
Oggi parliamo di un personaggio del Quattrocento, Pietro Rombulo, che a dire il vero non ho mai capito se fosse un grande viaggiatore o un contaballe degno rivale di Manuel Fantoni. A quanto pare, nacque a Messina, probabilmente nel 1385 e il fatto che fosse buddaci, non depone certo a favore della sua credibilità Non abbiamo notizie della sua famiglia, né del suo status sociale: sappiamo che nel 1400 partì a cercare fortuna in Aragona e in Provenza. Non cavando un ragno dal buco, se ne tornò in Italia, vagabondando per la Pianura Padana, per imbarcarsi a Venezia su una nave da guerra diretta a Tunisi. Qui divenne apprendista di un mercante genovese: i due si imbarcarono assieme su una nave da carico diretta in Egitto, dove vissero per tre anni ad Alessandria e un anno al Cairo.
Dopo la morte del mercante, che gli lasciò in eredità duemila monete d’oro,Pietro decise di tornare in Sicilia ma, avvertito da alcuni italiani che i saraceni volevano ucciderlo, nel 1407 venne convinto a recarsi in Etiopia, allora governata da un re cristiano, dove, secondo quanto racconta lui, sposò un’etiope nobile e ricca, da cui ebbe otto figli di pelle chiara – nonostante la madre fosse nera – che educò nella religione cattolica insegnando loro l’italiano. Protetto e rispettato dai dignitari di corte e dai monarchi etiopi, che si valsero spesso dei suoi consigli per l’amministrazione del loro regno, nei trentasette anni vissuti in Etiopia poté visitare quasi tutto il territorio, spingendosi anche via mare fino al Madagascar.
Nel 1444 fu inviato dall’imperatore Zara Yaqub (1434-50) come ambasciatore nel Catai e nelle regioni dei Palibotri e dei Gangaridi in India e nell’isola di Ceylon per acquistare gemme. Partito, secondo il suo racconto (Trasselli, 1941), da Dire (oggi Raheita) con duecento compagni, Rombulo giunse dopo trenta giorni all’imboccatura del Golfo Persico e poi ad Armuza, dove sostò dieci giorni. Con altri dieci giorni di navigazione toccò il porto di Cyrae, in Carmania, dove la popolazione si vestiva di pelli di pesce e si nutriva esclusivamente di carne di tartaruga: la lingua parlata era un misto di indiano, arabo e persiano e vi erano molti cristiani di rito nestoriano. Dopo due giorni sciolse le vele e giunse alle foci del fiume Arbi, in Gedrosia in venti giorni e, dopo altri quattro giorni di sosta, in altri dodici pervenne alle foci dell’Indo, dopo aver perso nel corso di tutto il viaggio trenta uomini a causa di malattie.
Compiuta la missione della quale era stato incaricato, dopo aver visitato anche la Cina e gran parte dell’India nel 1448 tornò in Etiopia via terra: attraversato l’Indo giunse ad Arbi in venti giorni passando attraverso la Gedrosia, viaggiando di notte a causa del caldo e della siccità. In altri diciotto giorni, durante i quali perse per malattia il figlio Giovanni ventitreenne, giunse ad Armira, nella Carmania. Dopo aver atteso per ventitré giorni il vento favorevole, oltrepassò il Golfo Persico, sbarcando nell’‘Arabia Felice’ nel paese degli Ittiofagi. In poco più di venticinque giorni giunse prima a Saba e poi a Palidromo, nome classico del promontorio occidentale dell’Arabia sullo stretto di Bab el-Mandeb, da dove rientrò a Dire nella terra dei Trogloditi con cinquanta compagni e un carico di gemme del valore di un milione e mezzo di una moneta imprecisata. Essendo basata su citazioni delle opere classiche, questa parte del viaggio è tutt’altro come attendibile.
In quello stesso anno fu posto a capo, dal re etiope Zara Yaqub, di una ambasceria – composta anche da Michele, monaco di Santa Maria di Gualbert nel deserto egiziano, e dal ‘moro’ Abou Omar al-Zendi – inviata presso papa Niccolò V, probabilmente per chiedere l’aiuto contro i musulmani e trattare l’unione della Chiesa etiopica con quella romana. Di questa spedizione non sono giunte però testimonianze, anche se è noto che i tre ambasciatori poterono assistere alla canonizzazione di Bernardino da Siena nella basilica di S. Pietro, prima di raggiungere Alfonso d’Aragona re di Napoli, al quale portarono in omaggio da parte del re d’Etiopia delle splendide perle delle dimensioni di una noce avellana.
In quella circostanza incontrarono anche Pietro Ranzano, un frate domenicano di vastissima cultura che in quel frangente ebbe la possibilità di vedere e di leggere un libro presentato al re e alla sua corte da Rombulo, contenente una miriade di informazioni sulle popolazioni incontrate nel corso dei suoi viaggi in Egitto, in India e in Etiopia che Ranzano, infarcendoli di tutte le vecchie leggende sulla teratologia pittoresca e sui paesi dell’oro e delle meraviglie situati al confine del mondo, avrebbe ampiamente ripreso in diversi capitoli dell’ottavo libro dei suoi Annales omnium temporum redatti fra il 1450 e il 1480, un’imponente fonte storico-geografica in sette volumi di quasi 3500 fogli, mai portata a termine, che si inserisce nel filone dell’enciclopedismo didattico domenicano e si conserva mutila nella Biblioteca comunale di Palermo.
Data la sua lunga permanenza in quel territorio, più precise sono le informazioni fornite Fabrizio sull’Etiopia, alquanto favolistica, cosa che mette qualche dubbio sulla sua attendibilità, presentata come un impero formato da dodici regni, la cui struttura sociale estremamente gerarchizzata risultava dominata dai principi, dai sacerdoti e dai mercanti, che utilizzavano la lingua caldea: i cristiani venivano battezzati con l’acqua e marchiati con il ferro rovente per essere distinti dagli infedeli; gli abitanti vivevano in grotte o sotto tende di pelle. Potente era l’armata dell’imperatore soprattutto per la sua cavalleria e per una truppa di seimila elefanti. Il libro di Rombulo, che elenca le ricchezze minerarie del paese e l’abbondanza di cotone, indicava pure in maniera dettagliata diversi itinerari che avrebbe potuto percorrere chi voleva recarsi in Etiopia da Alessandria d’Egitto o da Gerusalemme, e conteneva anche notizie utili per la ricostruzione della biografia del suo autore, che Ranzano ricorda e descrive come «un uomo la cui pelle tendeva al bruno, come quella degli Egiziani, ma che non mostrava nulla di etiopico. Il viso era quale si conviene ad una persona civile e seria, la barba lunga, il corpo alto, la veste decentissima e assai simile alla toga italica» (cit. in Trasselli, 1941, p. 175).
Rombulo tornò in Etiopia nel 1450 con alcuni artigiani richiesti dall’imperatore, al quale Alfonso d’Aragona chiese di porre guarnigioni alle porte dell’Egitto e di prepararsi ad aiutarlo in una spedizione che stava meditando contro gli infedeli. Da allora, di Rombulo non si hanno più notizie e non si conoscono data e luogo della morte.