L’assedio di Mozia (Parte II)

Il nuovo terrapieno, nella cui costruzione erano state impegnate le legioni del Dionisio durante la sua temporanea assenza, era a questo punto completato, e, da ciò che si può arguire era più di un molo ordinario o un semplice accesso. Si può immaginare che diventasse più largo all’approssimarsi dell’isola, fino a diventare un argine abbastanza ampio o una banchina che permettesse il trasporto di numerose macchine da guerra, di cui, si legge, faceva parte l’equipaggiamento dell’esercito siracusano e lasciasse uno spazio sufficiente di manovra. Si potrebbe qui osservare che il litorale lungo la costa settentrionale di Mozia è particolarmente basso, e che, con l’abbondante numero di uomini che Dionisio aveva a sua disposizione, si può anche pensare che la costruzione di tale argine o banchina non sarà stata una impresa estremamente ardua. Portate le truppe ed i potenti armamenti nei pressi delle mura della città, cominciò l’assalto dei greci scagliando gli arieti contro i bastioni e le fortificazioni, mentre le torri mobili e le altre macchine da guerra riversavano i loro proiettili mortali sugli strenui difensori, portando morte e distruzione da ogni parte.

I moziesi, nonostante sapessero adesso di essere soli e senza più possibilità di invio di rinforzi da parte degli alleati, tuttavia non si demoralizzarono e spedirono dinanzi all’attacco nemico i loro guerrieri protetti da armatura di metallo, posizionandoli sopra degli alti alberi appositamente piantati in punti strategici del perimetro assediato. Gli uomini moziesi da quell’altezza lanciarono delle stoppe imbevute di pece sopra le torri d’assedio dei nemici, che si muovevano su ruote, anche se erano un’invenzione recente, erano state costruite in questa occasione ad una altezza eccezionale, sei piani, e misuravano quanto le più elevate case moziesi contro cui vennero usate, poi vi gettarono delle torce di fuoco per cercare di bruciarle. Il loro stratagemma funzionò, infatti i sicelioti furono costretti a spegnere i vari incendi scoppiati sulle macchine d’assalto. Ma ciò non fu sufficiente a fermare l’attacco dell’esercito dionisiano, il quale prontamente batteva nuovamente con gli arieti sulle mura, fino a quando parte di queste cedettero e si aprì una pericolosa breccia per i moziesi

Così almeno racconta Diodoro Siculo: però probabilmente la realtà, a osservare lo Stagnone, poteva anche essere stata differente. Un po’ più ad ovest dell’accesso settentrionale a Mozia, oggigiorno si vede un plateau roccioso di considerevole estensione. La sua superficie lambisce l’acqua quando questa è al suo livello ordinario ed è notevolmente piatto e levigato, a tal punto da dare l’impressione di essere stato livellato artificialmente, anche se non vi è nulla che lo provi. Può darsi che questo plateau di roccia, apparentemente naturale, sia stato utilizzato dagli assedianti nel loro attacco alla città. Le mura di cinta nelle sue vicinanze non sono resistenti quanto in molte altre parti, ed in un punto mostrano i segni di quello che pare la breccia aperta dai Siracusani

A differenza di quanto racconta Diodoro, dai reperti archeologici parrebbe che l’attacco su Mozia sia stato soprattutto sferrato in questo limitare nord dell’isola ed in prossimità del molo, con i suoi argini, naturali o artificiali, da entrambe le parti. Senza dubbio questa era la sola cosa da aspettarsi perché qui si trovava l’ingresso principale alla città, il grande accesso a nord, nelle cui prossimità si trovavano presumibilmente le case principali ed altri edifici di importanza.

Abbiamo prove certe dei feroci combattimenti che ebbero luogo in luoghi diversi lungo questa parte di costa attraverso la grande quantità di dardi e punte di frecce che sono stati trovati nel terreno e tra i resti delle rovine. Nello stesso tempo, comunque, anche se non ne abbiamo notizia, è anche possibile che altri attacchi siano stati sferrati pure in altre parti della città. Abbiamo infatti prove di ampi preparativi che sono stati eseguiti per difendersi da questi, nelle opere fatte per barricare l’accesso a sud e l’ingresso al Cothon adiacente ad esso.

Il Cothon era un bacino idrico utilizzato all’interno dei porti fenici. Il suo uso, ancora non chiarito da un punto di vista archeologico, rimane sconosciuto: si crede sia stato un luogo di ricovero per le navi da riparare, oppure un bacino artificiale legato a culti locali. Nel caso del Cothon di Mozia, in Sicilia, si tratterebbe di un bacino orientato secondo i punti cardinali, di dimensioni 35,7m x 52,5m e disassato rispetto agli altri monumenti; l’orientamento sarebbe uguale in tutte le fasi, con nell’ultima fase anche elementi egiziani ed una terracotta mutila di cinocefalo, un animale che saluta il Sole. Il Tempio situato nelle vicine, a cui sarebbe collegato, è molto simile al Tempio di Astarte di Kition, a Cipro. L’ingresso è rivolto verso l’area sacra, e le stele del tofet mostrano una schematizzazione di un portale con dentro un betilo. Inoltre il pozzo del tempio sarebbe simile a quello del Tempio degli Obelischi di Biblo.

Nel 1985 Sabatino Moscati identificava una stele al centro della Porta Sud, ipotizzando che si trattasse di una stele portata dal tofet, anche se la teoria oggi viene messa in discussione. Sul lato nord del Cothon di Mozia è stata individuata una polla d’acqua dolce. Secondo le ipotesi di Lorenzo Nigro, ma personalmente sono sempre abbastanza scettico alle elucubrazioni dell’archeo astronomia, durante il solstizio d’inverno e l’equinozio di primavera a 110° sorge la costellazione di Orione (identificata nell’antichità come il dio Baal), per cui è possibile ipotizzare che si trattasse del Tempio di Saturno (come a Nora) o del Tempio di Eshmun (come a Dougga).

Tornando al nostro assedio, anche se la zona del Cothon fosse stata oggetto di attacchi attacchi hanno avuto luogo, probabilmente sono stati meno intensi di quelli effettuati nel nord della città. Tra l’altro, ad oggi non vi sono tracce le quali dimostrano che vi sia stata una strada intorno all’isola, attraverso cui siano stati trasportati gli arieti e le torri mobili dei Siracusani, né, d’altro canto, il passaggio attraverso l’accesso a sud mostra segni di un uso per il traffico a ruote, il che lascia molti dubbi, ma ne parleremo la prossima settimana sull’effettivo utilizzo delle torri d’assedio da parte di Dionisio; potrebbe essere un aneddoto, utilizzato da Diodoro, per infiocchettare la storia e renderla più interessante.

A prima vista può apparire strano che non sia stato sferrato su Mozia nessun attacco per mare da alcuna parte, soprattutto considerando la flotta che Dionisio aveva condotto con sé; ma è molto probabile che la scarsa profondità delle acque intorno all’isola possa essere apparsa come uno ostacolo serio ed imprevisto a tale impresa, ed abbia precluso l’attuazione del tentativo. Aperta la breccia possiamo immaginare cosa sia passato nella testa sia degli attaccanti, sia dei difensori.

I primi credevano che la città era già in mano loro e che incalzavano attraverso il varco effettuato dagli arieti; i secondi, pronti a difendersi con le unghie e con i denti, per tentare di allontanare l’orribile sorte di vedere i loro cari – donne e bambini – venduti come schiavi dai vincitori. Tuttavia, la situazione dei moziesi non era sostenibile: per cui, abbandonarono la difesa delle mura esterne e chiusero con barricate improvvisate le vie d’accesso verso l’interno della città. Poi si diressero verso le case e gli edifici adiacenti alle mura, che, a quanto pare, erano stato costruiti per fungere da una seconda linea di difesa interna. Lo spazio esistente tra questa cerchia di case e le mura era talmente stretto, da impedire ai siracusani l’uso sia degli arieti, sia delle torri d’assedio.

Per cui, si combatteva su due livelli: sulla strada, nel tentativo di sfondare le barricate e in alto sui tetti a terrazza delle case e nei piani superiori degli edifici, su cui, sfruttando le scale, i siracusani cercavano di salire ed entrare, sfruttando le finestre. Assediati e assedianti si ritrovarono quindi a lottare corpo a corpo, con gravi danni per entrambi gli schieramenti. Diodoro narra che essi cadevano giù dai tetti; cadevano già morti oppure morivano successivamente nelle strade, per le gravi ferite riportate. I siracusani rinnovavano l’attacco ogni giorno e tornavano nei loro alloggi di sera, quando veniva suonato dalle trombe il segnale della ritirata.

Questi aspri combattimenti durarono per giorni, preoccupando Dionisio, che si aspettava un successo molto più semplice: il tiranno era consapevole che ogni giorno perso e ogni soldato ucciso era un regalo che faceva a Cartagine, che sta per organizzare una prossima controffensiva. Per cui, decise di cambiare tattica, ricorrendo all’inganno. Non essendo riuscito a soverchiare le forze dei Moziesi di giorno in un combattimento aperto, decise di conseguire il suo intento di nascosto di notte. Un drappello di soldati scelti, sotto il comando di un tale Archylus, un Tirio, fu inviato nel cuore della notte allo scopo di rendere possibile l’ingresso in città o piuttosto nella parte interna della città, nella quale, evidentemente, i Greci non erano ancora riusciti a penetrare.

I Moziesi, abituati ormai alla guerriglia di giorno, seguita regolarmente da un riposo indisturbato di notte, non prevedendo per il momento alcun cambiamento, avevano allentato, senza dubbio, la sorveglianza e così furono colti di sorpresa. Archylus, col suo manipolo di seguaci, riuscì, per mezzo di scale d’assedio, ad arrampicarsi sulle costruzioni semidiroccate e ad assicurarsi alcuni punti di forza che permisero l’accesso alla sua pattuglia ed ai grandi rinforzi che Dionisio teneva pronti a seguirli. Così l’esercito greco, all’alba riuscì a penetrare nella cerchia interna.

I moziesi, che disperatamente avevano trasformato le proprie abitazioni in trincee, furono assaliti dall’invasore, spinto dalla sete di vendetta, che compiva massacri inauditi.I sicelioti furono i più feroci durante l’invasione: essi ricordavano il terribile trattamento ricevuto dai punici quando le loro città vennero assediate e distrutte Dionisio fermò l’eccidio gridando ai suoi soldati di smetterla con il massacro dei cittadini, poiché egli doveva venderli come schiavi e non decimarli sul campo di battaglia, perchè le finanze di Siracusa erano ridotte ai minimi termini e non avrebbero sostenuto una guerra di lunga durata. Ma l’esercito non gli diede ascolto e continuò nella sua opera di devastazione. Allora Dionisio affidò il suo proclama ai banditori pubblici, i quali urlarono per le vie della città che i moziesi per aver salva la vita dovevano rifugiarsi dentro i templi di culto greco che possedevano sul territorio

Con il proclama si salvarono i moziesi che riuscirono ad udirlo, radunandosi all’interno dei templi greci, come il tiranno aveva chiesto loro di fare. Dalla narrazione diodorea non appare tuttavia possibile capire se questi templi di culto greco, appartenessero a divinità venerate sia da greci e fenici, oppure se si trattasse di divinità fenicie venerate dai greci di Mozia; più accreditata la prima ipotesi, poiché esistevano somiglianze religiose come ad esempio il nume fenicio Melqart che i greci chiamavano l’Eracle di Tiro. La presenza greca sull’isola moziese è accertata dai resti archeologici e storiografici del tempo; e proprio i greci di Mozia furono coloro contro i quali Dionisio ebbe maggiore accanimento e nessuna pietà. Essi si erano schierati dalla parte dei punici – probabilmente erano considerati ormai abitanti di Mozia, o vi erano giunti come profughi – incrociando le loro lame contro quelle dell’esercito dionisiano, vennero visti come traditori del nome greco, e per questo vennero condannati a una morte peggiore dei vinti di origine moziese; vennero crocifissi. Daimenes – greco catturato e crocifisso a Mozia – è l’unico nome pervenuto degli elleni moziesi che combatterono quella battaglia.

Cessato l’eccidio, i soldati ebbero in sacco le ricchezze delle case dell’isola. Una grande quantità di oro e argento, ricche vesti e tutto ciò che di prezioso vi fosse, fu prelevato dai soldati dionisiani. Archylus, essendo stato il primo ad essere salito sulle mura, venne ricompensato da Dionisio con somma monetale di cento mine, e a seguire tutti gli altri soldati in base ai meriti dimostrati in battaglia. Gli abitanti superstiti di Mozia vennero venduti all’asta. Dionigi lasciò nell’isola una guarnigione di sicelioti, capitanati dal siracusano di nome Biton[, e affidò al fratello Leptine una flotta di centoventi navi con le quali egli doveva perlustrare il mare siciliano occidentale e respingere un eventuale attacco cartaginese – che evidentemente Dionisio credeva essere prossimo – inoltre gli diede ordine di marciare nuovamente contro Segesta ed Entella; di compiere delle scorrerie per infastidire le alleate siciliane di Cartagine. Poi, tornò a Siracusa, per prepararsi al secondo round…

Mozia, l’anno successivo, fu riconquistata dai Cartaginesi di Imilcone ma il suo declino era ormai segnato. Dopo la presa dei sicelioti, e la conseguente devastazione – nonostante le fonti non parlino di completa distruzione – la nuova fortezza punica, e sicuro luogo di ancoraggio, divenne Lilibeo

Eraclea Minoa

Il sito dell’ antica Heraclea Minoa, sulla sinistra del Fiume Platani (antico Halikos) è oggi denominato Capobianco da uno sperone marmoso proteso nel mare all’ estremità sud-occidentale dell’ altopiano su cui si estendeva la città antica. Sorta, secondo Eraclide Lembos (Fragm. Histor. Gr., ii, 220, 29), dove preesisteva il villaggio di Macara, si chiamò dapprima semplicemente Minoa, molto verisimilmente in ricordo dell’isoletta omonima presso Megara Nisea (solo più tardi tale nome sarebbe stato cuitualmente connesso con Minosse). Verso la fine del VI sec. a. C. ricevette una colonia spartana condotta da Eurileonte (Herodot., l. c.) il quale, ad onorare il mitico progenitore della sua stirpe, sembra aver aggiunto il nome di Eraclea. La leggenda narra che il nome Minoa fu messo per onorare la morte del re di Creta Minosse venuto in Sicilia per vendicarsi dell’architetto ateniese Dedalo, colpevole di aveva favorito la moglie di Minosse, Pasifae a congiungersi con un toro, dal quale accoppiamento contronatura nacque il Minotauro.

Poco dopo la sua fondazione, fu conquistata dagli agrigentini, per il suo valore economico: Heraclea Minoa era un importante centro di mercato del grano, e gli Heraclesi costruirono un seno di mare per meglio caricare e scaricare le navi. L’economia era basata sul commercio, agricoltura, pastorizia e pesca. I terreni fertili producevano cereali, frutta, vino e olio ed il territorio era ricco di boschi e forniva una produzione di legnami. mentre il pescoso fiume, che era per buona parte navigabile, forniva una grande quantità di pesce. Il territorio ricco di vegetazione mediterranea costituiva un habitat per la selvaggina presente con cinghiali, conigli, istrici e volpi. Si lavorava la palma nana, il giunco e le ristoppie del grano con le quali si producevano gerli e canestri

Terone, tiranno di Agrigento (488-473 a.C.), vi scoprì la presunta tomba di Minosse e ne restituì le ossa ai Cretesi (Diod. IV, 79, 4), e nel 465-461, nelle guerre conseguenti alla caduta dei Diomenidi, la città fu occupata da mercenari siracusani, e quindi liberata dagli Agrigentini e Siracusani. Al cadere del V sec. a.C., scoppiata la guerra tra cartaginesi e greci in Sicilia, Minoa dovette essere presa dai Cartaginesi prima della caduta di Akragas nel 406 a.C.. Durante le guerre greco-puniche il vicino fiume Platani ha segnato per secoli la linea di confine naturale tra la epicrazia cartaginese in Sicilia ed i territori sotto l’influenza siracusana Nel 277 viene tolta ai Cartaginesi da Pirro.

Secondo alcuni studiosi, la battaglia di capo Ecnomo, tradizionalmente situata nei pressi Poggio Sant’Angelo, Licata, avvenne nelle sue acque. Sotto la dominazione romana Heraclea riuscì a conservare la sua grande magnificenza. Furono disposte nuove strade e aggiunte nuove cinte murarie di rinforzo alle preesistenti difese. Nell’ordinamento della provincia di Sicilia fu dichiarata civitates decumanae, cioè tenuta a dare al governo di Roma la decima parte dei prodotti agricoli

Nel 131 a.C. il pretore Publio Rupilio vi dedusse una colonia, da cui si suppone che la città si spopolò quasi del tutto durante la prima guerra servile. Riporta Cicerone che anche Eraclea fu oggetto delle vessazioni di Verre:

Qui Verre non solo prese denaro, come negli altri luoghi, ma anche mescolò categorie e numero di cittadini vecchi e nuovi

Narra lo stesso Cicerone il suo arrivo notturno a Eraclea

Se Lucio Metello lo avesse consentito, o giudici, erano pronte a presentarsi qui le madri e le sorelle di quegli infelici. Una di queste, mentre io mi stavo avvicinando a Eraclea, mi venne incontro con tutte le donne sposate di quella città alla luce di molte fiaccole, e rivolgendosi a me con l’appellativo di salvatore, chiamando te suo carnefice, invocando fra le lacrime il nome del figlio, l’infelice si prostrò ai miei piedi, quasi che io potessi risuscitare suo figlio dai morti.

Il sito di Eraclea Minoa, a parte una breve campagna di scavo condotta nel 1907 dal Salinas, fu esplorato a fondo nel 1950, quando Ernesto De Miro vi scopre il teatro, scavato a più riprese fino al 1964. Il teatro, inserito entro il reticolo regolare della città, articolato su terrazze digradanti verso Sud-Ovest, risale al IV-III sec. a. C. rimaneggiato e ampliato in età successiva e abbandonato nel corso del II sec. a. C. Esso è sistemato nella cavità di una collinetta a N dell’abitato. La cavea, contrariamente alla prescrizione di Vitruvio (v, 32) ma sull’esempio di grandi teatri (Atene, Siracusa), è aperta verso S, di fronte al mare; essa è costruita in conci di marna arenacea mentre ricavati nella roccia sono la praecinctio, alta sull’orchestra m 8,90, e l’ambulacro antistante. Un ambulacro di servizio, ampio m o,6o, separa l’ima cavea dalla proedria, formata di un ordine di banchi con spalliera e braccioli ai limiti delle scalette e poggiante su di un anello di conci a guisa di pedana larga m 0,49. Tra l’orchestra vera e propria e questo anello di conci è un ambulacro-canale, largo m 1,75, continuantesi in un condotto il cui sbocco si apriva nello spessore della cortina muraria che nel IV-III sec. a. C. venne a costituire il nuovo limite orientale della città. Della scena si conserva una sorta di battuto (relativo alla seconda fase del teatro) sopraelevato sul livello originario di orchestra ed esteso all’interno di essa e sulle pàrodoi; vi sono ancora visibili i cavi per il fissaggio delle travi del podio scenico.

La città era protetta da una imponente cinta muraria (calcolato in Km 6 circa), che abbraccia l’intera estensione dell’altopiano, fino al fiume Platani. Le mura erano spesse m 2,50 circa, in assise di piccoli blocchi di gesso, è ricostruibile per un percorso di km 6 circa: di essa si conservano il lato settentrionale e quello occidentale sulle balze lungo il fiume; mentre interamente perduti sono il lato orientale e quello meridionale, quest’ultimo per altro verisimilmente limitato a qualche filare di parapetto sul ciglio dello strapiombo. Imponente è, per alcuni tratti, il lato settentrionale a guisa di ampia ellisse, provvisto di Otto torri quadrangolari a difesa di porte e postierle; esso è terminato all’estremità orientale, là dove era più agevole l’accesso, da un possente baluardo dello spessore di m 6 circa, provvisto di due torrioni, circolare l’uno, quadrangolare l’altro, costruito in duplice tecnica, a basamento di conci bugnati, isodomicamente disposti, ed elevato in mattoni crudi. Col IV-III sec. a. C. la città si contrae limitandosi ad occupare la parte occidentale del pianoro, dalla collinetta del teatro alle balze lungo il fiume; un nuovo muro di fortificazione, impostato sui ruderi del precedente abitato, fu allora innalzato a costituire il nuovo limite orientale della città.

Il nuovo muro di fortificazione avrebbe avuto dapprima uno spessore modesto; successivamente, nella seconda metà del II sec. a. C., in un momento di particolare necessità che possiamo identificare con le guerre servili, la cortina muraria venne rinforzata con un ispessimento alle spalle mediante un’opera a sacco di terra e pietrame, regolarizzata e rattenuta nella fronte interna con assise di piccoli blocchi di gesso. Dell’abitato è stato messo in luce un notevole settore, nel pianoro a Sud del teatro. Sono stati accertati due strati sovrapposti di abitazioni, rispettivamente riferibili al periodo ellenistico e al periodo romano repubblicano.Dell’abitato di II strato (IV-III sec.a.C., contemporaneo al teatro) sono state scavate due case, inserite in un sistema a strade parallele e ortogonali. Le due case messe in luce sono caratterizzate da una pianta semplice: struttura quadrata, chiusa intorno ad un piccolo atrio con cortile centrale.

La casa A era ad un solo piano con cortile fornito di grande cisterna in cui si convogliavano le acque del tetto a falde compluviate. A Nord del cortile era un sacello domestico (lararium), di cui si conservano l’altare quadrangolare addossato all’angolo nord-ovest e l’edicoletta per i lares nella parete est. La pavimentazione del vano è in cocciopesto decorato di tesserine bianche; le pareti conservano avanzi della decorazione a stucco (stile a incrostazione o I stile pompeiano). La casa B aveva un piano superiore con stanze destinate all’abitazione, le cui macerie (mattoni crudi delle pareti, lastroni di soglia, stucchi, intonaci, pavimento in cocciopesto decorato e mosaico), nel crollo, hanno colmato i vani del piano terra. Eccezionale lo stato di conservazione dei muri, non solo nella parte lapidea ma anche nell’elevato in mattoni crudi. Le pareti erano rivestite di intonaco dipinto, di cui rimane il sottofondo di allettamento.

All’abitato di IV-III sec.a.C. si sovrappone, nel II-I sec. a.C., l’abitato di I strato, che può identificarsi con la colonia di ripopolamento dedotta da Rupilio (Cic., Verr., II, 125) al termine della prima guerra servile (132 a. C.). E’ costituito da case costituite generalmente di due o più vani gravitanti su un cortile con focolare. I muri sono costruiti con basamento di blocchetti di pietra gessosa ed elevato in mattoni crudi. L’organizzazione in isolati inquadrati da strade nord-sud che si incrociano con strade est-ovest, ricalca lo schema della fase precedente. Verso il termine del I sec. a.C. la città fu abbandonata e cala il silenzio nelle fonti letterarie. L’area extra-urbana tornò ad essere occupata in epoca paleocristiana e bizantina (III-VII sec. d.C.), con la costruzione di una grande basilica e da un connesso cimitero.

I vestiti nuovi dell’Imperatore

Ucronicamente

Cosa c’è di così affascinante nel voler essere ossessivamente al centro dell’attenzione? Cosa c’è di così gratificante nel vedersi avanguardia comunque, sia pure del nulla? Da giornalista quasi pensionato che si diletta di scritture di fantascienza, weird e ucronie, mi sono imbattuto più volte sia nel narcisismo, sia nei paradossi, e ormai mi sento abbastanza preparato a riconoscerne i sintomi, quando questi si manifestano. Ma andiamo per ordine.

Punto di partenza, il narcisismo. Non tanto quello patologico, quella distorsione di sé che porta ad abusare degli altri secondo la propria utilità, che comunque ce n’è molto in giro e come cantava Giovanni Lindo Ferretti, bisogna essere attenti per essere padroni di se stessi; no, mi riferisco al narcisismo che ti porta, magari giovane e ambizioso, o al contrario, vecchio e altrimenti dimenticato – e diciamolo, anche dimenticabile – a voler invece spalmare di te se non il mondo…

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La Kalsa nel Trecento

Sorta in epoca araba come cittadella fatimide, come accennato la Kalsa è menzionata in una miniatura del Liber ad honorem Augusti, composto da Pietro da Eboli alla fine XII secolo, insieme al Cassaro e al Seralcadio. Nei documenti del Trecento il quartiere è denominato Alcia, Halcia e Chalcia, ma quest’ultimo termine è il più diffuso. La decadenza dell’area urbana, cominciata con i normanni e proseguita sotto gli Svevi, si interruppe grazie ai mutamenti della politica siciliana.

Dal momento in cui Re Carlo aveva messo piede in Sicilia, una serie di rivolte avevano minato il potere angioino sull’isola, per una serie di motivi: lo spostamento della capitale a Napoli,oltre a offendere l’orgoglio locale, aveva danneggiato i commerci e gli interessi economici sia della borghesia locale, sia delle colonie di mercanti stranieri. A questo si aggiungeva sia la politica di centralizzazione angioina, poco gradita dalla nobilità, sia l’aumento delle tasse. Dall’altra parte del mar Mediterraneo, nel Regno di Aragona, la regina Costanza, figlia di Manfredi e unica discendente della dinastia sveva, premeva il marito Pietro III d’Aragona per ritornare in Sicilia, dove la popolazione manteneva ancora il ricordo dello splendore raggiunto con il nonno l’imperatore Federico II.

Così, appena scoppiò la rivolta del Vespro Siciliano, , la flotta aragonese, sbarcata il 30 agosto 1282 a Trapani, era già a Palermo e con l’occupazione della città da parte di Pietro III, Carlo d’Angiò fu costretto a ritirarsi nel settembre 1282 a Napoli. Pietro III fu così libero di impadronirsi del trono e di ottenere il titolo di Re di Sicilia. Mantenne però divise le corone di Aragona e Sicilia. Però, sia a causa della guerra civile, sia dell’invasione francese della Navarra, dovette tornare in Spagna. In sua assenza nominò un luogotenente per sostituirlo. Si avvicendarono così nella conduzione del regno Alfonso III d’Aragona e Giacomo II d’Aragona.

La situazione politica, a vent’anni di distanza dalla prima rivolta, non era ancora chiara. Carlo II d’Angiò rivendicava ancora l’isola e gli Aragonesi, in difficoltà in Spagna, cercarono con un accordo con gli Angioini una via d’uscita dal conflitto che si stava venendo a ricreare, abbandonando così i siciliani e le loro aspettative. In questo contesto il Parlamento siciliano, riunito al Castello Ursino di Catania, elesse come Re di Sicilia il fratello di Giacomo Federico III d’Aragona, molto sensibile alle istanze della Sicilia.

Il Parlamento siciliano in epoca aragonese, composto da feudatari, sindaci delle città, dai conti e dai baroni era presieduto e convocato dal re. La funzione principale era la difesa dell’integrità della Sicilia, come valore massimo anche nei confronti dell’assolutismo del re e nell’interesse di tutti i siciliani. Il re, infatti, non poteva né stringere accordi di qualunque natura (politica, militare o economica) né dichiarare guerre senza aver prima consultato e ottenuto l’approvazione dell’organo parlamentare che, per costituzione, doveva essere convocato almeno una volta l’anno nel giorno di «Tutti i Santi». Il Parlamento costituzionalmente aveva il compito di eleggere il re e di svolgere anche la funzione di organo garante del corretto svolgimento della giustizia ordinaria esercitata da giustizieri, giudici, notai e dagli altri ufficiali del regno.

Il piano di alleanze fu stravolto: da questo momento i siciliani continuarono la lotta sotto la reggenza di Federico, contro sia gli Angioini sia gli Aragonesi di Spagna del Re Giacomo. Nel 1302 si firmò infine la pace di Caltabellotta, che divideva il regno di Sicilia in regno di Trinacria (solo l’isola), affidato a Federico e quello di Napoli (la parte della penisola), guidato da Carlo d’Angiò. Federico, affidata la corona al figlio Pietro, cercò di aggirare la pace e la guerra riprese nel 1313. Si riuscì a trovare un accordo finale solo alla morte di Pietro (1342), quando salì al trono il figlio Ludovico sotto tutela di Giovanni d’Aragona. Fu probabilmente grazie alla diplomazia di Giovanni che si raggiunse un primo accordo di pace con gli Angioini detto la «Pace di Catania» l’8 novembre 1347.

Ma la guerra fra Sicilia e regno di Napoli si sarebbe chiusa solo il 20 agosto 1372 dopo ben novanta anni, con il Trattato di Avignone firmato da Giovanna d’Angiò e Federico IV d’Aragona, con l’assenso di Papa Gregorio XI. In questo caos, Palemo cominciò a cambiare volto: la città nel l Trecento era divisa in cinque quartieri: Cassaro, Albergheria, Seralcadio, la nostra Kalsa e Porta Patitelli (o Conceria). Il governo cittadino aveva una durata annuale, entrava in carica il 1° settembre ed era presieduto da un baiulo (chiamato pretore a partire dal 1321), affiancato da sei giudici che si occupavano in prima istanza di cause civili, sei giurati addetti all’urbanistica, alla viabilità e ai rifiuti, sei maestri di xurta (o magistri excubiarum) con funzioni di sorveglianza e di polizia urbana, sei acatapani che controllavano prezzi, pesi, misure e qualità delle merci. Ogni quartiere eleggeva un rappresentante per ciascuna categoria di funzionari, tranne il Cassaro che ne designava due, poiché includeva anche la Galca dove era stato fondato in epoca normanna il Palazzo Reale. Con il ritorno di Palermo nel grande commercio mediterraneo, la Kalsa, data la sua vicinanza al Porto, divenne la dimora privilegiata dei mercanti, prestatori di denaro e cambiavalute toscani che si erano trasferiti in città, che si dedicarono attivamente anche all’amministrazione locale.

Durante il regno di Federico III tra i problemi quotidiani del quartiere Kalsa figura lo smaltimento dei rifiuti, poiché gli abitanti gettavano la spazzatura sotto le mura, tra Porta Polizzi e Porta Cordari, e alla marina si formavano cumuli d’immondizia alti quasi quanto le mura che venivano trascinati nel porto dalle piogge, insomma a Palermo le cose non cambiano mai. Per ovviare alla disastrosa situazione, nel settembre del 1332 il sovrano ordinò: 1) di rimuovere la spazzatura dividendo a metà le spese tra gli abitanti dell’intera città e quelli della Kalsa, che avrebbero dovuto pagare in base al reddito; 2) di elevare il livello delle mura; 3) di rimuovere le scale utilizzate per gettare la spazzatura; 4) di vietare con un bando di gettare rifiuti sotto le mura, pena un’ammenda

Un ulteriore evoluzione del quartiere si ha nel 1320 nel quartiere della Kalsa, su un terreno confinante con il tracciato delle mura e della porta settentrionale della Halisah, Manfredi I Chiaromonte, conte di Modica, costruisce l’Hosterium, il grande Palazzo di famiglia articolato intorno ad un cortile centrale porticato. Nella struttura dello spazio urbano la sua collocazione si rivela simmetrica a quella di un altro imponente palazzo edificato da Matteo Sclafani, conte di Adernò, e congiunto di Manfredi Chiaromonte al confine col tracciato delle mura orientali della Galca, sull’altura del Cassaro. In antitesi con le due sedi reali del Palazzo normanno e del Castellammare, i due fortilizi si pongono in posizione bilanciata rispetto all’area centrale e perfettamente equidistanti dalle difese turrite di Porta Patitelli, sul fronte del porto.

Sono simboli anche visivi, di come il potere stia progressivamente, per la debolezza del ramo siciliano degli Aragonesi, migrando dalla Corona ai nobili locali: per sottolineare questo concetto, i Chiaromonte da una parte si appropriarono di una delle principali prerogative regie, la protezione della Chiesa: è innegabile il loro apporto alla permanenza e alla dislocazione degli ordini mendicanti nei quartieri della città, e in particolare dei Francescani all’interno della Kalsa, al cui sostegno contribuiscono con il completamento della chiesa e con la costruzione di diverse cappelle interne. Dall’altra, definiscono un loro specifico stile architettonico, il gotico chiaromontano, lo strumento immediato con cui il Potere costruisce e fa percepire al Popolo la sua immagine: stile che riprende e reinterpreta creativamente l’esperienza arabo normanna, proponendo i Chiaramonte, come veri eredi spirituali degli Altavilla, alternativi agli Aragonesi.

Nel 1325 le truppe di Carlo, duca di Calabria e figlio di Roberto d’Angiò, assediarono per tre giorni Palermo e si combatté tra Porta Termini e Porta dei Greci. Nuove nubi si addensarono sulla città nel 1339, quando Benedetto XII lanciò contro l’isola l’interdetto e, alla difficile congiuntura politica, si aggiunse la carestia. Il 13 dicembre il popolo minuto assaltò manu armata diversi magazzini pieni di frumento posti alla Kalsa, presso la chiesa di Santa Maria della Catena.

Tre giorni dopo Pietro II entrò a Palermo, fece arrestare 200 persone e impiccare 5 rivoltosi. La peste giunse in Sicilia durante il regno di Ludovico, portata a Messina da 12 navi genovesi. A Palermo l’epidemia generò cladem et mortalitatem e toccò il suo picco nel febbraio del 13489 mese in cui dettarono le ultime volontà al notaio Bartolomeo de Bononia, giacendo infermi a letto, otto abitanti della Kalsa, sei dei quali risiedevano in prossimità del porto poiché erano parrocchiani di San Nicolò della Kalsa (dei Latini, de Francis, de Navi), un tempo ubicata nell’attuale piazza Santo Spirito, e fecero legati al vicino ospedale di San Bartolomeo. Quattro testatori scelsero come luogo di sepoltura San Nicolò, tre San Francesco, uno San Giacomo nell’attiguo quartiere Porta Patitelli. La Kalsa fu particolarmente colpita dalla peste non solo perché vicina al porto, ma anche per la presenza di parecchi mercanti esposti più degli altri al contagio

La cinta muraria che proteggeva la Kalsa era allora intervallata da sei porte: Porta della Vittoria, corrispondente alla Bab ’al-Futuh della cittadella fatimita di Al-Halisah descritta da Al-Idrisi, Porta Termini, menzionata per la prima volta nel XII secolo, Porta dei Greci e Porta Polizzi citate a partire dalla fine del XIII secolo, Porta di Mare e Porta dei Cordari ricordate in documenti del Trecento. Le mura e le porte richiedevano continui lavori di manutenzione, commissionati dai re o dall’universitas. In data anteriore al 22 aprile 1328 Federico III prese parte del giardino dei Teutonici, ubicato nei pressi di Porta Termini, pro heddificando de novo menia ipsius urbis pro tuciori municione urbis predicte, prima del 21 agosto 1336 la città fece riparare il tetto di Porta Termini. Nel 1340 l’universitas decise di eseguire lavori nelle mura all’altezza di contrada Santa Maria della Catena; nel 1349 fece chiudere cavernas et puntellos delle mura di contrada Porta dei Greci, per evitare che durante la notte fossero estratte di nascosto vettovaglie senza pagare il diritto di esportazione, intaccando le scorte alimentari della città.

Da Porta Termini e Porta dei Greci si dipartivano due grandi strade (ruga magna Porte Grecorum e ruga magna Porte Thermarum), altre due traevano il loro nome dall’ordine dei Teutonici della Magione (ruga nova de Alamannis e ruga nova Mansionis), la ruga Viridi attestava la presenza di giardini, la ruga Malvalonis (o Malvalluni), dietro la chiesa di San Francesco, rendeva ragione di un avvallamento accidentato. Alcune strade e contrade derivavano la loro denominazione dalle attività artigianali prevalenti (ruga di li Balistreri, ruga di li Macharunari, contrata Sellariorum), altre dalla presenza di comunità straniere (ruga di li Schisani, ruga de Lipari, ruga Pisarum), altre ancora da persone
note nel quartiere, ancora vive come il cavaliere Andrea de Lombardo (contrata hospicii Andree de Lombardo) e il chirurgo Oliviero Lancia (ruga magistri Oliveri medici), o defunte come il nobile Enrico de Adam (ruga habitacionis quondam nobilis Henrici de
Addam) e il notaio Angelo de Confalono (contrata hospicii condam notarii Angeli de Confalono)

La toponomastica e i contratti notarili attestano, oltre al rilancio economico del quartiere rispetto all’età Sveva, che un consistente numero di abitanti della Kalsa, soprattutto di contrada Porta dei Greci, praticava come oggi mestieri connessi al mare. Si andava dai semplici marinai, pescatori e cordai ai più facoltosi comiti (posti a capo delle flottiglie pescherecce) e rais (ai quali il padrone della tonnara affidava la responsabilità di crociare, ossia di posizionare le reti nella zona più adatta). Fra le comunità legate alle attività marinare si segnalano i Liparitani, che vivevano nella ruga de Lipari ubicata in contrada Porta dei Greci, vicino alle mura della marina, dove abitavano il comito Ray
de Griffis e l’artigiano Silvestro de Magistro Rogerio di Lipari Numerosi erano anche gli Ischitani che nel 1312 si dedicavano alla pesca e davano nome a un cortile e a una strada menzionati ancora nella seconda metà del XV secolo.

Fra i maestri excubiarum della Kalsa ricordiamo il comito Andrea Spallitta, il magister Federico Skisano, il comito Pucio Vusso. La ruga raysii Buccacii, citata nel 1367, traeva il suo nome da un rais molto noto ed era caratterizzata da case, cortili dotati di pozzi, piccoli giardini. Un altro rais, Nicola de Carnilivario, possedeva una taverna alla Kalsa. In mezzo alla ruga magna Grecorum c’era un pozzo e una piccola strada conduceva al porticciolo di mezzo. La principale chiesa era San Nicolò dei Greci o de la Carruba, dietro la quale correva una vanella (piccola strada), con case solerate e terranee. Nella contrada figuravano beni immobili di persone qualificate come nobilis, basti ricordare le case e il giardino di Manfredi Chabica, le case, il giardino e la senia (bindolo) di Filippo de Alagona.

La zona commerciale si trovava sul piano della Fieravecchia, collegata tramite la ruga magna Porte Thermarum all’omonima porta. Nella Fieravecchia, una parte della quale era anche detta ruga Mineo, si concentravano grandi taverne, rifornite dalle vigne delle vicine contrade Porta Termini e Porta Sant’Agata, poste a ridosso della cinta muraria, macelli, botteghe di fabbri e di altri artigiani, molte delle quali appartenevano a note famiglie della Kalsa (Lombardo, Bandino, Abbatellis, Pampara), alla Cattedrale di Palermo, all’ordine dei Teutonici, al monastero di San Martino delle Scale, fondaci, come quello di Bartolomeo de Ferro con una macelleria formata da quattro vani congiunti, un cortile con un pozzo e un pagliaio. Non mancavano eleganti abitazioni, come la domus magna di Giovanni de Abbatellis senior, giardini di giudici e mercanti. Lungo
la vicina ruga Pisarum si distinguevano botteghe appartenenti a cavalieri, mercanti e notai.

Numerosi mercanti pisani abitavano in contrada San Francesco e avevano cappelle nella chiesa omonima, scelta come luogo di sepoltura anche da mercanti genovesi, catalani, amalfitani e da parrocchiani di San Nicolò della Kalsa. La famosa compagnia bancaria fiorentina dei Peruzzi aveva costruito un hospicium (palazzo) nella strada dei Maccaronai dietro la chiesa di San Francesco, dove si trovava il grande tenimento di case con cortile e pozzo di Bartolomeo de Altavilla, giudice della Magna Regia Curia. Rimangono poche, ma significative, opere pittoriche realizzate nel Trecento nella chiesa di San Francesco, come l’affresco raffigurante San Matteo Evangelista e San Gregorio) e la Madonna dell’Umiltà di Bartolomeo da Camogli, datata 1346. Vivevano di fronte al convento di San Francesco i fratelli Giacomo e Oliviero Lancia, rispettivamente medico fisico e chirurgo. Il magister Antonio di Simone Andrea, professore in scienza medicinale abitava in contrada Porta Polizzi. Dimorò temporaneamente alla Kalsa anche il medico messinese Leonardo Salvacoxa, ospitato nelle case del defunto Enrico de Adam.

Altra importante istituzione religiosa della Kalsa era la Magione dei Teutonici, che tra il 1292 e il 1391 contava un consistente patrimonio immobiliare, formato dal grande giardino chiamato Hartilgidie (Hârat aldjadîda) protetto da un muro e coltivato a olivi e alberi da frutta, il giardino de Muto, due giardinetti, ventidue case, quattro botteghe nella Fieravecchia, un fondaco, due casette e un casalino. L’ospedale principale del quartiere era San Bartolomeo della Kalsa, invece l’ospedale di Sant’Antonio di Porta Termini era ubicato al confine col quartiere Albergheria. Cospicui erano i beni del monastero di San Martino delle Scale, concentrati nel piano della Fieravecchia, nella ruga Mineo e in contrada Porta dei Greci

Nell’aspra lotta civile che insanguinò il regno alla metà del Trecento, i Chiaromonte, vertice e guida della parzialità latina ostile a re Ludovico e al di lui tutore Alagona, furono in Sicilia gli ottimi alleati della corte napoletana, con la quale gli esponenti chiaromontani tennero solidissimi rapporti sino alla fine del secolo, quando Gaeta divenne il principale rifugio di coloro che da Palermo opposero feroce resistenza alla recuperaciò aragonese guidata dai Martini. La straordinaria ascesa dei Chiaromonte a Palermo può collocarsi tra 1353-1354, quando cioè, scomparsa la famiglia antagonista degli Sclafani e la morte di Matteo Palizzi, si aprì la fortunata stagione che portò in meno di dieci anni (nel 1367) i Chiaromonte a detenere, incontrastati, la signoria sulla città e il controllo su importanti centri nella Sicilia meridionale come ad esempio Licata e Girgenti, godendo di fatto del più ampio consenso cittadino. Massimo esponente della signoria, Manfredi III può essere considerato promotore originale della rinnovata apertura internazionale per la potente famiglia palermitana. Egli seguì l’esempio dell’avo Giovanni II Chiaromonte, capace di saper cogliere importanti vantaggi da relazioni intrecciate con re Roberto d’Angiò, con la signoria veronese degli Scaligeri e perfino con l’imperatore Ludovico il Bavaro. Dalla metropoli palermitana infatti, eletta a centro del proprio potere, Manfredi III intratteneva rapporti diretti con la Santa Sede romana, con Napoli, Firenze, Genova, Pisa e Venezia. Per misurare il successo della signoria chiaromontana, credo sia importante sottolineare questa forte inclinazione mediterranea certamente ispirata dalla lunga tradizione monarchica regnicola ma soprattutto assimilata dalla naturale vocazione di Palermo, la felix urbs marittima, capitale dinamica e ambiziosa.

Sul terreno della propaganda ideologica, il Chiaromonte investì molto nel palesare a tutte le realtà sottoposte al suo dominio, Palermo in particolare, la netta discontinuità tra il potere signorile incarnato dalla sua persona e la monarchia siciliana: difatti, pur muovendosi come un autentico ‘principe’ non stabilì mai la propria residenza nel palazzo reale palermitano, tradizionale luogo simbolo della monarchia siciliana, che pure incontrastato avrebbe potuto occupare. Preferì invece ingrandire e magnificare il palazzo di famiglia, lo Steri, arricchendolo con architetture e pitture ammirate ancora oggi per rarità e bellezza: un unicum tra i grandi palazzi nobiliari della Sicilia trecentesca Sotto travi e architravi affrescate della celebre sala magna che tra gli altri raccolgono – non dimentichiamolo mai – gli stemmi araldici delle élites nobiliari regnicole, il visitatore dei nostri tempi avverte la sensazione di trovarsi alla corte di un sovrano; medesima sensazione provata dai visitatori del Trecento, ambasciatori stranieri, mercanti, cittadini, ricevuti in quella sala principesca. Maestosità tutt’altro che vanagloriosa se pensiamo non soltanto a quando il gran signore dello Steri si tolse il capriccio di umiliare addirittura un re, Federico IV, lasciandolo fuori le porte di Palermo impedendo fermamente al sovrano di entrare in città senza il proprio volere, ma principalmente a come negò ripetutamente a Federico IV la solenne incoronazione a Palermo l’antico cerimoniale dei reali isolani, mostrando alla Sicilia ed al mondo il proprio peso politico. Talmente vasto divenne il potere esercitato dal signore di Palermo che, già nel 1378, Artale Alagona preferì associarlo al vicariato, confermandogli il titolo di ammiraglio del regno, pur di scongiurare un sanguinoso conflitto con la famiglia leader del vecchio partito latino, sancendo di fatto il definitivo riconoscimento del dominio chiaromontano su civitates e terrae ormai gravitanti intorno a palazzo Steri.

A riprova di una tensione ad espandere la propria attività da parte del Chiaromonte, occorre considerare l’episodio della spedizione cristiana lungo le coste barbaresche, principalmente rivolta a riconquistare l’isola di Gerbe. A lungo appartenente al regno di Sicilia, Gerbe era stata donata da Federico IV a Giovanni III Chiaromonte solo formalmente poiché l’isola insieme alle Kerkenne divenne presto covo strategico della pirateria saracena in agguato sul Canale di Sicilia. Nell’agosto 1385, una prima spedizione tutta siciliana salpata da Palermo fallì miseramente; nel 1388 l’irriducibile Manfredi III ci provò ancora, questa volta facendo leva su rapporti influenti: con l’ufficiale benedizione di Urbano VI, impartita insieme al permesso di « crociata », Manfredi III riuscì a coagulare attorno alla sua persona una coalizione cristiana formata, oltre che dal signore di Catania, da veneziani, genovesi e pisani, tradizionalmente ostili tra loro ma disposti a porre le proprie galee sotto le insegne del gran signore di Palermo che muovendosi alla stregua di un principe, perpetrava le traiettorie dei sovrani siciliani che dall’epoca normanna in poi guardarono con certo interesse al dominio delle coste nordafricane

Tradizionalmente vicino alla corte angioina, Manfredi III consolidò l’alleanza con gli Angiò-Durazzo combinando nel giugno del 1390 le nozze tra la propria figlia, Costanza, e re Ladislao. Il matrimonio di una Chiaromonte con una casa regnante ci offre non soltanto un prezioso indizio del peso politico effettivamente raggiunto alla fine del Trecento, ma è segnale importante dei grandiosi scenari desiderati dal vecchio signore di Palermo. Il progetto di assicurare stabilità alla signoria dei Chiaromonte legandone i destini alla casa dei regnanti angioini rappresentava per Manfredi III il coronamento ultimo dei suoi ambiziosi programmi di affermazione signorile estesa ben oltre le zone della Sicilia già sottoposte a Palermo. Progetto il cui modello di riferimento sarebbe, almeno in parte, ispirato dalla fortunata affermazione delle ben note signorie statali peninsulari, che in più ricalcasse ideologicamente le fortunate parabole della lunga stagione normanna quantomeno nella sua traiettoria magrebina.

Questo atteggiamento assolutamente inedito per la Sicilia tardo medievale, si diceva, trova alcune similarità nel più ampio e variegato panorama peninsulare, dal quale tuttavia riscontriamo nette diversità se pensiamo al superamento proprio entro le universitates del regnum isolano di lotte degne di rilievo tra fazioni cittadine contendenti del primato sociale e politico intra moenia. E il pensiero non può non andare alla Roma di metà secolo XIV, lacerata al suo interno da partiti e fazioni, durante gli anni di esperimento signorile tentato senza successo da Cola di Rienzo

Contrariamente all’esperienza romana, prò, entro le città siciliane fu solo la parte legata ad un’unica famiglia dominante ad uscire assoluta vincitrice, riuscendo poi ad esercitare il controllo della vita pubblica attraverso reti clientelari, consenso politico e, non ultimo, il controllo sulle magistrature cittadine. A segnalare il gradimento verso tali governi, basti ricordare che il modello signorile siciliano non implose, come invece nell’esperimento romano, e nemmeno ebbe termine con la morte naturale della vecchia generazione, ma passò pressoché intatto ai vari successori designati per via testamentaria.

Nel 1387, per propiziare l’incremento di nationes mercantili in Sicilia, Manfredi III accordava protezione e speciali franchigie a tutti i veneziani residenti nel suo distretto, e anche dopo la scomparsa del signore dello Steri, questi rimasero ancora i principali fornitori insieme ai genovesi di armi e provviste alle città chiaromontane assediate dalle armate aragonesi. I grandi signori seppero dunque accogliere nelle città del regno i mercanti, attirando quindi capitali e merci provenienti dalle piazze del Levante o da empori inglesi e fiamminghi, per soddisfare sia la richiesta di articoli necessari alla stragrande maggioranza della popolazione sia lussi e stravaganze di cittadini danarosi. Non si può negare che sul finire del XIV secolo la Palermo dei Chiaromonte fosse una città mercantile in pieno fermento: piazza di scambio frequentata da operatori economici internazionali, fu vivace anche sotto il profilo della concorrenza internazionale, come ammette nel 1387 il mercator Gherardo Pacini, preoccupato perché i veneziani « vengono di Fiandra e qui ischaricano panni assai, che molto nocierà à panni di Firenze e agli altri ». Non possiamo stabilire con certezza quanto allo scadere del secolo fosse massiccia la frequentazione veneziana nell’isola, pari ad esempio a quella genovese o toscana. Ma stando alla testimonianza del Pacini, è assodato che in quelle occasioni in cui le imbarcazioni della Serenissima raggiungevano i porti siciliani le mercanzie dei veneziani procuravano disagi agli operatori economici di altre nationes, catalani inclusi. La vivacità degli scambi di beni di lusso è attestata innanzitutto dai provvedimenti regi adottati per regolamentare l’ostentazione dello sfarzo, o da testimonianze grazie alle quali sappiamo ad esempio che Artale Alagona era solito inviare dalla Sicilia in Catalogna preziosi « pannos de scarlatu et de serico ». Tessuti che già alla prima metà del secolo il mercante Francesco Balducci Pegolotti ritrovava frequentemente nei porti siciliani insieme ad altri articoli. Ma anche restando cauti nel rilevare l’affluenza di mercanzie di lusso nei porti siciliani, resta chiara la vivacità energica delle grandi città.

Possiamo solo immaginare la quotidiana attività di bottegai e tavernieri ad esempio palermitani i cui esercizi si affacciavano direttamente sul porto e nei vicoli circostanti; le banchine affollate da mastri d’ascia, carpentieri, marinai, schiavi, galeotti, prostitute, grandi e piccoli mercanti, grossisti, proprietari di strutture abitative adibite a ostelli o magazzini, creditori, usurai e notai; si concludono affari, si stilano contratti, girano lettere di cambio e moneta internazionale, ed insieme a questa trovano spazio anche l’arte e la cultura; gli stessi pauperes riescono a racimolare il necessario per sopravvivere prestando forza lavoro come scaricatori di porto. Come i cives, anche gli habitatores delle campagne trassero i loro benefici, recandosi nelle affollate piazze della città per vendere le eccedenze agricole dei campi. La prosperità attestata per i gruppi cittadini si traduce in capitali spesso reinvestiti in forma di terreni coltivabili, disponibili nel territorio attiguo alle grandi città o sparsi tra le realtà urbane minori; terreni che rappresentano così un prezioso sostentamento per quei contadini chiamati a lavorarli.

Anche tra gli ebrei di Sicilia non mancarono sentimenti positivi nei riguardi delle grandi signorie attente, dal canto loro, a non stravolgere antiche consuetudini concesse dai sovrani siciliani, principalmente in termini di giustizia. Durante la recuperaciò fra le comunità giudaiche era ugualmente sentita la simpatia all’una o all’altra fazione, favorevoli e contrari all’insediamento aragonese, non fosse altro per i rapporti finanziari istaurati con i grandi signori siciliani o per le novità introdotte dalla Catalogna, queste ultime non sempre accolte favorevolmente: il discorso vale ad esempio per l’ufficio del giudice generale per i giudei di Sicilia, di pertinenza regia, istituito a partire dal 1396 per dirimere le cause di diritto mosaico in sostituzione dei tribunali locali, sino ad allora attivi nelle singole comunità e quindi presenti anche nella stagione dei vicari.

Tutto questo fermento si conclude con Con la decapitazione di Andrea Chiaromonte: questo non significa la crisi della Kalsa. Gli aragonesi si rendono contro della sua trasformazione nel cuore pulsante dell’economia palermitana e siciliana e decidono di trasformare l’Hosterium in prestigiosa sede della corte aragonese, recuperando così la dimensione politica e simbolica che il quartire aveva nell’età araba.Il quartiere della Kalsa diviene il luogo privilegiato della politica, dell’economia, della finanza, della cultura. Grandi famiglie di aristocratici e imprenditori insieme a numerosi ordini religiosi innalzano palazzi, conventi, chiese lungo le strade di antica e nuova pianificazione, attuando forti investimenti in arte e architettura. L’arteria preferita diviene la via Alloro, storico asse del quartiere, dove si insedia la più facoltosa e intraprendente nobiltà cittadina.

La Vecchia di Giorgione

Uno dei quadri più fraintesi dal grande pubblico è la cosidetta Vecchia di Giorgione, dipinto a olio su tela (68×59 cm) ,che come tutti i quadri di questo pittore, ha una storia alquanto complicato: assieme a La Tempesta, questo dipinto apparteneva alla collezione di Gabriele Vendramin, anche se, stranamente, Michiel sembrerebbe non citarlo, benché l’opera appaia nell’inventario del 1528 della sua collezione, con il titolo di Testa di donna vecchia con un velo intorno al capo. Nel successivo inventario del 1569, fatto redigere da Luca Vendramin in occasione della trattativa di vendita – peraltro mai avvenuta – della collezione di famiglia al principe elettore Alberto V di Baviera, il quadro è citato come il ritratto de la madre del Zorzon, de man de Zorzon, cioè della madre di Giorgione, per mano di Giorgione, idea fantasiosa e romantica, che però, ci porteremo dietro per uno sproposito di tempo

L’ opera fu successivamente acquistata dal mercante Cristoforo Orsetti, che la ricorda nel proprio testamento del 1664 e quindi passò per eredità nella collezione del figlio di questi, Giovanni Battista. Solo successivamente, in data imprecisata, passò nelle raccolte Manfrin da dove, nel 1856, fu acquistata dallo Stato italiano insieme ad altri importanti dipinti. In seguito, senza una plausibile ragione stilistica, salvo per un lontano richiamo della donna ritratta con una vecchia effigiata nella Pala della Madonna e Santi nella Basilica di San Zeno, datata al 1520, del veneziano Francesco Torbido (1482 – 1562), il dipinto gli fu attribuito

Francesco che ebbe, come dire, una vita alquanto avventurosa: seconda quanto racconta Vasari, che però, diciamolo quando non sa le cose romanza assai, per sfuggire alle conseguenze di un feroce litigio, l’aretino lo definì

“alquanto manesco”

scappò in fretta e furia a Verona, nel 1500 quando aveva diciotto anni, per entrare poi nella bottega del miniatore Liberale di Verona: il problema è che, come sempre accade con Giorgione, le date stridono. Se il pittore di Castelfranco, come appurato è nato nel 1474, il racconto di Vasari implica che a vent’anni, da esordiente, la sua bottega era già così avviata, da potersi permettere un apprendista, il che, dagli altri dati biografici che abbiamo, sembrerebbe esagerato. Francesco, che ricordiamolo è uno dei più abili ritrattisti del primo Cinquecento, probabilmente avrà studiato a fondo l’arte di Giorgione in un secondo momento.

Comunque l’attribuzione a Francesco durò nel tempo, tanto che l’opera fu a lungo ignorata, finché Gino Fogolari (1875 – 1941) che vi identificò il presento ritratto della madre citato nell’inventario del 1569 dei beni di Gabriele Vendramin, committente della Tempesta, n cui è anche scritto che il fornimento, ossia la cornice, reca dipinta l’arma de cà Vendramin, le cui tracce effettivamente si notano sulla cornice dell’opera. Agli nizi del Novecento, quindi, iniziarono a proporsi le prime ipotesi di attribuzione a Giorgione, ma solo nel 1949, però, il dipinto fu definitivamente riconsegnato a Giorgione, e fu comprovato tutto dopo il restauro del 1949, considerate la preziosità della coloristica e l’alta carica umana della vecchia effigiata, accentuata ulteriormente dal nuovo restauro.

Cosa rappresenta il quadro ? Su uno sfondo scuro, dietro un parapetto, si vede una donna anziana ritratta a mezza figura di tre quarti, voltata a sinistra. Essa guarda lo spettatore e con un’intensa espressione di dolore dischiude la bocca e sembra rivolgergli delle parole, quelle che sono scritte sul cartiglio che essa tiene in mano: “Col tempo”. La donna indossa una berretta bianca floscia, che lascia scoperto un ciuffo di capelli grigi, e una veste rosata, oltre a un panno bianco con frange sull’orlo, appoggiato sulla spalla. Interessante è la doppia rotazione, del busto verso sinistra e della testa verso destra, che dà una particolare intensità all’effigie, e il gesto della mano destra, appoggiata al petto come durante il mea culpa.

Tutto converge nel volto sofferente della donna, la bocca socchiusa con un’intensa espressione come per parlare, lasciando intravedere la lingua dietro la dentatura irregolare; il naso è carnoso, la pelle incartapecorita e segnata dalle rughe e gli occhi, lucidissimi, inchiodano quelli dell’osservatore. Effetto accentuato dalla tecnica pittorica di Giorgione, che creò l’immagine per campiture cromatiche dense e materiche, senza contorni netti e senza un disegno sottostante, direttamente sulla tela, con estrema libertà. Ciò porta una voluta mancanza di uniformità nella stesura, ben visibile a una distanza ravvicinata, che crea un’opera di straordinaria modernità.

Che rappresenta il quadro ? Ovviamente non è un ritratto della madre del pittore, anche se lei o una sua vecchia balia potrebbe avere fatto da modella. Tenete conto che il restauro, oltre a recuperare i valori cromatici originali, ha recuperato i lineamenti originali della figura, che gli interventi precedenti avevano alterato: per ragioni puramente ‘estetiche’, avevano infatti accentuato l’età della donna, che appariva sporca (l’incarnato era di un improbabilissimo color tabacco) e rugosa (una ‘Vecchia’ non può che essere tale).

Ora, Giorgione non dipendeva per sè, ma per il committente che pagava: per cui il quadro avere significato soprattutto per Gabriele Vendramin, che come abbiamo visto per la Tempesta era fissato per allegorie di ogni genere e risma. Ciò è testimoniato dall’inventario Vendramin del 1601, si desume che La Vecchia fosse conservata con una “coperta” (o che serviva a tale scopo), raffigurante un’effige maschile: il dialogo tre le due figure doveva quindi rappresentare il senso compiuto del quadro. Allo stata attuale, avendo solo uno dei due termini della rappresentazione, possiamo limitarci soltanto a considerarla una meditazione sulla Vanitas e sul Tempo, che consuma ogni cosa, donando però la saggezza.

L’opera, come tutte quello dello stesso periodo, rappresenta una meditazione sui principali riferimenti artistici di Giorgione dell’epoca: Leonardo, si noti la somiglianza tra la Vecchia e l’apostolo Filippo all’interno del Cenacolo di Santa Maria delle Grazie, Bosch con il suo espressionismo e Dürer che al Ritratto di giovane di Dürer di Vienna che aveva sul retro una figura di anziana donna con un sacco di monete. Probabilmente Giorgione incontrò l’artista tedesco durante il secondo soggiorno di Durer a Venezia (1505-1507) e quindi in questa circostanza ne avrebbe potuto fornire il prototipo, poiché il pittore tedesco lo teneva con sé durante il suo secondo viaggio a Venezia. Se ciò fosse vero, ma è solo un’ipotesi, allora la Vecchia di Giorgione potrebbe essere datata intorno al 1508. Se invece l’opera di Giorgione fosse precedente, attorino al 1506, allora il modello iconografico sarebbe dato dal pittore veneto e da lui sarebbe nato un vero e proprio tema motivo iconografico.

Alcuni studiosi, tra l’altro, ipotizzano che il quadro fosse visto opera da Michelangelo di passaggio a Venezia, che ne rimase colpito e la tenne a mente quando creò le figure espressive delle Sibille nella volta della Cappella Sistina: anche questo caso le date non coincidono. Sappiamo che Michelangelo fece due soggiorni veneziani: uno nel 1495, uno nel 1529. Nel primo, la Vecchia era lungi dall’essere dipinto, nel secondo, la Volta era stata completata da parecchio

Presidiare il passato per difendere il futuro

Holonomikon

Chi controlla il passato controlla il futuro: chi controlla il presente controlla il passato.

George Orwell– 1984 (1949)

Oggi ricorrono i 74 anni dell’arrivo ad Auschwitz dei soldati dell’Armata Rossa e la scoperta di ciò che il Terzo Reich aveva significato per milioni di ebrei. Sei milioni, per l’esattezza. Oltre che per un numero inferiore ma comunque rilevante di prigionieri sovietici (almeno due milioni), polacchi non ebrei (circa due milioni), slavi (1-2,5 milioni), dissidenti politici (1-1,5 milioni), zingari (forse mezzo milione), omosessuali (5-15 mila), disabili e portatori di malattie mentali (duecentomila). Secondo stime variabili, un numero compreso tra i 12 e i 17 milioni di vittime furono sterminate con un’applicazione sistematica. E l’incertezza delle stime serve a rendere ancora più terribile l’orrore, per quanto possibile, conferendo alle proporzioni dell’Olocaustoun ulteriore livello di atrocità: quello che è toccato a chi si è visto cancellare dalla grande tela della storia…

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I Commentari di Ghiberti

Uno dei libri più complessa intepretazione della Storia dell’Arte, che i manuali scolastici citano di sfuggita, concentrandosi su aspetti che magari all’autore, a inizio Quattrocento, parevano secondari: si tratta dei cosiddetti Commentari di Ghiberti. Libro che ha una storia parecchio tormentata. Probabilmente, l’artista, negli ultimi anni della sua vita, decise di scrivere una serie di trattati, in cui cercava di sintetizzare le diverse riflessioni ed esperienze che aveva raccolto durante la sua vita. Trattati che erano dedicati un personaggio ragguardevole della Firenze dell’epoca di cui però l’autore non fa il nome; Julius von Schlosser, il grandissimo storico dell’arte austriaco, l’aveva identificato con Niccolò Niccoli, un famoso e ricco erudito dell’epoca. Lungi da me contestare un simile luminare, però non mi convince tanto, come attribuzione. Niccolò, che per il famigerato caratteraccio era in lite con metà Firenze dell’epoca, morì qualche anno prima, nel 1437, di quando ragionevolmente Ghiberti cominciò a lavorare ai libri. Per di più, era uno snobistico estimatore della filologia latina, che spesso rimproverava agli adulti di usare “volgarismi” nati dalla contrazione di lemmi latini: per questo non amava gli autori in lingua volgare e più volte dichiarò la sua avversione verso Dante, Petrarca e Boccaccio, ai quali preferiva nettamente Virgilio e Cicerone, per cui non credo apprezzasse trattati in fiorentino e privo di particolari eleganze formali, come quello di Ghiberti.

Dei trattati progettati, cominciò a scriverne almeno tre: uno, completato, ma in cui mancava l’ultima mano di revisione, era una Storia dell’Arte Moderna, in cui inspirato al De viribus illustribus di Petrarca e alla traduzione delle Vite di Plutarco in lingua volgare di Leonardo Bruni, collezionò una serie di biografie di artisti di cui si considerava erede e allievo, inaugurando un modello che sarà poi ripreso di da Vasari. Il secondo, completato a metà, manca la sezione finale, era dedicato all’argomento principale della pittura dell’epoca, la prospettiva geometrica. Il terzo, appena abbozzato, aveva cominciato a raccogliere appunti sparsi dalle fonti antiche, era una sorta di Storia dell’Arte Antica in simmetria con il primo trattato.

Sappiamo, ce lo dice esplicitamente l’autore, che aveva intenzione di mettersi a lavorare almeno su un quarto trattato

Faremo un trattato d’architettura e trattaremo d’essa materia

che probabilmente mai cominciò. Visto che poco prima cita Brunelleschi e ha sempre usato la prima persona, il sospetto è che il trattato potesse essere scritto a quattro mani con lui, il che implicherebbe come il progetto della serie di saggi fosse incominciato prima del 1447, prima della dipartita dell’architetto.

La morte impedì a Ghiberti di completare il progetto: intorno al 1460, qualcuno esaminò le carte dell’artista, magari su indicazione del tizio a cui era dedicata la serie di trattati,trovò le bozze, decise di copiarle, lo sappiamo perchè la grafia del manoscritta non è quella di Ghiberti e di raccogliere i testi in un unico volume, che da una serie di brani presenti, come ad esempio

Finito è il secondo commentario.

Intitolò Commentari.

Il copista, probabilmente fece tutto in fretta e furia, probabilmente neppure essere autorizzato dagli eredi e tra l’altro neppure era del mestiere: così molti brani dell’originale furono palesemente fraintesi, sintetizzati e talvolta addirittura lasciati incompleti. Per cui, non è detto che l’attuale configurazione dell’opera coincida con quella che aveva in mente Ghiberti. In tutto ciò, i Commentari non ebbero neppure diffusione. Ne abbiamo infatti un’unica copia conservata presso la Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, II, I, 333 ed appartenuto sicuramente a metà Cinquecento a Cosimo Bartoli, erudito celebre, fra le altre cose, per aver tradotto dal latino prima le Institutiones geometricae di Albrecht Dürer e poi il De re aedificatoria di Leon Battista Alberti. Copia che fu consultata da Vasari che non ebbe un’impressione così positiva, tanto che lo stroncò così

Scrisse il medesimo Lorenzo un’opera volgare, nella quale trattò di molte varie cose, ma sì fattamente che poco costrutto se ne cava. Solo vi è, per mio giudizio, di buono che, dopo avere ragionato di molti pittori antichi e particolarmente di quelli citati da Plinio, fa menzione brevemente di Cimabue, di Giotto e di molti altri di que’ tempi. E ciò fece con molto più brevità che non doveva, non per altra cagione che per cadere con bel modo in ragionamento di se stesso, e raccontare, come fece, minutamente a una per una tutte l’opere sue. Né tacerò che egli mostra il libro essere stato fatto da altri, e poi nel processo dello scrivere, come quegli che sapea meglio disegnare, scarpellare e gettare di bronzo che tessere storie, parlando di se stesso dice in prima persona: “Io feci”, “io dissi”, “io faceva e diceva”.

Ance se in termini dispregiativi, Vasari aveva capito, ma ne parleremo poi, il diverso spirito che animava la sua opera rispetto a quella di Ghiberti. Le citazioni successive al Vasari sono inesistenti. A riscoprire l’opera è Leopoldo Cicognara che, nella sua Storia della Scultura (e siamo quindi nel secondo decennio dell’Ottocento) ne riporta un estratto. In un clima di interesse crescente nei confronti del manoscritto dello scultore fiorentino, a riscoprirlo definitivamente è proprio Julius von Schlosser che, nel 1912, ne pubblica la prima edizione critica.

Come ha costruito il copista i Commentari ? Mise come primo libro la bozza di Ghiberti sull’Arte Antica, in cui il proemio è ripreso dall’architetto militare dell’età dei Diadochi Ateneo il Vecchio, mentre il programma dell’educazione a cui deve attendere un artista è ripreso dall’opera di Vitruvio, integrandola con lo studio della prospettiva e dell’anatomia, infine per la storia artistica si rifà all’opera di Plinio. Vi è però una sorta di rielaborazione delle fonti, che dimostra comunque la presenza di un intervento “redazionale” operato da Ghiberti per la preparazione del testo, che sarebbe dovuto essere ampliato e ulteriormente rivisto.

Il secondo libro, di cui parleremo poi, tratta di biografie artistiche (le prime di questa specie), fatte su base stilistica e non su base aneddotica, partendo da Giotto parla dei maggiori artisti trecenteschi e quattrocenteschi in maggior numero fiorentini e toscani, ma cita anche artisti romani e napoletani e lo scultore tedesco Gusmin, suo contemporaneo; segue la prima autobiografia artistica della storia. In questo caso, manca quello che oggi chiameremmo l’editing.

Il terzo libro, incompleto, affronta essenzialmente le teorie della visione, corredando la trattazione con disegni e schemi esplicativi: l fonti di sono i trattati di ottica antichi e medievali, in particolare le opere di Tolomeo, Alhazen (Ibn alHaytham), Witelo, la Perspectiva di Ruggero Bacone ela Perspectiva communis di Giovanni Pecham. E’ evidente la profonda cesura che sussiste in particolare fra i primi due commentari, di natura storica ed il terzo, di argomento scientifico, che, tra l’altro, sono di lunghezza ben differente. Otto pagine per il Primo Commentario, quattro per il Seconto, ciquantadue per il Terzo. Paradossalmente, se ci basassimo solo sull’estensione dei capitoli, dovremmo dire innanzi tutto che i Commentarii sono un libro che espone questioni di ottica. In che non è vero, perchè l’opera è una sorta di mostro di Frankenstein, ma che di fatto ci da un’indicazione sulle priorità di stesura e sugli effettivi interessi di Ghiberti nella sua vecchiaia.

Ora concentriamoci sul Secondo commentario: leggendolo, salta subito all’occhio la differenza con le Vite di Vasari. L’aretino scrive un’opera storiografica a tesi, per esaltare la centralità di Firenze nello sviluppo dell’Arte italiana. Ghiberti, invece scrive un’opera biografica: a lui ineressa evidenziare gli autori di cui si sente erede e il cui studio ha contribuito alla sua formazione. Ad aprire la serie è Giotto, la cui opera è fatta coincidere con la rinascita della pittura dopo i secoli di stasi nella produzione artistica, succeduti allo splendore della cultura classica e caratterizzati dalla totale assenza di ornamenti e decorazioni negli edifici religiosi, il che testimonia come la definizione di Cennino Cennini

“il quale Giotto rimutò l’arte del dipignere di greco in latino e ridusse al moderno”

era diventato una sorta di luogo comune nell’ambiente artistico fiorentino. A Giotto fanno seguito i suoi discepoli, Stefano, Taddeo Gaddi, Maso di Banco. Chiude la sequenza dei fiorentini Buonamico Buffalmacco, mentre la scuola ‘romana’ – vale a dire non toscans – è rappresentata da Pietro Cavallini e dagli Orcagna, che a dire il vero erano fiorentini. Sono poi trattati i maestri senesi: Nardo di Cione, Ambrogio e Pietro Lorenzetti, Simone Martini, Lippo Memmi, Barna, Duccio di Buoninsegna, a testimonianza di come fosse variegata la formazione di Ghiberti

L’attenzione, più che sulle vicende personali di ciascun artista, è fissata sulle loro opere, che vengono enumerate e descritte, enucleandone le caratteristiche tecniche e stilistiche salienti. È dalla maggiore o minore valutazione di queste che deriva il giudizio complessivo sull’autore. Nella pittura Ghiberti mostra di apprezzare il superamento della “maniera anticha cioè greca”, l’adesione alla quale condiziona il giudizio su Pietro Cavallini – benché considerato il più capace nella pittura murale – e su Duccio di Buoninsegna, pur riconosciuto “nobilissimo”. Ciò che loda in sommo grado nei pittori, oltre alla capacità di resa illusionistica dello spazio, è la perizia nel disegno e la ricchezza e l’armonia della composizione, soprattutto se fondate su una solida base di conoscenze teoriche e guidate da un ‘ingegno’ fuori del comune. Tutte queste caratteristiche si assommano in Ambrogio Lorenzetti, cui sono dedicati due capitoli), contenenti tra l’altro una meticolosa descrizione delle storie – quasi completamente perdute – affrescate nel chiostro di S. Francesco a Siena, ricche di efficacia didattica grazie alla varietà dei soggetti e della composizione e alla vivace resa coloristica.

Vi è poi l’accenno alla scultura contemporane

Ora diremo degli scultori furono in questi tempi. Fu Giovanni figliuolo di Maestro Niccola. Maestro Giovanni fece il pergamo di Pisa di sua mano, il pergamo di Siena, e ’l pergamo di Pistoja. Queste opere si veggono di maestro Giovanni e la fonte di Perugia di maestro Andrea da Pisa fu buonissimo scultore fece in Pisa moltissime cose, a santa Maria a Ponte fece nel Campanile in Firenze sette opere delle misericordia, sette virtù, sette scienze, sette pianeti. Di maestro Andrea ancora sono intagliate quattro figure di quattro braccia l’una. Ancora vi sono intagliati grandissima parte di quelli i quali furono trovatori dell’arti. Giotto si dice che scolpi le prime due storie. Fu perito nell’una arte e nell’altra. Fece maestro Andrea una porta di Bronzo alla chiesa di san Giovanni Battista nella quale sono intagliate le storie di detto san Giovanni e una figura di san Stefano che fu posta nella faccia dinanzi a s. Reparata della parte del Campanile. Queste sono l’opere si trovano di questo maestro. Fu grandissimo statuario, fu nell’Olimpia.

Sono citati Giovanni Pisano, che evidentemente riteneva uno dei suoi modelli e Andrea Pisano, che era stato il primo a lavorare al progetto che lo stesso Ghiberti considerava il suo capolavoro, le porte del Battistero di San Giovanni. Poi, vi è uno dei brani più controversi del Commentario

In Germania nella città di Colonia fu uno maestro nell’arte statuaria molto perito fu di eccellentissimo ingegno, stette col duca d’Angiò fecegli fare moltissimi lavorii d’oro fra gli altri lavorii fè una tavola d’oro la quale con ogni sollecitudine e disciplina questa tavola condussela molto egregiamente. Era perfetto nelle sue opere era al pari degli statuarii antichi greci fece le teste maravigliosamente bene et ogni parte ignuda, non era altro mancamento in lui se non che le sue statue erano un poco corte. Fu molto egregio e dotto et eccellente in detta arte. Vidi moltissime figure formate delle sue. Aveva gentilissima aria nelle opere sue, fu dottissimo. Vide di sfare l’opera la quale aveva fatta con tutto amore et arte pe pubblici bisogni del Duca, vide essere stata vana la sua fatica, gittossi in terra ginocchioni alzando gli occhi al cielo e le mani parlò dicendo: O Signore il quale governi il cielo e la terra e costituisti tutte le cose, non sia la mia tanta ignorantia ch’io segui altro che te, abbi misericordia di me. Di subito ciò che aveva cercò di dispensare per amore del Creatore di tutte le cose. Andò in su uno monte, ove era uno grande Romitorio, entrò et ivi fece penitenzia mentre che visse fu nella età finì al tempo di Papa Martino. Certi giovani i quali cercavano essere periti nell’arte statuaria mi dissono come esso era dotto nell’uno genere e nell’altro, e come esso dove abitava aveva pitto, era dotto, e finì nella Olimpia fu grandissimo disegnatore e molto docile. Andavano i giovani che avevano volontà d’apparare a visitarlo pregandolo esso umilissimamente gli riceveva dando loro dotti ammaestramenti. E mostrando loro moltissime misure e facendo loro molti esempli, fu perfettissimo con grande umiltà finì in quel romitorio. Con ciò sia cosa che eccellentissimo fu nell’arte e di santissima vita.

Si tratta della cosiddetta biografia di Gusmin, la cui identità e il catalogo delle opere costituiscono un problema storiografico ancora aperto e che sta oggettivamente facendo impazzire gli studiosi. I dati forniti dallo stesso Ghiberti permettono di inquadrare l’attività di Gusmin come scultore, orafo e pittore entro il secondo decennio del Quattrocento e di porre questa in relazione con le committenze della Corona francese, autorizzando l’ipotesi di un’origine fiamminga dell’artista; l’importanza accordatagli è inoltre indizio di come egli ne accogliesse gli influssi nelle proprie opere, in special modo in quelle in metallo.

Con un grosso però: le vicende narrate sono prese pari pari da tante agiografie di santi medievali: per cui non è detto che la vicenda di Gusmin non sia nulla più che un insegnamento morale, una meditazione sulla transitorietà della fama e sulla necessità di dare un senso più profondo esistenza, abbandondosi al Divino. Come combattere i colpi dell’alterna fortuna ? Da una parte seguendo i dettami della filosofia.

Di Teofrasto seguiremo la sua sententia confortando più gli ammaestrati che e confidenti della pecunia. Lo ammaestrato di tutte le cose solo e ne pellegrino nell’altrui luoghi: e perdute le cose familiari e necessarie bisognoso d’amici e esservi in ogni città cittadino alli difficili casi della fortuna senza paura potere dispregiare. Et quello il quale non dalli modifica]presidii ma in inferma vita essere confitto. Et Epicuro non differenzatamente dica poche cose alli savi tribuire la fortuna le quali o vero massime e necessarie sono con pensieri dell’animo e della mente essere governate. Et ancora dissono questo più filosofi.

Predisposizione d’animo che nasce dall’educazione e dall’esperienza di vita; dall’altra tenere traccia della propria vita, quello che fa Ghiberti, introducendo il catalogo delle proprie opere in modo tale che se alcune di esse fossero state fuse (come infatti avvenne) ce ne sarebbe stata almeno una documentazione, al contrario di ciò che era successo delle opere di Gusmin. Catalogo che è anche l’occasione per tracciare un bilancio della sua vita, in cui riuscì non dir male di nessuno dei cui colleghi, compresi i più insopportabili, tra cui lo stesso Brunelleschi

Castra Praetoria

Come molti sanno i Castra Praetoria erano l’accampamento della guardia pretoriana a Roma, istituita da Tiberio su consiglio di Seiano per difendere l’Imperatore situato nell’estrema parte nord-orientale della città, tra il Viminale e l’Esquilino, tra la via Nomentana e la via Tiburtina. La caserma antica ha dato il nome al rione circostante del Castro Pretorio. Il campo misurava m 440 x 380 metri, cioè 16,72 ha e presentava verso ovest un’area per le esercitazioni o campus. Le mura del castra, alte sotto Tiberio 3-5 metri, furono danneggiate durante la guerra civile del 69 d.C. e ricostruite da Vespasiano.

Il recinto dei castra venne inglobato nelle mura cittadine costruite dall’imperatore Aureliano nella seconda metà del III secolo: in questa occasione il recinto venne innalzato, ancora in opera laterizia, e vennero chiuse le porte. Il muro venne ulteriormente alzato sotto Massenzio, agli inizi del IV secolo e vi furono inoltre aggiunte delle piccole torri. Ulteriori interventi si ebbero sotto Onorio e nel VI secolo ad opera dei Bizantini (restauro in particolare del lato meridionale con materiali di recupero, forse blocchi in tufo provenienti dalle mura serviane). Tra il XVI e il XVIII secolo si ebbero una serie di restauri ai resti della recinzione. Nel XVII secolo si installò all’interno una villa del “Noviziato dei Gesuiti” e nel 1862 vi fu fondata Caserma “Castro Pretorio”, sede del Raggruppamento Logistico Centrale dell’Esercito Italiano, che può quindi vantarsi di essere, attualmente, la caserma più antica al mondo ancora presidiata da militari.

Nei pressi fu rinvenuto nel XIX secolo un grandissimo deposito di anfore romane, utilizzato per riempire il fossato del vicino aggere delle mura serviane. Sulla base di queste anfore, appartenenti a varie epoche, fu possibile a Heinrich Dressel definire la tipologia e soprattutto la cronologia di questo tipo di contenitori.

L’aggere per chi non lo sapesse era il terrapieno, associato a un fossato, che era costruito come ulteriore protezione delle mura. In particolare, l’agger servianus, che difendeva Roma nel punto più esposto della cinta, a settentrione del Quirinale, Viminale ed Esquilino consisteva ddi un largo fosso, di un muro e di un argine, sostenuto all’interno da un muro più basso; la costruzione ne era attribuita al re Servio e fu abbandonato e ridotto a giardini e abitazioni sotto l’impero.

L’altezza dell’aggere serviano originario doveva aggirarsi sui 4-5 metri, ma venne probabilmente raddoppiata in seguito ai pericoli che Roma corse per le invasioni galliche ed i primi conflitti civili. La presenza del fossato accentuava evidentemente l’altezza del baluardo. Alcuni tratti che necessitavano di una più attenta strategia difensiva raggiunsero, in epoca sillana, almeno i 15 metri.

La mancata conservazione di esempi sembra indurre a poter escludere che le mura in aggere fossero dotate di significativi parapetti interni e feritoie, sebbene fosse presente una merlatura composta di blocchi di tufo. Ugualmente le torri in muratura massiccia presenti in alcuni punti avevano probabilmente più una funzione di sperone che non di reale struttura difensiva, anche perché avevano comunque un’altezza pressoché pari a quella del muro ed una sporgenza da quello piuttosto contenuta (non più di 3-4 metri).

La funzione del fossato, oltre a fornire materiale per il terrapieno, era principalmente quella di impedire o comunque rendere difficoltoso al nemico l’avvicinamento al muro difensivo. Nel 1861-1862 gli scavi effettuati da Bergau e Pinder per la stazione provvisoria dei treni tagliarono la dorsale dell’agger fornendo un’idea delle dimensioni che doveva avere l’intera struttura: secondo i due studiosi tedeschi nel tratto riportato alla luce il fossato (posto a distanze variabili dal muro) aveva una larghezza di almeno 30 m per 9 di profondità; il terrapieno era alto mediamente 10 m per 35 di larghezza alla base, con una pendenza di circa 40°; il muraglione di contenimento era poco più alto del terrapieno e largo in media 3,60 m, rinforzato da speroni di circa 2 x 2 m distanti tra loro poco più di 13 m. La struttura non era, ovviamente, uguale in ogni punto della cinta difensiva, soprattutto per quanto riguarda l’esistenza del fossato che, in alcune zone, poteva essere sostituito dalla naturale orografia del terreno.

Tornando al Castra Praetoria, a partire del 1960 vi furono condotti scavi precedenti l’impianto della Biblioteca nazionale di Roma, in quella che era la Piazza d’Armi, lo spazio dedicato alle esercitazioni militari della Roma Umbertina e della relativa stazione della Metro B che portarono alla scoperta di alcuni ambienti del Castra, che come tutti gli accampamenti romani, rispettava fedelmente le norme dettate da Igino Gromatico (De munitionibus Castrorum).

Cosa prevedeva Igino ? Un castrum, accampamento militare temporaneo o stabile, aveva, se stabile, tra gli edifici principali delle fortezze i Principia, ovvero quegli edifici che ne rappresentavano il centro amministrativo, di fronte agli edifici dove era alloggiato il comandante della legione legatus legionis, il Praetorium. Le dimensioni di questi primi due edifici variavano da fortezza a fortezza, anche se normalmente presentavano misure pari a 70×100 metri circa. Accanto a questi edifici c’erano poi quelli dei tribuni militari e gli alloggi dei legionari e dei loro centurioni. In ogni alloggio risiedeva una centuria di legionari, pari a circa 80 uomini. Il centurione disponeva di una sua propria abitazione “in testa” alla struttura, mentre ogni contubernium (formato da 8 legionari ciascuno) era alloggiato in una stanza di 4×6 metri (dormitorio) abbinata ad una di uguale misura, dove erano invece depositate le armi. Vi erano, infine, strutture di fondamentale importanza come il Valetudinarium (ospedale militare), gli Horrea (granai), le fabricae (fabbriche di armi) ed in alcuni casi anche le terme, un carcer (prigione) ed (esterni alle mura del campo) un anfiteatro.

I Castra Praetoria, di conseguenza, avevano un perimetro quadrangolare, con angoli arrotondati e il lato meridionale obliquo. Se ne conservano tuttora tre lati e tracce del quarto lato occidentale, che apriva verso la città. Il recinto che circondava la caserma (440 x 380 metri), interamente costruito in opera laterizia, presentava addossate sul lato interno una serie continua di celle in opera reticolata coperte con volta a botte, sopra le quali correva il cammino di ronda. I

Al centro dei lati si aprivano quattro porte (la praetoria, la decumana, la principalis sinistra e la principalis dextera), resti delle quali sono ancora visibili sui lati settentrionale e orientale. All’interno gli ambienti seguivano le mura per tutta la lunghezza, mentre nella parte centrale era occupata da due lunghe file di edifici, originariamente su due piani. Tra di essi correvano strade interne. Un gruppo di questi edifici venne rinvenuto alla fine del XIX secolo nei lavori di viale Castro Pretorio, mentre altri sono stati scavati nella seconda metà del XX secolo durante i lavori alla Biblioteca Nazionale Centrale di Roma, che venne costruita sul sito dell’antica caserma. Il lato rivolto alla città, distrutto da Costantino quando abolì la guardia pretoriana, presentava un arco di marmo, del quale sono stati rinvenuti alcuni elementi. Il campo delle esercitazioni era infine posto al di fuori del muro di cinta, in un’ampia area sterrata tra la caserma e la città.

Tra l’altro sono visibili resti delle due porte principale. La Praetoria, di cui abbiamo notizie scarsissime dalle fonti antiche, fu probabilmente una delle prime a essere murata, forse proprio all’epoca di Costantino. La sagoma è ormai scomparsa, anche se si può indovinare l’ubicazione; comunque pare che fosse ad arco mentre le finestre, visibili tuttora, erano almeno tre, poste alla sommità della porta. È visibile lungo il Viale del Policlinico, tra il Policlinico Umberto I e Porta Pia.

Anche per la Porta Clausa, la meridionale, le notizie sono scarsissime, anche perché venne murata in epoca imprecisata ma comunque molto presto (da qui il nome) e così appare tutt’oggi, praticamente nascosta, all’altezza del civico 4-6 di via Monzambano. La facciata, con un unico fornice, era ricoperta in travertino; l’arco misura esternamente 8,60 m di larghezza, con 4,13 m di luce interna, con chiusura a saracinesca. Era sormontata da una camera di manovra, della quale sono ancora visibili cinque finestre ad arcata; l’intera struttura era merlata “a taglio di diamante”. Una sesta finestra è per metà ostruita da un rifacimento del muro di cinta voluto da papa Urbano VIII. Già dalla prima metà dell’VIII secolo non compare più tra gli itinerari e le descrizioni di Roma, ed era o parzialmente interrata a causa del sopraelevamento del terreno adiacente, o inglobata in qualche proprietà privata.

Il Prosciutto di Portici

Durante gli scavi della Villa dei Papiri, presso Ercolano, l’11 Giugno 1755, gli archeologi dei Borboni si trovarono davanti un reperto alquanto bizzarro: un pezzo di bronzo placcato in argento abbastanza piccolo da stare nel palmo di una mano, che aveva una forma che secondo alcuni era quella di un prosciutto, secondo altri di una piccola brocca. Nessuno aveva la più pallida idea di che cosa fosse, tanto che qualcuno al momento della scoperta, ipotizzò che fosse un giocattolo o un bizzarro segnaposto. Solo dopo una prima pulizia e un primo restauro ci si rese conto, con grane sorpresa, che si trattava di un orologio solare da taschino, praticamente una meridiana portatile, che indica l’ora a seconda dell’ombra proiettata dal sole.

All’epoca gli esperti di gnomonica, la scienza che progetta le meridiane, ipotizzavano come la tipologia più antica di queste meridiane tascabili, fosse di origine araba, la Shake al Jeradah o “Zampa di Cavalletta” e che una tecnologia simile fosse ignota al mondo classico. Lo stupore fu tale, tra gli eruditi dell’epoca che i primi a darne notizia furono gli gli autori illuministi della Encyclopédie francese che ne avevano già dato notizia nella voce Gnomonique, nel tomo VII di questa opera.

Voce che però conteneva una serie di imprecisioni, tanto che nella monumentale opera “Le antichità di Ercolano e contorni incise con qualche spiegazione” in cui i Borbone, per farsi pubblicità come protettori delle arti, descrivevano e rappresentavano con dovizia le pitture, le sculture e gli oggetti rinvenuti negli scavi della città campana, dovettero anticipare l’analisi di questo reperto nella prefazione del volume III, pubblicato nel 1762, dedicato agli affreschi.

Tra l’altro descrizione dagli eruditi napoletani dell’epoca non soltanto è la prima in ordine cronologico, ma è anche una delle migliori, se non la migliore, fra quelle ritrovate e presenti nei testi esaminati. Essa è inoltre corredata da note, molto dotte e dettagliate, che vanno dai nomi dei mesi, alle ore dei pasti presso i romani, all’uso del prosciutto in gastronomia nell’antichità, alle misure delle varie linee, allo studio quantitativo dello strumento e alla determinazione dei suoi parametri fondamentali.

Ora, piccola divagazione: perchè se è stato trovato ad Ercolano, si chiama Prosciutto di Portici ? Perchè all’epoca Ercolano era una frazione del comune vicino. Come è fatto la nostra meridiana portatile, che all’epoca era un unicum, ma che ad oggi con la scoperta di trentina di reperti simili, possiamo ipotizzare fosse abbastanza diffusa tra i romani più ricchi ? Una piccola spiegazione ci vuole, anche per chiarire le idee a certi presunti espertoni di storia romana su Facebook, che quando si parla però di trigonometria e geografia astronomica, entrano in tilt. Probabilmente alle superiori, durante le lezioni di queste materie, si facevano belle dormite.

Le linee diurne sono segmenti verticali. Ciascuna di esse corrisponde o a una data longitudine del Sole o, il che è lo stesso, al giorno di inizio di un segno zodiacale o, infine, con i moderni calendari, al giorno 21 di ciascun mese. Le linee orarie indicano l’inizio delle ore temporarie ed hanno andamenti che assomigliano nella forma a quelli delle linee presenti negli orologi di altezza a cilindro (come quello detto “del pastore”) o in quelli “a bandiera” (ottenuti sviluppando in piano la superficie cilindrica). Nonostante questa rassomiglianza si tratta di orologi di tipo diverso essendo i classici cilindri degli orologi di altezza a stilo mobile nei quali la distanza fra le linee diurne, e cioè il diametro del cilindro, è ininfluente e le lunghezze di tali linee dipendono soltanto dalla lunghezza dello stilo. Negli orologi a stilo fisso, come il Prosciutto, invece le lunghezze delle linee diurne dipendono sia dalla lunghezza dello stilo che dalle distanze fra esse.

Come tutti gli orologi di altezza anche quelli a stilo fisso devono poter essere ruotati attorno ad un asse verticale: a questo scopo la lastrina piana su cui sono disegnati deve poter essere sospesa ad una catenella o ad un anello in modo da portarsi automaticamente in tale posizione. Lo gnomone è in genere un breve stilo disposto perpendicolarmente alla lastrina e posizionato all’incrocio fra la linea dell’orizzonte (linea orizzontale più alta) e la linea diurna del Solstizio Estivo (0° del Cancro o Long. Sole = +90° o 21 Giugno). Nel Prosciutto lo stilo, di forma veramente insolita, era costituito dalla coda del maiale che, sporgendo dal lato sinistro della coscia, era prolungato sino ad avere l’estremità esattamente sulla perpendicolare del punto suddetto.

Ora la coda è scomparsa e anche al ritrovamento sembra ne fosse presente soltanto un breve moncherino: gli studiosi napoletani del XVIII secolo per poter fare delle prove del funzionamento, la “ricostruirono” usando della cera. Per la lettura dell’ora occorre ruotare la lastrina in modo da portare l’ombra dell’estremo dello stilo sulla linea diurna verticale corrispondente al giorno di osservazione. L’orologio non è un “orologio universale” e la lettura è valida soltanto nella località per la quale è stato calcolato.

Quanto poteva essere accurata questa meridiana ? Su questo tema, gli esperti di gnomonica si stanno scannando da fine Settecento, con dotte disquisizioni teoriche. Per tagliare la testa al toro, Christopher Parslow, classicista e archeologo della Wesleyan University di Middletown, nel Connecticut. Parslow è andato al Museo archeologico nazionale di Napoli, dove l’orologio è conservato, e gli ha scattato decine di foto, che ha utilizzato per mettere a punto un modello digitale; la stampante 3-D del suo ufficio ha poi impiegato poche ore per realizzare una riproduzione.

Lo studioso per prima cosa, ha confrontato con le fonti dell’epoca, Vitruvio e la datazione della Lex pacuvia de mense augusto, con cui il Senato volle celebrare la gloria e il nome dell’imperatore, fu promulgata certamente nell’ 8 a.C., dato che il mese appare indicato nel quadrante del Prosciutto, portando a definire il periodo di costruzione nell’intervallo tra quell’anno e il 79 d.C, quanto erutta il Vesuvio, e individuare la zona di costruzione, essendo calcolato probabilmente per una latitudine di 41-42°, utilizzando come valore della inclinazione dell’eclittica il valore 24°, usato da Vitruvio, per cui fu realizzato in un’officina napoletana.

Poi ha messo alla prova la meridiana all’aperto: a quanto pare, le stime degli eruditi napoletani del Settecento, che stimarono un errore di due o tre minuti, furono sbagliate all’eccesso. In teoria, la precisione del Prosciutto era di circa un minuto, un ottimo risultato, fatemi dire. L’orologio era progettato per indicare le mezze ore e perfino i quarti d’ora: in pratica, utilizzarlo era un vero casino. Secondo gli esperimenti dello studipso americano, tende a oscillare con il vento, ed è

“così piccolo e così difficile da tener fermo che una tale accuratezza si rivela più ideale che pratica”

Probabilmente come evidenzia Jones, era una sorta di status symbol

come certi costosissimi orologi svizzeri moderni. Non si possiedono solo per sapere che ora è; si possiedono per far vedere che li si possiede”

Perchè la forma di prosciutto ? La villa era probabilmente di proprietà di Lucio Calpurnio Pisone Cesonino, suocero di Giulio Cesare. Discendente da un’antica famiglia plebea arricchitasi durante la guerra italica, figlio di un armiere e di una delle figlie di Calvenzio di Piacenza, ricco mercante che è stato ritratto nel discorso di Cicerone, In Pisonem, come bandista d’asta gallico. Nonostante i suoi genitori non fossero entrambi romani, di lui Cicerone ci restituisce l’immagine di un tipico romano:

«nella severità del volto e in quel sopracciglio che appariva alla gente non come un sopracciglio ma come una promessa di buon governo»

Nonostante questo atteggiamento da difensore del Mos Maiorum, Lucio era un grande seguace di Epicuro, tanto da proteggere uno dei principali esponenti di questa scuola filosofica, Filodemo di Gadara. Ora, ricordiamolo, come l’identificazione tra epicurei e maiali era una sorta di topos della letteratura classica. Pensiamo lla Epistola I 4 (v. 16), rivolta da Orazio ad Albio Tibullo:

Me pinguem et nitidum bene curata cute vises,
cum ridere voles, Epicuri de grege porcum.

diventata proverbiale. L’associazione tra il maiale ed il filosofo greco non compare qui per la prima volta: Cicerone, infatti, nell’orazione In Pisonem (pronunciata nel 55 a.C.) sottolineando i vizi dell’accusato – che aveva aderito alla filosofia epicurea – richiama più volte l’immagine del maiale (al cap. 37 lo apostrofa addirittura così: Epicure noster ex hara producte non ex schola “mio Epicuro, uscito dal porcile, non dalla scuola”). Ma già in ambito greco Epicuro era stato definito il più porco e il più cane dei fisici. Oltre alle attestazioni letterarie, possediamo testimonianze iconografiche in cui sono presenti il filosofo ed il maiale: la prima è una coppa proveniente dal tesoro della Villa di Boscoreale e una statuina di porcellino presente nella vill dei Papire.

Identificazione autoironica, testimoniata anche dal Prosciutto, sia per rispondere con una risata alle accuse degli avversaria, sia per ricordare che cosa è per Epicuro la felicità. Questo è riuscire a vivere con quanto basta, che ci è possibile, però, solo riconoscendo che esistono importanti differenze tra i nostri bisogni e i piaceri che derivano dal soddisfarli.

Dice bene Valeria Meazza

Per Epicuro esistono due tipi di piacere: il piacere stabile e piacere passeggero. Sperimentiamo il piacere stabile nel soddisfare sobriamente bisogni naturali e necessari, fisiologici. Proviamo questo piacere, ad esempio, calmando la sete con un bicchiere d’acqua o il freddo con un maglione. Il piacere passeggero, invece, viene dal soddisfare bisogni naturali ma non necessari e bisogni né naturali né necessari. Un bisogno naturale non necessario è quello di sfamarsi con cibi raffinati. Un bisogno non naturale né necessario, invece, è quello di ricchezze. Il piacere associato a questi bisogni è passeggero perché, a differenza di quelli naturali e necessari, questi sono illimitati. Infatti, ci sarà sempre un altro cibo da gustare, un guadagno maggiore da perseguire. Ma il caso può facilmente privarci della possibilità di soddisfare questi bisogni.

Il dolore e il turbamento che ci impediscono la felicità scaturiscono, in primo luogo, dalla mancanza del piacere. Per evitarli dobbiamo imparare a distinguere i bisogni naturali e necessari dagli altri. Si tratta, in effetti, di calcolare con prudenza vantaggi e svantaggi derivanti dal soddisfare un bisogno. E di notare come i piaceri semplici ci portino serenità, mentre gli altri ce ne allontanino inesorabilmente. Ora, secondo Epicuro, vale poco un piacere che ci causa una perenne agitazione per il timore di perderlo o il volerne di più. Una seconda fonte di inquietudine, poi, è la paura. A farci soffrire sarebbero, oltre alla paura di non potersi garantire il piacere, la paura del divino, della morte e del dolore fisico. Ma come poter vivere senza paura?

La filosofia ci dispone alla felicità offrendo un “quadruplice rimedio” contro dolore e paura. Anzitutto ci mostra, pur rispettando il divino, che la nostra felicità dipende da noi. Secondariamente, descrivendo la morte come una disgregazione degli atomi dell’anima, ci insegna a non temerla troppo. Morendo non esistiamo più: come potremmo patire? Inoltre, la filosofia chiarisce che una vita mortale non vale meno dell’immortalità, se diamo valore all’attimo. In terzo luogo, essa aiuta a capire che il dolore è sempre temporaneo oppure destinato a finire presto. Infine, la filosofia abitua a valutare attentamente bisogni e piaceri, liberandoci dalla schiavitù del superfluo.

Per cui, felice è chi sa vivere con poco. Chi coltiva le relazioni umane autentiche e chi non si stanca di essere curioso. Soprattutto, felice è chi, sapendosi mortale, gode dei momenti passati così come del presente, incontrando il futuro senza paura. Insomma, è una bella fatica ottenerla !!! E chi meglio di un porcellino, che si gode con gioia ciò che ha, può ricordarci questo ?

L’Assedio di Mozia (Parte I)

Lungo la sua marcia Dionisio passò presso le città greche di Camarina, Gela, Akragas, e Selinus, che si trovavano sotto il dominio di Cartagine o le erano tributarie. Tali città furono tutte occupate ad una ad una, gli abitanti accolsero i liberatori a braccia aperte e ciascuna città contribuì a rafforzare il già potente esercito di Dionisio. Persino la nuova città di Himera, sebbene sulla costa settentrionale e molto distante, pare che abbia dato il suo aiuto mandando un contingente di uomini. Complessivamente le forze per terra di Dionisio, si dice che ammontassero ad ottantamila fanti e oltre tremila cavalieri, un esercito formidabile per l’epoca e tale che, insieme alla flotta di sostegno, formava un armamento quale mai prima aveva minacciato la potenza punica in Sicilia. Secondo Diodoro Siculo

Egli aveva sotto i suoi stendardi ottanta mila fanti, e tre mila cavalli; ed avea messe in mare non meno di duegento navi lunghe, dietro le quali venivano forse più di cinquecento destinate ai trasporti sì delle macchine di guerra, che d’ogni altra provvigione

Lasciando il confine più occidentale della Sicilia greca e superando il fiume Mazaro, fu finalmente raggiunto il territorio del barbaro. Giunto ad Erice, le sue vaste schiere intimorirono gli ericini, i quali, sia per non marciare contro le forze dionisiane e sia per il rancore che provavano verso i cartaginesi, decisero di unirsi anch’essi alle file dei sicelioti. Così potè marciare indisturbato verso il fulcro della potenza cartaginese in Sicilia, una città insulare, che si trovava come una gemma preziosa nel mezzo della baia chiusa dalla terra, Mozia, che Diodoro Siculo così definiva

Era situata su un’isola che dista sei stadi dalla Sicilia ed era abbellita artisticamente in sommo grado con numerose belle case, grazie alla prosperità degli abitanti. Con un stretta strada, costruita su una lingua di sabbia, comunica con la Sicilia

Mozia fu probabilmente interessata dalle esplorazioni dei mercanti-navigatori fenici, che si spinsero nel Mar Mediterraneo occidentale, a partire dalla fine del XII secolo a.C.: dovette rappresentare un punto d’approdo e una base commerciale morfologicamente molto simile alla città fenicia di Tiro. Il nome antico in fenicio era Mtw, Mtw o Hmtw, come risulta dalle legende monetali; il nome riportato in greco, Motye, Μοτύη, è citato anche da Tucidide e da Diodoro Siculo. Intorno alla metà dell’VIII secolo a.C., con l’inizio della colonizzazione greca in Sicilia, Tucidide riporta che i Fenici si ritirarono nella parte occidentale dell’isola, più esattamente nelle tre città di loro fondazione: Mozia, Solunto e Palermo. Archeologicamente è testimoniato un insediamento della fine dell’VIII secolo a.C., preceduto da una fase protostorica sporadica ed alquanto modesta. Le fortificazioni che circondano l’isola possono essere forse collegate alle spedizioni greche in Sicilia occidentale di Pentatlo e Dorieo nel VI secolo a.C.

Dionisio radunò tutto il suo esercito sotto le mura dell’isola di Mozia, invitandola alla resa, ma i suoi abitanti risposero picche: da una parte, contando sul dominio del di Cartagine, aspettava di riceve rapidamente aiuti, dall’altra, visti i precedenti, poco si fidava delle promesse nemiche: per cui decisero di resistere agli invasori fino all’estremo delle loro forze. Oltre agli stessi Moziesi sembra molto probabile che nell’isola si trovasse già qualche presidio militare di Cartagine, come guarnigione della città, e sembrerebbe anche che i Greci ivi residenti siano stati arruolati a forza o abbiano preso parte spontaneamente alla sua difesa. Sappiamo che vi erano dei Greci a combattere con i Moziesi da ciò che Diodoro ci dice su Daimes e gli altri suoi concittadini che furono catturati e crocifissi alla caduta di Mozia. La prima mossa dei difensori fu la distruzione della diga artificiale o terrapieno che collegava l’isola alla terraferma.

Per loro sfortuna, Dionisio aveva già previsto questa mossa: fece ricostruire e arginare la strada moziese, rendendo così vano il tentativo di blocco da parte degli isolani. Fatto ciò fece entrare nelle acque moziesi parte della sua flotta da guerra, mentre altre navi le pose all’ancora all’interno della baia. Sebbene non si dica da nessuna parte a quale spiaggia qui si alluda, è chiaro per ciò che viene affermato in seguito, che si faccia riferimento a qualche zona vicina all’ingresso della baia e a sud di Mozia, o all’estremità della punta di terra, oggi Isola Lunga, o, come sembra più probabile, lungo la costa dell’opposta terraferma che è più riparata. Le navi da guerra, invece, furono evidentemente portate verso nord, passando tra Mozia e l’isola Lunga, sulle cui spiagge pare che siano state tutte, o solo in parte, allineate o tirate a riva.

Così, lasciato l’incarico al fratello Leptine di mantenere il blocco di Mozia, il tiranno di Siracusa marciò verso l’interno nel tentativo di sottomettere le città dell’Epicrazia e quelle filo puniche. Spedizione che detto fra noi, non ebbe poi questo gran successo. Se i Sicani – legati all’egemonia di Cartagine in base all’ultimo trattato di pace – quando videro l’esercito siracusano apprestarsi dinanzi alle loro città, scelsero di ribellarsi ai comandi punici e si unirono ai sicelioti ben diversa fu la questione con l’Epicrazia.

Zyz, la nostra Palermo e Solous, Ancyrae, città di cui si sa ben poco, e le città collinari ben fortificate di Segesta ed Entella. Dionisio portò le sue forze sotto le mura di queste città e dopo aver saccheggiato i territori delle prime tre – tagliando persino gli alberi che vi crescevano sul fertile suolo – pose sotto assedio Segesta ed Entella, ma entrambe erano ben fortificate, per paura di essere logorato e di vedersi fuggire l’obiettivo principale, Mozia, dovette tornare indietro con le pive nel sacco.

Dinanzi a questa situazione, il comandante cartaginese Imilcone, decise di giocar d’azzardo: invece di soccorrere direttamente Mozia, provò un raid su Siracusa. In piena notte spedì dieci navi con un suo ammiraglio in direzione del porto siracusano, con lo scopo di distruggere le restanti navi che gli aretusei non avevano portato con sé a Mozia. Non essendo preparati ad un improvviso attacco, i siracusani subirono l’assalto cartaginese e videro le loro navi incendiate nella notte. Secondo quanto ipotizzato da Imilcone, Dionisio avrebbe interpretato la mossa come il preludio a un attacco in grande stile verso la sua capitale; di conseguenza, avrebbe tolto o perlomeno ridotto l’assedio a Mozia, per correre a difenderla: il greco non cadde nel tranello, visto che era alquanto confidente sul fatto che sue mura e le fortificazioni che aveva fatto costruire potessero resistere a qualsiasi assalto nemico. Per cui Imilcone, decise di mutare al volo la sua strategia.

Per prima cosa, attacco a sorpresa contro la flotta siracusana posta nel porto moziese. Il re di Cartagine sperava di cogliere le navi aretusee in una posizione ad esse sfavorevole, e dunque di distruggerle all’interno della baia isolana e porre così fine all’assedio dei sicelioti contro la sua principale roccaforte. Successivamente intendeva punire la polis che aveva ideato l’attacco, violando il precedente trattato di pace; dunque dirigersi verso Siracusa, con forze ancora maggiori. Per mettere in pratica il suo piano, Imilcone spedì 100 delle sue migliori triremi nelle acque di Mozia Nel realizzare questa azione, Imilcone contava di sfruttare un ulteriore vantaggio: era venuto a conoscenza del fatto che in quei giorni Dionisio aveva lasciato Mozia con il suo esercito e che abbia contato su una assenza del Tiranno abbastanza lunga da permettergli di conseguire il suo scopo senza ostacoli da parte delle forze di terra.

I cartaginesi, partiti di notte, approdarono sulla spiaggia di Selinunte e facendo vela da questo luogo, costeggiò il cosiddetto promontorio Lilybaeum, ora Capo Boeo e raggiunse il porticciolo di Mozia sul far del giorno. Nei pressi dell’imboccatura di questo mare interno o baia, Imilcone trovò all’ancora le navi da trasporto greche, non protette, e, naturalmente, non ebbe alcuna difficoltà a distruggerle, quindi, addentrandosi di più nella baia, certamente ad ovest di Mozia e tra questa e l’attuale isola Lunga, pare che abbia disposto le sue navi in ordine di battaglia e fece i preparativi per il preventivato attacco alla flotta da guerra di Dionisio, che come è stato riferito prima, stazionava probabilmente in questa parte del porto

Se ignoriamo che le navi da guerra di Dionisio siano state tirate sulla spiaggia o no, senza dubbio Imilcone le riteneva in una posizione a loro sfavorevole quando comandò l’avanzata verso la baia; perché, imbottigliate come erano le navi greche nelle acque basse della parte più interna del porticciolo, con niente altro forse che un unico stretto canale di acque profonde adatte alla navigazione, non era possibile per loro nessuna operazione di uscita in ordine serrato. Comunque allo stesso tempo e per lo stesso motivo doveva essere fuori discussione anche ogni ulteriore avanzata da parte della flotta cartaginese. L’azione di Dionisio di tirare a riva le navi in questa occasione è stata aspramente criticata, ma si deve considerare il fatto che il varo di imbarcazioni quali le triremi o anche le quadriremi, o penteconters, di quei tempi, non era un’operazione che avrebbe richiesto molto tempo, soprattutto avendo una schiera di uomini a disposizione per eseguire il lavoro, ed inoltre il Tiranno contava probabilmente sulla possibilità di ricevere ampia notizia su ogni mossa del nemico. Il vero errore di Dionisio fu senza dubbio di portare le navi da guerra nella parte più interna poco profonda del porticciolo invece di lasciarle vicino all’ingresso della baia, dove avrebbero affrontato la flotta cartaginese in condizioni non solo uguali, ma più vantaggiose, grazie al numero superiore. L’ingresso della baia, o lo Stagnone, come viene di solito chiamato, è di notevole ampiezza e la profondità dell’acqua nelle sue vicinanze è tale da consentire le manovre richieste da qualunque scontro navale di quell’epoca. Come avevo affermato prima, comunque, pare che Dionisio fosse tanto convinto della impossibilità da parte dei Cartaginesi di qualche intervento pericoloso per i suoi movimenti, che, in quei momenti, forse divenne imprudente e, visto che aveva bisogno degli uomini delle navi per la ricostruzione del molo nel nord di Mozia, non esitò a portare la flotta proprio nella parte più interna del porticciolo, dove questi sarebbero stati a portata di mano e pronti per il lavoro.

Fin qui il progetto di Imilcone era stato eseguito con pieno successo e tutto aveva contribuito all’audace tentativo di soccorrere la città assediata; ma l’onda della fortuna adesso stava per passare dall’altra parte. Dionisio era tornato dalla spedizione verso l’interno ed aveva ripreso il comando delle forze a Mozia, preparandosi egli stesso ad affrontare il generale cartaginese. Senza dubbio si rese subito conto dell’errore commesso di aver fatto addentrare troppo nel porticciolo le navi da guerra, e si diede subito da fare per porvi rimedio come meglio poteva. Le sue capacità di risorsa furono messe in tale momento alla prova, ma egli fu all’altezza della situazione. La posizione della flotta siracusana, così chiusa in quelle acque basse e limitate dalla parte più interna del porticciolo di Mozia, era senza dubbio svantaggioso e critica e solo un’abile manovra, insieme ad una azione energica da parte del comandante, poteva salvarla.

Il tiranno aretuseo per evitare che tutte le sue navi andassero distrutte nel sacco dei cartaginesi, diede l’ordine di porre al sicuro le navi rimaste a terra. Imilcone aveva incominciato il suo assalto, ma egli e il suo esercito marinaro si ritrovarono improvvisamente sotto una pioggia incessante di dardi. La flotta da guerra di Dionisio era infatti stata attrezzata di frombolieri, arcieri e saettieri in grande quantità. Ma c’era qualcosa di diverso che spaventò l’esercito di Cartagine: da terra giungevano frecce lanciate ad ampia distanza. Si trattava dell’uso della catapulta: era la prima volta che essa veniva impiegata durante un assedio. I siracusani, da terra, puntavano in direzione dei cartaginesi le loro baliste, che secondo Diodoro erano di due tipi: una per il lancio di grandi pietre e l’altra per il lancio delle frecce; con queste uccidevano un gran numero di nemici.

Nel frattempo ricorse allo stratagemma di trasportare una notevole parte della sua flotta, circa 80 navi da guerra, per terra o lungo i bassifondi, nel mare aperto fuori dalla menzionata isola; in tal modo, non solo le navi furono salvate, ma vennero anche poste così nella posizione di poter volgere le prue al nemico sopraggiungendo con forze superiori e dal mare aperto. L’allusione di Diodoro (non si può che chiamare così) all’azione di Dionisio del trasporto delle navi in mare aperto è molto laconica, e sfortunatamente la descrizione di Polyaenus, anche se più dettagliata, non è affatto esplicita, e ci lascia in dubbio circa il luogo preciso in cui fu eseguita la manovra. Questa è stata una questione molto controversa che ha dato luogo a notevoli discussioni e congetture.

Secondo Polyaenus, il trasporto delle imbarcazioni fu effettuato “in una zona piatta e paludosa dell’estensione di venti stadia”, ma è difficile dire se ciò significava che di fatto le navi furono trascinate per venti stadia di terra, o soltanto che la striscia di terra in cui le operazioni furono eseguite aveva una linea costiera o fronte di tale misura. Se non fosse stato per tale riferimento ai venti stadia, guardando la carta geografica, non si esiterebbe a collocare la linea di trasporto di Dionisio nella parte più stretta della striscia di terra nota ora come l’Isola Lunga, perché è quella che offrirebbe le maggiori possibilità di manovra sia perché in questo luogo essa è relativamente poco ampia, ma anche per il fatto che è particolarmente pianeggiante e paludosa, anche se tali termini si possono pure applicare ad altre parti delle spiagge esterne della baia di Mozia.

Più di uno scrittore su questo argomento è stato pienamente a favore di tale opinione e non c’è dubbio che le prove a suo sostegno sono fondate. Studiosi autorevoli più recenti , comunque, interpretando l’allusione ai venti stadia da applicarsi al tratto di terra lungo cui sono state trasportate le imbarcazioni siracusane, preferiscono collocare la linea di trasporto a nord-ovest di Mozia, cioè a dire, dalla parte più interna del porticciolo, ad ovest del molo o terrapieno, verso l’attuale canale che separa l’Isola Lunga dalla terraferma nel punto oggi noto come Capo San Teodoro, e, per fare riferimento ai venti stadia, suppongono che tutta quella parte della baia dall’una e l’altra parte dell’isoletta di Santa Maria e a nord di questa, che oggi non è altro che acqua e bassifondi, un tempo sia stata terra asciutta.

Oggi, in considerazione delle prove offerte dalle ricerche recenti, cioè che il rapporto terra-acqua nello Stagnone di Marsala è più o meno identico a quello dell’antichità, non si può più sostenere quella ipotesi, a meno che non si sia disposti ad accettare l’idea alternativa di collocare la linea di trasporto di Dionisio attraverso l’Isola Lunga. Pare che ci sia solo una possibilità di uscire da tale difficoltà di interpretazione.

Essa consisterebbe nel supporre che le imbarcazioni siracusane siano state trascinate non attraverso un territorio completamente asciutto ma su dei bassifondi, quelli tra la parte interna della baia di Mozia e l’attuale Capo San Teodoro, che probabilmente apparivano a quei tempi più o meno come si presentano oggi. Holms colloca la linea di trasporto a nord-est, o lato interno dell’isola di Santa Maria ma potrebbe lo stesso essere stata a sud-ovest, o lato esterno. Ciò, comunque, è irrilevante, e non prende in considerazione la distanza dei venti stadia, che è il punto importante. Si potrebbe pensare che il trasporto effettivo delle imbarcazioni attraverso i bassifondi sia stata una impresa meno ardua di quanto sarebbe stato trascinarle di peso su terreno completamente asciutto e di conseguenza la manovra sarà stata eseguita in quel luogo con relativa celerità. Polyaenus parla del trasferimento di 80 triremi in un giorno.

La parte più grande dello Stagnone, al giorno d’oggi, ha un’abbondantissima vegetazione marina composta soprattutto di un’alga particolarmente soffice attraverso cui si possono facilmente tirare o spingere imbarcazioni senza che le chiglie o le parti inferiori ne abbiano al soffrire danni; e nelle parti più rocciose i rotolatori di legno di cui erano fornite le imbarcazioni greche avrebbero certamente offerto maggiore protezione contro questo inconveniente. Anche se la necessità di trascinare imbarcazioni per terra o su bassi fondali non sarà stata una cosa insolita nell’epoca delle triremi, si potrebbe anche dubitare che ciò sia mai stato fatto prima con una portata tanto ampia quanto quella relativa a tale situazione particolare quando la sua esecuzione è stata di molto facilitata, per non dire resa possibile dal consistente numero di uonùni che Dionisio fu in grado di impegnare in tale impresa. La perfetta manovra del Tiranno non è stata che la prima di operazioni simili a cui hanno fatto ricorso altri capi nella storia di epoche successive.

Imilcone credendo che Dionisio stesse portando la flotta alle sue spalle, in maniera tale da chiuderlo al centro, ebbe timore di far proseguire l’avanzata punica. E vedendo i suoi uomini cadere sotto la gittata nemica, decise di abbandonare le acque moziesi e di ritirarsi.I sicelioti avevano preso il porto. Cartagine abbandonava a sé stessa l’isola che fino a quel momento era stata la sua più potente e opulenta alleata siciliana. Dionisio ebbe così campo libero e poté far terminare la ricostruzione della strada che avrebbe permesso ai suoi uomini di attraversare le basse acque che separavano le sue macchine d’assalto dalle mura di Mozia. Appena finito il lavoro, l’esercito dei greci si posizionò con ogni sorta d’arma sotto le fortificazioni moziesi.