Sant’Angelo Muxaro 

Quel pomeriggio d’aprile del 1767 il gran caldo che già incombeva su Agrigento non frenò la trepidazione con cui il barone tedesco Joseph Hermann von Riedesel attendeva di essere ricevuto dal vescovo Andrea Lucchesi Palli. A sedurlo era la sua ricca collezione di medaglie greche, puniche e romane, in bronzo, in argento e in oro. La curiosità del viaggiatore prestò finì però col concentrarsi soprattutto su quattro rarissime coppe d’oro provenienti dal territorio di Sant’Angelo Muxaro, piccolo borgo svettante su un colle costeggiato dal fiume Platani. Come il barone scrisse nel suo delizioso diario di viaggio, pubblicato nel 1771 a Zurigo con il titolo di “Viaggio attraverso la Sicilia e la Magna Grecia”, due di esse “avevano nel loro contorno delle figure di buoi in rilievo, di stile egizio; le altre due sono riunite, e per ornamento non hanno che un’orlatura di piccoli punti artificialmente disposti. Queste coppe sono state trovate in un’antica tomba e paiono essere servite al culto del dio Api”.

Von Riedesel è l’unico ad aver visto insieme tutte e quattro le coppe. Infatti nel 1770, quando ad Agrigento arrivò il pittore francese Jean-Pierre Houël, autore di oltre 200 spledide tavole, raccolte tra il 1782 e il 1787 nei quattro volumi del “Voyage pittoresque des isles de Sicile, de Malta et de Lipari”, delle due coppe figurate ne rimaneva una sola che l’artista riuscì a ritrarre. L’altra purtroppo era stata da poco venduta “a un inglese”, che poi si scoprì essere l’ambasciatore di sua Maestà Britannica a Napoli Sir William Hamilton. Costui nel 1772 la donò al British Museum dove ancor’oggi si trova. Una circostanza fortunata perchè delle altre tre coppe non si è saputo più nulla. Già Ignazio Paternò, Principe di Biscardi, autore di un “Viaggio per tutte le antichità della Sicilia” pubblicato nel 1781 aveva parlato di due sole patere in oro rimaste, una delle quali soltanto decorata con figure di buoi “de’ quali se ne vede il cavo nella parte opposta”.

E’ possibile che quei quattro oggetti avessero fatto parte di un prestigioso tesoro appartenuto probabilmente ad un monarca locale, così come non si esclude che possano essere state un omaggio regale da parte dei Greci che, emigrati dalla madrepatria, approdarono lungo le coste dell’Italia meridionale. Nell’unica coppa superstite si notano sei tori in rilievo, con lunghe corna, grandi zoccoli e corpi spigolosi dalle nervature sporgenti, mentre avanzano con postura identica. L’oggetto è una patera – ossia una coppa usata per versare liquidi durante i sacrifici rituali – con al centro un castone che si ritiene trattenesse in origine una pietra preziosa ormai scomparsa. Su un lato del medaglione centrale si può vedere tratteggiata una falce di luna. Una decorazione che sembra fondere antichi stilemi greci e fenici.

Così Rocco Mazzolari racconta, coniugando vivacità narrativa e precisione, la storia di un tesoro, ritrovato a Sant’Angelo, costituito da oggetti probabilmente riconducibili a un unico, misterioso, ‘maestro degli ori’, forse un artista indigeno formato nella colonia greca di Gela, che è una delle più importanti testimonianze del commercio di beni di lusso tra Sicilia e Grecia. Ricordiamo come questo luogo è stato anche uno dei principali hub commerciali tra Sicilia e Vicino Oriente, nella Tarda Età del Bronzo e nella prima Età del ferro, di cui è rimasta testimonianza anche nella memoria dei greci dell’età classica. Il villaggio sicano, fondato attorno XIII secolo a.C. Tale villaggio costituisce in archeologia un valido fossile guida cronologico per la produzione locale dalla crisi della prima società autoctona (XIII secolo a.C.) al rapporto con i primi coloni greci durante la grande stagione delle apoikiai nel corso dell’VIII-VII secolo a.C., tale da costituire per determinati autori una facies a sé stante.

Gli autori classici associano probabilmente questo villaggio a Kamicos, sede del mitico regno di Kokalos, che è ricordato ricordato per aver dato rifugio a Dedalo quando fuggì insieme al suo figlio Icaro dal labirinto di Minosse. Il re di Creta allora andò alla sua ricerca infuriato della fuga. Sapendo della sua abilità inventoria Minosse andava in giro chiedendo di risolvergli un enigma, dove si chiedeva di passare un filo in una spirale di una conchiglia. Nessuno vi era riuscito e solo Cocalo chiedendo aiuto al suo amico aveva la soluzione: grazie all’aiuto di una formica il filo era riuscito a passare tranquillamente. Minosse intuì immediatamente che vi era lo zampino di Dedalo. Allora Cocalo, disperato, decise di uccidere lo stesso re per salvare l’ospite, tramite le figlie che, con la scusa di un bagno che sarebbe servito ad avere l’eterna giovinezza, gli tolsero la vita. La morte di Minosse viene raccontata in diversi modi, durante il bagno o con l’acqua calda o con la pece bollente. Sofocle scrisse una tragedia che raccontava della vicenda.

Narra Erodoto nel VII libro della sua opera che la città di Camico subì l’assedio dei Cretesi, giunti dalla loro isola per vendicare la morte di Minosse: dopo cinque anni di guerra, i Cretesi, non riuscendo a espugnare la città, abbandonarono il campo di battaglia

Si racconta, infatti, che Minosse, giunto in Sicania (che ora si chiama Sicilia) alla ricerca di Dedalo, vi perì di morte violenta. Passato un po’ di tempo, per incitamento d’un dio, tutti i Cretesi, in massa, eccetto quelli di Policne e di Preso, venuti con una grande flotta in Sicania, avrebbe assediato per cinque anni la città di Camico, che, ai tempi miei, era abitata da Agrigentini. Alla fine, però, non riuscendo a conquistarla, né a rimanere più a lungo a lottare con la fame, se ne sarebbero andati abbandonando il campo

Tutta questa tradizione, oltre a giustificare dal punto di vista ideologico la colonizzazione, i greci non andavano a occupare terre altrui, ma ritornavano in luoghi in cui avevano già dimorato in passato, è forse una trasposizione narrativa del ricordo della migrazione di parte degli “outsider” del sistema politico ed economico miceneo che ricordiamolo, era molto rigido e strutturato, in qualche modo doveva ricordare lontanamente quello del Giappone dei Tokugawa. Migrazione ad esaminare i risultato archeologici che riguardava soprattutto artigiani, che non trovavano spazio nell’economia centralizzata gestita dal Wanax; non è neppure da escludere né qualche tentativo di capi militari in esilio, se diamo retta al mito e alle testimonianze ittite, la vita politica interna della Grecia micenea era alquanto turbolenta, ne abbia approfittato, per qualche tentativo, più o meno fallimentare, di crearsi un suo dominio di breve durata: spedizioni militari strutturate, come quelle in Anatolia, premesso che non abbiamo prove analoghe agli archivi di Hattusa, era probabilmente molto al di sopra, per motivi logistici dei mezzi del Lugal miceneo, qualunque forma abbia avuto il suo stato, che già i suoi contemporanei, consideravano alquanto bizzarro.

Il villaggio esisteva ancora al tempo della prima guerra punica: Diodoro Siculo, infatti, la descrive come phrourion di Akragas, ossia un avamposto militare della nostra Agrigento. Abbandonato in epoca romana e bizantina, se diamo retta al nome attuale, l’area ricominciò a essere ripopolata in epoca islamica: il nome attuale deriva dall’arabo minsar, in generale utensile, o in contesti specifici “sega”, “posto in cui vengono sparsi frutti come uvetta o fichi per essiccare”, “piatto per la vagliatura” il che implicherebbe la presenza di uno stanziamento produttivo. Nel 1511 venne costruito il centro abitato. Attorno al 1506 fu favorita la colonizzazione di profughi albanesi, che caratterizzò per diversi anni la vita del paese, emigrati in queste terre a seguito dell’invasione turca dei Balcani sul finire del XV secolo.

Sulle pareti di gesso cristallino della collina di Sant’Angelo, tantissime sono le tombe rinvenute. Gran parte di esse sono di forma rotonda a pseudo-cupola conica, detta a Tholos e richiamano le costruzioni funebri principesche della Grecia micenea. Generalmente contenevano un gran numero di cadaveri (in una furono ritrovati 35 teschi) e ciò fa pensare ad un uso domestico o dinastico, il che è interessante, perchè mostra come le popolazioni locali, per motivi di prestigio, avessero adattato una tipologia di sepultura individuale, del wanax, ai loro usi e costumi, traslandola in un diverso universo spirituaale.

Fra queste tombe la più monumentale è la “Grotta del Principe”, formata da due grandi camere circolari comunicanti; una anteriore molto grande (diam. m. 8,8) e la seconda più internata e di dimensioni più ridotte, presenta intagliato nella roccia un lettuccio funebre.E’chiamata anche “Grotta Sant’Angelo”, dal nome del santo protettore che secondo la tradizione avrebbe scelto la grotta per il suo eremitaggio dopo averla liberata dal demonio.

Dei diversi ritrovamenti archeologici in Sant’Angelo Muxaro si ha notizia sin dal ‘700, per la questione delle patere, di cui accennavo a inizio post. Intorno all’800 circa Sant’Angelo Muxaro assume una posizione di particolare rilevanza nel contesto del panorama archeologico siciliano dato che nella parte più bassa della collina che volge a mezzogiorno come anche in altri punti non proprio limitrofi al monte di Sant’Angelo, contadini del posto scavarono decine di tombe rinvenendo oggetti, vasi e materiale archeologico in numero incalcolabile. I contadini del luogo caricavano tali reperti in apposite ceste e con muli ed asini, percorrendo antichi sentieri e trazzere li portavano ai mercati di Agrigento e Palermo. Molti di questi oggetti finivano a far parte di collezioni private altri nei musei delle città. Di particolare importanza nel 1927, fu il ritrovamento ad opera di uno dei contadini santangelesi, di un pesante anello d’oro (32.5 gr.) oggi esposto al museo regionale di Siracusa, con castone ellittico raffigurante una vacca che allatta un vitellino.

L’ importanza del centro e dei ritrovamenti suscitò l’attenzione di tanti studiosi, primo tra tutti Paolo Orsi, il più grande archeologo della Sicilia di quegli anni. Questi, dopo aver condotto esplorazioni nelle altre necropoli indigene siciliane, come Pantalica, Cassibile ecc…,sognava di poter esplorare anche l’area di Sant’Angelo Muxaro. Partì, cosi, una fortunatissima campagna di scavi che durò dal 1931 al 1932 e nella quale l’Orsi potè contare sulla preziosa collaborazione di Umberto Zanotti Bianco. Gli scavi iniziarono sulla parte Sud-Est del colle e in poche settimane si riportò alla luce un patrimonio inestimabile: tombe pre-protostoriche (XII-V sec. a.C.) grandissime, monumentali, senza eguali in tutta la Sicilia, ricche di corredi funebri e metallici.

La più importante per monumentalità, è la “Grotta del Principe” o “Grotta Sant’Angelo”. Nello stesso costone, fu anche rinvenuto un gruppo di sei tombe a tholos, tutte nella parte alta del colle. Altre dodici, infine, di dimensioni più ridotte a semplice grotticella erano poste giù in basso sul costone di una “regia trazzera”. Tantissimo il materiale rinvenuto in queste grotte. Del sepolcro V lo stesso Orsi così scrisse: “ una monocella a cupola con serraglia rovesciata in cavo, di mt. 4,60/4,75 di diametro e mt. 2,95 di altezza: un letto funebre con cozzale a gradinetto di piccoli massi nel senso della lunghezza, letto coperto da una coltre funebre formata da un sottile strato di gesso lucente e trasparente formatosi con gli stillicidi nei secoli; attraverso questa coltre vetrificata s’intravedono le briciole di due scheletri decomposti messi uno a rincalzo dell’altro e di essi uno adagiato sul capezzale roccioso anzi più esattamente sugli avanzi decomposti di un capezzale igneo decorato di occhi di dado e di punte di cuspidi; preziosa reliquia di cui un solo frammento pervenimmo a salvare. Ma v’era di meglio: alla mano sinistra di uno dei due morti, o rispettivamente alla destra dell’altro, s’intravedeva sotto un grumo cristallino, il grosso e pesante (54,8 gr.) anello submiceneo colla rappresentanza ad intaglio profondo, condotto in maniera molto realistica, di un lupo coi suoi unghioni, con tracce di rosso (forse erano dei suggelli) nel cavo; donde ci piacque assegnare questo insigne sepolcro alla tribù del lupo. Ai piedi del cadavere una grossa kotyle ed una salierina nero ebano nonché un boccale panciuto a fasce nere”.

All’interno della stessa tomba, sicuramente la piu ricca, furono oltre cento gli oggetti rinvenuti di cui ottanta sette vasi in ceramica e numerosi rottami. E comunque anche le tombe minori furono trovate colmi di vasi, crani, ossa e corredi funebri. Nel 1976 l’Istituto di Archeologia dell’Università di Catania sotto la direzione del Prof. Giovanni Rizza e in collaborazione con la Sovrintendenza alle Antichità di Agrigento riprese le ricerche a Sant’Angelo Muxaro e effettuò degli scavi. Uno degli scavi presso la necropoli, permise di rinvenire una tomba detta “A”, ancora intatta. Mt. 3,30/2,10 di diametro circa e di mt. 2,10 di altezza. In quella occasione vennero riportate alla luce cinquanta vasi, fibule di bronzo e di ferro e un gran numero di cadaveri. I vasi di produzione indigena risultarono molto particolari ed interessanti poiché peculiari della cultura e lo stile propri della ceramica di Sant’ Angelo Muxaro. La necropoli del monte di Sant’Angelo Muxaro rappresenta la parte più esterna di un sito archeologico molto più ampia. Essa assume una posizione tale da far pensare ad una barriera insormontabile posta a protezione di una più importante area, quella del “Monte Castello”, sulla cui sommità pianeggiate gli studiosi sono ormai concordi nel collocare la sede dell’antica e mitica fortezza dei Sicani: Kamikos. Qui sono state rinvenute centinaia di tombe, sia a tholos che a forno. Le più spettacolari risultano sicuramente le cosiddette “Grotticelle”: un’alveare di tombe scavate nella roccia.

Negli ultimi anni si sono verificate due ulteriori novità: la prima Museo archeologico di Sant’Angelo Muxaro (MuSAM), inaugurato nel 2015 nell’ottocentesco Palazzo Arnone, acquistato e ristrutturato dal Comune per essere destinato a centro espositivo. E’ il racconto di una civiltà antichissima, di una zona abitata sin dalla protostoria e dall’età del ferro. Sant’Angelo è infatti ritenuto il cuore del regno dei misteriosi Sicani. Il racconto del MuSAM percorre un lungo arco che parte dalle formazioni geologiche dei gessi e del sale e giunge al Medioevo, passando per le prime comunità preistoriche, il al fine di valorizzare la storia e l’archeologia locale

La seconda, è la ripresa degli scavi nel 2020: le ricerche in località Monte M’pisu le tombe a pozzetto dell’insediamento neolitico risalenti al IV millennio a.C. hanno permesso di portare alla luce numerosi resti scheletrici, che nei prossimi giorni verranno sottoposte ad analisi isotopiche per ottenere informazioni sul tipo di alimentazione della popolazione, e anche notevoli esempi di vasi, su cui verranno condotti esami per comprendere per che tipo di contenuto fossero destinati.

Parallelamente agli scavi di Sant’Angelo Muxaro si stanno portando avanti anche importanti studi sul Monte Castello, che ha già condotto a ritrovamenti di primaria rilevanza: da un’analisi in profondità si è potuta constatare la presenza di un insediamento umano riconducibile a 5000 anni prima di Cristo. La ricerca, inoltre, ha condotto al ritrovamento di ceramiche a decoro dipinto e inciso, oltre a notevoli reperti in ossidiana di Lipari e Pantelleria, testimoniando la potenzialità del commercio ad ampio raggio già nel Neolitico.

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