Il punto sull’Ucraina

Ukrainians take shelter in a metro station for the coming night in Kiev, Ukraine, 24 February 2022. Russian troops launched a major military operation on Ukraine on 24 February, after weeks of intense diplomacy and the imposition of Western sanctions on Russia aimed at preventing an armed conflict in Ukraine. EPA/MIKHAIL PALINCHAK

Qualche giorno fa, ho provato a modellizzare, secondo la Teoria dei Giochi, il processo decisionale che ha portato Putin a preferire alla trattativa, in cui probabilmente avrebbe ottenuto delle ampie concessioni, una guerra. Gli assunti dietro al suo ragionamento sono stati cinque:

Limiti della leadership ucraina, insomma, un ex comico, anche bravo, eletto presidente per avere recitato quel ruolo in una sit-com, beh è una vetta di situazionismo, mai raggiunta neppure dalla bizzarra politica italiana

La debolezza delle forze armate ucraine, che effettivamente, nel 2014/2015 fecero una figura alquanto meschina

La possibilità che la componente russofona dell’Ucraina si schierasse con le truppe russe o per lo meno, si mostrasse neutrale

La rinnovate efficienza delle truppe russe, capace di azioni ambiziose, come l’intervento in Siria

Il “Mourir pour Kiev?” ossia il sostanziale disinteresse dell’Europa a impegnarsi per Kiev, al di là delle proclami e delle belle parole.

Per cui, ha costretto la Stavka, non credo che a Mosca si usi ancora la denominazione dell’Armata Rossa, però non sono aggiornato sui nuovi termini a pianificare un intervento lampo, nella speranza di chiudere la vicende in massimo un paio di giorni. Il modello, paradossalmente, è stato l’Afghanistan.

Quando l’Unione Sovietica avviò quell’invasione, puntò subito a occupare l’aeroporto della capitale Kabul, con un blitz di truppe aviotrasportate che dal 24 al 27 dicembre 1979 atterrarono di sorpresa nello scalo, assicurandosi il perimetro e facendo arrivare in poche ore un totale di 300 aeroplani da trasporto Antonov An-12 e An-24 dai quali sbarcarono 6.000 soldati dell’Armata Rossa. Di concerto, dalla frontiera sovietico-afghana calava una colonna meccanizzata di 15.000 soldati per aprirsi la strada fino a Kabul e dar manforte alla guarnigione avanzata nell’aeroporto.Peraltro, lo stesso 27 dicembre, dall’aeroporto i russi avanzarono fino al palazzo presidenziale afghano con una colonna di ben 700 soldati con blindati camuffati da militari afghani, ma che in verità erano truppe speciali dei nuclei Alfa e Zenit del KGB. Irruppero nella più totale sorpresa nel palazzo, guidati dal colonnello Grigorij Bojarinov, che morì nell’azione.

Adottandola al nuovo contesto, lo Stato Maggiore Russo ha ipotizzato una strategia analoga per l’Ucraina: una serie di attacchi diversi ai confini, un raid dei parà negli aeroporti di Kiev e organizzare l’aviosbarco, una rapida puntata delle colonne corazzate partendo dalla Bielorussa, prendo così di sorpresa i difensori, verso la capitale ucraina. Il tutto avrebbe provocato la fuga a gambe levate di Zelensky, la sua sostituzione con un governo filorusso, che avrebbe messo l’Occidente dinanzi al fatto compiuto.

Per cui, viene effettuato un aviosbarco all’aeroporto internazionale Boryspil di Kiev. Poichè i paracadutisti sono generalmente truppe armate in modo leggero che possono tenere una posizione per un tempo limitato, l’ipotesi è che l’arrivo dei rinforzi corazzati fosse atteso nell’arco di poche ore. Ma Putin e i suoi generali avevano fatto i conti senza l’oste e senza la legge di Murphy.

Con somma sorpresa di tutti, Zelensky si è mostrato un leader coraggioso ed efficace, le truppe ucraine hanno raggiunto in questi anni una dignitosa capacità di combattimento, i russofoni non si sono schierati dalla parte di Mosca, l’Europa oltre alle sanzioni, più o meno aspettate, ha cominciato a spedire armi a Kiev… In più l’aviazione russa ha fallito nell’azzerare le difese ucraine e come suo solito, la logistica russa ha fatto patatrac, con le colonne corazzate che hanno accumulato ritardi su ritardi. A peggiorare la situazione, due scelte compiute dallo Stato maggiore russo, nella convinzione che la guerra finisse in un battito di ciglia: nella corsa contro il tempo, non sono state presidiate adeguatamente le retrovie, soggette quindi ai continui attacchi ucraini, poi, ovviamente nel tentativo fallito, di non apparire come i brutti, sporchi e cattivi dinanzi all’opinione pubblica e non inimicarsi troppo la popolazione locali, hanno rinunciato alla loro tradizionale dottrina operativa, riconducibile allo spiano tutto con l’artiglieria e poi avanzo con i carri armati e la fanteria motirizzata

Per cui, Putin si sta trovando proprio quello che non voleva: una guerra di conquista di un’area fortemente urbanizzato, che rischia di durare qualche settimana, con i fondi che scarseggiano. Kiev, ricordiamolo è una città con una superficie, un’orografia e un numero di residenti paragonabili a quelli di Roma (oltre a tanti importanti siti UNESCO che faranno sembrare ogni offensiva un’operazione dell’ISIS a Palmira), per cui, un assedio tipo Sarajevo, a meno di bloccare lì ad oltranza tutto l’esercito russo, rischiando a sua volta di essere chiuso in una sacca, è poco praticabile. L’altra alternativa è l’assalto al centro urbano, in cui, per citare un mio conoscente

parafrasando i dispacci degli ufficiali tedeschi dal fronte di Stalingrado, potremmo dire che l’armata russa – combattendo casa per casa – dovrà impiegare centinaia di truppe in un giorno solo per la conquista… del salotto di una villetta e sperare di dilagare… fra la cucina e le camere da letto nella giornata successiva

Il che significa un’immane strage da entrambe le parti, che se prolungata, metterebbe in crisi sia il fronte interno, sua l’economia russa. Per cui, o Putin gioca il tutto per tutto, scaricando il rullo compressore dell’Armata Rossa sull’Ucraina, il che renderebbe ancora più complicata la questione della logistica, già oggi tanti reparti russi stanno senza carburante, senza munizione e addirittura senza cibo e i relativi costi di gestione, oppure cerca di trovare una soluzione negoziata oggi a in Bielorussia, che gli permetta di uscire dal casino che ha combinato, salvando la faccia.

Museo archeologico della Badia

Il Museo archeologico della Badia è un museo archeologico che si trova a Licata, situato nel a ntico partenio delle monache dell’ordine cistercense meglio conosciuto ancora oggi come Badia, ampliato nel Seicento con la costruzione del chiostro e nel Settecento con la nuova ala prospiciente alla piazza S. Angelo. Confiscato con la soppressione degli ordini religiosi, l’edificio divenne sede di scuole pubbliche, destinazione che mantiene in parte tuttora. Dell’ex convento il Museo occupa parte del piano terra e il chiostro. Con il concorso della Soprintendenza di Agrigento, del Comune di Licata e della locale Associazione Archeologica Licatese, il museo nasce come antiquarium annesso alla Biblioteca Comunale di Licata, dalla quale si separa nel 1971 dando origine al Museo Civico. L’apertura della nuova sede della Badia avviene nel 1995.

Il Museo illustra la storia ed i caratteri degli insediamenti umani nel territorio di Licata e della bassa valle dell’Imera meridionale. La montagna di Licata, dove sorge oggi la città moderna, e le altre limitrofe, poste al controllo del fiume Imera sono state fin dalla preistoria luogo di insediamenti umani. In particolare sulla Montagna di Licata sorgeva un centro greco-arcaico che si espanse in periodo ellenistico sulle vicine alture di Monserrato e monte Sole. In esso nel 280 a.C. il tiranno di Agrigento, Finzia, trasferì le popolazioni di Gela, dopo la distruzione di quest’ultima, fondando una nuova città che prese il nome di Phintias. Le collezioni sono quelle provenienti dagli scavi condotti negli ultimi decenni dalla Soprintendenza di Agrigento nel territorio di Licata e della bassa valle dell’Imera. Il museo possiede inoltre una collezione di arte medio-evale, di proprietà del Comune, e alcune tele provenienti dai conventi soppressi nell’800.

Al suo interno sono esposti reperti provenienti dai siti più significativi del territorio che testimoniano la presenza di insediamenti umani a partire dal Neolitico antico, cioè dal VI millennio a.C., fino alla tarda antichità. Le sale dedicate alla preistoria mostrano una selezione di reperti databili al Neolitico antico all’Eneolitico (IV/III millennio a.C.), all’Età del Bronzo antico ( fine del III/prima metà II millennio a.C.), abbracciando quindi oltre 4000 anni di vita. L’età greca arcaica e l’età classica, ovvero il periodo che si data tra il VI ed il V sec. a.C., sono documentate dagli scavi delle contrade Mollarella e Casalicchio, dove sono stati rinvenuti santuari dedicati a Demetra e Kore, le dee greche, madre e figlia, protettrici della fecondità e della fertilità. Il percorso continua con l’esposizione dei reperti provenienti dall’insediamento fortificato su Poggio Marcato d’Agnone, in vita tra il IV ed il III sec. a.C. e l’insediamento individuato su Monte Sole, della stessa epoca. Un’intera grande sala è dedicata ai rinvenimenti della città ellenistica sul Monte Sant’Angelo, identificata dagli archeologi con Finziade, città fondata dal tiranno di Agrigento Finzia nel 282 a.C. Le ultime due sale sono dedicate alla Casa 1 di Finziade, della quale si propone un plastico ricostruttivo di grande effetto e si espone il tesoretto ritrovato al suo interno.

Nel chiostro sono esposti reperti litici ed elementi architettonici di diversa provenienza e le statue medioevali (sec. XIV-XV) provenienti dal convento dell’Annunziata (Carmine), e una Madonna del Soccorso di Domenico Gagini datata 1470 proveniente dalla omonima chiesa

Le chiese di Palermo

Tornando al libro del comune di Palermo sulla Kalsa, stavolta condivo un articolo, molto interessante, di Marco Rosario Nobile, sulle chiese di quella zona di Palermo.

Alla fine del XV secolo e la prima metà del successivo l’area della Kalsa venne interessata da un sorprendente numero di nuovi cantieri religiosi. Le ragioni di questo frenetico dinamismo costruttivo sono da ricercare innanzitutto nell’attrattiva scaturita dall’area gravitante intorno alla corte viceregia (come è noto, alloggiata allo Steri) e nell’attività di patrocinio devozionale esercitata da aristocratici e mercanti. Va ricordato che, a partire dalla seconda metà del Quattrocento, l’attuale piano della Marina era stato in buona parte “bonificato” e il fangoso slargo dove Sfociavano i torrenti che attraversavano la città, e che defluiva verso la Cala, si era definitivamente trasformato in una piazza. Queste iniziative urbane avevano addirittura obbligato a radicali mutazioni nello Steri, con la rotazione dell’asse di ingresso e la costruzione di un nuovo magnifico portale all’antica.

In questa specifica occasione ci limiteremo a rammentare gli episodi legati alla nuova architettura religiosa, poiché in un comprensorio concentrato appaiono perfettamente individuabili alcuni tra i nodi più significativi di un dibattito che assume risonanza regionale e che obbligano a porre non marginali questioni storiografiche. Ci riferiamo in primo luogo a un’interessante, quanto spesso superficialmente trascurata, diversificazione tipologica delle fabbriche religiose (a secondo della loro funzione, della committenza e dell’uso) e a un processo tumultuoso di scarti, di sperimentazioni e di fitto interscambio di esperienze. Si rifletta sulla coincidenza che assume questo momento storico con l’improvvisa convergenza di lingue differenti che attraversa la Sicilia e come il quadro finisca per assumere i connotati di una stagione decisiva.

Si è già fatto riferimento indirettamente al ruolo dell’aristocrazia e a quello di una società mercantile multietnica, sarà bene estendere lo sguardo anche agli operatori del cantiere, poiché appare oramai flagrante l’egemonia di alcune figure professionali il cui ruolo e protagonismo emerge attraverso la documentazione. Tra tutti domina senz’altro il maestro Antonio Belguardo, singolare figura di tecnico e di professionista legato alla tradizione dei “fabricatores”, che nell’arco di alcuni decenni cumula un’impressionante serie di incarichi. Non mancano però i segnali di novità, e il coinvolgimento di scultori e di intagliatori nella progettazione di nuove chiese fa intuire anche i sovvertimenti e le trame sotterranee che, anche a Palermo, stanno minando alla base compiti, ruolo e formazione degli “architetti”. Due nuovi complessi conventuali con grandiose chiese di nuova impostazione vennero costruiti nella zona, ci riferiamo alla Gancia dei Francescani Osservanti e allo Spasimo degli Olivetani. Si trattava di chiese ad aula con cappelle seriali, destinate a diventare luoghi di sepoltura privata e quindi in grado di alimentare il finanziamento della fabbrica. Gli studi più recenti hanno via via individuato nella figura di Antonio Belguardo il maestro che per decenni seguirà i due cantieri. Sebbene molto simili nell’impianto generale, le chiese svelano un percorso diverso. La lunga interruzione a cui andò soggetta la chiesa dei Francescani agli inizi del XVI secolo può nascondere un cambio di progetto eprobabilmente anche una sostituzione dei maestri interessati. L’iconografia del portale di palazzo Abatellis (il cordone francescano) cela un evidente richiamo all’ordine e alla protezione offerta dal Portulano del Regno, ma le vicende successive fanno anche intuire come l’interesse e la tutela per gli Osservanti devono probabilmente essere ricondotte alla religiosità della prima moglie di Francesco Abatellis: Eleonora Soler. Alcuni dettagli del portale maggiore della chiesa e di quello di ingresso al chiostro (si notino i capitelli a bulbo con foglie d’acanto) rimandano a soluzioni presenti nel portico della chiesa di Santa Maria La Nova e fanno presupporre una partecipazione del maestro Antonio Peris, che del resto avrebbe intessuto ulteriori rapporti con Belguardo.

Solo da pochi anni le vicende della chiesa dello Spasimo risultano meno nebulose e più facilmente intellegibili, a partire da nuovi contributi documentari. Sappiamo che la chiesa doveva essere integralmente coperta con crociere (il 23 aprile 1535 Belguardo si impegnava per l’esecuzione delle crociere, mentre l’anno precedente aveva iniziato la realizzazione delle coperture della chiesa di San Francesco), ma il mastodontico edificio cela ancora numerosi enigmi, come quello legato alla singolare soluzione dell’avancorpo, con coppie di cappelle cupolate ai lati dell’atrio di ingresso. Problematica appare la scelta che doveva attuarsi nel transetto, dove forse erano allocati dei “cori” alti. Se, come sembra oramai certo, il progetto (ispirato, secondo le note indicazioni documentarie, all’omonima e distrutta chiesa che si trovava in Terra Santa) era stato attuato dall’onnipresente Belguardo (documentato nella fabbrica dal 1514), dovremmo immaginare nelle scelte attuate un’efficace consulenza liturgica.

All’architetto si possono però ricondurre altre valutazioni, come l’assoluta esclusione di colonne nella costruzione (persino l’atrio ne è privo), tanto sorprendente per il fascino continuo che le colonne esercitavano nel mondo palermitano e perché contemporaneamente Belguardo risulta impegnato nella costruzione della chiesa della Catena. Un fenomeno che interessa in modo particolare l’area intorno alla platea marina è quello della costruzione o ricostruzione di chiese legate a confraternite, associazioni di laici riunite a scopo devozionale o riconnesse da una comune appartenenza etnica o corporativa, che finanziano le fabbriche. L’episodio più noto è quello della chiesa di Santa Maria della Catena. In altre occasioni ho insistito sulla plausibilità di un progetto di rinnovamento attuato da Matteo Carnilivari, il cui ruolo nelle azzardate scelte costruttive (esilità dei sostegni, forma delle arcate, altezza della fabbrica e coperture) sembra essere stato decisivo. Per quanto riguarda l’opzione di un impianto a doppio transetto (come nelle cattedrali normanne), una serie di indizi (prima fra tutte la chiesa, recentemente restaurata, di San Giacomo dei militari) fa intuire che si trattava di una volontà condizionata da un dibattito cittadino.

Con tutta probabilità fu comunque il rinnovamento impresso nella chiesa dell’Annunziata a porta San Giorgio (Gabriele da Como, 1498) a spingere i confratelli a scegliere una differente alternativa per i sostegni: colonne marmoree di spoglio. In questo modo il modello si avvicinava
agli esempi di età normanna ma anche ad un’estetica condizionata ampiamente da quadri fiamminghi e dalla loro rappresentazione dell’antico. La chiesa di Santa Maria della Catena, con la sua volumetria compatta e astratta, il suggestivo santuario, i suoi archi policentrici, le basi desunte dalle geometrie di Roriczer e le nervature che affiorano dalla muratura, sembra costituire, tra gli altri aspetti, anche una risposta monumentale,
elaborata in un’altra “lingua”, alle molteplici suggestioni che i tecnici lombardi stavano importando in Sicilia. La scelta di concepire una chiesa di confraternita come “piccola cattedrale” a tre navate su colonne ebbe immediate conseguenze in numerosi altri progetti.

Per quello che ormai è noto, non deve poi apparire sorprendente il ruolo assunto da Antonio Belguardo (documentato nel 1521) in qualità di maestro e scultore della fabbrica durante i completamenti. Nel 1524 un avvenimento reputato miracoloso (uno scampato naufragio) spinse alla costituzione di una nuova confraternita, intitolata a Santa Maria di Portosalvo, che cominciò a raccogliere fondi per la costruzione di una chiesa. Il 31 agosto 1526, il Senato di Palermo assegnava per la costruzione un lotto tra i magazzini che fiancheggiavano il porto, a pochi passi dalla chiesa della Catena. Nei due anni successivi si registrano legati per la fabbrica. Il 9 dicembre 1530 la confraternita acquistava pietra da costruzione e il contratto prevedeva che i conci fossero depositati presso la tribuna o, se non fosse stato possibile, in corrispondenza del prospetto (ante janua). L’impianto della chiesa, quindi, era stato tracciato e alcuni muri perimetrali erano già in opera. Un documento dell’ 11 luglio 1531 precisa che il celebre scultore Antonello Gagini riceveva da qualche tempo un compenso in forma salariale per la sua attività nel cantiere. Vista l’inesperienza in fatto di costruzione da parte dello scultore (per quello che ne sappiamo oggi e, in ogni caso, rispetto ad alcuni suoi contemporanei, attivi in città), il coinvolgimento sottende una sola spiegazione: Antonello doveva verificare la corrispondenza tra l’andamento della fabbrica e un disegno che aveva redatto personalmente.

Non credo sia più possibile contestare questo ruolo e per smentire definitivamente le ipotesi scettiche, che hanno persino proposto che la facciata della chiesa sia il frutto tardivo delle trasformazione attuate negli anni di Marco Antonio Colonna, sappiamo adesso che nel febbraio 1534 le “moderne” finestre di Portosalvo vennero immediatamente scelte come modello per una casa alla Cala realizzata dal maestro Pietro Faja. Non è questa l’occasione per raccontare nuovamente la drammatica vicenda del cantiere e il fallimento del progetto di Antonello Gagini. Naturalmente la scelta di un celebre artista per il progetto di un nuova fabbrica è indicativo delle esigenze di distinzione espresse dall’aristocrazia palermitana. Non dovette comunque trattarsi di un caso unico, recentemente è stato segnalato il coinvolgimento di Giovanni Gili per la redazione del modello ligneo di progetto della chiesa di San Giovanni dei Napoletani La chiesa, soggetta a numerose mutazioni nel corso dei secoli, può celare ancora qualcosa del progetto originario (si veda la conformazione interna ad archi acuti delle absidi), ma è naturalmente il coinvolgimento di un altro scultore a individuare una tendenza.

Se questa fase mostra la gracilità di un momento di sperimentazione che non riesce a raggiungere risultati compiuti (alle chiese della Kalsa si deve sommare il contemporaneo e vicino caso di Santa Maria la Nova), bisogna tuttavia considerare che non tutto quello che venne concepito tra gli anni venti e i primi anni trenta del XVI secolo cadde nel vuoto. La chiesa di Santa Maria dei Miracoli a piazza Marina (dal 1547) potrebbe, per esempio, facilmente celare nel suo impianto centrico su colonne la soluzione proposta venti anni prima da Antonello e non posta in opera per il tiburio di Santa Maria di Portosalvo. Realizzata a partire dal 1535 la chiesa del Portulano, oggi annessa a palazzo Abatellis, è probabilmente uno degli ultimi progetti dell’anziano Antonio Belguardo, giunto all’apice della sua carriera. L’incarico venne firmato il 28 aprile 1535, appena cinque giorni dopo l’impegno assunto per le crociere dello Spasimo. Nata come chiesa per le monache domenicane, riflette un atteggiamento pratico ed essenziale. Tutti gli ingredienti dell’impianto chiesastico (le crociere della nave e cappella cupolata terminale) potrebbero essere desunti da soluzioni precedenti, come quelle riscontrabili nelle navate laterali dello Spasimo. Appare probabile che l’incredibile somma di incarichi contemporanei spingesse Belguardo a integrare e serializzare le esperienze e a risparmiare sui costi, ma non c’è alcun dubbio che per il mondo palermitano si trattasse di un professionista affidabile.

Il profondo coro alto sull’ingresso deve appartenere a una fase leggermente successiva, anche se non molto distante nel tempo. Probabilmente dovette essere progettato e realizzato entro la metà del XVI secolo e risulta singolare la comunanza con alcuni fondali di quadri appartenenti all’orbita di Mario di Laurito. La soluzione appare molto innovativa per Palermo, dove – a eccezione della chiesa di Sant’Antonino allo Steri (dove tuttavia le finalità cerimoniali erano differenti) – le tribune alte sull’ingresso non erano certamente consuete. Osservare oggi questa serie di fabbriche, sovente sfuggenti ai parametri stilistici consueti (Gotico, Rinascimento), costituisce un esercizio storiografico notevole, ma appare sempre più evidente che i gradienti di novità, apprezzati sia dai committenti che dal pubblico del tempo, non riguardassero solo aspetti di natura formale o stilistica ma contemplassero anche l’efficacia liturgica e la razionalità costruttiva. Forse sono questi i criteri con cui la storia dell’architettura in Sicilia deve guardare a buona parte del nostro passato, senza l’ansia ossessiva delle classificazioni.

Putin e la Teoria dei Giochi

Per cercare di spiegare le decisioni di Putin per l’Ucraina, uno strumento utile, al di là di tutte le considerazioni geopolitiche, è la teoria dei giochi. Proviamo quindi a modellizzare gli assunti su cui potrebbe avere basato il suo ragionamento.

Primo che si tratti di un tavolo isolato, in cui l’intervento esterno di altri giocatori risulti essere non presente o talmente ridotto da non influenzare il risultato finale, ossia Europa e Nato che rimangono a guardare. Il secondo è che si tratti di un gioco asimmetrico, ossia sbilanciato a favore dell’Urss.

Partendo da questo, Putin ha ipotizzato quattro possibili scenari operativi

Vittoria totale della Russia, con la trasformazione dell’Ucraina in un satellite simile alla Bielorussia: descrivibile dalla funzione Payload F(n,n) che per asimmetria detta prima, ha valori differenti a seconda dei giocatori. Ovviamente, per Putin, che estende notevolmente l’influenza di Mosca la funzione F(n,n) è pari a 4, mentre per Kiev, ridotta a fantoccio, F(n,n) = 0

Vittoria parziale della Russia, con la finlandesizzazione dell’Ucraina e l’annessione del Donbass e della Crimea: per Putin, che ottiene gli obiettivi che si era prefissato prima della guerra, F(n,p)= 3, mentre per Kiev che mantiene una pur limitata autonomia politica, F(n,p)=1

Vittoria parziale dell’Ucraina, che di fatto lascia la situazione come è attualmente, in cui Putin mantiene il controllo indiretto della Crimea e del Donbass, con F(p,n)=2 e Kiev mantiene le mani libere in politica estera e interna F(p,n)=2

Vittoria Ucraina, in cui di fatto, più di riprendersi Crimea e Donbass, Kiev non può fare. Limitando i danni per Putin F(p,p)=1 mentre per Kiev che riporta all’ovile le regioni secessioniste F(p,p)=3

Il terzo assunto è che la vittoria russa sia molto più probabile di quella ucraina, con una funzione di valutazione con F(a)= 0,9 e F(b)=0,1

Proviamo quindi a stimare l’utilità attesa da Putin

Vittoria= F(a) (F(n,n)+ F(n,p)) = 0,9 (4+3) = 6,3

Sconfitta = F(b) (F(p,n) + F(p,p)) = 0,1 (2+1)= 0,3

Mentre l’utilità attesa che attribuisce da Kiev

Vittoria = F(b) (F(p,n) + F(p,p)) = 0,1 (2+3) =0,5

Sconfitta = F(a) (F(n,n)+ F(n,p)) = 0,9 (0+1) = 0,9

Il payload di Putin è pari a 5,4, mentre per Kiev è 0,2, di conseguenza, considerando le probabilità a suo favore, non ha esitato ad attaccare, nella speranza di ottenere un successo rapido. Ed è questa la principale incognita: se Putin riesce a prendere Kiev oggi e concludere la guerra entro i 10 giorni probabilmente otterrà i suoi risultati, ma, più si prolungano i combattimenti, meno la guerra è sostenibile economicamente e socialmente dalla Russa, facendo saltare i suoi ragionamenti

Pietro Rombulo

Oggi parliamo di un personaggio del Quattrocento, Pietro Rombulo, che a dire il vero non ho mai capito se fosse un grande viaggiatore o un contaballe degno rivale di Manuel Fantoni. A quanto pare, nacque a Messina, probabilmente nel 1385 e il fatto che fosse buddaci, non depone certo a favore della sua credibilità Non abbiamo notizie della sua famiglia, né del suo status sociale: sappiamo che nel 1400 partì a cercare fortuna in Aragona e in Provenza. Non cavando un ragno dal buco, se ne tornò in Italia, vagabondando per la Pianura Padana, per imbarcarsi a Venezia su una nave da guerra diretta a Tunisi. Qui divenne apprendista di un mercante genovese: i due si imbarcarono assieme su una nave da carico diretta in Egitto, dove vissero per tre anni ad Alessandria e un anno al Cairo.

Dopo la morte del mercante, che gli lasciò in eredità duemila monete d’oro,Pietro decise di tornare in Sicilia ma, avvertito da alcuni italiani che i saraceni volevano ucciderlo, nel 1407 venne convinto a recarsi in Etiopia, allora governata da un re cristiano, dove, secondo quanto racconta lui, sposò un’etiope nobile e ricca, da cui ebbe otto figli di pelle chiara – nonostante la madre fosse nera – che educò nella religione cattolica insegnando loro l’italiano. Protetto e rispettato dai dignitari di corte e dai monarchi etiopi, che si valsero spesso dei suoi consigli per l’amministrazione del loro regno, nei trentasette anni vissuti in Etiopia poté visitare quasi tutto il territorio, spingendosi anche via mare fino al Madagascar.

Nel 1444 fu inviato dall’imperatore Zara Yaqub (1434-50) come ambasciatore nel Catai e nelle regioni dei Palibotri e dei Gangaridi in India e nell’isola di Ceylon per acquistare gemme. Partito, secondo il suo racconto (Trasselli, 1941), da Dire (oggi Raheita) con duecento compagni, Rombulo giunse dopo trenta giorni all’imboccatura del Golfo Persico e poi ad Armuza, dove sostò dieci giorni. Con altri dieci giorni di navigazione toccò il porto di Cyrae, in Carmania, dove la popolazione si vestiva di pelli di pesce e si nutriva esclusivamente di carne di tartaruga: la lingua parlata era un misto di indiano, arabo e persiano e vi erano molti cristiani di rito nestoriano. Dopo due giorni sciolse le vele e giunse alle foci del fiume Arbi, in Gedrosia in venti giorni e, dopo altri quattro giorni di sosta, in altri dodici pervenne alle foci dell’Indo, dopo aver perso nel corso di tutto il viaggio trenta uomini a causa di malattie.

Compiuta la missione della quale era stato incaricato, dopo aver visitato anche la Cina e gran parte dell’India nel 1448 tornò in Etiopia via terra: attraversato l’Indo giunse ad Arbi in venti giorni passando attraverso la Gedrosia, viaggiando di notte a causa del caldo e della siccità. In altri diciotto giorni, durante i quali perse per malattia il figlio Giovanni ventitreenne, giunse ad Armira, nella Carmania. Dopo aver atteso per ventitré giorni il vento favorevole, oltrepassò il Golfo Persico, sbarcando nell’‘Arabia Felice’ nel paese degli Ittiofagi. In poco più di venticinque giorni giunse prima a Saba e poi a Palidromo, nome classico del promontorio occidentale dell’Arabia sullo stretto di Bab el-Mandeb, da dove rientrò a Dire nella terra dei Trogloditi con cinquanta compagni e un carico di gemme del valore di un milione e mezzo di una moneta imprecisata. Essendo basata su citazioni delle opere classiche, questa parte del viaggio è tutt’altro come attendibile.

In quello stesso anno fu posto a capo, dal re etiope Zara Yaqub, di una ambasceria – composta anche da Michele, monaco di Santa Maria di Gualbert nel deserto egiziano, e dal ‘moro’ Abou Omar al-Zendi – inviata presso papa Niccolò V, probabilmente per chiedere l’aiuto contro i musulmani e trattare l’unione della Chiesa etiopica con quella romana. Di questa spedizione non sono giunte però testimonianze, anche se è noto che i tre ambasciatori poterono assistere alla canonizzazione di Bernardino da Siena nella basilica di S. Pietro, prima di raggiungere Alfonso d’Aragona re di Napoli, al quale portarono in omaggio da parte del re d’Etiopia delle splendide perle delle dimensioni di una noce avellana.

In quella circostanza incontrarono anche Pietro Ranzano, un frate domenicano di vastissima cultura che in quel frangente ebbe la possibilità di vedere e di leggere un libro presentato al re e alla sua corte da Rombulo, contenente una miriade di informazioni sulle popolazioni incontrate nel corso dei suoi viaggi in Egitto, in India e in Etiopia che Ranzano, infarcendoli di tutte le vecchie leggende sulla teratologia pittoresca e sui paesi dell’oro e delle meraviglie situati al confine del mondo, avrebbe ampiamente ripreso in diversi capitoli dell’ottavo libro dei suoi Annales omnium temporum redatti fra il 1450 e il 1480, un’imponente fonte storico-geografica in sette volumi di quasi 3500 fogli, mai portata a termine, che si inserisce nel filone dell’enciclopedismo didattico domenicano e si conserva mutila nella Biblioteca comunale di Palermo.

Data la sua lunga permanenza in quel territorio, più precise sono le informazioni fornite Fabrizio sull’Etiopia, alquanto favolistica, cosa che mette qualche dubbio sulla sua attendibilità, presentata come un impero formato da dodici regni, la cui struttura sociale estremamente gerarchizzata risultava dominata dai principi, dai sacerdoti e dai mercanti, che utilizzavano la lingua caldea: i cristiani venivano battezzati con l’acqua e marchiati con il ferro rovente per essere distinti dagli infedeli; gli abitanti vivevano in grotte o sotto tende di pelle. Potente era l’armata dell’imperatore soprattutto per la sua cavalleria e per una truppa di seimila elefanti. Il libro di Rombulo, che elenca le ricchezze minerarie del paese e l’abbondanza di cotone, indicava pure in maniera dettagliata diversi itinerari che avrebbe potuto percorrere chi voleva recarsi in Etiopia da Alessandria d’Egitto o da Gerusalemme, e conteneva anche notizie utili per la ricostruzione della biografia del suo autore, che Ranzano ricorda e descrive come «un uomo la cui pelle tendeva al bruno, come quella degli Egiziani, ma che non mostrava nulla di etiopico. Il viso era quale si conviene ad una persona civile e seria, la barba lunga, il corpo alto, la veste decentissima e assai simile alla toga italica» (cit. in Trasselli, 1941, p. 175).

Rombulo tornò in Etiopia nel 1450 con alcuni artigiani richiesti dall’imperatore, al quale Alfonso d’Aragona chiese di porre guarnigioni alle porte dell’Egitto e di prepararsi ad aiutarlo in una spedizione che stava meditando contro gli infedeli. Da allora, di Rombulo non si hanno più notizie e non si conoscono data e luogo della morte.

Gadda e l’Esquilino

Ereno passati li tempi belli … che pe un pizzico ar mandolino d’una serva a piazza Vittorio, c’era un brodo longo de mezza paggina. La moralizzazione dell’Urbe, e de tutt’Italia insieme, er concetto d’una maggiore austerità civile, si apriva allora la strada. Se po di, anzi, che procedeva a gran passi. Delitti e storie sporche ereno scappati via pe sempre da la terra d’Ausonia, come un brutto insogno che se la squaja. Furti, cortellate, puttanate, ruffianate, rapina, cocaina, vetriolo, veleno de tossico d’arsenico per acchiappa li sorci, aborti manu armata, glorie de lenoni e de bari, giovenotti che se fanno paga er vermutte da una donna, che ve pare? La divina terra d’Ausonia manco s’aricordava più che robba fusse

Come sapete, l’ho ripetuto in parecchie salse, il mio nuovo libro, Tuono d’Estate, è un omaggio al Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, di cui cerca di riprendere, oltre alla sperimentazione, sia la dimensione politica, sia quella urbanistica, tra loro molto correlate. Gadda ha avuto un’esperienza politica assai complicata: inizialmente era un convinto nazionalista e interventista, tanto che nel maggio 1915 scese in piazza inneggiando all’entrata dell’Italia nel conflitto contro l’Austria-Ungheria nella prima guerra mondiale. Ardente patriota, partì volontario nei reparti territoriali delle truppe alpine, venendo dislocato nelle zone arretrate del fronte sull’Adamello e sulle alture vicentine. L’ufficiale Gadda venne fatto prigioniero nell’autunno 1917 dopo la sconfitta di Caporetto: deportato a Celle (Hannover, Germania) nella baracca 15c (soprannominata la “baracca dei poeti”), strinse amicizia con Bonaventura Tecchi, Camillo Corsanego e Ugo Betti

Tra il 24 agosto 1915 e il 31 dicembre 1919 Gadda tenne un minuzioso diario, in parte (quella del 1917) andato perduto. Col titolo Giornale di guerra e di prigionia, fu parzialmente pubblicato solamente nel 1955, e, con alcune aggiunte, nel 1965. Solo dopo la sua morte, sarà pubblicata anche la parte relativa a Caporetto e alla prigionia. È una denuncia forte e amara dell’incompetenza con cui era stata condotta la guerra e del degrado fisico e morale della vita dei prigionieri di guerra. L’opera gaddiana riporta in differenti occasioni alcuni dei temi che diventeranno il fondamento delle maggiori: il disordine oggettivo del reale, l’affetto dell’autore nei confronti del fratello, l’orrore della guerra, il disprezzo delle gerarchie.. Per cui, dopo un’esperienza del genere, Gadda si schierò a Sinistra ?

No, divenne un convinto fascista… Gadda, reduce di guerra, nei primi anni venti, vide in Mussolini e l’unica alternativa al caos, all’anarchica, alla dissoluzione definitiva del paese come entità etica e nazionale, oltre che al suo sfacelo economico. Ora, non sappiamo cosa pensasse sul Regime durante il Ventennio, perché in quel periodo si dedicò alla professione di ingegnere: solo nel 1940, quando si trasferì a Firenze, decise di scoprirsi scrittore. E in quell’occasione diede fondo tutto al suo rancore di innamorato deluso

Giornalisti lo hanno parlato a palazzo Chigi, le sue rare opinioni, ghiotti ghiotti, le annotavano in un’agendina presto, presto, da non lasciarne addietro un sol micolo. Le opinioni del mascelluto valicavano l’oceano, la mattina a le otto ereno gia un cable, desde Italia, sulla prensa dei pionieri, dei venditori di vermut. ‘La flotta ha occupato Corfù! Quell’uomo e la provvidenza d’Italia.’ La mattina dopo er controcazzo: desde la
misma Italia

Mussolini da rivoluzionario che avrebbe dovuto cambiare l’Italia, renderla una potenza nel Mondo, si era trasformato in un trombone demagogo, principale responsabile della corruzione e degenerazione del Paese nella migliore tradizione liberale-borghese, incarnata da Giolitti, e al tempo stesso la suprema incarnazione di tutti i vizi di narcisismo retorico, profetismo istrionico, criminosa insipienza, brutale opportunismo, greve supponenza, che incrociamo spesso sui social media e che Gadda aveva identificato come i principali vizi dei suoi connazionali. Piccolo uomo, Mussolini, che, con con una paradossale inversione di ruoli, ho cercato di riprodurre a Milano.

Questa dimensione politica si sposa diceva con l’Urbanistica: pochi lo sanno, ma il Mussolini delle origini, insomma, aveva posizioni molto simile alla prima Lega, quella di Bossi, tanto da scrivere

Roma, città parassitarla di affittacamere, di lustrascarpe, di prostitute, di preti e burocrati, Roma … non e il centro della vita politica nazionale, ma sebbene il centro e il focolare d’infezione della vita politica nazionale … Basta, dunque, con lo stupido pregiudizio unitario per cui tutto, tutto, dev’essere concentrato a Roma–in questa enorme citta vampiro che succhia il miglior sangue della nazione

Poi, preso il potere, decise di monumentalizzarla, a volte con efficacia, a volta con retorica, trasformando l’Urbe uno spazio contraddittorio, sia un centro metropolitano emergente e modernizzato che una città quasi primitiva retrograda, come dimostrato dalle abitazioni inadeguate del sottoproletariato, una sorta di labirinto senza centro e di mostro di Frankenstein, costruito da pezzi di incongrui cadaveri, grottesca e anarchica, che Gadda racconta nelle sue pagine. Il fulcro di questa Roma, il cuore e lo stomaco è proprio l’Esquilino, a cominciare da via Merulana cui viene ambientato er Pasticciaccio, ossia i due crimini, un furto e un omicidio, commessi nel palazzo di via Merulana 219 noto come il Palazzo degli ori. Nella prima edizione del romanzo il civico del mitico palazzo era il 119. Recandosi a via Merulana è possibile vedere la targa apposta nel 1997 ma non all’altezza dei civici in cui ci si aspetterebbe bensì al 268.

Oppure a Piazza Vittorio: a lungo la critica ha identificato il delitto Stern, avvenuto il 24 febbraio 1946 in via Gioberti, come il fatto di cronaca nera da cui trasse spunto Gadda per creare il Pasticciaccio. Le date però non coincidevano poiché la stesura del giallo era già avviata. Più probabilmente l’omicidio romano che ispirò Gadda fu invece quello di Angela Barruca in Belli e del figlioletto di due anni, sgozzati in Piazza Vittorio 70 il 19 ottobre 1945 dalle sorelle Lidia e Franca Cataldi. In quell’occassione, Bonsanti, direttore del giornale Il Mondo, chiese a Gadda di redigere un commento sul tragico evento. Lo scrittore, inizialmente restio si appassionò talmente all’accaduto da raccogliere 50 cartelle di documentazione. Oppure la chiesa dei Quattro Coronati, dove opera Don Corpi, padre spirituale di Liliana Balducci, vittima dell’omicidio, che per omaggiarlo, ho sostituito con don Umberto Terenzi, figura storia di Sant’Eusebio e del Rione. O via Panisperna, dove si trova il salumaro da cui si rifornisce il commendatore Angeloni, prosciuttofilo, inquieto, timido, insicuro e soggetto ai peccati di gola

I cubicularii imperiali

Il personale impiegato all’interno dello domus Augusta, il palazzo imperiale del Palatino, era ovviamente assai numerosi e comprendeva un certo numero di camerieri di condizione servile e/o liberta che, mantenendo la tradizione delle domus patrizie dell’età repubblicana prestavano servizio nel le stanze da letto, ovvero i cubicula, termine da cui deriva il nome con cui sono conosciuti i cubicularii. Le loro principali mansioni consistevano nel fornire assistenza all’imperatore e ai membri dello suo famiglia nelle varie azioni quotidiane e nel sorvegliarne il sonno durante lo notte. Grazie alla stretta vicinanza al princeps, essi costituivano un’élite nell’ambito della numerosa e variegata familia Caesaris, oltre che nel gruppo sociale di appartenenza, godendo di una condizione privilegiata rispetto alla stragrande maggioranza degli schiavi e dei liberti . Al di là delle citazioni degli storici latini, che parlano dei cubicularii che fecero carriera, la principale fonte sulla loro condizione socio economica sono le tante iscrizioni sepolcrali che sono state trovate a Roma, che ci permettono sia di evidenziarne la relativa agiatezza, sia l’organizzazione burocratica.

Sappiamo infatti, come fossero così organizzati: al gradino più basso vi ero lo schiera dei semplici cubicularii, a una posizione intermedio il decuria cubiculariorum, al vertice l’a cubiculo, titolo che, almeno a livello epigrafico, sembro affermarsi o partire dallo metà del I secolo d.C. in sostituzione di quello di supra cubicularios. Tra i vari livelli si impose ben presto una differenziazione anche sul piano giuridico: dal periodo immediatamente successivo all’ età neroniana i cubicularii veri e propri erano schiavi, mentre gli altri, cioè quelli di grado superiore, prevalentemente liberti. Se ci fate caso, questa organizzazione ricalca quella militare dell’epoca, con il cubicularius equivalente del legionario, il decuria del principales, a cubiculo del centurione.

Tra i cubicularii vi erano anche gli equivalenti degli immunes, i soldati con compiti amministrativi: in questo caso vi erano impiegati preposti al vettovagliamento, ali’ assistenza medica e al disbrigo delle pratiche burocratiche: tra questi spiccavano l’a frumento cubiculariorum, che si occupava del l’approvvigionamento di grano, l’ab aegris cubiculariorum, ovvero il medico o l’infermiere a loro disposizione, l’a veste cubiculariorum, cioè il guardarobiere addetto alla fornitura delle divise, lo scriba cubiculariorum, ossia il segretario incaricato principalmente di registrare le nuove reclute. La cronologia restituita dalle epigrafi che li annoverano suggerisce che l’ introduzione di queste figure di supporto, sollecitata forse dall’incremento del numero dei camerieri impiegati o corte, dovette avvenire in un momento successivo alla prima età imperiale in connessione con una maggiore specializzazione del servizio. L’organizzazione del personale prevedeva inoltre la ripartizione in due stationes, i luoghi dove erano alloggiati, che però non sono mai stati identificate archeologicamente, ipotesi confermata dalla presenza di un impiegato definito a locis cubicularium stationis, che doveva fungere da usciere: sempre in analogia con l’organizzazione militare, i cubicularii erano articolati in decurie, il cui capo era definito decurio cubicularium. Insomma, quando ci si mettevano gli antichi romani, come fantasia nei nomi facevano concorrenza ai nostri giapponesi!

Non sappiamo se i cubiculari imperiali fossero riuniti in un collegia: la duplice menzione dello carica di decuria, senza alcuna specificazione, in riferimento rispettivamente a un cubicularius e a un numero indefinito di scribae cubiculariorum genera il sospetto che essa fosse esercitata nell’ambito di uno qualche associazione professionale, sorto forse a scopo funerario, secondo una prassi molto comune tra i membri della familia imperiale. Per cui è probabile che alcuni dei colombari associati alla familia imperiale, potessero essere proprio destinati ai cubicularii, che come accennato, erano assai numerosi.

Sebbene tutti i componenti dello servitù del cubiculum fossero legati al principe da un rapporto di fiducia, peraltro tradito non di rado, ero il loro capo, l’a cubiculo, a trarre maggior beneficio e prestigio dallo svolgimento del suo ruolo, che associava mansioni prettamente domestiche, assimilabili o quelle di un moderno maggiordomo o di un gran ciambellano di corte, alle funzioni di rappresentanza per conto del suo padrone. Ne troviamo uno rara conferma letteraria nello Legatio ad Gaium, in cui Filone d’Alessandra, che racconta l’ambasciata degli ebrei egiziani a Caligola, parla di Helicon, il suo a cubicola di origine egiziane, evidenziando come fosse sempre al fianco dell’imperatore, anche in occasioni pubbliche, in cui fungeva da guardia del corpo.

La carica di a cubiculo permetteva a chi lo rivestiva di acquisire facilmente influenza e potere e costituiva spesso un eccellente trampolino di lancio per l’assunzione di più alti incarichi nell’ambito dello burocrazia statale. La frequenza con cui quest’ultima circostanza si verificava ha indotto alcuni studiosi, fra gli ultimi S. Demougin, a postulare l’esistenza di un vero e proprio cursus honorum riservato ai liberti imperiali, che, attivato verso la fine del I secolo d.C., avrebbe contemplato fra i vari gradi l’incarico di a cubiculo e previsto come coronamento la dirigenza degli uffici dello ratio, ossia del patrimonio privato dell’imperatore. Più cauto è G. Boulvert, il quale respinge l’ipotesi di una reale carriera “amministrativa” per gli ex-schiavi imperiali, ritenendo preferibile parlare di uno gerarchia di posti. I dati ricavabili dalle epigrafi relative ad alcuni dei più illustri o cubiculo imperiali che trovarono successivamente impiego nel settore dell’amministrazione sembrano avvalorare quest’ultimo tesi; l’analisi delle carriere descritte rivela l’assenza di uno sviluppo lineare, scandito da tappe fisse e ordinate, mostrando che i singoli percorsi professionali potevano essere molto diversi fra loro, pur muovendo da un comune punto di partenza. Altro interessante aspetto che emerge dallo studio della documentazione epigrafica è l’estensione delle competenze del vertice dei cubicularii nel corso del Il secolo d.C., testimoniato dall’ accorpamento del cubiculum e della memoria, cioè della segreteria personale del princeps, ad opera di Adriano Questo provvedimento, revocato già da Settimio Severo nell’ambito del processo di sostituzione dei liberti responsabili degli officia palatina con procuratori di rango equestre, prelude all’ulteriore allargamento della sfera di controllo dell’a cubicala o meglio del suo erede, il praepositus sacri cubiculi, che si verificò nello torda età imperiale, quando questi assunse lo direzione di tutto il personale operante aa corte. In virtù della ridefinizione del suo ruolo egli ottenne pure un innalzamento di rango, divenendo clarissimus entro lo metà del IV secolo, successivamente spectabilis, poi illustris, per essere infine equiparato ai prefetti e ai magistri militum.

Per finire, forniamo un paio di esempio di queste carriere: Nicomedes, schiavo di origine greca, fu affrancato e scelto come a cubiculo da L. Aelius Caesar, successore designato di Adriano, morto prematuramente nel 138 d.C. In seguito a questo lutto che colpì la famiglia imperiale, egli assistette nella crescita il figlio del suo patrono, il futuro Lucio Vero, in qualità di nutritor, cioè di genitore adottivo, di fatto ma non di diritto. Sotto il regno di Antonino Pio, per intercessione di Lucio Vero, divenutone il figlio adottivo Nicomedes venne insignito dell’onore dell’ equus publicus, che sancì il suo ingresso nell’orda equestris, formalizzato tramite l’assegnazione di un pontificato minore accessibile ai soli cavalieri, ovvero il sacerdozio di Caenino, un’antica città del Latium vetus. I successivi incarichi di rango equestre da lui assunti furono quelli di procurator ad silices, funzionario sexogenorius che sovrintendevo ai lavori di costruzione e manutenzione delle strade dello città, e di praefectus vehiculorum, il responsabile della gestione del traffico cittadino. Dopo lo morte di Antonino Pio nel 161 e l’ascesa al trono di Lucio Vero, in qualità di correggente di Marco Aurelio, gli fu affidata la cura copiarum exercitus, ossia il compito di provvedere all’approvvigionamento
delle truppe impegnate nella guerra contro i Parti . I meriti raggiunti nell’esercizio di tale funzione furono all’origine del conferimento di uno serie di onorificenze militari, quali l’hasta pura, il vexillum e la corona muralis, che ne fanno uno dei soli tre liberti decorati finora noti. A conclusione della sua intenso attività ricoprì il ruolo di procurator summarum rationum, che fu forse il primo a rivestire dal momento che la sua istituzione è posteriore al trionfo di Marco Aurelio e Lucio Vero sui Parti, celebrato nel 166 d.C.

Altrettanto degna di nota è la rapidissima escalation sociale di M. Aurelius Cleander, il cameriere personale di Commodo, che divenne prefetto del pretorio, uno delle cariche che costituivano l’apice del cursus honorum equestre. A causa delle enormi ricchezze accumulate, durante un tumulto sorto in occasione di una carestia fu linciato dalla plebe.

La battaglia navale di Catania

Mentre Imilcone stava catturando Messina e costruendo Tauromenio, Dionisio era molto impegnato a potenziare il suo esercito. Liberò tutti gli schiavi presenti a Siracusa per equipaggiare 60 navi addizionali, dispose fortezze a Siracusa e Leontini con soldati e vettovaglie e assunse 1000 mercenari dalla Grecia. La sua mossa successiva fu quella di persuadere i mercenari campani a Catania di dirigersi ad Aitna. Quando ricevette la notizia che Imilcone era stato costretto a marciare nell’entroterra a causa dell’eruzione dell’Etna, e la flotta punica stava salpando per Catania, portò il suo esercito e la flotta a Catania per sconfiggere in particolare i cartaginesi. L’esercito greco era composto da 30000 uomini e 3000 cavalli, mentre la flotta da 180 navi per la maggior parte quinqueremi. La flotta cartaginese stava salpando a ritmo lento per dare a Imilcone più tempo per raggiungerla. La flotta cartaginese a questo punto contava 300 triremi e 200 navi da trasporto. Per massimizzare il rendimento della flotta, i cartaginesi armarono con arieti le navi da trasporto, che erano più lente rispetto alle navi da guerra. La flotta punica arrivò a Catania consapevole che senza l’esercito presente, sarebbe stata vulnerabile ai greci quando sarebbero sbarcati di notte. Se la flotta si fosse semplicemente ancorata, sarebbe stata vulnerabile al clima.

Quando anche i greci arrivarono a Catania, Leptine, l’ammiraglio, schierò le sue navi e avanzò verso i cartaginesi. Sebbene la flotta greca fosse in inferiorità numerica, le sue navi erano più larghe e pesanti, e trasportavano più soldati e proiettili. Dionisio, pianificando di utilizzare a pieno regime le navi pesanti, aveva ordinato a Leptine di mettere le sue navi in ordine chiuso quando avrebbe ingaggiato battaglia coi cartaginesi. Vedendo i greci distribuirsi in azione, Magone comandò alla sua flotta di formare una linea di battaglia.Leptine selezionò 30 tra le sue migliori e caricò, con queste in testa, la linea cartaginese, mentre il resto della flotta avrebbe cercato di opporre resistenza e non far passare i nemici. All’inizio Leptine portò tutte le sue navi con lui in una improvvisa sortita, affondando molte navi puniche in una selvaggia mischia. I cartaginesi iniziarono a sfruttare il loro vantaggio numerico, agganciando le navi greche e rendendole ingovernabili, per poi salire a bordo iniziando la mischia. La battaglia cambiò piega per Leptine, lasciato senza nessun rinforzo; dovette, quindi, rompere la linea di combattimento e fuggire coi sopravvissuti del suo contingente, lasciando la flotta greca priva di un comandante.

Dato che il resto della flotta greca giunse in battaglia in disordine, i cartaginesi, ordinati e pronti, li incalzarono in massa. Ne derivò una feroce battaglia, con navi che si lanciavano proiettili, con manovre di arieti tra i contendenti e agganci fra queste per combattimenti sul ponte. I greci furono alla fine sopraffatti, le navi pesanti non ebbero l’effetto sperato perché la flotta si mosse in modo confuso e disordinato. I cartaginesi inviarono alcune navi per catturare i marinai greci in mare. Oltre 20000 tra marinai e rematori e 100 navi restarono sul campo, tra morti e prigionieri, senza che le navi sopravvissute si fermassero per soccorrerli

La sconfitta dei greci mise Dionisio in serie difficoltà: poteva certo affrontare sul campo di battaglia Imilcone, ma il rischio è che i Cartaginesi replicassero quanto accaduto a Messina, per occupare Siracusa con un colpo di mano della flotta, tenendo anche conto che il partito anti dionisiano della polis poteva approfittare della mancanza di una guarnigione per un colpo di stato. Dionisio decise allora di rompere gli indugi: lasciò il campo e si diresse a sud, verso la sua polis.

In questo frangente, Madre Natura intervenne in aiuto di Dionisio, poiché l’improvviso peggiorare del tempo costrinse Magone ad arenare le sue navi, rendendo così la flotta punica vulnerabile a possibili colpi di mano greci, che per loro fortuna non si verificarono, perché i siracusani, pensando che fosse un trucco punico, non fermarono la ritirata. Imilcone giunse a Catania due giorni dopo la vittoria dopo un viaggio di 110 km intorno all’Etna, e la sua presenza garantì finalmente la sicurezza della flotta punica. Sia l’esercito punico che la marina furono concessi alcuni giorni di riposo, durante i quali Magone riparò le sue navi danneggiate e riparò le navi greche catturate, per aggregarle alla sua flotta. Imilcone nel frattempo, aveva aperto un tavolo di trattativa con i mercenari osci e sanniti di Aitna, proponendogli, in cambio di un congruo aumento in cambio del passaggio nel campo cartaginese. Dionisio, che conosceva i suoi polli, aveva però preso in ostaggio le loro famiglie, così i mercenari, a malincuore, dovettero rimanergli fedeli.

Nel frattempo, però le decisione di attendere il nemico al riparo tra le mura di Siracusa, fu alquanto impopolare tra i greci di Sicilia, che accusarono Dionisio di vigliaccheria e di averli abbandonati: così disertarono in massa il suo esercito e tornarono nelle loro polis, per difenderle dall’eventuale attacco cartaginese, equivocando le intenzioni di Imilcone: il suo obiettivo non era la conquista, ma il ricondurre il tiranno siracusano a miti consigli, limitando il suo potere politico e militare. Dionisio e l’esercito greco raggiunsero per primi Siracusa e iniziarono i preparativi per resistere all’inevitabile assedio cartaginese: il tiranno era abbastanza convinto che i lavori di rafforzamento delle mura avrebbero permesso di resistere all’assedio, però, per evitare brutte sorprese, cominciò ad assoldare ulteriori mercenari in Italia e in Grecia e diede ordine di presidiare le fortezze che si estendevano tra Leontini e l a sau polis.

Fortezze che servivano sia per proteggere il raccolto sia come basi per molestare le linee di rifornimento nemiche: in più Dioniso sperava che servissero da esca e trascinassero via da Siracusa parte l’esercito cartaginese, riducendo la pressione nemica e facendo guadagnare tempo ai difensori di Siracusa. Il ragionamento di Dioniso era semplice: anche se le fortezze si fossero arrese facilmente, Imilcone avrebbe dovuto presidiarle con guarnigioni, tenendo così parte del suo esercito lontano dall’assedio. Peccato che Imilcone ignorasse Leontini e i forti, e il suo esercito marciò lentamente verso Siracusa. Si spostarono intorno all’altopiano delle Epipole e si concentrarono sulla costruzione del loro accampamento. La flotta da guerra punica, composta da 250 triremi e quinqueremi greci catturati , salpò contemporaneamente nel porto grande e in perfetto ordine superò Siracusa, mostrando le spoglie catturate dai greci. 2000-3000 navi da trasporto furono poi ormeggiati nel porto, portando soldati e rifornimenti. Imilcone era pronto per iniziare l’assedio.

La preistoria a Sciacca

Molti lo ignorano, ma il territorio di Sciacca, dove vivono tanti ragazzi che mi seguono o meglio mi seguivano su Twitch, ho avuto una serie di problemi a causa di hacker imbecilli, detto fra noi, ma che gusto c’è a prendersela con un piccolo canale come il mio, parecchio da vigliacchi, è ricca di testimonianza della complessa e affascinante preistoria siciliana. Il più antico, purtroppo trascurato, è uno pseudo dolmen, sette chilometri dalla città omonima, fu scoperto negli anni ’30 del secolo scorso, tra un gruppo di massi di tufo conchigliare. È costituito da una grande pietra piatta poggiata su lastre grezze infisse verticalmente nel suolo; tutt’intorno furono rinvenuti frammenti ceramici risalenti al bronzo antico. Nei pressi della struttura possono ancora scorgersi alcuni massi incisi che fanno pensare a un piccolo sacello o a un pozzetto di raccolta.

Una struttura che non è unica in Sicilia, se non erro, ma potrei essermene dimenticato qualcuno, ve ne sono di simili a Mura Pregne, e altri quattro in quella sud-orientale, Monte Bubbonia, Cava dei Servi, Cava Lazzaro e Avola. Come gli analoghi del Nord Europa, questi sono quanto rimane di di camere sepolcrali e di gallerie di tumuli (colline artificiali), la cui parte friabile (la colmata costituita da materiali di riporto) è stata erosa nel corso dei secoli. Tombe che servivano, probabilmente alla sepoltura collettiva di clan gentilizi e che hanno avuto a volte una vita e un utilizzo lunghissimo: in quello di Sciacca, ad esempio, sono stati trovati anche resti ceramici della Cultura di Castelluccio, risalente alla prima età del Bronzo.

Questo non significa che vi continuassero a seppellire i corpi per quasi un migliaio d’anni: semplicemente, a un certo della sua esistenza, si trasformò da tomba gentilizia a probabile luogo di culto degli spiriti degli antenati divinizzati. E a differenza di quanto sostengono i cultori della fantarcheologia, i dolmen in Sicilia non furono neppure costruiti dalla stessa cultura che realizzò quelli del Nord Europa: sono strutture autoctone, che si sono adattate alle condizioni del territorio. Queste strutture si accompagnano sempre come detto da Tusa ma anche dal compianto Primo Veneroso, alla cultura del bicchiere campaniforme e che rappresentano un interessante esempio di convergenza funzionali tra popoli e culture differenti: stesse esigenze, dato che in fondo il modo di ragionare umano è sempre uguale, portano a soluzioni e risposte simili.

L’altra grande presenza preistorica di Sciacca è la necropoli eneolitica di contrada Tranchina si estende sul declive meridionale di una bassa collina situata a circa 11 Km ad Est della cittadina, sulla Nazionale per Agrigento. La scoperta avvenne casualmente nel 1957 quando i denti dell’aratro intaccarono l ‘imboccatura di una tomba a cameretta ipogeica preceduta da pozzetto cilindrico; la consistenza archeologica dell’area era comunque nota in quanto, qualche decennio prima, vennero in luce una se rie di vasetti miniaturistici, inquadrabili nelle fasi finali dell’Eneolitico, di cui si ignorano le modalità di rinvenimento. Lo scavo della tomba da parte del proprietario del fondo , permise di evidenziare i resti dello scheletro, in posizione rannicchiata sul fianco destro e il corredo, deposto accanto il defunto e lungo le pareti della celletta. Era composto da due scodelle, due orcioletti e un bicchiere biconico, tutti a decorazione incisa e impressa

La scoperto destò un certo interesse fra gli appassionati locali e qualche tempo dopo , Arturo Politi , medico saccense e cultore dell ‘archeologia locale, invitò il direttore del Museo Preistorico Pigorini di Roma, Ciro Drago, ad una ricognizione nei luoghi, cui seguirono dei saggi di scavo. Si individuarono e si scavarono altre due tombe integre, ancora chiuse con il portello di copertura. Nel 1959 si effettuò uno scavo sistematico ad opera di Santo Tinè. Tra l’altro consiglio a tutti di leggere il racconto, veramente divertente che ne da Santo nella sua autobiogrfia E ora scaviamo nella mia vita

L’indomani, con l’aiuto di Carmelo Belluardo, un’assistente di scavo, iniziammo a scavare a Tranchina. Tracciai un saggio di 10 metri per 10 e cominciammo a mettere in luce la roccia per localizzare i pozzetti d’ingresso alle tombe a grotticella. Mentre Belluardo seguiva questo lavoro, io mi recai sul costone, dove la roccia era affiorante, per cercare di localizzare macchie di terreno e di vegetazione, che potevano essere riferire al sottostante riempimento di pozzetti d’ingresso. Mi seguiva un operaio con gli attrezzi necessari per saggiare i punti sospetti. Tentativi che si rivelarono tutti negativi fino a quando giunse sul posto il dottor Politi, seguito dal suo fedele rabdomante, il signor Caltanisetta. Mi raggiunsero alla sommità della collina e mi chiesero il permesso di sperimentare il loro metodo.

Dopo un primo momento in cui il vento che soffiava pare che disturbasse la sensibilità del Caltanisetta, questi mi chiamò, dicendomi: “Metta un segnale qui”. Io raccolsi delle pietre e le posizionai dove il rabdomante mi indicava. Dopo circa un’ora di questi segnali ne avevo posti almeno una decina, e così dall’alto chiamai Belluardo perché venisse su con altri due operai. Mentre Caltanisetta continuava a segnalarmi altri punti, Belluardo con gli operai iniziò a saggiare quanto già segnalato. Sorprendentemente, almeno per me che non avevo dato credito a questo tipo di ricerca, ogni punto indicato si rivelò essere un pozzetto o l’ingresso di una tomba a grotticella. Solo in un caso l’esito fu negativo e in quel punto Caltanisetta tornò a controllare tenendo in mano un frammento di ceramica: “Eppure io sento che qui ci sono dei vasi”.

La sorpresa per me raggiunse il colmo quando, insistendo su quel punto che era parso negativo, trovammo due vasetti posti in un piccolo anfratto della roccia. Caltanisetta era all’apice della gioia ed io ero passato dall’incredulità all’incondizionata fede nella sua capacità di trovare – come diceva Politi – tutto quello che voleva. Egli stesso si volle esibire in un’altra spettacolare esibizione e disse: “Questi che abbiamo individuato sono i pozzetti d’ingresso, poi le indicherò la cameretta con lo scheletro ed i vasi”. Teneva in mano una bottiglietta di quelle che una volta contenevano la penicillina. Vi aveva messo dentro due schegge d’osso e con una pietra in mano mi segnò dove si trovava la grotticella.

Allora lo invitai a delimitare l’intera estensione della necropoli. Così insieme percorremmo in lungo ed in largo tutta la collina. Ogni tanto sifermava in mezzo all’erba secca, raccoglieva un frammento di ceramica, me lo mostrava e poi lo lanciava lontano. Diceva che questi frammenti in superficie lo disturbavano. Così mentre la sua gioia per il successo era ormai incontenibile altrettanto era il mio stupore che sentisse veramente i frammenti, impossibili da vedersi nell’erba alta. Ora comprendevo meglio la frase di Politi: “Egli trova quello tutto quello che si mette in mente, peccato che non senta l’oro”

Il settore di necropoli attualmente in luce si estende per circa 5000 mq; le tombe sono in genere del tipo a piccola cameretta ipogeica cui si accedeva da un pozzetto circolare aperto su un piano di roccia. Le tombe, tutte del periodo Eneolitico (età del Rame, seconda metà IV-III millennio a.C.), erano prevalentemente monosome, contenevano cioè un solo defunto, ad eccezione di tre, nelle quali erano presenti deposizioni collettive; in una tomba era documentato il rito della colorazione del defunto con ocra rossa, sostanza cui era probabilmente attribuito un valore magico-sacrale, secondo un uso riscontrato anche nella necropoli coeva di Piano Vento, presso Palma di Montechiaro. Il rituale funerario prevedeva il seppellimento del defunto in posizione supina o rannicchiata, la deposizione del corredo e la chiusura della tomba con un portello in pietra, talvolta sigillato con argilla. I corredi erano prevalentemente costituiti da vasi in terracotta, tazze, ciotole, bicchieri decorati con motivi incisi, linee spezzate, cerchietti, punti, secondo uno stile tipico della cultura dell’Eneolitico antico siciliano (facies di San Cono-Piano Notaro).

Dal confronto con altri sito, sappiamo come gli utlizzatori della necropoli vivessero in long houses, grandi capanne a pianta rettangolare con i lati corti spesso arrotondati, costituite da una struttura lignea composta da pali per reggere il colmo del tetto a due spioventi e completata ai lati con struttura di paletti e incannucciata, rifinita con un impasto di argilla che, una volta essiccato, dava all’insieme una certa solidità. Date le loro dimensioni erano probabilmente abitate da nuclei familiari abbastanza numerosi, probabilmente composti da famiglie allargate.

Inoltre, la tomba a grotticella rappresenta un radicale mutamento rispetto al Neolitico (VII-IV millennio a.C.) in cui il tipo esclusivo di tomba utilizzato era la semplice fossa scavata nella terra. La grotticella è una struttura duratura , costantemente identificabile nei suoi valori planimetrici e strutturali , in contrapposizione alla tomba a fossa scavata nella terra, in cui il seppellimento e il successivo riempimento di terra, provocavano l’annullamento del limite fisico della fossa, che non poteva pertanto essere riutilizzata. La grotticella è riutilizzabile per successive sepolture, evidentemente per individui appartenenti allo stessa famiglia. Con il culto degli antenati quindi, si realizza per la prima volta un processo di aggregazione sociale di tipo parenterale e l’emergere di gruppi sociali fondati sul legame familiare.

Porta de Greci

Oggi, sempre parlando della Kalsa, ci concentriamo su la Porta dei Greci: in origine, la porta viene edificata nel XIV secolo nei pressi della chiesa di San Nicolò dei Greci (volgarmente detta chiesa di San Nicolò la Carruba), ma presto viene distrutta e riedificata nel 1553 ispirandosi allo stile architettonico della Porta di Castro. Nel lungo contesto delle Guerre del Vespro, Federico III d’Aragona con la nascita del primo figlio maschio Pietro, associò quest’ultimo al trono e lo designò erede, contravvenendo ai patti stipulati (restituzione alla sua morte della Sicilia alla Casa d’Angiò), violando di fatto la Pace di Caltabellotta. Nel 1316 insieme a Porta Termini subì gli assalti dell’esercito di re Roberto d’Angiò al comando di Tommaso Marciani, assalto che fu eroicamente respinto. Presso questa porta Carlo d’Angiò, duca di Calabria, nel 1325 guidò gli scontri che coinvolsero altri tre accessi cittadini. La guerra tra Napoli e Palermo durò fino al 1372, quando la Pace di Catania e il Trattato di Avignone sancirono e riconobbero definitivamente l’indipendenza della Sicilia, in cambio di un congruo risarcimento a favore degli Angiò.

In contrapposizione a Porta Nuova che ad occidente magnificava la Conquista di Tunisi, a oriente Porta de’ Greci tesseva le lodi per l’impresa di Mahdia. Nel 1550 dopo essere sbarcato dall’ennesima campagna in terra tunisina contro il corsaro Dragut, attraverso questa porta effettuò l’ingresso trionfale Giovanni de Vega, viceré di Sicilia. Come bottino di guerra furono condotte a Palermo le porte di ferro della città conquistata, manufatti che furono installati nel 1556. L’orgoglio per tale impresa dettò la consuetudine d’arricchire i varchi con frasi commemorative. Il Senato Palermitano invitò a celebrare in versi Antonio Veneziano, il poeta siciliano matto come un cavallo, iscrizione e architetture decorative non più esistenti al presente.

Nel 1580 il viceré Marcantonio Colonna, negli ambienti adiacenti vi fece trasferire i collettori delle gabelle ovvero gli esattori delle imposte da Porta Termini.La prima rivoluzione architettonica avviene nel 1754 con la demolizione di uno dei bastioni che la incorniciavano, mentre l’altro viene demolito nel 1783. In questo periodo la porta viene spostata più verso il mare seguendo il nuovo perimetro murario e sopra di esso viene edificato intorno al 1840 il Palazzo Forcella De Seta dagli architetti Nicolò Puglia e Emmanuele Palazzotto.

Detto questo, lascio la parola, come la scorsa settimana, a Maurizio Vesco, sempre citando il libro del comune di Palermo sulla Kalsa

Ma l’aspetto certamente più significativo del progetto di espansione urbana, in riferimento ai processi di innovazione urbanistica del quartiere della Kalsa, fu quello della pianificazione della nuova superficie intramoenia, avviata, almeno per quel che concerne le operazioni di picchettaggio e di tracciamento di strade e isolati, a partire dallo stesso anno 1553. La paternità del piano va senza dubbio ascritta allo stesso Prado che si era già cimentato, sin dal 1551, in quella che, allo stato degli studi, sembra essere la sua più importante esperienza di pianificazione: il progetto della città-fortezza di Carlentini, promosso dallo stesso Juan de Vega. A conferma del preminente carattere urbano assegnato alla nuova area insediativa rispetto a quello di fortilicium, nonostante il frequente ricorrere di quest’ultimo termine per almeno un quarto di secolo, va evidenziato che l’intera superficie aggiunta venne lottizzata, scelta, questa, discutibile nell’ottica della difesa, tanto da essere all’origine – come vedremo – di più tarde accese controversie tra privati e Universitas. (Nota mia: Universitas è l’amministrazione della città di Palermo dell’epoca)

I lavori delle fortificazioni procedettero abbastanza rapidamente tanto che nel settembre del 1554 il viceré poteva congratularsi con l’ingegnere per «quanto ni scriviti de lo bon termino che si retrovano li due bastioni de Spasmo et di san Herasmo». L’ultima delle opere da approntare rimaneva adesso la nuova porta urbica, destinata a rimpiazzare quella già demolita, che venne aperta stavolta direttamente sulla riva e alla quale si conferì un marcato carattere monumentale, carico di valenze simbolico-rappresentative, ancor più enfatizzate dalla collocazione in essa dei portoni ferrei di una delle porte della città di Africa (l’antica Aphrodisium, oggi Mahdia) conquistata dalle truppe spagnole guidate dallo stesso Vega, portati a Palermo con il bottino di guerra. La vasta eco della presa dell’avamposto africano in tutto l’Impero e l’alone epico che da subito avvolse l’impresa bellica del viceré, oggetto di diversi libelli oltre che di un’incisione, fecero sì che la porta venisse dedicata a quella vittoria e al suo trionfatore, venendo appellata porta Vega o d’Africa, denominazioni che avrebbero avuto, però, scarsa fortuna, soppiantate da quella più antica di porta dei Greci.

Nel novembre del 1555 una folta squadra di intagliatori, scelti tra i migliori maestri palermitani, s’impegnava con i deputati delle mura a scolpire e collocare in opera tutti gli elementi d’intaglio per la «portam dettam de Vegha». Di questa ci rimane oggi quasi integra solo la facciata esterna con il portale lapideo di gusto squisitamente classicista e di ispirazione serliana, che fu concepito, a nostro avviso sempre da Prado, a mó
di arco trionfale per il vincitore d’Africa, come dimostrano i festoni di pomi e frutti assicurati da infule agli anelli, che si dispiegano per tutto il fregio, realizzato dal maestro intagliatore
Matteo de Arculeo o da qualcuno della sua squadra. Fu invece lo scultore Aloisio de Battista a scolpire tutti i raffinati elementi d’intaglio della controfacciata, non solo il fregio oggi perduto, ma anche i capitelli compositi del fronte sulla piazza d’armi, di cui oggi ne resta solo uno, caratterizzati, come quelli della facciata verso mare, dalla presenza di elementi figurati; al di là della effettiva esecuzione materiale degli intagli, non è da escludere, però, che i loro disegni possano essere stati approntati nella bottega di Fazio Gagini, d’altronde, va segnalato come i blocchi da cui vennero ricavati sia i capitelli sia il fregio furono lavorati proprio nel noto laboratorio dei maestri marmorari adiacente alla Cattedrale.

D’altra parte proprio Gagini fu autore degli elementi marmorei a decorazione della porta verso mare, oggi tutti scomparsi: si trattava di una grande aquila bicipite coronata recante le insegne reali, da collocare sul frontone della porta, di due scudi, uno con le armi del viceré e l’altro con l’aquila palermitana, nonché di due tabelle, una delle quali destinata ai versi con cui Antonio Veneziano avrebbe celebrato la presa d’Africa e il viceré, vincitore di uno scontro da lui definito «Quarto bello Punico». Questa evidente intenzione autocelebrativa del Vega, ma anche il suo indiscutibile protagonismo, già emerso negli studi su Carlentini, sono confermati anche dai due gruppi scultorei che egli commissionò più tardi sempre al Gagini perché venissero posti sui fronti del bastione a lui intitolato, oggi perduti ma di cui ci rimane un prezioso disegno settecentesco: questi raffigura un telamone dalle braccia mozzate, chiaro riferimento al nemico turco sconfitto e soggiogato, chino sotto il peso di un elaborato scudo con festone entro il quale era incisa a grandi lettere l’iscrizione «Dedit Vega Et Nomen Et Formam», con la quale il viceré si attribuiva espressamente la paternità del progetto del baluardo.

La ricercatezza formale della porta Vega non si risolveva solo nei suoi sofisticati prospetti – i frammenti ancora visibili della facciata sull’odierna piazza Kalsa ne lasciano persino intuire una maggiore monumentalità confermata dal ricorso a paraste di ordine gigante – ma anche nelle raffinate soluzioni adottate al suo interno: paraste con rincassi, concluse da eleganti basi e capitelli e poggianti su alti plinti, eguali a quelle che in facciata un tempo sorreggevano l’arco della controporta perduta, scandiscono le pareti interne di uno dei due vani in cui si articola in pianta l’edificio, mentre lunette in falsa prospettiva ingentiliscono le volte en esviaje a copertura dell’altro.

La controfacciata della porta Vega, di cui formuliamo in questa sede un’ipotesi ricostruttiva basata sul rilievo dei non pochi elementi superstiti , è a nostro avviso da ricondurre, per la sua evidente eterogeneità rispetto a quella esterna, a un autore diverso da Prado e formatosi di certo in ambito locale. Il suo disegno potrebbe essere stato approntato, in concomitanza della stipula del contratto d’opera del novembre 1555, proprio dal capomastro della città Giovan Francesco Scicli, a cui quell’incarico poteva spettare d’ufficio in mancanza del tecnico della Corte, scomparso già da mesi. Lo proverebbe l’adozione di soluzioni compositive e linguistiche che qualificano questa facciata come architettura di transizione, un manufatto che coniuga in sè modelli di cultura rinascimentale pienamente aggiornati e ispirati all’antichità classica, come quelli proposti da Serlio nei suoi Libri, e riferimenti taciti ma inequivocabili alla più salda tradizione costruttiva tardogotica locale, quella impersonata per un quarto di secolo e fino a qualche anno prima da quell’Antonio Belguardo da Scicli, principalis fabricator huius urbis, per il quale potrebbe essere più che un’ipotesi accattivante pensare a un legame con il suo successore nell’incarico municipale. Si mescolavano in questo modo la raffinata, misurata visione della realtà filtrata attraverso la cultura degli ordini architettonici diffusa dai trattati e il compiaciuto empirismo del mondo della stereotomia e dell’arte del taglio della pietra, così come nelle decorazioni dell’arco esterno della porta sembrano mischiarsi mito e cronaca. Ai lati del perfido inimico turco raffigurato nel concio in chiave, trovano posto guerrieri vestiti all’antica, quasi tratti da un emblemata, che non possono non ricordarci, nonostante la loro più modesta qualità scultorea, le figure similari che adornano la porta del forte sant’Elmo di Napoli, realizzata dal celebre Luis Escrivà, dove Prado aveva lavorato solo qualche anno prima, intorno al 1547.

Il ricorso all’ordine e al figurativismo rappresentano comunque digressioni rispetto a una regola tutta cinquecentesca, che aveva trovato eco in certa trattatistica, in base alla quale nelle fortezze «li ornamenti […] si faccino dell’ordine rustico, come se li conviene »; a questa norma, d’altronde, ci si era attenuti, secondo una prassi diffusissima, nella definizione formale del bastione Vega, quando nel febbraio del 1553 si era optato per una finitura del paramento degli orecchioni «de intaglio abuczato», ossia con bugnato di opera rustica. Della porta, al di là del suo interesse artistico, va messa in evidenza la sua significatività dal punto di visto tipologico, anche in riferimento alle indicazione dei trattati coevi: non si tratta, infatti, di un semplice varco nella cortina, quanto piuttosto di un vero e proprio edificio, articolato in due vani di passaggio, il più esterno a pianta trapezia fortemente strombata, protetto da una doppia saracinesca con piombatoia intermedia, e quello interno, ove ricadeva la controporta, a pianta rettangolare, coperto da una grande volta rinforzata con due possenti catene ferree e con ambienti su ambo i lati destinati alle guardie di ronda o ai soldati, secondo quel modello di porta-fortezza suggerito, ad esempio, da Giacomo Castriotto o da Giovan Battista Belluzzi.

Il piano del nuovo insediamento, anche questo di certo redatto da Prado – la concessione a titolo gratuito da parte della Corte di un grosso lotto di terreno fu probabilmente la ricompensa per il lavoro svolto – prevedeva innanzitutto il prolungamento della strata Magna porte Grecorum, la quattrocentesca placza grandi di la Porta dili Grechi (l’odierna via Butera), alla quale venne conferita nel nuovo tratto, coincidente con l’attuale via Torremuzza, una sezione quasi raddoppiata. Il terreno a occidente del rettifilo venne ripartito con una ricerca di proporzionalità che teneva comunque conto dell’andamento irregolare delle vecchie mura. In esso venne anche aperta un’ampia strada che lo bipartiva, l’odierna via di santa Teresa, che dal piano su cui prospettavano il complesso dello Spasimo, la chiesa normanna di santa Maria della Vittoria e l’antico oratorio dei Bianchi giungeva sino al prolungamento della strada Magna. In uno di questi due grandi appezzamenti di terreno venne poi tracciata una croce di strade (gli attuali vicolo Savona e via Spadaro), secondo un modello abbastanza diffuso nelle urbanizzazioni cinquecentesche palermitane (dal viridarium dei de Franco al Piliere alle Case Nove dei Ventimiglia) che assieme ad altre vanelle aperte in direzione nord-sud definiva insule quadrate o rettangolari.

La lottizzazione conseguente all’addizione di porta dei Greci, l’unica di iniziativa pubblica fra le tante attuate a Palermo nel corso del Cinquecento, fin da subito sembrò attrarre gli interessi della classe dominante, forse anche grazie alle accorte manovre del viceré Vega che attraverso la donazione di terreni a membri autorevoli della Corte, primo fra tutti il presidente del Tribunale del Real Patrimonio Modesto Gambacurta, era riuscito a qualificarla come area insediativa privilegiata. Proprio quest’ultimo, ad esempio, vi realizzò un grande palazzo, nucleo del più tardo monastero di santa Teresa, per completare il quale nel 1581, avendo informato il governo di aver «già cominciato un edificio di molto ornamento in quella parte della cità che prima era desolata» e spiegato come «sarrebbe tanto piò l’edificio nobile si vi si facesse un giardino», ottenne la concessione di ulteriore suolo pubblico a scapito del largo pomerio lasciato lungo le mura meridionali, in barba quindi a ogni ragione di difesa.

Mentre l’area a occidente venne urbanizzata abbastanza rapidamente, quella a oriente, compresa tra il bastione Vega e la piattaforma del Tuono, in un primo momento destinata anch’essa ad attività di lottizzazione – era stata interamente assegnata da Vega al conte di Assoro Giovanni Valguarnera – sarebbe rimasta invece libera, prima per le difficoltà finanziarie del proprietario, poi, negli anni di presidenza del Regno di Carlo Aragona Tagliavia, per la ferma volontà del Senato palermitano di farne un’ampia piazza d’armi a ridosso della porta. Tuttavia, se ancora nel primo quarto del XVII secolo questa era rimasta in buona parte sgombra, tanto che il cronista Di Giovanni poteva annotare come «questo piano è grandissimo e spazioso, da rappresentarvi ogni demostrazione ed ordine di guerra», da lì poco sarebbe stata in gran parte edificata in primo luogo con la costruzione del complesso del Noviziato dei Crociferi, fino a ridursi in estensione all’odierna piazza Kalsa.

L’ultimo passo nel processo di riconfigurazione urbanistica di questa parte del quartiere della Kalsa sarebbe stato legato all’edificazione due secoli dopo, nel 1784, di nuovo di una porta, la porta Carolina, una porta urbica stavolta del tutto priva di valenze militari, carica ormai solo di significati simbolici e rappresentativi. In quell’occasione si decise di prolungare nuovamente la strada di porta dei Greci, estendendola sino allo stradone extramoenia di sant’Antonino e alla Villa Giulia da poco impiantata, aprendo così un varco nella cortina e demolendo alcune delle case che senza soluzione di continuità vi si erano nel frattempo addossate. All’estremità della nuova via (l’attuale via Nicolò Cervello) venne collocata la porta, enfatizzata dal suo posizionamento al centro di un’esedra composta da edifici residenziali improntati a un’architettura uniforme, mentre i terreni lungo la strada, tracciata tra orti e giardini a ridosso delle mura, furono lottizzati. Poco restava ormai del grandioso fortilicium eretto da Vega: del grande baluardo angolare che portava il suo nome rimaneva ormai solo un moncone, a seguito della demolizione, attuata solo un anno prima, del suo intero fronte rivolto verso mare, mentre il bastione del Tuono era già stato integralmente abbattuto nel 1754. Non molto tempo dopo, infine, nel settembre del 1820, in occasione dei moti rivoluzionari, le cannoniere palermitane avrebbero inferto un colpo mortale alla porta Vega, causando il crollo di parte delle volte di copertura e delle facciate, prima fra tutte – ahimè – quella monumentale rivolta verso la città, di cui non resta alcuna raffigurazione e che alla fine sarebbe andata di fatto perduta, in parte distrutta, in parte celata sotto il sottile strato d’intonaco e rinzeppo del prospetto dell’ottocentesco palazzo Forcella De Seta, dove rimane dimenticata, in attesa di essere riportata alla luce.