
Per finire l’anno in bellezza, parlo di uno dei più discussi quadri non solo del catalogo di Giorgione, ma dell’intera Arte Occidentale, ossia la Tempesta, che può sembrare strano, per la sua incomprensibilità, sta anche sulle scatole a diversi storici e critici: cito ad esempio il buon Augusto Gentile, di solito pacato e misurato e non è facile ironia.
La Tempesta non è il capolavoro di Giorgione né il caposaldo della pittura veneziana del Cinquecento: un capolavoro definisce con chiarezza il suo soggetto e lo serve funzionalmente con proprietà e coerenza d’iconografia e di linguaggio, senza costringere lo spettatore a giochi d’indovinelli; un caposaldo genera una rete di relazioni e sviluppi, di esperimenti e superamenti, e non due o tre semianonime imitazioni. È particolarmente difficile anche la datazione, perché la discontinuità esecutiva fa saltare i parametri del giudizio “stilistico” (che dunque si rivelano approssimativi, congetturali, illusori). Non c’è narrazione o informazione, non ci sono indicazioni gestuali o suggerimenti espressivi, e nemmeno elementi simbolici repertorialmente riconoscibili: la Tempesta è il più reticente fra tutti i reticenti quadri di Giorgione.
Questo può significare che il soggetto è ancora più esclusivo del solito e che ancora ci manca la chiave, il codice, il contesto, la cultura; oppure che nell’originario processo da invenzione a esecuzione del dipinto, e magari nella sua storia materiale successiva, c’è qualcosa che non va; oppure che, dopo cent’anni e più d’indagini e proposte, gli elementi della ricostruzione possibile si sono irrimediabilmente mescolati e confusi; o forse un po’ di tutte queste cose
Premesso che non ne condivido il giudizio estetico, sulla questione dell’interpretazione, non posso che dargli ragione. La Tempesta, per chi non l’avesse presente è un dipinto a tempera a uovo e olio di noce (83×73 cm) di Giorgione, databile intorno al 1505, conservato nelle Gallerie dell’Accademia a Venezia.
L’opera è citata nel 1530 da Marcantonio Michiel, che parlò di un “paesetto in tela con la tempesta con la cingana e il soldato, fu de man de Zorzi de Castelfranco” nell’abitazione di Gabriele Vendramin, che probabilmente ne era stato il committente. Chi diavolo sono questi due ? Marcantonio, di cui ho parlato altre volte, che era un patrizio veneziano, oltre a essere un grande collezionista, possedeva quadri di Giorgione, a Jacopo de’ Barbari e Giovanni Bellini per la pittura e sculture del Riccio, il Bellano e Severo da Ravenna, si dedicò a un’attività per l’epoca innovativa: catalogò le opere presenti nelle collezioni d’arte più rilevanti di Padova, Milano, Pavia, Bergamo, Crema e Venezia. I suoi appunti, che probabilmente avrebbe voluto sviluppare in una storia dell’arte analoga a quella di Vasari, che tra l’altro ignorò la Tempesta, considerando Giorgione non un pittore di paesaggi, ma sommo ritrattista, scrivendo
Lavorò in Venezia nel suo principio molti quadri di Nostre Donne et altri ritratti di naturale, che sono e vivissimi e belli
furono raccolti ne Notizia d’opere di disegno, il cui manoscritto fu però ignorato per secoli, per essere pubblicati 1800. Gabriele Vendramin era esponente di una casata “nuova” che dové la propria fortuna ad Andrea Vendramin, vissuto nella seconda metà del XIV secolo. Di origine friulana, fece fortuna grazie al commercio di derrate alimentari e, entrato nel ceto cittadinesco, fu nominato guardian grande della Scuola Grande di San Giovanni Evangelista; in questa veste, fu protagonista del miracolo della Croce, caduta nel canale di San Lorenzo durante una processione nel 1370 e che si lasciò recuperare solo dal Vendramin (l’episodio fu immortalato in un celebre dipinto di Gentile Bellini per la stessa Scuola Grande).Il 4 settembre 1381, grazie al finanziamento di uomini e galee da impegnare nella guerra di Chioggia, il Vendramin e la sua famiglia entrarono nella nobiltà veneziana, assieme ad altre ventinove casate di estrazione popolare
Ora Gabriele ebbe una vita molto più normale del suo antenato: ricco sfondato, frequentò il circolo intellettuale di Caterina Corner, si interessò con Bembo alla “questione della lingua” e al neoplatonismo ed ebbe come hobby l’alchimia, l’astrologia e la filosofia naturale. Sappiamo poi come fosse particolarmente legato alla sua collezione di quadri, tanto che nel suo testamento citò esplicitamente “molte picture a ogio et a guazo in tavole et tele, tute de man de excelentissimi homeni, da pretio et da farne gran conto”. Si raccomandò quindi agli eredi di non alienare né smembrare per alcuna ragione la raccolta. Ricordiamo come tra il Settecento e l’Ottocento La tempesta ebbe un altro titolo, alquanto bizzarro, di la Famiglia di Giorgione, citato tra l’altro anche da Byron… Come possa venire in mente una cosa del genere, nel vederlo, è una cosa che non sono mai riuscito a spiegarmi. A titolo di pettegolezzo, all’epoca si pensava che Paris Bordon, il pittore di Treviso, nato nel 1500, fosse supposto figlio naturale del Giorgione, sulla scorta di un’interpretazione assai forzata di un passo di Vasari della sia vita di Tiziano
Ma quegli che più di tutti ha imitato Tiziano è stato Paris Bondone, il quale nato in Trevisi di padre trivisano e madre viniziana, fu condotto d’otto anni a Vinezia in casa alcuni suoi parenti. Dove, imparato che ebbe gramatica e fattosi eccellentissimo musico, andò a stare con Tiziano, ma non vi consumò molti anni, perciò che vedendo quell’uomo non essere molto vago d’insegnare a’ suoi giovani, anco pregato da loro sommamente et invitato con la pacienza a portarsi bene, si risolvé a partirsi, dolendosi infinitamente che di quei giorni fusse morto Giorgione, la cui maniera gli piaceva sommamente, ma molto più l’aver fama di bene e volentieri insegnare con amore quello che sapeva. Ma poi che altro fare non si poteva, si mise Paris in animo di volere per ogni modo seguitare la maniera di Giorgione. E così, datosi a lavorare et a contrafare dell’opere di colui, si fece tale, che venne in bonissimo credito, onde nella sua età di diciotto anni gli fu allogata una tavola da farsi per la chiesa di San Niccolò de’ frati minori; il che avendo inteso Tiziano, fece tanto con mezzi e con favori, che gliele tolse di mano, o per impedirgli che non potesse così tosto mostrare la sua virtù, o pure tirato dal disiderio di guadagnare
Dopo vari passaggi di proprietà, nel 1932 il Comune di Venezia lo acquisì dal principe Giovannelli. A partire dal XIX secolo l’opera è divenuta oggetto di innumerevoli tentativi di interpretazione, dispute tra gli studiosi e saggi critici. Ora il quadro è il primo olio su tela dedicato alla rappresentazione di un paesaggio: in precedenza il tema era stato affrontato in disegni, come quelli di Leonardo, o negli acquarelli di Durer. Non è nemmeno detto che il paesaggio sia realmente il soggetto del dipinto, poiché vi compaiono tre figure in primo piano, che probabilmente alludono ad un significato allegorico o filosofico che è il reale soggetto della tela e che non è ancora stato convincentemente spiegato dagli studiosi. Che cosa rappresentano queste figura ? In primo piano, sulla destra, una donna seminuda che allatta un bambino (la “cingana” o “zigagna” cioè la gitana o zingara), mentre a sinistra un uomo in piedi li guarda, appoggiato a un’asta (il “soldato”); tra le due figure sono rappresentate alcune rovine. I personaggi sono assorti, non c’è dialogo fra loro, sono divisi da un ruscelletto. Tra l’altro, la donna seminuda è la stessa modella che poserà per il successivo quadro di Giorgione intitolato Laura.
Sullo sfondo, invece, si nota un fiume che costeggia una città, recentemente identificata con Padova, passando sotto un ponte, che sta per essere investito da un temporale: un fulmine, infatti, balena da una delle dense nubi che occupano il cielo. Da un punto di vista stilistico, in quest’opera Giorgione rinunciò alla minuzia descrittiva dei primi dipinti (come la Prova di Mosè e il Giudizio di Salomone agli Uffizi), per arrivare a un impasto cromatico più ricco e sfumato, memore della prospettiva aerea leonardiana (verosimilmente mutuata dalle opere dei leonardeschi a Venezia), ma anche delle suggestioni nordiche, della scuola danubiana. La straordinaria tessitura luminosa è leggibile, ad esempio, nella paziente tessitura del fogliame degli alberi e del loro contrasto con lo sfondo scuro delle nubi
Il significato di questo quadro ? Come dicevo, si stanno scannando da un paio di secoli critici e storici dell’arte. L’interpretazione più antica, campata in aria, perchè legata al titolo immaginario di Famiglia di Giorgione, come se a Vendramin avesse avuto interesse per un quadro del genere, è quello di una metafora della Paternità, il soldato, e di come la nascita di un figlio cambia la vita dell’uomo, con la tempesta che rappresenta il tumulto di passioni, angosce speranze e illusione che travolgono, davanti a tale evento l’animo umano. Il primo a contestare tale interpretazione fu D’Annunzio, che, tra le tante cose fu anche un sensibile e colto amante dell’arte. Il Vate evidenziò come la totale mancanza di interazione ed empatia tra la figura dell’Uomo e la Donna con il Bambino, che non si scambiano neppure uno sguardo. L’Uomo, infatti è concentrato su se stesso e sui suoi pensieri, cosa che ha portato D’Annunzio, idea che è tornata più volte nella critica, che la figura della donna e del bambino non siano reali, ma una sorta di sogno e visione.
Nel 1895 Franz Wickhoff, storico dell’arte austriaco, fu il primo a cercare di dare un’interpretazione mitologica ed erudita del quadro, collegandola a un episodio della Tebaide di Stazio: l’uomo sarebbe Adrasto, re di Argo, alla guida di un esercito in marcia contro Tebe, mentre la donna sarebbe con Hypsipyle, figlia in esilio del re di Lemno, e sta allattando Ofelte, figlio del re di Nemea di cui ora schiava. Adrasto alla ricerca di acqua per i soldati assettati e trova nel bosco Hypsipyle, che lo conduce sino al fiume Langia. Hypsipyle, però, perde di vista il bambino, che muore morso da un serpente. I problemi di tale interpretazione sono molteplici: non c’entra nulla con la scena rappresentata, non abbiamo prove di un particolare interesse di Vendramin per il poema di Stazio e sembrerebbe strano il fatto che i protagonisti non siano rappresentati all’Antica.
Tra l’altro l’uomo sembrerebbe indossare gli abiti tipici dei membri della Compagnia della Calza, delle compagnie di giovani nobili veneziani che organizzarono la vita di spettacolo veneziana tra il XV e il XVI secolo. Come dice un memorialista nate:
«per rendere più pompose le feste, gli spettacoli o altre giullerie e divertimenti, a’quali la Città fu sempre inclinata»
Ogni anno, all’inizio di carnevale, ogni Compagnia organizzava una serie di spettacoli riservati alla nobiltà veneziana nei quali venivano impiegati (a spese della compagnia) celebri buffoni del tempo, ma anche dei veri e propri spettacoli teatrali con la presenza anche di famosi autori come il Ruzante e Pietro Aretino.
Fra gli spettacoli precipui di Venezia promosse dalle compagnie della calza vi erano le Momarie, sorta di processioni mascherate fatte lungo i canali dove venivano rappresentate le battaglie fra Vizi e Virtù, il trasporto di teatri galleggianti apparati lungo i principali canali, cene preparate sui ponti per gli ambasciatori e i sovrani in visita a Venezia.
Durante la festa della Sensa veniva poi allestita in piazza San Marco la Caza al toro (la caccia al toro), una specie di corrida con la partecipazione di buffoni e autori-attori della commedia alla villanesca, di cui erano autori fra gli altri Ruzante, Menato e Cherea. Secondo le fonti coeve Ruzante lavorò per la compagnie degli Immortali e gli Ortolani anche se spesso le sue commedie furono censurate a causa delle sconcezze contenute nei suoi testi
Ora i membri della Compagna della Calza appaiono in uno sproposito di quadri veneziani di fine Quattrocento: li ritrae Carpaccio, nel miracolo della Croce, che ricordiamolo, coinvolgeva il capostipite della famiglia Vendramin e lo stesso Giorgione in un suo affresco perduto del Fondaco dei Tedeschi. Dato che Gabriele la frequentava, non è da escludere che la figura dell’Uomo sia un suo ritratto idealizzato o quello di un suo conoscente. Tra l’altro uno storico anglosassone, Thomas Keydoor, ha ipotizzato come il dipinto sia una sorta di rappresentazione di una Momaria, con la Donna e con il Bambino che rappresentano la Carità e l’Uomo l’egoismo, ma difficilmente Vendramin avrebbe fatto dare un significato negativo al sodalizio di cui faceva parte.
Sempre in quest’ottica di morality play, per dirla all’inglese, Edgard Wind sostenne che la Tempesta sia un grande collage dove la figura maschile rappresenterebbe un soldato, simbolo di forza, mentre la figura femminile andrebbe letta come la Carità, dato che, nella tradizione romana, la carità era rappresentata da una donna che allatta. Forza e carità dovrebbero quindi convivere con i rovesci della natura (il fulmine). Il problema, come ha sottolineato più volte Gentili, che la figura dell’Uomo, tutto sembra rappresentare, tranne che un guerriero.
Altra opera classica a cui la Tempesta è associata sono le Metamorfosi di Ovidio: secondo Schrey, il tema del quadro sarebbe ispirato all’episodio di Deucalione e Pirra, i progenitori dell’umanità, scampati, secondo il mito greco, al Diluvio Universale. La scena raffigurerebbe il momento in cui le acque del diluvio si stanno ritirando. Battisti, invece, ritiene che rappresenti uno dei tanti amori di Giove, il Fulmine, con una Ninfa, con Mercurio, l’Uomo, costretto a tenere bordone. Problemi di questa interpretazione sono gli stessi della Tebaide.
Sempre nell’ottica dell’intepretazione letteraria, nel 1941, Luigi Stefanini collega la Tempesta al bestsellers dell’epoca, Hypnerotomachia Poliphili, di cui sappiamo il nome dell’autore, Francesco Colonna, su cui però ci stiamo scannando sull’effettiva identità: libro, ricordiamolo, stampato a Venezia da Aldo Manuzio il Vecchio nel dicembre 1499, che ispirato alle Metamorfosi di Apuleio, descrive un viaggio iniziatico che ha per tema centrale la ricerca della donna amata, metafora di una trasformazione interiore alla ricerca dell’amore platonico. Cinque i collegamenti principali messi in evidenza dallo Stefanini: il contrasto tra le rovine e la vita; le colonne spezzate che richiamano il cognome dell’autore del romanzo; il tempio di Venere, individuato nell’ edificio con cupola; l’Orto del destino del romanzo rappresentato nel dipinto dalla città e dal fiume; la Venere Genitrice del romanzo rappresentata dalla giovane che allatta. Il problema è che il romanzo è accompagnato da 169 illustrazioni xilografiche, che come stile e contenuti, fanno a botte con il dipinto di Giorgione.
Un’altra ipotesi “mitologica” ricollega la Tempesta al Ritrovamento di Paride: sappiamo da Michiel che Giorgione dipinse un quadro per i Contarini di questo soggetto e magari Vendramin, invidioso, abbia voluto avere una sua versione. Il problema è che questo quadro è andato perduto: abbiamo solo due riproduzioni, entrambe bruttarelle: l’incisione di Van Kassel per il Theatrum Pictorium di David Teniers e una copia parziale a Budapest. Cosa unirebbe i due quadri ? Il fatto che siano due paesaggi, con figure: in quelle che comparirebbero nel Ritrovamento di Paride, a sinistra vi sarebbe una figura simile all’Uomo della Tempesta, mentre a destra una figura femminile, pur non allattando, ricorda nella posizione quella dell’altro. Il problema è che mancando l’originale e ulteriori copie, non sappiamo quanto Teniers si sia attenuto all’originale o quanto abbia interpolato, facendo un mix tra il Ritrovamento e la Tempesta. Oppure, visto che Contarini apparteneva anche lui alla Compagnia della Calza, Giorgione si sia limitato a citare questa peculiarità per fare contento il committente.
Altro filone di interpretazione è quello religioso, ispirata dal fatto che Vendramin, per tradizione della sua famiglia, avesse una particolare venerazione per la Croce e un legame legame molto stretto con la chiesa di Santa Maria dei Servi a Cannaregio (luogo dove fu sepolto) e con l’omonimo ordine che l’officiava. La studiosa De Grummond il quadro rappresenterebbe uno degli episodi della vita leggendaria di San Teodoro, che ricordiamolo è il primo protettore di Venezia.
Secondo il racconto popolare, in cui si mescolano sacro e profano, in una grotta sotto Acerenthia (individuata in una delle grotte carsiche di cui la zona è ricca), viveva un drago con sette teste, che ogni anno pretendeva dalla città il sacrificio di sette fanciulle illibate. Quando arrivò il turno della figlia del principe, che doveva essere sacrificata al mostruoso tiranno insieme ad altre sei ragazze, si trovò a passare da Acerenthia Teodoro (secondo l’etimologia: dono di Dio), valoroso soldato della legione dei Mirmidoni di Amasea nel Ponto. Egli uccise il drago, tagliandogli le sette teste una ad una (che il suo cane prontamente portava fuori dalla grotta affinché il mostro non se le riattaccasse), liberando così la città da questa orribile tirannide. Per questo fu portato in trionfo dagli antichi abitatori di Acerenthia, che lo elessero patrono e protettore della città. In essa il culto durò per oltre un millennio, per poi trasferirsi nell’attuale Cerenzia. Insomma la versione cristiana della lotta di Ercole contro l’Idra di Lerna… Ora, premesso che l’Uomo tutto sembra tranne che un guerriero, ma nel quadro dove starebbe il drago ?
Analogo discorso si potrebbe fare per la prima interpretazione di Calvesi, Mosè salvato dalle acque del Nilo dalla figlia del faraone alle acque del Nilo e restituito alla nutrizione della madre ebrea, in cui manca la maggior parte dei protagonisti del dramma sacro e quella di Settis, trovando invece un precedente in un rilievo dell’Amadeo sulla facciata della Cappella Colleoni (Condanna divina e destino dei progenitori dopo il Peccato originale) ritenne che le figure si potessero interpretare come Adamo, con una vanga, ed Eva che sta allattando Caino, dopo la cacciata dal Paradiso; il fulmine equivarrebbe alla spada fiammeggiante dell’angelo e il bagliore che questo produce alla presenza inequivocabile dell’Eterno che, adirato, allontana i peccatori; suggestiva è poi l’interpretazione data delle colonne spezzate e delle rovine antiche, che indicherebbero la caducità dei beni terreni e la mortalità dell’uomo. La tempesta diverrebbe così una metafora della condizione umana dopo il peccato, alla luce della dottrina cristiana. Tesi ripresa recentemente da Sergio Alcamo nella tela un inedito quarto protagonista, un minuscolo angelo stante sul ponte in legno e mimetizzato tra la vegetazione retrostante, a ricordare la cacciata dall’Eden. Il problema è che immaginare Adamo vestito alla moda della Venezia dell’epoca, piuttosto che nudo è una bella forzatura…
Altro filone è quello mistico filosofico: Arnaldo Ferraguto, il primo a individuare nel paesaggio sullo sfondo una rappresentazione della città di Padova, il quadro rappresenterebbe una sintesi degli studi filosofici neoaristotelici che andavano per la maggiore nella sua università in quegli anni. Il problema è che il committente era molto più vicino alla filosofia neoplatonica. Hartlaub nel 1925 vide nel dipinto l’allegoria di un’iniziazione alchemica forse destinata ad una setta segreta veneziana. Su questo solco si è mosso anche Maurizio Calvesi che vi ha letto l’allegoria dell’unione di cielo e terra, ispirata al filososfo neoplatonico Leone Ebreo. Anche se suggestiva, lo dico da appassionato di alchimia, mancano però molti degli elementi simbolici che spingerebbero a tale interpretazione.
Infine, partendo dalla rappresentazione di Padova sullo sfondo, c’è anche un filone storico: per alcuni studiosi, rappresenterebbe la fondazione di Padova da parte di Antenore, mentre Ugo Soragni, direttore regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici del Veneto, vede nel quadro un’allegoria della conquista di Padova da parte della Serenissima, avvenuta all’inizio del 1400. Enrico Guidoni e Antonio Boscardin, nel paesaggio si riconoscono elementi dell’architettura padovana dell’epoca, in particolare “uno spaccato di Padova preso da una posizione a nord dell’antica porta Codalunga” oppure “il fianco occidentale delle antiche mura carraresi, dove scorre il Meoacus, tra il castello di Ezzelino all’estrema destra del quadro e la zona esterna a Ponte Molino sullo sfondo” (Boscardin). Le prove a sostegno di questa tesi sarebbero la presenza dello stemma dei Carraresi, signori di Padova (il Carro con quattro ruote rosse inframmezzate da una stanga) sul muro della prima porta a destra; l’identificazione del ponte con il ponte di San Tomaso; la raffigurazione della Chiesa dei Carmini; la torre isolata che potrebbe essere la torre di Ezzelino. Per quanto riguarda le figure umane, la donna simboleggerebbe la città di Padova spogliata di tutto e costretta ad allattare (a mantenere) la Serenissima (Padova raffigurata “adulta” perché fondata nel 1200 a.C., Venezia infante perché di origine molto più recente); mentre il soldato sarebbe uno Stradioto, soldato di ventura di origine albanese, utilizzato come mercenario dalla Repubblica di Venezia
Sinceramente, io non mi azzardo a formulare ipotesi di nessuna sorta: però una riflessione, da ignorante, permettemela. Dalle radiografie, sappiamo che questo benedetto quadro ha avuto una genesi straordinariamente complicato, segno del fatto che sia Giorgione, sia Vendramin abbia cambiato più volte idea, sul tema e sull’aspetto del quadro.
La Tempesta è stata sottoposta a numerose radiografie sin dal 1939: da questa emerge il fatto che Giorgione abbia realizzato almeno tre versioni di questo quadro. La prima prevedeva, al posto dell’Uomo, una donna nuda seduta sulla riva del fiume, le gambe immerse nell’acqua fino al ginocchio. Nella seconda versione, questa fu sostituita dall’Uomo e Giorgione introdusse una serie di varianti minime rispetto alla nostra, la definitiva: al di sopra delle due colonne spezzate, era dipinta una grande torre con accanto un albero non finito, a parte superiore del seno della donna era ricoperta da una camicia, nell’edificio a destra il ballatoio proseguiva lungo un lato, i calzoni dell’uomo si allungavano sino al ginocchio e sullo sfondo, vi era un uomo con una lunga veste he cammina a sul ponte, con nella mano sinistra bastone, mentre sulla spalla destra era poggiata una pertica con un carico, in una sorta di citazione dei quadri di Bosch.
Il fatto che queste figure siano state cambiate senza troppi problemi, fa sospettare come, nell’economia simbolica e formale del quadro, avessero in fondo un ruolo secondario, cosa che sembrerebbe evidenziato anche nella descrizione di Michiel, che da maggiore importanza al paesaggio e alla tempesta che hai personaggi…
Per cui, la Tempesta doveva essere legata a un’esperienza, probabilmente drammatica, vissuta da Vendramin a Padova… Quale sia stata, non abbiamo però elementi per ipotizzarlo…