
Nella Cappella Strozzi, come accennato, vi erano due altari: se per adornare il primo, Palla Strozzi si avvalse di uno dei grandi nomi del gotico internazionale extra moenia, il buon Gentile da Fabriano, con la sua Adorazioni dei Magi, per il secondo, invece decise, anche per motivi di opportunità politica, di rivolgersi al panorama pittorico fiorenti.
Il problema era di trovare un artista il cui stile fosse aggiornato alle novità del gotico internazionale e che avesse abbastanza talento da non sfigurare nel confronto. Ora, il panorama fiorentino dell’epoca, non è che poi offrisse poi così tanta scelta: i nomi in gioco erano o Masolino o Lorenzo Monaco. Il problema è che il primo, da una parte, per gli obblighi di bottega, doveva portarsi dietro il socio Masaccio, il cui stile austero, per un banchiere amante del lusso e dell’eleganza, non è che fosse il massimo.
Lorenzo Monaco non aveva questo vincoli, essendo un benedettino le sue parcelle erano più basse di quelle di Masolino, ora Palla Strozzi non è che avesse problemi di soldi, ma comunque l’Adorazione di Gentile era sempre costata un occhio della testa e in più conosceva bene l’ambiente di Santa Trinita, paturnie dei frati comprese. Attorno al 1420, proprio mentre Gentile cominciava a mettere mano al suo capolavoro, Lorenzo decorava la cappella Bartolini Salimbeni in S. Trinita a Firenze, sua prima e unica opera murale, che mostra, anche dal punto di vista tecnico, una maniera non allineata ai canoni del “buon fresco” della tradizione fiorentina del tempo, come la frammentazione di figure intere su due o più giornate, oppure il ricorso di parti a secco. Molti hanno attribuito queste sue scelte a una sua inesperienza: ma dato che erano comuni nell’area lombarda e veneta, garantendo, rispetto alla tradizione fiorentina, sia una maggiore ricchezza cromatica, sia la possibilità di rendere sulla parete un numero maggiore di dettagli, è anche possibile che sia frutto di una specifica scelta stilistica.
Il programma, probabilmente il più complesso che egli avesse mai intrapreso, condotto con il contributo piuttosto estensivo di collaboratori, consisteva in otto scene, tratte da testi apocrifi, dalla Vita e leggenda della Vergine nelle pareti, Quattro profeti nella volta e Quattro santi sul soffitto dell’arco d’entrata, tutto ancora visibile in situ. Lo schema era completato dalla pala dell’Annunciazione, anch’essa nel suo luogo originario, con una predella composta di quattro scene, la Visitazione, la Natività, l’Adorazione dei magi e la Fuga in Egitto. Sull’asse della cappella, l’Assunzione della Vergine sulla parete esterna sopra l’entrata è allineata al Miracolo della neve nella lunetta della parete retrostante, che a sua volta è situata direttamente sopra l’Annunciazione della pala. L’intero complesso era indubbiamente organizzato per adattarsi alle esigenze devozionali mariane dei committenti.

Soprattutto nella pala dell’Annunciazione, Lorenzo Monaco mostra di avere studiato a fondo quello che Gentile stava combinando nelle predelle della sua Adorazione dei Magi. Da una parte rompe la tradizionale articolazione del trittico, come nella Pala Strozzi, dall’altra realizza una delle prime opere dove il soggetto rappresentato è messo in diretta relazione con la reale architettura circostante, dove lo spazio pittorico è unico e le figure sono concepite, per quanto riguarda dimensioni e colori, per armonizzarsi con gli affreschi, che ne rappresentavano in un certo senso gli scomparti laterali. Per di più, c’è una riflessione profonda formale su una delle opere più di “avanguardia” della Firenze dell’epoca: formella di Lorenzo Ghiberti nella porta nord del Battistero di Firenze. Di conseguenza, c’è il tentativo di realizzare un assetto architettonico più convincente in accordo con le figure che lo occupano; lo spazio è complesso, con una stanza che si apre su un’altra stanza, rivelando un labirinto di spazi, anche se, come in Ghiberti, l’architettura, rinunciando a rappresentare il peso della materia, rimane sempre immaginifica Anche le figure sono diventate più voluminose, i panneggi sono semplificati, ma conservano sempre la loro eleganza cortese.

Riflessione che è presente anche nella sua Adorazione dei Magi, destinata all’altare maggiore della chiesa di Sant’Egidio: fu una delle commissioni più importanti per Lorenzo, sia perchè pubblica, pagata dalla Signoria, sia perchè destinata a onorare la solenne riconsacrazione della chiesa da parte di papa Martino V, evento di estrema risonanza cittadina. Come nella pala dell’Annunciazione, Lorenzo rompe la tradizionale partizione del trittico, creando una scena unitaria, costruita anche in questo caso, su una direttrice diagonale. Inoltre, anche in questo caso, la pittura diviene una rappresentazione organica della pluralità e complessità del mondo: Nel corteo sono presenti i più disparati tipi umani (dai tartari ai mori), abbigliati da vesti dai colori sgargianti e da cappelli dalle fogge originali ed esotiche. I due cavalieri con turbante in primo piano hanno i corpi sinuosamente allungati e piegati all’indietro, in modo da creare un gioco di linee ritmato, che crea un effetto di grande raffinatezza. All’estrema destra si trovano dei partecipanti ancora a cavallo, con un cammello e un levriero da caccia. Ma Lorenzo non si limita a guardare solo a Gentile da Fabriano: qui le figure ruotano in pose di estrema eleganza, rivestite di colori quasi fluorescenti mentre certi profili in ombra fanno già intuire la presenza di spunti masacceschi, forse filtrati da Masolino da Panicale. Insomma, perseguiva una sintesi tra tradizione e innovazione, che come abbiamo visto con l’architettura e la scultura, era l’ideale di Palla Strozzi.
Per cui, Lorenzo, a Palla Strozzi, pareva il più adatto a soddisfare le sue esigenze: ottenuta la commissione, imposta una pala di 176×185 cm, che per motivi di simmetria, riprende la stessa struttura dell’Adorazione dei Magi: non un trittico, ma una scena unitaria, scelta che il pittore, lo abbiamo visto, aveva adottato con entusiasmo. Anche il tema dal punto di vista teologico è complementare: se Gentile rappresentava la fine degli eventi legati alla Nascita, Lorenzo si concentra su quello che da il via alla Resurrezione, i cui eventi sono rappresentati nelle tre predelle. Però, nelle cuspidi, per onorare la memoria di Nofri Strozzi, padre di Palla, Lorenzo, invece dei soliti Profeti, decide, magari su richiesta del committente, di rappresentare le storie di Sant’Onofrio, Natività e Storie di san Nicola.
Dopo avere concluso le parti accessorie, nel 1424, cominciò a impostare la pala centrale: il problema è come testimonia Vasari, Lorenzo cadde improvvisamente malato, per una “postema crudele” (pustola infetta, una gangrena o forse un tumore), che lo costrinse a letto e lo portò alla morte. Così l’opera rimase sul groppone, incompiuta, a Palla Strozzi. L’alternativa più ovvia, tra l’altro, neppure era disponibile: Masolino in quel periodo stava girando come una trottola: era stato in Ungheria, al servizio di Pippo Spano, a Roma, dove aveva lavorato a San Clemente, in Lombardia, a Castiglione Olona.
Per cui giocoforza, Palla Strozzi dovette rassegnarsi ad affidare il compito all’allievo preferito di Lorenzo Monaco, tale Guido di Pietro, che noi conosciamo come Beato Angelico, che aveva il vantaggio di costare ancora meno del maestro. Dai documenti, sembrerebbe che Beato Angelico lavori alla pala per due anni, dal 1430 al 1432, creando un’opera, che in termini di stile, andava ben oltre il gusto del committente. Il pannello centrale, con la Deposizione vera e propria, è organizzato con uno schema piramidale al centro, che ha come vertici i due dolenti inginocchiati alla base e il gruppo delle scale e dei santi in alto, dietro cui si innesta la fascia orizzontale del paesaggio, che si dispiega lateralmente con una medesima linea dell’orizzonte e con una rappresentazione di città (sinistra) e di un paesaggio collinare (a destra). L’effetto è quindi di uno sviluppo verticale al centro (evidenziato anche dal braccio destro di Nicodemo che abbassa il corpo e dalla figura eretta di san Giovanni), al quale si contrappone, armonizzando, uno sviluppo orizzontale in profondità dei lati. Anche ai lati le fasce orizzontali dei personaggi sono accentuate in verticale dalla torre sullo sfondo o dagli alberi. Su questo schema ortogonale si imprime la figura per lo più diagonale di Cristo (le braccia, la testa reclinata, il corpo obliquo), che spicca con forza.
La scena del Cristo deposto dalla croce si svolge tutta in primo piano e vi si trova una delle caratteristiche più tipiche dell’Angelico: l’uso di colori limpidi, luminosi e brillanti, accordati in una delicata armonia tonale, che richiama il concetto dei san Tommaso d’Aquino della luce terrena quale riflesso del “lumen” ordinatore divino. La rappresentazione resta in bilico tra il tono di gravità che si addice alla scena sacra e la vivacità pittoresca nella ricreazione ambientale. Nonostante la salda volumetria delle figure, soprattutto quella del Cristo nudo modellato anatomicamente, manca una rappresentazione convincente del peso e dell’azione, con le figure sulle scale che sembrano lievitare nell’aria. Notevole è invece l’attenzione al dettaglio, come i segni delle frustate sul corpo di Gesù, o la dettagliata resa delle fisionomie dei personaggi.
I gruppi laterali sono divisi tra le pie donne di sinistra, che si preparano ad accogliere il corpo nel sudario e il gruppo di uomini di destra, tra i quali si riconoscono dei dotti, che discutono sui simboli della Passione. La cura con cui sono stati scelti i testi delle iscrizioni poste sotto ciascuno dei tre gruppi di figure, il ductus classico della grafia e la presenza dell’iscrizione in greco ed ebraico, oltre che in latino, sul cartiglio della Croce, sono tutti elementi che fanno emergere ancora una volta il legame del pittore con la cultura umanistica mediata in questo caso anche dal committente, non solo ricco banchiere, ma anche colto e appassionato bibliofilo.
Un’iscrizione in oro a mordente sull’orlo della veste di uno dei personaggi inerpicati sulla scala per deporre il Cristo, a destra, in elegante abito rosa, conferma l’identità del committente: MAGISTER PL, dove PL sta per Palla Strozzi, che, come in una sorta di Sacra Rappresentazione, svolge il ruolo di Nicodemo, come si evince dall’osservazione di un altro lembo di veste su cui compare la scritta NICHODM. Una sorta di battuta ironica da parte del pittore: da una parte Nicodemo, come Palla, era ricco sfondato, sul Golgota portò “circa cento libbre di mirra e di aloe” per la preparazione del corpo di Gesù, una gran quantità, circa 30 kg, che doveva costare uno sproposito, dall’altra come il banchiere non è che fosse proprio un coraggioso testimone del Cristianesimo…
Invece il giovane inginocchiato, vestito di rosso, in atteggiamento devozionale, qualcuno ipotizza che si tratti del Beato Alessio Strozzi, antenato della famiglia; altri identificato nel giovane riccioluto Lorenzo Strozzi, figlio di Palla; cavaliere bello e ambizioso, famoso per aver vinto nel gennaio del 1428 una Giostra e che nel 1432, anno in cui la tavola veniva terminata ed esposta sull’altare piccolo della Sacrestia di Santa Trinita, sposa Alessandra di Bardo dei Bardi, una donna affascinante, dotta e mondana, così in vista da essere perfino dedicataria di una biografia da parte di Vespasiano da Bisticci.
Il suolo è coperto da una fitta serie di pianticelle descritte nei minimi particolari, che alludono alla primavera, intesa sia come periodo storico in cui si svolse la scena, sia come simbolo di rinascita. Inoltre è un richiamo al naturalismo con cui Gentile aveva animato la sua Adorazione dei Magi…Una delle caratteristiche più rare e interessanti della pala è la presenza intatta dei pilastrini laterali e della loro decorazione con dodici figure di santi interi ed otto medaglioni con busti, disposti sia sul lato frontale che sui prospetti laterali. I santi a figura intera poggiano su basamenti dorati che hanno un’inclinazione diversa a seconda dell’altezza su cui si trovano: quelli in basso mostrano la faccia della base su cui poggiano, quelli in alto sono invece scorciati “da sott’in sù”.