte degli studiosi.

Alla morte di Juan Antonio Fernández-Tresguerres Velasco, gli scavi sono ripresi grazie a una missione congiunta italo-spagnola, sotto la direzione del Prof. Andrea Polcaro del Dipartimento di Lettere dell’Università degli Studi di Perugia e del Dott. Juan Muniz della Facultad San Esteban di Salamanca.

Il villaggio della prima età del bronzo comprendeva circa 300 case, la maggior parte a pianta rettangolare, con una sorta di abside nei lati brevi, di dimensioni medie pari a 14 metri per 4. Una minoranza delle case, circa un 15%, avevano invece una pianta circolare, con un raggio medio di 4 metri. Entrambe le tipologie erano costituite da muri a secco, con i blocchi di pietra che diminuivano di dimensioni in funzione dell’altezza, erano dotate di focolare e suddivise in due stanze da un muro interno. In un rari casi, meno del 10% , le case erano dotate di due focolari e di un vano esterno collegato o un recinto aperto che fungeva da magazzino o da pollaio. Alcune delle case non erano state completamente svuotate al termine del loro utilizzo, come se gli abitanti del villaggio, nella fase finale della sua vita, fossero dovuti scappare in fretta e furia, per cause finora sconosciute.

I materiali ritrovati all’interno delle case sono per lo più raschietti e lame di selce utilizzate per la lavorazione delle pelli degli animali, ma anche strumenti come falcetti di pietra, pestelli di basalto e macine, che suggeriscono un’economia mista agricolo-pastorale. La ceramica recuperata, in particolare dal settore centrale del villagio, è uniforme: fatta a mano, a bassa cottura, di pasta rosa o arancio, con ingobbiatura rossa o bianca della superficie, e per lo più databile alla prima parte dell’EB I .

L’angolo sud-est del muro dell’insediamento è stato scavato nella campagna del 2013 (Area A). Il muro è stato realizzato livellando dapprima il pendio naturale del substrato roccioso con strati di sassolini e ciottoli. Sono state quindi posate grosse pietre piatte senza alcuna struttura in mattoni di fango sovrapposta. L’altezza delle mura non raggiungeva più di 1,50 metri, senza tracce di torri o manufatti difensivi. La cinta muraria in questa zona non aveva probabilmente una funzione difensiva, ma un significato ideologico, dividendo lo spazio dei vivi da quello dei morti; a questo poteva anche associarsi la funzione di tenere all’interno del villaggio le pecore e gli armenti

La topografia del sito suggerisce che le case fossero disposte in diversi quartieri, lasciando spazio in alcune aree a strutture complesse più grandi, corrispondenti ai tre principali promontori visibili lungo la rupe meridionale della montagna che domina la valle del Wadi az-Zarqa. Negli anni ’90 gli scavi hanno portato alla luce una grande casa sul promontorio principale nel Settore Centrale del paese, poi identificata come il santuario principale di un complesso sacro, il cosiddetto Tempio dei Serpenti, per la presenza di grandi giare con una decorazione a serpenti sul corpo e sul collo. Questo santuario era costituito da costituito da un recinto in pietra, un edificio principale allungato a pianta rettangolare, e altri quattro piccoli ambienti ad esso collegati, forse utilizzati anche per attività produttive e deposito. Al suo interno, oltre alle giare, con destinazione cultuale, sono stati ritrovati strumenti litici molto elaborati, probabilmente usati per sacrifici

Nel 2014 gli scavi hanno indagato una grande struttura circolare visibile sulla superficie del promontorio del Settore Orientale del paese, denominata “Circolo Grande” (Area C Est). Si tratta di una sorta di piazza ampia 1500 mq, circondato da un enorme muro, largo due metri, All’interno del Circolo Grande sono state individuate due piccole strutture circolari La ceramica di questa struttura risale all’EB I, contemporanea all’insediamento, anche se un singolo frammento potrebbe suggerire un ulteriore utilizzo della struttura fino all’inizio dell’EB II (prima metà del III millennio aC). Il grande complesso sembra essere legato ad attività economiche che interessano l’intero borgo, forse legate alla zootecnia o alla lavorazione degli alimenti.

La necropoli megalitica di Jebel al-Mutawwaq, costituita da dolmen, che erroneamente tendiamo ad associare solo al nord Europa, è tra le più estese della Giordania: ricordiamo come non si tratti di un unicum, dato che necropoli simili sono presenti in altri siti come Damiye, al-Murayghat, Tell el-Umeyri o a Wadi Jedideh, tutti databili all prima età del bronzo

Le tipologie di dolmen di Jebel al-Mutawwaq sono per lo più i tipi semplici A e B (nella classificazione Kafafi-Schelthema 2005), con due o quattro lastre di calcare laterali, una lastra del pavimento, una lastra posteriore e una grande pietra di copertura che copre tutta la camera sepolcrale , e alcuni dolmen di tipo D con due camere sepolcrali megalitiche. Tutti i dolmen sono circondati da una piattaforma in pietra, che dalle ultime campagne di scavo della missione italo-spagnola, poteva essere chiaramente interpretata come un muro di contenimento di un tumulo di sassi e ciottoli che originariamente ricopriva tutto il dolmen fino alla cuspide superiore. Una caratteristica scoperta dagli ultimi scavi tipica di alcuni dolmen è la presenza di un corridoio in pietra a gradoni che conduce alla camera sepolcrale megalitica,.

L’uso dei dolmen di Jebel al Mutawwaq come tombe è stato dimostrato dalle numerose ossa frammentarie scoperte insieme a frammenti di EBI in molti dolmen del sito, per lo più svuotati e sigillati con diversi strati di pietre al termine del loro utilizzo.Nel 2012-2013 sono stati indagati sei dolmen nell’area sud-orientale della necropoli megalitica (Area B), collegata con il settore orientale dell’insediamento da una strada. L’architettura delle tombe in quest’area è omogenea: un’unica camera sepolcrale costruita direttamente sopra il substrato roccioso con due grandi lastre di pietra verticali, una pesante pietra di copertura utilizzata come copertura, una lastra verticale posteriore e una lastra di pietra del pavimento. Un muro in pietra circolare o absidato, costruito con pietre, circonda l’intera struttura. Lo spazio tra il muro e le lastre laterali e posteriori è stato riempito con strati di terra e piccole pietre. Questi strati compongono un tumulo che originariamente ricopriva l’intera camera sepolcrale.

I dolmen avevano un ingresso simile a un sentiero orientato verso nord, con uno stretto corridoio a gradini con tre gradini di pietre piatte che seguivano il pendio del substrato roccioso. Nei dolmen scavati le camere funerarie sono state completamente svuotate e sigillate con strati di piccole pietre e terra. I frammenti ceramici rinvenuti negli strati esterni dei tumuli e all’interno degli strati di sigillatura sono datati alla prima parte dell’EB I. Come per i cocci delle abitazioni, la maggior parte sono frammenti di giare e ciotole.

Nel Dolmen 317, scavato nel 2013, è stata scoperta un’intera sepoltura (B. 25) intatta sopra la soletta del pavimento, nascosta dietro una grossa pietra piatta. Gli unici doni funerari recuperati sono stati due raschietti a ventaglio in selce. La posizione delle ossa indica che erano state spostate nel dolmen; le ossa lunghe furono messe in pila davanti all’ingresso con il teschio appena dietro. Il sesso non è facilmente determinabile, ma l’analisi rivela una dieta equilibrata, nessuna malattia e un foro triangolare nella parte posteriore della testa. Un solo colpo potrebbe essere stato la causa della morte. Ulteriori analisi sono necessarie per comprendere meglio le cause della morte, che possono indicare un’uccisione rituale o uno scenario di crisi.

Nel 2014 uno dei pochi dolmen situati all’interno del paese (n. 534), lungo il confine della rupe meridionale nel Settore Orientale, è stato scavato a circa 10 metri ad ovest del Circolo Grande. Il dolmen aveva un’architettura nettamente diversa dalle altre scavate fuori dal paese. La camera sepolcrale è grande quasi il doppio dei dolmen EB I, la parete circolare e il tumulo sono di grandi blocchi di calcare, e l’ingresso è angolare e non in asse con l’ingresso. Alcune delle pietre dei dolmen potrebbero essere state prese dai vicini edifici EB I. All’interno della camera sepolcrale, parzialmente svaligiata in epoca moderna, sono stati rinvenuti numerosi oggetti in bronzo, oltre a due brocche complete sul solaio. Le brocche in ceramica brunita rossa risalgono all’EB II, suggerendo la prima costruzione del dolmen in questo periodo. Di conseguenza, il sito deve essere stato riutilizzato, sempre per scopi funerari, anche un un periodo successivo

La vendetta di Siracusa

Non si evidenzia molto nei libri di storia, ma la spedizione ateniese in Sicilia ebbe anche un ehm seguito: Siracusa e le sue polis alleate decisero di restituire pan per focaccia agli aggressori. Da una parte, le città della Lega di Delo erano prossime alla ribellione, dall’altra Sparta, era pronta a sfruttare al meglio la finestra di opportunità, con la flotta nemica distrutta e parte delle sue truppe prigioniere nelle latomie, per chiudere a suo vantaggio la guerra.

Per di più, Ermocrate, che si era preso, alquanto immeritatamente, il merito della vittoria, buttava benzina sul fuoco: qualsiasi successo nell’Egeo gli avrebbe costruito ponti d’oro per la conquista del potere. Così, dalla Sicilia furono inviate nel mare Egeo 35 navi così suddivise: 20 siracusane; 2 selinuntine; 3 tarantine e 10 di Thurion. A capo di questa flotta, facendo letteralmente carte false per ottenere il ruolo di stratega, vi era proprio il nostro potenziale dittatore.

Quanti uomini erano coinvolti nella spedizione ? Molto meno di quelli di Atene in Sicilia: teniamo conto che la capienza media di una trireme dell’epoca era di circa 200 uomni suddivisi tra rematori, marinai e opliti. In particolare, di opliti ve ne erano, più o meno 40 per nave. Per cui, basandosi su questi numeri, il totale del corpo di spedizione era di circa 7.000 uomini, di cui 1.400 opliti per le battaglie terrestri.

Organizzata la flotta, sorse un problema alquanto banale, ma che nessuno si era posto: che facciamo ? dove andiamo ? Come tradizione, le polis siciliane e della Magna Grecia cominciarono a litigare tra loro sulla strategia e tattica. A togliere loro le castagne dal fuoco fu un nuovo attore nel gran teatro della guerra, l’Impero Persiano, sempre per colpa delle bizzarre iniziative ateniesi, che avevano impedito a Tissaferne, satrapo di Lidia e Caria, di raccogliere le tasse nei suoi domini. Il satrapo se l’era legata al dito, anche perchè a Persepoli, tutto potevi fare, tranne che non spedire tributi, cosa che riduceva notevolmente la propria aspettativa di vita: così, per salvare la pellaccia, inviò due messaggeri a Sparta promettendo danaro e supporti in cambio del diritto di occupare le ricche città greche della Ionia, tradizionalmente legate ad Atene. Così scrive Tucidide:

Tissaferne era venuto a caldeggiare l’intervento dei Peloponnesiaci, cui prometteva i mezzi di sussistenza. Gli era capitata addosso da poco la richiesta regia dei tributi prescritti al suo governatorato: ma, impedito dagli Ateniesi, non aveva riscosso nulla dalle città greche, ed era perciò in debito. Tormentando Atene, sperava di percepire i propri tributi con maggior comodo e regolarità. In aggiunta avrebbe procurato al suo sovrano l’alleanza di Sparta oltre a potergli assicurare, in obbedienza a un comando personalmente impartito dal re, Amorge figlio illegittimo di Pissutne, che in Caria fomentava la rivolta: vivo o morto.

A Sparta, che era in perenne carenza di denaro, esultarono, anche perchè Tissaferne aveva prese contatti anche con i cittadini di Chio i quali, consci della debolezza di Atene, intendevano ribellarsi e schierarsi con la Lega Peloponnesiaca. Tuttavia, avvenne il classico problema del troppa grazia Sant’Antonio: anche Farnabazo II, satrapo della Frigia ellespontica, che per colpa degli ateniesi aveva gli stessi problemi del collega, si era rivolto ai Lacedemoni. Gli spartani si divisero tra i coloro i quali intendevano privilegiare l’alleanza con Farnabazo e quindi il fronte dell’Ellesponto e quelli che favorivano Tissaferne ovvero l’annichilimento dei domini ateniesi nel basso Egeo. Alla fine gli spartani, su impulso di Alcibiade, che aveva stretto amicizia con l’eforo Endio, optarono per Tissaferne e decisero di inviare, dopo un’accurata verifica, navi e appoggio militare agli abitaniti di Chio.

Pertanto, agli inizi dell’anno seguente, il 412 a.C., gli spartani inviarono una flotta a Chio che, tuttavia, fu intercettata da una squadra ateniese e sconfitta; nonostante ciò Alcibiade indusse ancora una volta i peloponnesiaci a perseverare e ad inviare lui stesso con cinque navi e l’ufficiale Calcideo. Quasi senza colpo ferire, Alcibiade conquistò Chio e Clazomene preoccupando non poco Atene. Poi, mentre Ateniesi e Spartani si affrontavano nei pressi di Teo, Tissaferne, oltre ad inviare in aiuto a Sparta l’ufficiale Stage, ne approfittò della rivolta anti-ateniese di Mileto, per stipulare con Calcideo il seguente trattato, citato da Tucidide

Spartani e alleati hanno concluso con il re e Tissaferne un trattato d’alleanza articolato su questi punti. Tutte le regioni e le città possedute dal re per successione ereditaria, restino possesso del re. Quanto ai tributi in denari o in diversa natura che gli Ateniesi esigevano dalle suddette città, il re e Sparta con i suoi alleati, di comune accordo stroncheranno questo afflusso di tributi finanziari o d’altra specie. Il re e Sparta con i suoi alleati creeranno una coalizione offensiva contro Atene. Non sarà ammesso lo scioglimento separato del conflitto, privo di una ratifica bilaterale da parte del re e di Sparta con i suoi alleati. Quanti si staccheranno dal re si esporranno alla reazione armata di Sparta e dei suoi alleati. Analogamente, chi tenterà la defezione da Sparta e dai suoi alleati, si esporrà alla reazione armata del re

Stipulato il patto, Tissaferne intervenne personalmente nell’assedio di Teo abbattendone le mura ancora in piedi per poi ritirarsi. In estate, quando gli ateniesi inviarono un esercito, rafforzato da mercenari argivi, per occupare Mileto, il satrapo guidò mille cavalieri in aiuto di Sparta e dei Milesi; la battaglia fu, comunque, incerta poiché gli ateniesi batterono i Peloponnesiaci mentre i milesi costrinsero gli argivi a ripiegare. Dinanzi a queste notizie, Ermocrate convinse i suoi litigiosi alleati a navigare verso Mileto, per dare manforte a questa incerto battaglia.

Così Ermocrate, con la mediazione di Alcibiade incontrò Tissaferne, il quale era ai ferri corti con gli spartiani per la questione Amorge, figlio illegittimo di Pissutne, a sua volta satrapo, ribellatosi al Gran Re Dario II, che i greci avevano messo in secondo piano. Il siracusano, desideroso di mettersi in mostra con una vittoria, decise di guidare la flotta alla conquista di di Iasos, opulenta città filo-attica, governata da Amorge, che finalmente fu catturato.

Nonostante il successo, spartani e persiani cominciarono a litigare per questioni di vile denaro. Tissaferne, su mandato del Gran Re, aveva la gestione della cassa e quindi delle paghe dei marinai spartani: diede agli uomini il pagamento di un mese, che consisteva in una dracma attica al giorno per ciascuno di essi. Però, sorse anche il problema imprevisto, di come pagare i siciliani: il satrapo, in attesa di nuove disposizione e soprattutto denaro da Persepoli, per salvare capra e cavoli, applicò il principio

Pagare meno, per pagare tutti

riducendo il salario a tre oboli al giorno. Il che era in linea con quanto preso normalmente dai marinai dell’epoca: il problema è che gli ufficiali alleati dovettero smettere di fare la cresta sulle paghe. Ermocrate, visto il malcontento generale, andò a discutere della questione con uno degli spartani a capo dell’alleanza marittima, Teramene, che però, applico il principio del

Io so’ meticcio e di questi affari non me impiccio

In pratica rispose ad Ermocrate che lui non aveva nessuna delega per trattare con Tissaferne, dato che non era un navarco, ossia un ammiraglio, ma aveva solamente il compito di condurre la flotta da Astioco, che aveva il comando effettivo. Distinzione molto capziosa, ma Ermocrate dovette fare buon viso a cattivo gioco, per cui il discorso paghe fu momentaneamente chiuso. Anche Astioco, che aveva problemi più urgenti, la flotta spartana stava collezionando figure da cioccolatai a Kios e se non avesse preso la città, il navarca avrebbe rischiato la testa, fece orecchie da mercante.

A peggiorare la situazione fu il solito Alcibiade, i cui rapporti con gli spartani erano peggiorati e per non finire cibo per i pesci, era scappato proprio presso Tissaferne. Alcibiade, sia perchè i fondi da parte di Persepoli tardavano ad arrivare e il satrapo non era molto entusiasta di pagare i marinai alleati di tasca propria, sia perché si era reso conto delle ruberie spartane, lo convinse facilmente a mantenere il tetto salariale. In più, l’ateniese fu incaricato di convincere greci e i siciliani ad accettare come perenne il taglio degli stipendi.

Gli spartani, dinanzi al piuttosto che niente, meglio piuttosto, accettarono: i siciliani, invece che speravano nell’aumento e consideravano come provvisoria la riduzione, protestarono, ma non se li filò nessuno. D’altra parte, Tissaferne, era seguace del dividit et impera: a lui interessava che la guerra durasse a oltranza, logorando entrambe le parti, perchè, in fondo, non era interesse di Persepoli che Sparta abbattesse totalmente Atene, divenendo così padrona dell’intero Ellade. Per cui, per evitare conflitti “sindacali”, corruppe con parte del denaro destinato allo stipendio dei marinai, su suggerimento di Alcibiade e di Astioco, i capitani della flotta spartana.

Così racconta la vicenda Tucidide

Astioco, i suoi undici consiglieri, i trierarchi ed i capitani, tutti erano corrotti, tranne i Siracusani, dall’oro di Tissaferne

Ora i capitani siracusani, che scemi non erano, si accorsero di questo giro di denaro e cominciarono a protestare al grido del

Perchè a loro sì e a noi no ?

Scontrandosi con un muro di gomma. Per cui, per ottenere la loro quota della tangente, istigarono allo sciopero i loro marinai, allo scopo ufficiale di ottenere l’adeguamento salariale a una dracma. I sindacalisti più arrabbiati erano i turii, ex alleati italici di Atene, tanto che Astioco, esasperato, decise di prendere a bastonate Dioreo, un nobile di Thurion, per fare tacere le sue proteste: non l’avesse mai fatto! Gli scioperanti si ribellarono e tentarono di linciare l’ammiraglio spartano, che per salvare la pelle, si nascose dietro a un altare di un tempio a Mileto, con Ermocrate che da una parte cercava di calmare i suoi marinai inferociti, dall’altra chiedeva le sue dimissioni. Dinanzi a questo manicomio, i milesi ne ebbero abbastanza: si ribellarono alle truppe spartane e persiane, cacciandole a pedate, con il tacito appoggio dei siracusani, che ormai poco sopportavano entrambi i presunti alleati… Ovviamente, dinanzi a tale spettacolo, ad Atene si stava sbellicando dalle risate. Sia per non perdere troppo la faccia, sia per cercare di mettere ordine in questo colossale casino, Ermocrate fu convocato a Sparta, per dare spiegazioni sulla vicenda.

Ermocrate, per evitare di essere linciato a Sparta portò con sé un gruppo di milesi pronti a testimoniare contro Tissaferne. Nel contempo Mindaro prese il posto di Astioco come navarca, mandato anch’egli a Sparta, con un ambasciatore bilingue della Caria, Gautine, che aveva il compito di difendere l’operato di Tissaferne contro le accuse dei milesi e di Ermocrate

Da questo momento non è ben chiaro quel che successe. Tucidide descrivendo quel che avvenne durante la permanenza a Sparta, menziona solamente in nota l’esilio di Ermocrate decretato da Siracusa, dicendo che il persiano si sentiva adesso ancor più libero di accusare l’ammiraglio aretuseo dato che questi era divenuto esulo, non più protetto dal nome della polis occidentale. Tuttavia, a sentire Senofonte, l’esilio di Ermocrate avvenne dopo e non fu legato né allo sciopero dei suoi marinai, né alla rivolta di Mileto, cose di cui a Siracusa, diciamola tutta, interessava ben poco.

Il nuovo ammiraglio spartano, Mindaro, nella speranza di logorare Atene, aveva imposto una guerra di corsa ai danni dei convogli che dal Mar nero rifornivano di grano l’Attica: per fare questo, aveva abbandonato l’alleanza con Tissaferne, per schierarsi con l’altro satrapo persiano, Farnabazo, che tra l’altro, garantiva il salario della dracma giornaliera ai marinai. Per evitare la resa per fame, Trasibulo, l’ammiraglio ateniese tentò un audace raid nei Dardanelli

La flotta ateniese, ora composta da 76 triremi, navigò in colonna verso l’Ellesponto, seguendo la costa settentrionale, mentre gli Spartani uscirono da Abido sulla costa meridionale. Quando la sinistra ateniese ebbe doppiato la punta di Cinossema, gli Spartani attaccarono, pianificando di aggirare l’ala destra ateniese e di intrappolare la flotta nell’Ellesponto, cercando di spingere il centro verso terra di fronte a tale promontorio Il centro ateniese fu spinto velocemente verso terra e la sinistra, comandata da Trasillo, circondata dalle navi siracusane divenne incapace di vedere le posizioni del resto della flotta. Trasibulo sulla destra, frattanto, riuscì ad evitare l’accerchiamento estendendo la sua linea ad est, ma facendo ciò perse contatto col centro. Cogli Ateniesi divisi e gran parte della loro flotta fuori combattimento, la vittoria degli Spartani sembrava certa.

A questo punto, però la linea peloponnesiaca cominciò a disunirsi, le navi ruppero lo schieramento per inseguire individualmente i vascelli ateniesi. Vedendo ciò, Trasibulo fece voltare improvvisamente le sue navi e attaccò la sinistra spartana. Dopo aver sbaragliato queste, andò contro il centro, il quale una volta disorganizzato fu messo velocemente in fuga. I Siracusani, che erano sulla destra ed erano quelli che non si erano disorganizzati vedendo il resto della loro flotta in ritirata, cessarono il loro attacco alla sinistra ateniese abbandonando la battaglia, per evitae di essere circondati. L’angustia degli stretti, che faceva sì che i Peloponnesiaci dovessero percorrere solo poca strada per raggiungere la salvezza, limitò il danno che gli Ateniesi avrebbero potuto infligger loro, ma alla fine della giornata essi avevano già catturato 21 navi spartane, contro le 15 che gli Spartani avevano preso all’inizio del combattimento. Se gli impatti tattici della vittoria furono limitati, notevoli furono quelli strategici: gli ateniesi non solo si salvarono dalla fame, ma costretti a combattere a condizioni scelte dai loro nemici, in un’epoca in cui la città non aveva le risorse per costruire un’altra flotta, vincendo, poterono continuare la lotta ad oltranza. Se avessero perso, sarebbero stati costretti a breve alla resa.

Per di più, con questa vittoria rafforzarono la loro presa su Sesto, saccheggiando i domini di Farnabazo, che ovviamente si lamentò con gli spartani, minacciando di ridurre gli stipendi, se non avessero preso provvedimenti. Per cui, brontolando, Mindaro ed Ermocrate, decisero di attaccare la base ateniese, con una manovra a tenaglia: le flotte spartane e siracusane avrebbero imposto il blocco navale, mentre le truppe persiane avrebbero attaccato da terra. A complicare la vita a tutti furono però i siracusani, guidati secondo Diodoro Siculo dallo stesso Ermocrate, secondo Senofonte da Dorieo, il capo della protesta sindacale a Mileto.

In ogni modo, la flotta siracusana salpò da Rodi diretto a nord, dirigendosi verso l’Ellesponto. Prima di raggiungere Abido, comunque, fu notata dalle vedette ateniesi e spinta verso la costa. Senofonte riporta che fu intrappolata a Rhoiteion, mentre Diodoro Siculo accredita la località di Dardano.Venendo a conoscenza della situazione critica dei siracusani, Mindaro organizzò la spedizione di soccorso. Il problema è che Mindaro, molto meno corrotto di Astiaco, però anche assai meno capace. Così lo spartano lasciò Troia, dove aveva fatto dei sacrifici ad Atena, si diresse verso Abido, mentre Farnabazo mise in movimento il suo esercito per aiutare i siracusani da terra. Però una volta uscito con le navi da Abido, gli Ateniesi uscirono da Sesto per contrastarlo.

Mindaro, dopo essersi svincolato dagli avversari e unito alle forze siracusane, aveva a disposizione una forza di ben 97 triremi: la flotta ateniese ne contava 74. Gli Spartani si schierarono per la battaglia colla costa asiatica dell’Ellesponto alle loro spalle, con Mindaro che comandava il lato destro e i Siracusani quello sinistro; gli Ateniesi si schierarono di fronte a loro, con Trasibulo che comandava il lato destro e Trasillo quello sinistro. La battaglia iniziò col segnale dei comandanti, che fu trasmesso alle flotte dai trombettieri. Seguì una battaglia equilibrata, coi piloti che tentavano di speronare e mettere fuori combattimento le triremi nemiche, mentre i marinai combattevano sui ponti contro i loro nemici ogni qualvolta venivano a contatto.

Con il passare delle ore, nessuna delle due parti era fu capace di prevalere, fino a quando Alcibiade apparve con 18 triremi provenienti da Samo: inizialmente, entrambe le flotte credettero che i rinforzi fossero i loro, ma Alcibiade espose una bandiera rossa, il segno prestabilito che informava gli Ateniesi: questo perchè Tissaferne preferiva danneggiarre Farnabazo, con cui era in lite da tempo immemorabile, rispetto agli ateniesi

Capendolo, la flotta spartana fuggì ad Abido, ma ebbe gravi perdite durante il viaggio, visto che gli Ateniesi attaccarono le navi esterne. Alla fine, nel tentativo di limitare i danni, Mindaro decise di tirare in secca le navi, protetto dalle truppe del satrapo Farnabazo, che si spinse addirittura in acqua col cavallo per dare l’esempio alla sua fanteria e alla sua cavalleria; ciononostante, gli Ateniesi catturarono 30 navi recuperando anche le 15 loro, sottratte dagli Spartani nella battaglia di Cinossema.

Dopo questa disastrosa sconfitta, Mindaro riportò la flotta spartana ad Abido per ripararla e ricostruirla; chiese a Sparta dei rinforzi e studiò con Farnabazo future campagne. Gli Ateniesi, frattanto, non riuscirono a sfruttare il vantaggio guadagnato, perchè sempre per uno dei loro ennesimi casini, riuscirono a scatenare una rivolta contro di loro in Eubea. Nel frattempo, Farnabazo si lamentò con Persepoli del doppio gioco di Tissaferne, che per salvare la testa, usò Alcibiade come capro espiatorio; l’ateniese fu arrestato e imprigionato a Sardi, da cui scappò dopo meno di un mese.

Nel frattempo, Mindaro costruita una flotta di ottanta navi e, col supporto delle truppe di Farnabazo, assediò Cizico e la prese d’assalto, sempre per recuperare il possesso dell’Ellesponto. La flotta ateniese dell’Ellesponto si ritirò dalla propria base di Sesto approdando a Cardia evitando così lo scontro con gli spartani. Le navi di Alcibiade, Trasibulo e Teramene, che erano state mandate a raccogliere denaro presso gli alleati, si riunirono a questa flotta, che venne a contare 86 unità.Una volta organizzato il contingente di fanteria comandato da Cherea, l’esercito coadiuvato dalle forze marine si diresse verso l’Ellesponto per scontrarsi con Mindaro.

La flotta ateniese entrò nell’Ellesponto, oltrepassando di notte la postazione di Abido, presa dagli Spartani, in modo da nascondere al nemico le proprie forze, e stabilì una base sull’isola di Proconneso (oggi Marmara), a nordest di Cizico. Sbarcate le truppe terrestri di Cherea vicino a Cizico (Cherea è nominato solo da Diodoro Siculo, mai da Senofonte), la flotta ateniese si divise: 20 navi, comandante da Alcibiade, avanzarono verso Cizico, mentre due altre divisioni, comandate da Trasibulo e Teramene, stettero in agguato più indietro. Mindaro, vedendo la possibilità di attaccare una forza nettamente inferiore, schierò contro gli Ateniesi tutta la sua flotta; la forza di Alcibiade fuggì e le navi di Mindaro le dettero la caccia.Quando entrambe le flotte furono ben fuori dal porto, però, Alcibiade si girò verso Mindaro, mentre Trasibulo e Teramene chiusero l’accerchiamento.Mindaro, vedutosi in trappola, fuggì nell’unica direzione libera, verso la spiaggia a sud della città, dove Farnabazo si era appostato con le sue truppe; la flotta spartana ebbe varie perdite durante la fuga e raggiunse la costa con gli Ateniesi alle calcagna.Il resoconto qui di seguito è quello di Diodoro Siculo; mentre Senofonte non riporta alcuno scontro a terra tra Ateniesi e Persiani,, Diodoro racconta dettagliatamente come le truppe di Farnabazo abbiano tentato di aiutare Mindaro, senza però molto successo.

Le truppe di Alcibiade guidarono l’inseguimento, tentando poi di trascinare nuovamente in mare le navi spartane con dei rampini, mentre le truppe persiane di Farnabazo cercavano di impedire loro di sottrarre le navi spiaggiate. Vedendo ciò, Trasibulò sbarcò il suo contingente come diversivo e ordinò a Teramene di combinare le sue truppe con quelle di Cherea e di unirsi alla battaglia.In un primo momento Trasibulo e Alcibiade furono respinti, ma l’arrivo di Teramene e Cherea cambiò le sorti dello scontro: gli Spartani e i Persiani furono sconfitti e Mindaro stesso fu ucciso nel combattimento. Atene poté così impadronirsi di tutte le navi della flotta pelopennesiaca, tutte eccetto quelle dei siracusani; poiché essi preferirono bruciarle piuttosto che consegnarle agli ateniesi; e tale ordine di ardere le navi venne dato da Ermocrate

Fu questa secondo Senofonte, la causa scatenante che spinse il governo di Siracusa a decretare l’esilio di tutti i suoi strateghi, colpevoli di aver distrutto la flotta della polis. Arrivò la notizia dell’esilio, votato dal popolo, mentre la flotta si trovava a Mileto. Qui i capitani siracusani, ormai licenziati, appresero quanto accaduto direttamente da Ermocrate. Riflettevano tra loro non riuscendo a giustificare un atteggiamento così severo, definendo persino «illegale» il modo in cui la loro patria aveva così deciso di esiliarli tutti insieme. Vi fu un sentito commiato ad essi dedicato per volere del resto della flotta, poiché giudicavano il loro operato privo di pecche, almeno a sentire il racconto di Senofonte.

I soldati – e specialmente i trierarchi, i fanti di marina e i nocchieri – gridando chiedevano che a comandare fossero ancora loro. Essi risposero che non bisognava ribellarsi alla propria città

Infine gli strateghi si rivolsero ai loro uomini, che lì sarebbero rimasti in attesa di nuovo comando:

Quante le battaglie navali che voi stessi avete vinto da soli, e quante le navi che avete catturato, e quante le occasioni da cui siete usciti senza sconfitta al fianco degli alleati, sempre sotto il nostro comando, osservando la miglior disposizione tattica, grazie tanto alla nostra abilità quanto del resto al vostro zelo, mai venuto meno né su terra né su mare!

Il perchè di questo esilio è presto detto: la fazione popolare di Siracusa, guidata da Diocle, si era resa conto che la spedizione nell’Egeo, in cui la sua flotta non stata facendo una bella figura, non serviva agli interessi della polis, ma solo alle ambizioni personali di Ermocrate. Per cui, visto il disastro di Cizico, che privava Siracusa di risorse importanti per contrastare una politica cartaginese sempre più aggressiva, era visto come una sorta di tradimento nei confronti della Patria.

Ermocrate, vista la malaparata e il fatto che Tissaferne, per i fatti di Mileto, lo voleva destinare a una fine lenta e dolorosa, scappo da Farnabazo, il quale, vista anche la conquista ateniese di Calcedonia, era disposto a sedersi al tavolo delle trattative con la polis. Così fu firmato un trattato nel quale veniva sancito che il satrapo si impegnava a pagare un tributo ad Atene per nome dei calcedoni, e inoltre si impegnava a condurre ambasciatori attici presso il Gran Re, affinché la Persia accettasse, in cambio di opportune concessione, di mantenersi neutrali nel conflitto tra greci, non finanziando Sparta.

Tra i negoziatori, ci fu anche Ermocrate, che in cambio della pace, promise di intervenire a favore dei prigionieri ateniesi in Sicilia: tutto sembrava essersi risolto per il meglio per Atene, quando giunse Ciro il Giovane, sì, proprio che diede il via agli eventi che portarono all’Anabasi, che arrestò gli ambasciatori ateniesi, mandando a ramengo le trattative e fece tornare in Sicilia, pieno d’oro, allo scopo di realizzare il suo tanto agognato colpo di stato a Siracusa e fare ritornare in campo al fianco di Sparta la polis. Piano che per le vicende della guerra di Selinunte e per il fallito colpo di stato di Ermocrate, andò però a ramengo, come raccontato in altri post.

Ricordiamoci come Ermocrate sia, come personaggio letterario, uno dei protagonisti dei dialoghi di Platone: è infatti uno dei quattro interlocutori nel racconto del Timeo e del Crizia, dove il filosofo ateniese parla per la prima volta di Atlantide – isola leggendaria – e pone Ermocrate al fianco di Socrate, maestro di Platone; Timeo di Locri, filosofo proveniente dalla Magna Grecia; e Crizia, zio dell’autore ateniese e leader dei Trenta Tiranni. Sappiamo inoltre come Ermocrate dovesse essere il titolo del terzo e mai scritto dialogo della triologia costituita proprio dal Timeo e dal Crizia.

Dal momento che Platone non aveva completato il Crizia per motivi sconosciuti, si ritiene generalmente che non abbia mai iniziato a scrivere l’Ermocrate. In ogni caso, le persone che vi sarebbero apparse dovrebbero essere state le stesse dei dialoghi precedenti – Timeo, Crizia, Ermocrate e Socrate – e il quarto compagno non menzionato accennato all’inizio del Timeo avrebbe svelato la sua identità.

Ermocrate aveva avuto solo una piccola parte nella conversazione nei dialoghi precedenti. Dal momento che il Crizia raccontava la storia dello stato ideale nell’antica Atene di novemila anni addietro – e del perché era stata in grado di respingere l’invasione da parte del potere navale imperialista di Atlantide – facendo riferimento alle fonti preistoriche da Solone agli Egizi.

Nel Crizia si accenna poi al ruolo che avrebbe avuto in seguito Ermocrate:

«SOCRATE: Perché, o Crizia, indugiare a concedertelo? Anzi, questo stesso dono sia da parte nostra concesso anche al terzo, a Ermocrate. È chiaro infatti che tra poco, quando dovrà a sua volta parlare, ne farà richiesta, come voi […]

ERMOCRATE: Ebbene, o Socrate, tu mi dai lo stesso avvertimento che dai a costui. Ed effettivamente uomini privi di coraggio non innalzarono mai un trofeo, o Crizia: bisogna dunque andare avanti coraggiosamente nel discorso, e, rivolta l’invocazione a Peone e alle Muse, proclamare e celebrare le virtù degli antichi [vostri] cittadini.

CRIZIA: Amico Ermocrate, tu vieni dopo e ce n’è un altro prima, ecco perché tu sei ancora pieno di coraggio. Ad ogni modo quanto sia difficile il tuo compito, esso stesso fra non molto te lo dimostrerà […]»

Si è ipotizzato che il compito di Ermocrate avrebbe potuto consistere nel raccontare perché la potenza navale imperialista dell’Atene dei tempi di Platone aveva subito un’amara sconfitta nella spedizione siciliana contro Siracusa e, infine, nella guerra del Peloponneso, contro Sparta – visto che era uno stratega siracusano all’epoca della spedizione ateniese in Sicilia.

Alcuni studiosi, come Ronald H. Fritze, hanno ipotizzato invece che a Ermocrate sarebbe stato affidato il compito di finire la descrizione di Atlantide; la catastrofe che la fece inabissare e il ricominciare della civilizzazione umana; altri come Diskin Clay, sostengono che Platone si sarebbe basato sui discorsi ermocratei presenti in Tucidide per completare il terzo dialogo. Altri come Brisson e Findlay sostengono che il dialogo ermocrateo sarebbe stato una rivisitazione sociale del terzo libro delle Leggi platoniche

Il tempio di Asclepio di Akragas

Il cosiddetto tempio di Esculapio è posto al centro della piana di San Gregorio, in corrispondenza di quella che in antico era la strada per Eraclea : è associato a questa divinità sia per la testimonianza di Polibio, che racconta che i consoli romani M. Valerio e Q. Ottacilio, nell’assedio di Akragas (263 a.C.), avevano diviso l’esercito romano in due parti, una delle quali era posta presso il tempio di Esculapio e così furono piantati gli alloggiamenti e tutto l’apparato bellico, specificando la distanza dalla città otto stadi e mezzo, ossia 1480 metri, verso mezzogiorno. Inoltre, come ulteriore prova dell’identificazione, sono citati i risultati degli scavi di metà anni Ottanta, in cui si è evidenziato come il tempio fosse parte di un più ampio santuario.

Tuttavia, le perplessità rimangono: la distanza non corrisponde bene all’indicazione polibiana (che potrebbe avere carattere generico) e l’isolamento, la relativa modestia ed antichità (per il culto d’Asclepio) dell’edificio lasciano perplessi sull’identificazione. Non solo da Polibio era conosciuto ed apprezzato il tempio di Esculapio, ma anche da Cicerone che nelle sue Verrine descrive con ammirazione una statua di Apollo (il padre del dio Esculapio), capolavoro del celebre scultore Mirone. Cartaginesi e Romani cercarono di sottrarla agli Agrigentini. Si narra infatti che i punici l’avevano portata a Cartagine come bottino di guerra e che venne riportata ad Agrigento da Scipione dopo la vittoria romana su Cartagine. Ma anche il pretore Verre tentò di rubare la statua – come ricorda Cicerone – e solo con molta fortuna gli Agrigentini riuscirono a scoprire il tentativo e da allora fecero guardare a vista, notte e giorno, i templi della città da attenti sorveglianti.

Ancora Cicerone ci dice che il tempio di Esculapio era un “famosissimum fanum”, cioè un famoso santuario. Esso infatti aveva la duplice funzione di ospedaletto e di santuario. Esculapio era il dio della medicina e i suoi santuari erano meta di incessante pellegrinaggio di molti ammalati che cercavano nuove cure e di pellegrini che invocavano l’intervento divino o ringraziavano il dio per la guarigione ottenuta, lasciando poi nel santuario un ex-voto a testimonianza della grazia ottenuta. Si alternavano quindi giorno e notte devoti che compivano rituali abluzioni, sacrifici e recitavano preghiere prima di ascoltare le indicazioni dei medici per ottenere o conservare la salute. Certamente qui si praticava anche la medicina empirica di cui l’agrigentino Acrone fu uno dei maggiori esponenti.

Acrone era tra l’altro figlio del grande filosofo Zenone di Elea, quello dei paradossi che negava il movimento e il divenire, e amico intimo di Empedocle: cominciò la sua carriera come retore, ma data la politica agrigentina dell’epoca, in cui era facile lasciarci le penne, si orientò verso una più tranquilla medicina. Durante il suo apprendistato, compì molti viaggi in Egitto e in Asia, con lo scopo di raccogliere il maggior numero di informazioni dalle esperienze dei sacerdoti e dei medici in cui si imbatteva.

Si dice che Acrone abbia applicato una soluzione taumaturgica appresa in Egitto in occasione della peste del 430 a.C. ad Atene, e che, dietro suo consiglio, furono accesi dei fuochi di grandi dimensioni per le strade allo scopo di purificare l’aria.La soluzione si rivelò efficace e salutare per molti malati.Va tuttavia tenuto presente che non si fa menzione di questo fatto in Tucidide, e inoltre, anche se fosse vero che Empedocle o Simonide (morto nel 467 a.C.) scrissero l’epitaffio in onore di Acrone, ciò non implica necessariamente che quest’ultimo si trovasse ad Atene durante la peste.

Il suo talento come medico e il suo nuovo approccio alla medicina gli procurarono ammirazione e stima tali che gli fecero meritare l’epiteto di sommo o supremo tra i medici (lo stesso nome, Acrone, significa sommo). Tuttavia allo stesso modo, la fama gli procurò non pochi nemici, tra i quali spicca Empedocle, suo concittadino ed amico d’infanzia, il quale provava invidia del successo di Acrone. Diogene Laerzio ci racconta che avendo domandato Acrone agli Agrigentini, come premio dei suoi meriti, un luogo in città dove poter fabbricare una tomba destinata alla sua famiglia, Empedocle adoperò tutta la sua eloquenza affinché tale privilegio non gli venisse accordato. Nonostante queste opposizioni, i cittadini acconsentirono facilmente a queste richieste e sulla lapide fu inciso un ironico epitaffio attribuito ad Empedocle o a Simonide. di cui ho accennato prima, che in latino fa così

Acronem summum Medicum summo patre natum, in summa tumulus summus habet patria.

Insomma, una sorta di scioglilingua.L’innovazione che Acrone introdusse nella medicina del tempo fu la maggiore attenzione riservata ai fatti. Egli sosteneva che la medicina dovesse dipendere unicamente dalla pura esperienza, dall’esatta osservazione dei fatti e che tutte le astratte speculazioni non erano solo superflue, ma anche dannose; insomma, aveva introdotto una sorta di versione ellenica del rasoio di Ockam

Tornando al nostro tempio, eretto nel IV secolo a.C, è di ordine dorico con pronao in antis; sorge su una piattaforma e presenta una suddivisione in pronao, cella e pseudo opistodomo (quest’ultimo, infatti, appena accennato, presenta due mezze colonne sporgenti all’esterno appoggiate sul muro pieno di fondo della cella). Particolarità insolita dell’edificio è il falso opistodomo rappresentato da due semicolonne fra ante nella parte esterna del fondo della cella, che vuole così imitare una struttura amfiprostila. Sono note anche parti della trabeazione, con gronde a testa leonina, fregio e geison frontonale. Il Tempio di Asclepio era, in se stesso, un edificio molto modesto: lungo m.22,144 e largo 11,118, occupa una superficie di mq.246,196, e la sua decorazione era di gran lunga inferiore ai templi dorici classici. Lo spessore delle mura è di m.0,55; il diametro delle colonne è di m.1,10.

Dell’area monumentale parte un ampio peribolo lungo il quale si aprono numerosi ambienti destinati ai pellegrini e, comunque, connessi con gli scopi terapeutici del santuario; una grande cisterna, un portico colonnato e un naiskos.

Giovanni Bogherini con il Maestro

Oggi, vigilia di Natale, in attesa di farci gli auguri, parliamo di un ritratto che impropriamente, per la presenza di una sfera armillare, è intitolato Giovanni Borgherini col maestro-astrologo, un olio su tela di dimensioni 47×60,7 cm. Un’opera probabilmente citata da Vasari nella sua biografia di Giorgione, che ebbe l’occasione di vederla in casa di Giovanni Borgherini a Firenze.

Si legge infatti nell’edizione delle Vite del 1568:

In Fiorenza è di man sua [di Giorgione] in casa de’ figliuoli di Giovan Borgherini il ritratto d’esso Giovanni, guando era giovane in Venezia, e nel medesimo quadro il maestro che le guidava; che non si può veder in due teste né più bella tinta di ombre”.

L’opera restò poi forse agli eredi, finché il cavalier Pier-Francesco Borgherini non la portò a Milano, nelle sue collezioni. Nel 1923 venne venduta a Sir Herbert Frederick Cook che la portò in Inghilterra, alla Doughty House, presso Richmond, nel Surrey. Fu di nuovo venduta nel 1932 e nel 1960, quando l’acquistò Michael Straight, cittadino americano, che la fece portare nella sua residenza di Alexandria, in Virginia. Nel 1974 venne infine donata al museo statunitense.

Il quadro è un invito all’impegno e allo studio: l’adolescente ben vestito, dallo sguardo intelligente ma distratto, stringe nella mano chiusa gli strumenti della pittura e della scrittura, della musica e della geometria. L’uomo che l’accompagna non è solo il suo maestro ma un astrologo dall’espressione grave, che gli ostenta la sfera armillare indicandogli platealmente il cartiglio ammonitore: “non vale l’ingegno se non varranno i fatti”. Che le promesse diventino realtà dipenderà evidentemente dalle disposizioni celesti e dall’impegno del giovane ad affrontarle con la ragione, a integrare le arti e le scienze, segnalate dagli strumenti in suo possesso con lo strumento che qualifica l’astrologia, arte e scienza della previsione.

L’atmosfera soffusa, i campi di colori smorzati senza confini netti sono tipici dello stile dell’autore, mentre è più rara la brillantezza cromatica delle vesti e degli incarnati rispetto allo sfondo scuro. Qualche perplessità, che genera l’incertezza attributiva, è legata alla qualità dell’opera, non eccelsa, forse per via di restauri inappropriati.

Perchè dicevo che il titolo è una forzatura ? Perchè, grazie ai documenti d’archivio, possiamo ipotizzare il committente del quadro, Sante Borgherini, padre di Giovanni, che sappiamo essere a Venezia con il figlio nel 1504, il che ci da anche un termine cronologico per la sua esecuzione. Ora, Sante frequentava sia la corte di Caterina Corner, sia il circolo di Bembo, ossia gli stessi circoli intellettuali bazzicati dal Giorgione

E in quel periodo sappiamo che Giovanni Borgherini fosse allievo di Trifone Gabriel, uno dei più peculiari umanisti veneti dell’epoca, detto il « Socrate di Venezia » perché, come Socrate, non lasciò alcun testo scritto, preferendo impartire lezioni verbali agli allievi. Con le sue lezioni, supplì alla chiusura dell’Università di Padova al tempo della Lega di Cambrai. Uomo modesto, non volle pubblicare alcunché a suo nome, e rifiutò ogni titolo se non quello di Messere. Ebbe in dispregio ricchezze ed onori, e si conservò sempre semplice nei modi e nell’abbigliamento.

Trifone era un intellettuale dagli interessi molteplici che variava dalla letteratura e filologia, all’astronomia, tanto che scrisse un trattato sul tema, a cui fa riferimento la sfera armillare, immagine dell’armonia tra Macrocosmo e Microcosmo, alla politica. In questo campo, il suo pensiero è esposto nell’opera Della repubblica de’ Viniziani di Donato Giannotti (1540), immaginata come un dialogo avvenuto a Padova, in casa di Pietro Bembo, tra Trifone Gabrielli e il suo allievo prediletto, proprio il nostro Giovanni Borgherini

Trattato che comincia proprio così

Era in quelli giorni M. Trifone Gabriello in una sua villa, nella quale assai tempo egli è usato dimorare, lontano da ogni ambitione, libero dall’amministrazione della Repubblica, discosto da molte incommodità, che seco porta la vita civile. Gode egli nella sua villa questa nostra vita felicemente – con tanta tranquillità d’animo, di quanta humanamente può essere capace. Ne mai è che egli non sia in compagnia d’alcuno di quegli antichi et nobili spiriti, così Toscani, come Latini, si com’è Cicerone, Virgilio, Horatio, Dante, il Petrarcha, il Boccaccio, co quali egli continovamente i loro volumi leggendo ragiona. Et perché la villa, nella quale egli dimora, non molto dalla Città lontana, con gran sua commodità viene spesse volte in Padova a fare parte a molti suoi amici della sua dolce conversatione: la quale da ciascuno, che di lui ha cognitione, è grandemente desiderata. Perciò che oltre alla gravità de costumi, egli è ripieno d’humanità et cortesia, le quali cose producono negli animi di ciascuno grandissimo desiderio di lui

Per cui, il ritratto non è che una rappresentazione di quelle conversazioni dotte, a cui Giorgione, dalla curiosità intellettuale insaziabile, dovette partecipare più volte..

L’origine del Fondo Oro

Può sembrare strano, ma ben prima di Cennino Cennini, nelle botteghe artistiche della Tarda Antichità e del Medioevo abbondavano i prontuari tecnici e manuali relativi alla produzione e alla stesura dei colori. Il più antico, tra quelli che attualmente abbiamo ritrovato, è il cosiddetto Papiro X di Leida, conservato nel Museo Archeologico di quella città, un codice scritto su papiro in lingua greca alla fine del III secolo a.C, rinvenuto in Egitto a Tebe, assieme a un altro testo di contenuto analogo, il papiro di Stoccolma.

E’ probabile che entrambi siano frutto del lavoro di un medesimo scriptorium, che aveva forse sede ad Alessandria, che era specializzato in manuali tecnici, in trattati di medicina e di quella che impropriamente è definita alchimia, ma che in realtà definibile come chimica empirica, e cosa assai strana, rituali magici di ogni tipo, dalle fatture d’amore alle maledizioni ai danni dei nemici. Ora, non è che ci fosse chissà quale retropensiero, nel mischiare tra loro cose così differenti: probabilmente gli scribi avevano puntato soltanto a soddisfare, per puro e semplice guadagno, le richieste, assai variegate, del mercato dell’epoca.

Come dicevo, il prontuario era un prontuario tecnico, una silloge proveniente da trattati più antichi: allo stato attuale, sono state individuate almeno tre fonti, un saggio di Bolo di Mendes, studioso di chimica dell’età ellenistica, di Teofrasto, l’allievo di Aristotele, e il Physica et mystica, attribuibile allo Pseudo-Democrito, ma probabilmente l’autore consultò anche altri testi. Il papiro contiene dieci fogli. Ogni foglio misura circa 30 cm x 34 cm. I fogli sono rilegati sul lato lungo, e ogni foglio ha due pagine. Sedici pagine sono scritte, e quattro pagine sono vuote. Le pagine scritte contengono ciascuna circa dalle 28 alle 47 righe, in scrittura onciale, regolare (cioè senza corsivo). on sono presenti legature.

Tutte queste caratteristiche hanno portato gli studiosi a pensare che il papiro provenisse da una biblioteca, e non da un laboratorio, ossia che facesse parte della dotazione di una scuola professionale. L’opera contiene circa 100 ricette tecniche antiche, e dieci passi estratti dal De materia medica, un trattato sulle erbe medicinali scritto da Dioscoride Pedanio, un botanico e medico greco antico vissuto nella Roma imperiale sotto Nerone.

Tra l’altro, Dioscoride descrive anche un macchinario rudimentale per la distillazione, dotato di un serbatoio con una sorta di testa superiore, da cui i vapori entrano in una struttura dove vengono raffreddatie poi subiscono condensazione. Questi elementi solitamente mancheranno negli apparati di distillazione medievali.

Tornando al Papiro di Leida, le sue ricette tecniche non hanno un ordine preciso: trattano la lavorazione dei metalli e delle leghe, dell’oro e dell’argento, degli inchiostri metallici (le ricette dalla 1 alla 88), e dei coloranti per stoffe (ricette dalla 89 alla 99). Le ricette non sono dettagliate: probabilmente servivano solo da promemoria. La presentazione è prettamente pratica. Contiene alcuni passi simbolici ed esoterici, talvolta collegabili alle dottrine alchemiche. Contienne anche alcuni procedimenti per creare leghe metalliche che somigliano all’oro e all’argento.

Analogo contenuto è quello del suo compagno, il Papiro di Stoccolma, anche questo una silloge di trattati precedenti e dato che non presenta significative tracce di usura ed è scritto in onciale greca, regolare, senza tracce di corsiva né di legature, per cui si tratta probabilmente di un testo destinato a una biblioteca.Vi sono indicate 159 ricette o procedimenti chimici piuttosto alla rinfusa (nella pratica sono 155 perché 4 sono ripetuti) e gli argomenti trattati sono la lavorazione dell’argento (ricette 1-9), l’uso e la lavorazione delle pietre preziose (10-88), e delle stoffe (89-159). Non mancano passi simbolici ed esoterici, talvolta collegabili alle contemporanee prime dottrine alchemiche, come alcuni procedimenti per la creazione o l’imitazione dell’oro e dell’argento (sebbene i modelli di Ermete Trismegisto non vengano mai citati, restando quindi a livello di suggestione culturale).

In passato, la notevole enfasi sui procedimenti per creare imitazioni di materiali preziosi ha fatto pensare che i due papiri facessero parte di una sorta di manuale per falsari. Tuttavia, dato che tutte le ricette le ritroveremo, con poche variazione, nei manuali di tecniche artistiche medievali, è probabile che avessero invece uno scopo analogo.

L’enfasi sull’oro, tra l’altro è un indizio, assieme alle miniature rimaste, a supporto di un’idea, che in forme differenti, sta diffondendosi sempre più tra gli studiosi: che il fondo oro non sia un’invenzione specifica dell’arte bizantina, ma un’evoluzione e un adattamento di una convenzione artistica già presente nella media e tarda Antichità. La base di tutto è Plotino, il maestro dell’estetica della luce.

L’uno di Plotino è per lui la luce superessenziale, che si irradia, a guisa di luce effettiva, sugli esseri materiali. In virtù della partecipazione del materiale all’immateriale attraverso tale corrente di flusso luminoso il percorso lungo la scala dell’essere può invertirsi di segno. Le cose visibili sono “luci materiali” che rispecchiano quelle intelligibili. La mente non può però intraprendere questo viaggio da sola, con la sua pura facoltà di pensiero: occorre un innesco materiale, un elemento intermedio tra l’immanenza e la trascendenza. Per cui, l’arte può permettere la comprensione della verità se non si limita a imitare il reale ma supera il sensibile e diventa collegamento con il mondo superiore e divino. All’estetica della quantità, del kanon del mondo classico, basata sul rapporto geometrico e numerico delle parti, si sostituisce quindi un’estetica della qualità, che esalta la virtù della luce e del colore come bellezza semplice, di natura indivisa.

Tenendo conto che quasi totalità della pittura su tavola dell’epoca è andata perduta, non è da escludere che il fondo oro, inizialmente, secondo l’ottica plotiniana, sia stato utilizzato per celebrare la maestà del potere imperiale e per imitazione dei tanti potenti locali e a seguito di un processo di traslazione simbolica e culturale, ad esempio testimoniato dallo Pseudo Dionigi Aeropagita, sia poi passato alla sfera religiosa.

Le catacombe ebraiche di via Labicana

Nell’anno 1882 ebbi avviso dal Signor Avv. Francesco Apolloni che essendosi riaperta una cava antica di pozzolana nella sua vigna posta fuori la Porta Maggiore al secondo chilometro ed a sinistra dell’antica via labicana, si era veduta dai lavoranti un’ apertura la quale conduceva ad un’ambulacro cimiteriale.Recatomi sul posto, fu cosa assai ardua il ritrovare la comunicazione col cimitero per l’immensa vastità dell’arenaria che forma un labirinto inestricabile di vie. A ciò si aggiunga lo stato rovinoso del sotterraneo che minacciava da un momento all’altro di crollare e si comprenderà quanto fosse difficile e penosa quella ricerca. Vi riuscii finalmente con l’abile scorta del proprietario che mi fu cortese d’ogni assistenza e con la guida esperta del cavatore Luigi Caponi il quale da molto tempo mi accompagna nelle mie esplorazioni cimiteriale

Penetrato nell’ipogeo dall’apertura A (vedi la tavola) mi trovai in un cimitero che a primo aspetto mi sembrò cristiano essendo nella forma generale assai somigliante agli altri già noti. Però essendo tornato una seconda volta sul posto, frugando fra le terre nell’ambulacro I L e precisamente nel punto segnato S, scoprii sulla calce presso di un loculo un’antico graffito rappresentante il candelabro a sette braccia simbolo solenne e notissimo del culto giudaico. Allora mi avvidi di aver scoperto un cimitero degli antichi ebrei e ne detti subito avviso al proprietario. Vi condussi anche il mio maestro Comm. G. B. de Rossi il quale riconobbe l’importanza della scoperta e mi consigliò a pubblicarne una relazione.
Anzi il medesimo pose a mia disposizione nel Gennaio 1884 il sunnominato cavatore Luigi Caponi con altri due lavoranti della Commissione di sacra archeologia, ma per tre giorni soltanto non potendoli più a lungo distogliere dai consueti lavori delle catacombe romane. Per quanto breve fosse il tempo concessomi, pure potei riuscire a trovare fra le terre alcuni frammenti di terra cotta con iscrizioni e simboli giudaici ed a sgombrare dalle macerie una tomba arcuata con lettere ebraiche dipinte.

La cosiddetta catacomba ebraica fu identificata nel corso dello scavo per l’estrazione della pozzolana nel 1882 e si estende su un ampio settore su entrambi i lati dell’attuale via Casilina.

Così Orazio Marucchi, il grande allievo di Giovanni Battista De Rossi, il padre dell’archeologia cristiana descriveva la scoperta di una delle catacombe ebraiche meno note di Roma, quelle della nostra Casilina. Orazio, tra l’altro, oltre ad essere l’autore di importanti scoperte (ad esempio basilica di S. Agapito a Palestrina, cripta di Marcellino e Pietro sulla via Labicana, memoria di Marco e Marcelliano nel cimitero di Domitilla, cripta di Felice e Adaucto nel cimitero di Commodilla sull’Ostiense, nuove parti dei cimiteri di S. Agnese e di Priscilla), fu anche un grandissimo divulgatore, sia perchè i suoi libri, assieme a quelli del suo amico Armellini furono una sorta di bestsellers dell’epoca, sia perchè insegnò in parecchie scuole cattoliche di Roma, come il De Merode a Piazza di Spagna: sua peculiarità, è stata di coniugare l’aspetto teorico della docenza con quello pratico. I suoi studenti furono utilizzati come assistenti negli scavi, sia lo accompagnarono spesso e volentieri nelle avventurose esplorazione dei sotterranei dell’Urbe.

Nominato direttore del Museo Egizio Vaticano e di quello Lateranense, proseguì l’opera di divulgazione scientifica, Nel 1890 fu eletto con la minoranza cattolica nel Consiglio comunale di Roma, dove si adoperò per la tutela del patrimonio monumentale, battendosi per la salvaguardia del cimitero di Ciriaca al Verano e per l’introduzione del catechismo cattolico nelle scuole della capitale.

Orazio, per essere eletto, sfruttò a suo vantaggio le ambiguità del non expedit di Pio IX, la disposizione della Santa Sede con la quale si dichiarò inaccettabile che i cattolici italiani partecipassero alle elezioni politiche del Regno d’Italia, con l’alquanto capziosa argomentazione che le elezioni amministrative non erano state citate esplicitamente nel divieto: la questione fu sollevata per screditarlo da parte di alcuni accademici rivali, che si rivolsero a Leone XIII, il quale confermò l’interpretazione di Orazio.

Ora il nostro eroe, descrive la scoperta di questa catacomba ebraica in un opuscolo, è lungo quaranta pagine, intolato Il nuovo cimitero giudaico scoperto sulla via Labicana: catacomba situata nella vigna Apollonj (già Aldobrandini), una proprietà che all’epoca veniva definitiva anche di “Monte d’Oro delli Hebrei”a testimonianza del fatto che nel tempo si fosse mantenuta memoria della sito cimiteriale. L’area, posta a nord dell’attuale via Casilina, si estendeva sui due lati dell’antica via Labicana, attualmente corrispondente a nord con i civici nn. 351-373 e a sud con il civico n.224 di via Casilina. L’estensione del complesso arrivava fino alla zona della vigna Mareita o Marolda o Marolla-Pitilli o Petilli (corrispondente ad un settore della antica vigna della Certosa). In via approssimativa si può quindi supporre che il reticolo catacombale si estende in una zona delimitata da via Filarete, via Alessi, via Anassimandro, via Dulceri e via Bufalini.

La planimetria del cimitero – che Marucchi esplorò in parte – era caratterizzata da una galleria principale (orientata est-ovest) che a ovest si intersecava con un altra galleria collegata a diversi cunicoli. I cunicoli avevano la caratteristica di essere ad arco a tutto sesto e per avere le pareti organizzate su tre livelli di loculi, i quali erano poi chiusi con lastre di terracotta e ricoperte da intonaco. Presso altri cubicoli, invece, erano ricavati sepolcri in muratura.

In un brano, infatti Orazio ci tiene ad evidenziare

La pianta generale del cimitero è somigliante a quella delle catacombe cristiane, con ambulacri che si tagliano in direzioni diverse e cubiculi o cappelle aperte lateralmente ai corridoj. La forma pure dei sepolcri è pressoché la medesima dei loculi, come può vedersi dalla sezione trasversale posta sotto la pianta. La qual cosa era già nota per la scoperta delle catacombe ebraiche della via portuense fatta dal Bosio, e per l’altra più recente della vigna Randanini sulla via Appia. Vi sono poi anche nel nostro alcune particolarità tutte proprie dei cimiteri giudaici delle quali in seguito tratteremo.

Particolarità così evidenziate

Ho detto che i cimiteri giudaici sono somiglianti ai cristiani : ma somiglianzà non è identità. Ed infatti erano già note alcune specialità di forme che gli uni dagli altri distinguono. In generale le gallerie dei cimiteri giudaici sono più larghe delle cristiane, e di forma alquanto arcuata come si vede nella sezione trasversale della nostra tavola, I sepolcri sono generalmente a foggia di loculi come nei cimiteri cristiani, ma a differenza di questi sono chiusi quasi escluvamente da lastre laterizie e spesso ricoperti intieramente da intonaco. Alcune tombe di forma speciale che si riscontrano talvolta nei cimiteri giudaici, son quelle fosse aperte orizzontalmente nel suolo delle gallerie che diconsi cocim cioè fosse e che sono ricordate dalla Miscnà. Ma di questi cocim che si veggono frequentemente adoperati nel cimitero di vigna Randanini, e che secondo il Bosio esistevano pure in quello della via portuense non abbiamo finora trovato traccia nel nostro cimitero di via labicana. In esso però vi riscontriamo un’ altra caratteristica tutta propria dei cimiteri giudaici, cioè quei corti ambulacri aperti lateralmente agli ambulacri maggiori e che nella pianta sono contraddistinti dalla lettera D.

La presenza di raffigurazioni graffite o dipinte di candelabri a sette bracci, ha fatto attribuire la natura ebraica del cimitero… Ma doveva vivevano questi ebrei, che utilizzarono il cimitero in un periodo non precedente al III sec. d.C. ? Di seguito il ragionamento di Orzio

Passiamo ora a vedere se il cimitero giudaico da me scoperto sulla via Labicana avesse relazione con qualche centro della comunità israelitica, nell’interno dell’antica Roma. Che gli ebrei vivessero separati dal resto della popolazione lo afferma Tacito: e che abitassero in gran numero nel Transtevere lo ricaviamo da Stazio e da Marziale. Nel Transtevere esisteva il loro principale quartiere, il ghetto dei tempi romani, di cui però non si conosce ancora il posto preciso. Il Bosio fu di parere che le abitazioni giudaiche transtiberine fossero aggruppate nei dintorni della odierna chiesa di s. Salvatore della Corte: ed anzi propose la congettura che tal nome derivasse a curtìs Iudaeis ; ma oggi sembra più verosimile che il titolo di quella chiesa derivi piuttosto dalla prossima stazione della coorte settima dei vigili. Dalla scoperta di un’antica iscrizione sembra potersi dedurre che gli ebrei dimorassero non lungi dalla così detta porta Settimiana

Questi ebrei del transtevere aveano il loro proprio cimitero non lungi di lì sulla via Portuense, cimitero che fu scoperto dal Bosio nel 1602, e poi divenne inaccessibile per qualche franamento di terra.

Un altro quartiere israelitico, forse di origine posteriore al transtiberino, si estendeva dall’antico emporio ai dintorni del circo massimo e giungeva fino al bosco di Egeria adiacente alla porta Capena di Servio Tullio . E gli abitanti di questo nuovo centro aveano pure i loro sepolcri fuori della porta più prossima, cioè sulla via Appia. E su questa via abbiam trovato fino ad ora tre gruppi diversi di tombe giudaiche, cioè il grande cimitero di vigna Randanini più volte ricordato, quello minore di vigna Cimarra dietro la chiesa di s. Sebastiano e l’altro ancor più piccolo recentemente scoperto dal ch.dottore Nicola Mùller sulla via Appia Pignatelli

Insomma gli antichi ebrei seppellivano i loro morti lungo le vie più prossime ai loro centri di abitazione, come sappiamo che facevano i cristiani deponendo i cadaveri dei fedeli dimoranti nei vari titoli o parrocchie nei cimiteri più vicini ai titoli medesimi e che da questi dipendevano. Da siffatti confronti può dedursi per analogia che anche il nostro cimitero della via Labicana abbia servito ad un quartiere giudaico posto non lungi dalla porta Esquilina., da cui prendeva le mosse quella strada. La porta Esquilina stava all’estremità meridionale dell’aggere di Servio e vien collocata dai topografi precisamente in quel punto ove poi fu eretto l’arco onorano dell’imperatore Gallieno detto modernamente, dal nome della prossima chiesa, l’arco di s. Vito. Tutti sanno che l’aggere di Servio, come il restante delle sue mura, fu nei tempi imperiali intieramente coperto da edifizi pubblici e privati e fra questi vi furono anche delle taberne o botteghe. Da un’antica iscrizione sepolcrale impariamo così per
caso che fra le taberne situate presso l’aggere di Servio vi era quella di un tal Publio Oorfidio Signino venditore di frutta (pomarius) la cui botteguccia era distinta dalla indicazione topografica « de aggere a proseucha »

Ora è notissimo che Prosèucha dicevasi dagli ebrei ellenizzanti il luogo delle loro comuni adunanze, e che perciò era la stessa cosa della Sinagoga. Dunque presso l’aggere di Servio esisteva una Sinagoga giudaica a tutti notissima, se potè servire di indicazione per la taberna di Corfidio Signino. E perciò è ragionevole il supporre che intorno a quell’edilìzio esistessero pure abitazioni giudaiche. Io credo che tale proseuca si trovasse poco lungi dalla porta suddetta e dove avea principio la regione della Suburra, la quale poi si estendeva nella gola compresa fra l’ esquilino oppio e il viminale ; e son di parere che questa fosse precisamente la sinagoga dei giudei chiamati siburensi.

Per cui, per sintetizzare, il tutto, la catacomba era l’ultima dimora dell’antichissima comunità ebraica dell’Esquilino, che come oggi si dedicavano al commercio e le cui botteghe erano presenti nel Forum Esquilinum, il più antico e il più importante spazio commerciale dell’Esquilino nell’antichità, ma di questa vasta piazza con funzioni di mercato non è giunta fino a noi alcuna traccia. Le notizie più precise ci giungono dallo storico Appiano (bell. civ. 1.58), in un passo in cui si descrive l’attacco di Silla alla città di Roma nell’88 a.C.: quando già gli assedianti avevano occupato le mura e la Porta Esquilina, racconta lo storico, i partigiani del generale Mario, asserragliati all’interno della città, resistettero a lungo trovando rifugio proprio nel Forum. Gli studiosi ipotizzano che la vasta piazza fosse collocata nella zona immediatamente all’interno della Porta Esquilina, dove sono state trovate a fine Ottocento alcune iscrizioni che sembrano confermare questo racconto, e ci informano sul sistema di gestione di questo importante spazio pubblico, grazie ad alcune epigrafi che citano il magister vici, un magistrato incaricato della gestione di aree pubbliche. Ancora grazie a una epigrafe che cita due argentarii a foro Esquilino, artigiani orafi, conosciamo una delle botteghe che trovavano spazio all’interno di quest’area commerciale. Il Forum Esquilinum rimase in uso per lunghissimo tempo, come dimostra una iscrizione che ricorda un restauro fatto a metà del V secolo d.C. da parte del praefectus urbi, il prefetto urbano che ricopriva varie cariche legate alla tutela dell’ordine pubblico all’interno della città. Ebrei la cui sinagoga doveva trovarsi nella zona compresa tra San Vito, Sant’Eusebio e San Giuliano…

Scavi italiani a Cipro

Da qualche anno, l’Università di Catania, grazie a un accordo tra Italia e Repubblica di Cipro, sta compiendo una serie di interessantissimi scavi a Nea Paphos, una delle più grandi città dell’Oriente ellenistico-romano, che per lungo tempo fu anche capitale dell’isola. Nel luglio 1988 la missione condotta da chi scrive e composta da elementi provenienti dall’Università di Catania, e nei primi anni anche dalla Scuola Archeologica Italiana di Atene, ha iniziato uno scavo nell’area del cosiddetto “Garrison’s Camp”, nella parte Nord-occidentale della città. Essa era già stata parzialmente esplorata nei decenni passati, rivelando un notevole complesso di camere sotterranee scavate nella roccia riferite al culto di Apollo sulla base della rassomiglianza di due di esse con quelle del santuario di Apollo Hylates, scoperto nella parte Sud-orientale del villaggio di Kato Paphos. In realtà fino a quel momento non esisteva alcuna evidence per riferire il monumento ad una particolare divinità piuttosto che ad un’altra, anche se appariva evidente il carattere misterico.

Il complesso, al momento dello scavo, presentava ad Est un lungo corridoio di accesso di cui erano visibili alcuni blocchi emergenti sul piano di campagna, una scala di accesso semicoperta dalla terra, quello che allora appariva una sorta di vestibolo, e, verso Sud, una prima camera circolare, un lungo corridoio (“A”) ed altri tre ambienti aperti nella parte meridionale dello stesso: uno semicircolare, un secondo circolare, un terzo quadrangolare. Ad esso era possibile accedere anche da un secondo ingresso opposto al primo, sulla cui parete settentrionale si apre un’esedra e a cui segue, più ad Est, l’accesso ad un secondo complesso costituito da un secondo corridoio (“B”) e da altre tre camere oggi parzialmente interrate. Resti, infine, di un edificio absidato erano visibili ad Occidente dell’area presa in esame. Lo svuotamento delle camere operato intorno agli anni cinquanta, e di cui purtroppo non esiste alcuna documentazione scritta, ha consigliato di iniziare i nuovi scavi nella larga spianata ad Est delle camere ipogeiche, e, successivamente, ad Ovest delle stesse, anche se purtroppo la stratigrafia appariva vistosamente sconvolta da buche qui in quell’epoca scavate.

Pnto di partenza delle indagini degli archeologi italiani è stato il saggio di Kiriakos Nikolaou, The topography of Nea Paphos. Lo studioso, a proposito degli ambienti ipogeici, così si esprimeva:

Le camere così sistemate possono identificarsi con un quartiere di soldati. Il fatto che il sito sia vicino alla porta Nord delle mura urbiche può suggerire che questo complesso sia un campo militare dove la guarnigione della città o parte di essa era alloggiata”.

E per dare peso alla sua ipotesi fa riferimento ad una generale discussione sui caserme in epoca ellenistica in cui cita anche un’iscrizione frammentaria di petizione indirizzata a Tolomeo VI od VIII da talune truppe stanziate a Nea Paphos. Ricordiamo infatti come Cipro, a seguito delle guerre civili dovute alla morte di Alessandro Magno, divenne parte dell’Egitto Tolemaico, ottenendo poi l’indipendenza snel 106 a.C., quando Tolomeo IX Sotere Latiro scappò dall’Egitto e si proclamò re dell’isola. Quando poi Tolomeo IX tornò ad essere faraone nell’88 a.C., il regno ridiventò parte del regno tolemaico d’Egitto. Nell’80 a.C. il regno riacquisì indipendenza quando il nuovo faraone Tolomeo XII Aulete nominò il fratello minore, Tolomeo di Cipro, re dell’isola. Il dominio tolemaico finì nel 58 a.C., quando la repubblica romana decise di annettere l’isola per una legge del tribuno della plebe Publio Clodio Pulcro (la Lex Clodia de Rege Ptolemaeo et de exsulibus Byzantinis), che inviò Marco Porcio Catone a conquistarla.

Tornando all’ipotesi che il complesso fosse parte di una caserma ellenistica, K. Nicolau aggiunge:

“È molto probabile che le camere sotterranee rimasero in uso come un santuario attaccato al campo, ed è possibile che durante il periodo ellenistico qualche dio egizio, come Isis o Serapis fu introdotto; o, durante il periodo romano, una divinità quale Mitra”.

Egli quindi conclude:

Ulteriori indagini del sito potranno chiarirlo, ma sui dati presenti è possibile ipotizzare che esso fu un campo militare dove truppe della guarnigione della città erano allocate”.

Jolanta Mlinarczik, nel volume Nea Paphos III, pubblicato poco prima degli scavi italiani, già avanzava dubbi sull’ipotesi di Nicolaou:

“Ma persino non badando al discutibile punto della localizzazione, l’intero complesso di Toumballos è troppo esteso e ben progettato per essere stato il santuario di una guarnigione militare”.

E conclude la studiosa:

“che il santuario di Toumballos si trovi al margine della città, lontano dai quartieri più attivi, non dovrebbe essere considerata prova dei suoi supposti legami con caserme militari, come ipotizzato da Nikolaou, ma piuttosto ancora più una testimonianza della natura ctonia del culto accompagnata da misteri”.

Culti misterici che risalgono probabilmente, come in Grecia, all’età del Bronzo, quando Cipro era uno dei principali hub del commercio dei metalli. Tra il 1300 e il 1200 a.C. ci fu un periodo di prosperità cipriota. Città come Enkomi furono ricostruite a griglia rettangolare e furono costruiti numerosi e grandiosi edifici. In alcuni di questi edifici sono stati ritrovati impianti per la lavorazione e conservazione dell’olio d’oliva. Santuari con altari sono stati trovati a Myrtou-Pigadhes, presso Enkomi, a Kition e a Kouklia. Sia la disposizione regolare della città sia le tecniche murarie trovano parallelismi con alcuni ritrovamenti archeologi in Siria, soprattutto ad Ugarit.

Ritrovamenti di relitti il cui carico era formato da lingotti di rame, davanti alle coste cipriote, testimoniano che Cipro era un’importante base per il commercio di questo metallo.

Verso la fine dell’età del Bronzo, Cipro faceva parte dell’impero ittita, ma era uno Stato cliente e come tale non era stato invaso dal regno anatolico, ma piuttosto era governata dal re di Ugarit. Durante il regno di Tudhaliya I/II, l’isola fu occupata per poco tempo dagli Ittiti per proteggere il rame e contrastare la pirateria e tenere a bada i tentativi micenei di conquista.

Lo scavo della missione italiana, a partire dal 1988, ha rinunciato ad esprimere opinioni premature sulla natura del complesso di camere ormai svuotate del loro contenuto ed ha preferito piuttosto indagare sulle emergenze visibili intorno al santuario, per ricavare da queste quegli elementi che potessero servire, in un secondo momento, ad una valutazione dell’intero complesso.A questa logica ha ubbidito, da una parte, lo scavo nell’area ad Est della scala di accesso al santuario ipogeico, e dall’altra, ad Ovest, delle camere ormai a vista.

In particolare, ad Est, in direzione della scala che portava alle camere ipogeiche, emergevano alcuni blocchi squadrati di calcare. Le indagini condotte in quest’area, hanno messo in luce un lunghissimo dromos di accesso al santuario, che ha superato i 72 metri di lunghezza fino raggiungere un costone roccioso dentro il quale sprofonda in camere che la nostra missione ha per la prima volta messi in luce (da esse sta venendo fuori una notevole quantità di materiale del periodo della fondazione), per uscirne in direzione Nord-Sud. Di esso, appare conservato in tutta la sua lunghezza il muro settentrionale, il quale in alcuni punti mostra un bel poligonale, ed, in altri, dei rifacimenti successivi in cui appaiono riutilizzati grossi blocchi quadrangolari. Del muro meridionale del dromos sono superstiti soltanto due blocchi subito ad Est del primo gradino della scala di accesso al santuario, mentre la rimanente parte è stata completamente smontata e riutilizzata per la costruzione di un popoloso quartiere che si è appoggiato al muro settentrionale del dromos, a partire dalla fine del IV sec. d.C., quando, chiusi i culti pagani, l’area fu risistemata a quartiere urbano in vicinanza, come vedremo, di una basilica che s’impiantò fondendosi con esso riutilizzando le strutture dell’edificio pagano.

Il santuario a chi oggi visita lo scavo, rivela un notevole complesso di camere sotterranee scavate nella roccia e, ad Est, un lungo dromos di accesso ed una scala che conduce agli ambienti e ai corridoi sotterranei.Non lontano dalla scala di accesso al santuario sono venuti alla luce i resti di una copiosa stipe votiva, che ha restituito materiale databile tra il III ed il II secolo a.C.; significativamente, molti dei pezzi sono stati rinvenuti sul piano di calpestio dello stesso dromos, buttati lì probabilmente nel momento della rimozione del muro meridionale e della realizzazione del nuovo quartiere urbano, allorquando chiusi i culti pagani, si edificò una basilica paleocristiana sulle strutture del santuario subito ad Ovest delle camere ipogeiche, e comunque al di qua del peribolo che racchiudeva le strutture santuariali.Il nuovo edificio di culto, oggetto di accurate indagini, sta acquistando man mano la fisionomia di un martyrium paleocristiano.Indagini condotte sotto le fondazioni del muro settentrionale della navata centrale hanno, innanzitutto, consentito di datare l’edificio, nella sua prima fase, alla fine del IV secolo d.C.

Esso presenta un’iconografia inconsueta e piuttosto rara: al doppio nartece ed alla navata centrale seguono, in pendant, due absidi (una interna ed una esterna) entrambe innestate sui muri della navata. L’ampio spazio, delimitato da esse, dà accesso ad una cripta formata, nelle pareti orientale ed occidentale, dai due bracci rocciosi di uno dei corridoi del santuario pagano e, nella parete di fondo, da un muro appositamente innalzato realizzandosi in questo modo una simbiosi perfetta tra il santuario pagano e la piccola basilica paleocristiana.A Sud dell’esonartece corre un piccolo corridoio, chiuso ad Ovest che dal peribolo del santuario pagano realizzato nella roccia, ha impedito all’edificio cristiano di espandersi in questa direzione.

In realtà, la sovrapposizione dell’edificio di culto cristiano sul santuario pagano ha determinato delle singolarità nella pianta, che è possibile attribuire alla volontà di riutilizzare, per quello che era possibile, le antiche strutture, sia a scopo simbolico, sottolineare il trionfo della nuova religione sull’antica, sia per risparmiare tempo e denaro. A parte il fatto che la presenza del peribolo in roccia ad Ovest ha consentito soltanto uno sviluppo orizzontale Nord-Sud, il semicerchio settentrionale dell’abside interna, i cui blocchi sono stati asportati in antico, ma di cui rimangono tracce “sagomate” di malta, fu poggiato sulla superficie superiore di due grandi vasche rettangolari, che dovevano essere adibite a vasche per le esigenze idriche del santuario. La presenza delle vasche ha determinato uno sviluppo singolare dell’ala settentrionale dell’edificio cristiano: a Nord della navata centrale sono stati isolati, infatti, due piccoli ambienti; il primo ad Est, è adagiato al livello dello spianamento roccioso; tutt’attorno, precedenti interventi nell’area, intorno agli anni 50’/60’, hanno purtroppo distrutto le connessioni con la stessa navata centrale e con le grandi vasche del santuario pagano; il secondo, ad Ovest, sostiene una piccola scala, i cui gradini parzialmente conservati portano ad un altro grande ambiente rettangolare sistemato ad un livello superiore rispetto alla navata centrale. Di questo, finora solo parzialmente scavato, si è conservato il letto pavimentale; esso trova la conclusione ad Est, in una piccola abside scavata nella roccia, che presenta uno scasso centrale ad U, e che appare in asse -fatto molto significativo- con una tomba anch’essa scavata nello stesso costone roccioso, raggiungibile tuttavia dall’esterno, dalla scala di accesso al santuario pagano.

Inesplorata resta ancora la chiusura del lato settentrionale dell’edificio cristiano e, finora ignoto il rapporto del piano dell’ambiente absidato con un’esedra del santuario pagano, realizzata al livello del piano roccioso, e con altre camere dello stesso che si aprono subito ad Ovest dell’esedra. Decisivo per la ricostruzione del culto cristiano nel IV-V sec. d.C. è stato lo scavo della cripta, dove, attorno ad una piccola struttura quadrangolare piena di terra bruciata, una serie di vasi sembrano comporre un “servizio”: sono stati raccolti una lucerna, una ciotola, un boccale, un’anfora, purtroppo frammentaria, che conserva il collo a cui è attaccata una sola delle due anse: all’interno di questo, in mezzo alla terra, è venuto fuori un pezzo di stoffa molto rozza ed un piccolo frammento osseo di spina di pesce.

L’eccezionale scoperta ha messo in moto una serie di suggestive ipotesi collegate al momento della cristianizzazione di Cipro ed in particolare al momento in cui doveva essere vivo, a Paphos, il ricordo di Ilarione, il santo che lì predicò e morì sullo scorcio del IV secolo d.C.

Secondo l’agiografia, compì gli studi ad Alessandria, dove si convertì al cristianesimo e fu battezzato. Desideroso di dedicarsi alla vita ascetica, incontrò Sant’Antonio l’anacoreta e quindi tornò in Palestina dove, dopo aver scoperto della morte dei propri genitori, donò tutti i suoi averi ai poveri. Dopo aver introdotto l’ascetismo nel territorio circostante Gaza, si dedicò alla vita monastica viaggiando per tutto l’Impero Romano. Nel 330 si imbarcò per la Sicilia, dove visse come eremita in una grotta a Cava Ispica.Verso la fine della sua vita, sempre secondo le stesse fonti, i suoi miracoli gli diedero fama di guaritore e viaggiò, dal 365, ininterrottamente per l’Italia, la Croazia e Cipro, inseguito da folle di ammalati.

Manca finora un’evidenza epigrafica completa (si è trovata finora un’epigrafe in marmo in cui si legge ΙΩΝ, se non forse PIΩN, che consenta di identificare il tempio di Apollo a Toumballos con quello dove predicava il santo monaco. Certo è che il primo impianto della piccola basilica, costruita con e sui muri dell’edificio pagano, si può datare negli anni immediatamente successivi alla morte dell’anacoreta, il quale prima fu seppellito e, successivamente, riesumato dai discepoli e traslato a Gaza. La piccola basilica rappresenta con ogni probabilità, la “Memoria” legata alla vita ed ai miracoli del santo, ed il servizio da mensa, collocato nella cripta nel VI secolo d.C., lo sarebbe stato a ricordo dello stesso.

Indagini topografiche, fondate sulla testimonianza di San Girolamo, che pone in secondo ab urbe miliario la prima residenza di Ilarione, il quale predicava “vicino alle rovine di un tempio antichissimo”, e collocava a dodici miglia dal mare la seconda residenza, hanno consentito di avanzare l’ipotesi che proprio il santuario ipogeico di “Garrison’s Camp” doveva essere quello della “evangelizzazione”; e che la grotta di Episcopi, sulle colline di Paphos, indicata dalla tradizione locale come quella di S. Ilarione, sia il luogo dove il santo, a causa dell’affollamento dei pellegrini, e per consiglio del fedele Esichio, si spostò.

In realtà viene lentamente maturando la convinzione che il sito di Garrisson’s Camp, lungi dall’essere un quartiere periferico della città di Paphos, fosse quello dei grandi santuari ipogeici pagani (un altro santuario ipogeico si intravede più ad Ovest del nostro, segnalato da grossi verdi cespugli di macchia mediterranea che spiccano nel brullo dell’area circostante): e proprio in quel luogo forte dovette essere la lotta tra i pagani e la nuova religione nascente. Non senza emozione, difatti, nella campagna del 1999 è venuta alla luce un’epigrafe marmorea in due righe in cui è possibile leggere “lou osto”: se l’integrazione in [PAY]LOY [AP]OSTO[LOY] è corretta avremmo la prima testimonianza archeologica della presenza dell’apostolo a Cipro, finora attestata solo dagli Atti degli Apostoli, i quali ricordano che il santo, arrivato sull’isola, convertì il proconsole romano Sergio Paolo, e che in suo onore cambiò il nome da Saulo in Paulo. In collegamento con la piccola basilica è possibile documentare una risistemazione di tutta l’area del santuario dalla fine IV/inizi del V sec. d.C fino al momento dei raid arabi della metà del VII sec. d.C.: sulla faccia interna del muro settentrionale del dromos di accesso allo stesso viene addossata, infatti, una serie di ambienti, alcuni dei quali decorati a mosaico.

La futura indagine chiarirà se qui non si addensi da questo momento in poi, il quartiere “cristiano”, in contrapposizione a quello “pagano”, dell’area sud-occidentale della città, in cui si ammirano le coeve, grandi dimore patrizie con le suggestive immagini di Aion, di Teseo che uccide il Minotauro, di Orfeo, della nascita di Achille e del trionfo di Dioniso. L’esplorazione, ancora, dell’area a Nord del santuario ipogeico comincia a dare risultati abbastanza promettenti. Alcuni saggi ai bordi di un’ampia depressione a forma grosso modo ovoidale, a Nord del dromos di accesso alle camere ipogeiche, ha permesso di mettere parzialmente in luce una sorta di xystos, un piccolo stadio per allenamento.Esso era probabilmente preceduto, a Nord, nell’area a ridosso delle mura urbiche che chiudono da questa parte la città, da stoai, come farebbero pensare alcuni blocchi allineati in senso Est-Ovest e Nord-Sud.Se le esplorazioni delle prossime campagne dovessero confermare tale supposizione, Garrison’s Camp, ritenuto finora area destinata ad accogliere guarnigioni militari, potrebbe assumere ben altra dimensione, per la presenza di grandi santuari e di attrezzature sportive ad essi collegate.

Sfugge purtroppo, finora, il culto praticato a Toumballos; esso è stato riferito ad Apollo sulla base della rassomiglianza delle camere ipogeiche con quelle del santuario di Apollo Hylates, scoperto nella parte orientale di Kato Paphos. Non sembra tuttavia senza significato il rinvenimento di un piccolo frammento a vernice nera in cui è possibile leggere ολλ o il rinvenimento, ancora più significativo, di un frammento di vaso attico a figure rosse in cui è chiaramente discernibile Artemide con la faretra dietro le spalle ed un kanoun in mano. Non sfugge in ogni caso il carattere misterico del culto. Le buie camere sotterranee rischiarate soltanto da stretti lucernai praticati al centro del soffitto, dovevano essere illuminate dalle torce degli iniziati che nei corridoi ipogeici concludevano la lunga processione iniziata all’ingresso del lunghissimo dromos di accesso. A partire dalla fine del XII e degli inizi del XIII secolo d.C. l’area attorno al santuario ed alla piccola basilica, certamente abbandonata e resa deserta dalle incursioni arabe del VII sec. d.C., registra tracce di vita, come confermerebbero alcuni ambienti che si addossano da una parte e dall’altra al muro settentrionale del dromos. Esplorazioni, d’altra parte, sulla collina soprastante il santuario hanno messo in luce i resti di ambienti di epoca medievale (torretta di avvistamento?).

Particolarmente proficuo si è rilevato lo scavo di uno di questi, al centro del quale è stato rinvenuto un pilastro in blocchi chiaramente precipitato in seguito ad un evento traumatico, molto probabilmente sismico, che ha “sigillato” una grande massa di ceramica medievale e tardo medievale: il rinvenimento di monete veneziane del doge Gerolamo Priuli (1559-1567) ha consentito di datare tale evento nel XVI secolo d.C. Gli scavi della missione italiana a Paphos, quindi, stanno gettando luce sulla vita e sugli esiti del santuario pagano per ben circa un millennio, dalla seconda metà del IV secolo a.C. fino al momento dei raids arabi. Se la lettura di San Girolamo coglie nel vero, l’area del cosiddetto “Garrison’s Camp” riceve nuova luce, nella misura in cui essa si rivela come il punto dove i cristiani predicavano e propagandavano la nuova fede: un luogo quindi dove fortemente era radicata la fede pagana, e da dove doveva propagarsi, se voleva aver successo, la fede cristiana. Era certamente quello il luogo dei grandi santuari dove la folla si riuniva per celebrare gli antichi riti pagani e dove i Santi, a partire da San Paolo, predicavano il nuovo verbo divino e scacciavano i demoni.

Ancora la Vita Ilarionis di San Girolamo ci aiuta a focalizzare questo momento cruciale del passaggio dall’antica alla nuova religione. Un suggestivo parallelo possiamo trovarlo nell’arrivo di San Ilarione ad Elusa sulla via per il deserto di Gades (Vita 16,1), proprio nel giorno in cui le celebrazioni annuali avevano raccolto nel tempio di Venere tutta la popolazione della città. Ebbene gli abitanti di Elusa, colpiti dalla fama della sua santità “non lo lasciarono partire prima che tracciasse il contorno della chiesa che sarebbe dovuta sorgere (“non prius abire passi sunt quam futurae ecclesiae limitem mitteret”). Ad Elusa (nella vicina Siria), come a Paphos, il nuovo edificio sarebbe sorto per “ricordare” il passaggio ed i miracoli del santo. Da questo momento in poi, credo, se abbiamo colto nel vero, dovremo chiamare la località da noi indagata non più come “Garrison’s Camp”, ma “l’area dei grandi Santuari”.

Questo è soltanto uno dei cantieri archeologici attivi a Cipro. Un altro sito molto interessante di epoca romana è quello della località Piadhia, nel villaggio di Akaki, distretto di Lefkosia (Nicosia), avviato nel 2013 e ancora in corso: i resti architettonici riportati alla luce appartengono a un edificio sviluppato intorno a un grande bacino – circondato in parte da portici – che sembra aver giocato un ruolo significativo nell’uso del sito. I portici circondavano il bacino a est e a sud, mentre lungo il lato settentrionale del bacino diversi canali sotterranei e di superficie erano utilizzati per la circolazione dell’acqua. La parte ovest è attualmente oggetto di scavi.

Tra le aree più interessanti figura il portico meridionale che si è conservato quasi interamente e che è adornato da straordinari mosaici. Costituito da un lungo corridoio di 26 x 4 metri, è interamente coperto da mosaici. I pannelli che lo compongono sono ben sette, di diverse dimensioni, circondati e divisi uno dall’altro da una serie di cornici. Il pannello centrale raffigura la scena di un carro in un ippodromo (scena del circo). La scena del circo mostra più quadrighe e ogni quadriga è guidata da un auriga in piedi ed è accompagnata da due iscrizioni scritte in greco che indicano il nome dell’auriga e il nome di uno dei cavalli. Il pannello centrale è, inoltre, incorniciato da pannelli più piccoli con una ricca decorazione geometrica, mentre le estremità ovest ed est del corridoio presentano un pannello decorato con un motivo a ghirlanda in un cerchio formato da 8 cerchi intrecciati che includono medaglioni raffiguranti busti di figure femminili identificate come le nove Muse.

Il mosaico può essere fatto risalire al 4 ° secolo d. C. e presenta un impressionante stato di conservazione, nonché una sofisticata manifattura. Sebbene non sia stato ancora stabilito se l’edificio sia una villa privata o luogo pubblico, la presenza di questo mosaico in un’area remota dell’entroterra offre importanti nuove informazioni per la vita a Cipro nel periodo a cui risale.

Vale la pena, inoltre, sottolineare la rarità del tema di una corsa equestre all’interno di un ippodromo, raffigurato in un pavimento a mosaico, tema predominante delle zone occidentali dell’Impero romano. Sebbene attività circensi avessero luogo in molte parti delle province romane dell’Est, in questa parte dell’Impero non era ancora stato ritrovato alcun riferimento iconografico inerente alle corse con i carri. Il mosaico di Akaki è, quindi, per ora, il mosaico di epoca romana con questo tema posizionato più a est e fornisce importanti ulteriori informazioni sull’uso dei pavimenti a mosaico a Cipro.