La Deposizione Strozzi

Nella Cappella Strozzi, come accennato, vi erano due altari: se per adornare il primo, Palla Strozzi si avvalse di uno dei grandi nomi del gotico internazionale extra moenia, il buon Gentile da Fabriano, con la sua Adorazioni dei Magi, per il secondo, invece decise, anche per motivi di opportunità politica, di rivolgersi al panorama pittorico fiorenti.

Il problema era di trovare un artista il cui stile fosse aggiornato alle novità del gotico internazionale e che avesse abbastanza talento da non sfigurare nel confronto. Ora, il panorama fiorentino dell’epoca, non è che poi offrisse poi così tanta scelta: i nomi in gioco erano o Masolino o Lorenzo Monaco. Il problema è che il primo, da una parte, per gli obblighi di bottega, doveva portarsi dietro il socio Masaccio, il cui stile austero, per un banchiere amante del lusso e dell’eleganza, non è che fosse il massimo.

Lorenzo Monaco non aveva questo vincoli, essendo un benedettino le sue parcelle erano più basse di quelle di Masolino, ora Palla Strozzi non è che avesse problemi di soldi, ma comunque l’Adorazione di Gentile era sempre costata un occhio della testa e in più conosceva bene l’ambiente di Santa Trinita, paturnie dei frati comprese. Attorno al 1420, proprio mentre Gentile cominciava a mettere mano al suo capolavoro, Lorenzo decorava la cappella Bartolini Salimbeni in S. Trinita a Firenze, sua prima e unica opera murale, che mostra, anche dal punto di vista tecnico, una maniera non allineata ai canoni del “buon fresco” della tradizione fiorentina del tempo, come la frammentazione di figure intere su due o più giornate, oppure il ricorso di parti a secco. Molti hanno attribuito queste sue scelte a una sua inesperienza: ma dato che erano comuni nell’area lombarda e veneta, garantendo, rispetto alla tradizione fiorentina, sia una maggiore ricchezza cromatica, sia la possibilità di rendere sulla parete un numero maggiore di dettagli, è anche possibile che sia frutto di una specifica scelta stilistica.

Il programma, probabilmente il più complesso che egli avesse mai intrapreso, condotto con il contributo piuttosto estensivo di collaboratori, consisteva in otto scene, tratte da testi apocrifi, dalla Vita e leggenda della Vergine nelle pareti, Quattro profeti nella volta e Quattro santi sul soffitto dell’arco d’entrata, tutto ancora visibile in situ. Lo schema era completato dalla pala dell’Annunciazione, anch’essa nel suo luogo originario, con una predella composta di quattro scene, la Visitazione, la Natività, l’Adorazione dei magi e la Fuga in Egitto. Sull’asse della cappella, l’Assunzione della Vergine sulla parete esterna sopra l’entrata è allineata al Miracolo della neve nella lunetta della parete retrostante, che a sua volta è situata direttamente sopra l’Annunciazione della pala. L’intero complesso era indubbiamente organizzato per adattarsi alle esigenze devozionali mariane dei committenti.

Soprattutto nella pala dell’Annunciazione, Lorenzo Monaco mostra di avere studiato a fondo quello che Gentile stava combinando nelle predelle della sua Adorazione dei Magi. Da una parte rompe la tradizionale articolazione del trittico, come nella Pala Strozzi, dall’altra realizza una delle prime opere dove il soggetto rappresentato è messo in diretta relazione con la reale architettura circostante, dove lo spazio pittorico è unico e le figure sono concepite, per quanto riguarda dimensioni e colori, per armonizzarsi con gli affreschi, che ne rappresentavano in un certo senso gli scomparti laterali. Per di più, c’è una riflessione profonda formale su una delle opere più di “avanguardia” della Firenze dell’epoca: formella di Lorenzo Ghiberti nella porta nord del Battistero di Firenze. Di conseguenza, c’è il tentativo di realizzare un assetto architettonico più convincente in accordo con le figure che lo occupano; lo spazio è complesso, con una stanza che si apre su un’altra stanza, rivelando un labirinto di spazi, anche se, come in Ghiberti, l’architettura, rinunciando a rappresentare il peso della materia, rimane sempre immaginifica Anche le figure sono diventate più voluminose, i panneggi sono semplificati, ma conservano sempre la loro eleganza cortese.

Riflessione che è presente anche nella sua Adorazione dei Magi, destinata all’altare maggiore della chiesa di Sant’Egidio: fu una delle commissioni più importanti per Lorenzo, sia perchè pubblica, pagata dalla Signoria, sia perchè destinata a onorare la solenne riconsacrazione della chiesa da parte di papa Martino V, evento di estrema risonanza cittadina. Come nella pala dell’Annunciazione, Lorenzo rompe la tradizionale partizione del trittico, creando una scena unitaria, costruita anche in questo caso, su una direttrice diagonale. Inoltre, anche in questo caso, la pittura diviene una rappresentazione organica della pluralità e complessità del mondo: Nel corteo sono presenti i più disparati tipi umani (dai tartari ai mori), abbigliati da vesti dai colori sgargianti e da cappelli dalle fogge originali ed esotiche. I due cavalieri con turbante in primo piano hanno i corpi sinuosamente allungati e piegati all’indietro, in modo da creare un gioco di linee ritmato, che crea un effetto di grande raffinatezza. All’estrema destra si trovano dei partecipanti ancora a cavallo, con un cammello e un levriero da caccia. Ma Lorenzo non si limita a guardare solo a Gentile da Fabriano: qui le figure ruotano in pose di estrema eleganza, rivestite di colori quasi fluorescenti mentre certi profili in ombra fanno già intuire la presenza di spunti masacceschi, forse filtrati da Masolino da Panicale. Insomma, perseguiva una sintesi tra tradizione e innovazione, che come abbiamo visto con l’architettura e la scultura, era l’ideale di Palla Strozzi.

Per cui, Lorenzo, a Palla Strozzi, pareva il più adatto a soddisfare le sue esigenze: ottenuta la commissione, imposta una pala di 176×185 cm, che per motivi di simmetria, riprende la stessa struttura dell’Adorazione dei Magi: non un trittico, ma una scena unitaria, scelta che il pittore, lo abbiamo visto, aveva adottato con entusiasmo. Anche il tema dal punto di vista teologico è complementare: se Gentile rappresentava la fine degli eventi legati alla Nascita, Lorenzo si concentra su quello che da il via alla Resurrezione, i cui eventi sono rappresentati nelle tre predelle. Però, nelle cuspidi, per onorare la memoria di Nofri Strozzi, padre di Palla, Lorenzo, invece dei soliti Profeti, decide, magari su richiesta del committente, di rappresentare le storie di Sant’Onofrio, Natività e Storie di san Nicola.

Dopo avere concluso le parti accessorie, nel 1424, cominciò a impostare la pala centrale: il problema è come testimonia Vasari, Lorenzo cadde improvvisamente malato, per una “postema crudele” (pustola infetta, una gangrena o forse un tumore), che lo costrinse a letto e lo portò alla morte. Così l’opera rimase sul groppone, incompiuta, a Palla Strozzi. L’alternativa più ovvia, tra l’altro, neppure era disponibile: Masolino in quel periodo stava girando come una trottola: era stato in Ungheria, al servizio di Pippo Spano, a Roma, dove aveva lavorato a San Clemente, in Lombardia, a Castiglione Olona.

Per cui giocoforza, Palla Strozzi dovette rassegnarsi ad affidare il compito all’allievo preferito di Lorenzo Monaco, tale Guido di Pietro, che noi conosciamo come Beato Angelico, che aveva il vantaggio di costare ancora meno del maestro. Dai documenti, sembrerebbe che Beato Angelico lavori alla pala per due anni, dal 1430 al 1432, creando un’opera, che in termini di stile, andava ben oltre il gusto del committente. Il pannello centrale, con la Deposizione vera e propria, è organizzato con uno schema piramidale al centro, che ha come vertici i due dolenti inginocchiati alla base e il gruppo delle scale e dei santi in alto, dietro cui si innesta la fascia orizzontale del paesaggio, che si dispiega lateralmente con una medesima linea dell’orizzonte e con una rappresentazione di città (sinistra) e di un paesaggio collinare (a destra). L’effetto è quindi di uno sviluppo verticale al centro (evidenziato anche dal braccio destro di Nicodemo che abbassa il corpo e dalla figura eretta di san Giovanni), al quale si contrappone, armonizzando, uno sviluppo orizzontale in profondità dei lati. Anche ai lati le fasce orizzontali dei personaggi sono accentuate in verticale dalla torre sullo sfondo o dagli alberi. Su questo schema ortogonale si imprime la figura per lo più diagonale di Cristo (le braccia, la testa reclinata, il corpo obliquo), che spicca con forza.

La scena del Cristo deposto dalla croce si svolge tutta in primo piano e vi si trova una delle caratteristiche più tipiche dell’Angelico: l’uso di colori limpidi, luminosi e brillanti, accordati in una delicata armonia tonale, che richiama il concetto dei san Tommaso d’Aquino della luce terrena quale riflesso del “lumen” ordinatore divino. La rappresentazione resta in bilico tra il tono di gravità che si addice alla scena sacra e la vivacità pittoresca nella ricreazione ambientale. Nonostante la salda volumetria delle figure, soprattutto quella del Cristo nudo modellato anatomicamente, manca una rappresentazione convincente del peso e dell’azione, con le figure sulle scale che sembrano lievitare nell’aria. Notevole è invece l’attenzione al dettaglio, come i segni delle frustate sul corpo di Gesù, o la dettagliata resa delle fisionomie dei personaggi.

I gruppi laterali sono divisi tra le pie donne di sinistra, che si preparano ad accogliere il corpo nel sudario e il gruppo di uomini di destra, tra i quali si riconoscono dei dotti, che discutono sui simboli della Passione. La cura con cui sono stati scelti i testi delle iscrizioni poste sotto ciascuno dei tre gruppi di figure, il ductus classico della grafia e la presenza dell’iscrizione in greco ed ebraico, oltre che in latino, sul cartiglio della Croce, sono tutti elementi che fanno emergere ancora una volta il legame del pittore con la cultura umanistica mediata in questo caso anche dal committente, non solo ricco banchiere, ma anche colto e appassionato bibliofilo.

Un’iscrizione in oro a mordente sull’orlo della veste di uno dei personaggi inerpicati sulla scala per deporre il Cristo, a destra, in elegante abito rosa, conferma l’identità del committente: MAGISTER PL, dove PL sta per Palla Strozzi, che, come in una sorta di Sacra Rappresentazione, svolge il ruolo di Nicodemo, come si evince dall’osservazione di un altro lembo di veste su cui compare la scritta NICHODM. Una sorta di battuta ironica da parte del pittore: da una parte Nicodemo, come Palla, era ricco sfondato, sul Golgota portò “circa cento libbre di mirra e di aloe” per la preparazione del corpo di Gesù, una gran quantità, circa 30 kg, che doveva costare uno sproposito, dall’altra come il banchiere non è che fosse proprio un coraggioso testimone del Cristianesimo…

Invece il giovane inginocchiato, vestito di rosso, in atteggiamento devozionale, qualcuno ipotizza che si tratti del Beato Alessio Strozzi, antenato della famiglia; altri identificato nel giovane riccioluto Lorenzo Strozzi, figlio di Palla; cavaliere bello e ambizioso, famoso per aver vinto nel gennaio del 1428 una Giostra e che nel 1432, anno in cui la tavola veniva terminata ed esposta sull’altare piccolo della Sacrestia di Santa Trinita, sposa Alessandra di Bardo dei Bardi, una donna affascinante, dotta e mondana, così in vista da essere perfino dedicataria di una biografia da parte di Vespasiano da Bisticci.

Il suolo è coperto da una fitta serie di pianticelle descritte nei minimi particolari, che alludono alla primavera, intesa sia come periodo storico in cui si svolse la scena, sia come simbolo di rinascita. Inoltre è un richiamo al naturalismo con cui Gentile aveva animato la sua Adorazione dei Magi…Una delle caratteristiche più rare e interessanti della pala è la presenza intatta dei pilastrini laterali e della loro decorazione con dodici figure di santi interi ed otto medaglioni con busti, disposti sia sul lato frontale che sui prospetti laterali. I santi a figura intera poggiano su basamenti dorati che hanno un’inclinazione diversa a seconda dell’altezza su cui si trovano: quelli in basso mostrano la faccia della base su cui poggiano, quelli in alto sono invece scorciati “da sott’in sù”.

Catacombe di Santa Ciriaca

La basilica di San Lorenzo fuori le mura, come accennato, è sorta inizialmente come basilica cimiteriale, per onorare il martire, sepolto nelle catacombe di Santa Ciriaca, una delle poche catacombe romane di cui non si persero le tracce, ma che fu sempre visitata dai pellegrini ed anche dai corpisantari, i cacciatori di reliquie.

Il nucleo originario si sviluppò nel III secolo, ma in un’epoca non precisabile, alcune profonde trasformazioni coinvolsero una serie di ambienti per ampliare e monumentalizzare lo spazio attorno ad una sepoltura di piccole dimensioni. Su di essa, tra gli inizi e la metà del IV secolo venne realizzato un pozzo in muratura che permetteva di vedere dall’alto la speciale tomba. Molto vicino a questo ambiente doveva trovarsi la sepoltura di Lorenzo, dove l’imperatore Costantino fece costruire un’abside rivestita di porfido, racchiudendo poi la tomba dietro ad una grata in argento. Costantino fece inoltre costruire nel sopratterra una grande basilica detta circiforme (a forma di circo) che era legata alla tomba del martire attraverso una scala e che servì da cimitero a cielo aperto. Tre papi del V secolo decisero di farsi seppellire nei pressi della cripta del martire: Zosimo, Sisto III e Ilaro; di queste tre tombe non sono state trovate tracce. In particolare, Ilaro fece costruire diverse strutture, tra cui un monastero, delle terme per i pellegrini, una biblioteca ed una residenza vescovile.

Sul cimitero ipogeo, preziose sono le informazioni e le descrizioni fatte da Antonio Bosio nel 1593 e trascritte nella sua ‘Roma sotterranea’, soprattutto perché ci ha lasciato un resoconto descrittivo dettagliato di zone della catacomba oggi andate distrutte o non più rintracciabili. Altre scoperte furono fatte nel XVIII secolo da Marcantonio Boldetti e Giovanni Marangoni. I primi studi risalgono all’Ottocento con Giovanni Battista de Rossi, il quale si dedicò soprattutto all’analisi della memoria o cripta di san Lorenzo, anche perchè la catacomba ha subito enormi danni sia a causa della costruzione del Cimitero del Verano, ad esempio, quando venne realizzato il Pincietto, furono distrutte numerose gallerie cimiteriali, sia durante il bombardamento americano della Seconda Guerra Mondiale. Nel 1947 – 1949, gli scavi condotti da Richard Krautheimer hanno permesso l’identificazione di un altro santuario martiriale ipogeo, dedicato ai santi Abbondio ed Erennio, ancora in uso in epoca medievale.

La catacomba aveva un’area funeraria sopra terra ed una vasta rete sotterranea che si sviluppa su cinque livelli, accessibile da tre diversi ingressi ubicati nell’attuale Basilica di San Lorenzo fuori le Mura. La costruzione del moderno Cimitero del Verano ha quasi completamente cancellato le tracce dell’area subdiale e ha sepolto intere regioni del sotterraneo; cosicché attualmente rimangono solo tre parti, accessibili da altrettanti ingressi distinti

Tra le poche pitture ritrovate sono notevoli due arcosoli ornati di scene religiose: in uno, accanto a scene bibliche, si vede la rappresentazione di Gesù Cristo tra due apostoli, e la scena del giudizio del defunto Zosimiano; nell’altro sono rappresentate le immagini del miracolo della manna nel deserto, l’annuncio della negazione di S. Pietro, l’introduzione di una defunta nel cielo, la figurazione di un Mago colla stella e la parabola delle vergini prudenti e stolte. Iscrizioni provenienti dal cimitero sono conservate nel chiostro del convento dei Cappuccini presso la basilica.

Paleolitico in Georgia

Pochi lo sanno, ma tra i più antichi ritrovamenti del genere homo in Europa sono stati ritrovati nel Caucaso, in Georgia, a Dimanisi. Questa città ècitata la prima volta nel IX secolo come possedimento dell’emirato arabo di Tbilisi, anche se l’area fu abitata fin dall’inizio dell’età del bronzo. Una cattedrale ortodossa, la cattedrale di Dmanisi Sioni, vi fu costruita nel VI secolo. Posta sulla confluenza di rotte commerciali e di influenze culturali, Dmanisi fu di particolare importanza, diventando un importante centro di commercio dell Georgia medievale. La città fu conquistata dai turchi Selgiuchidi attorno al 1080, ma fu in seguito liberata dai re georgiani Davide il Costruttore e Demetrio I tra il 1123 ed il 1125. Gli eserciti turco-mongoli guidati da Tamerlano devastarono la città nel XIV secolo. Nuovi saccheggi furono messi in atto dai Turcomanni nel 1486. Dmanisi non riuscì più a riprendersi, ed iniziò il suo declino che la portò ad essere un villaggio scarsamente abitato nel XVIII secolo.

I primi scavi archeologici, orientati però all’esplorazione degli strati medievali e antichi, cominciarono nel 1936: Durante tutte le campagne, furono trovati resti che sembravano ricondursi alla preistoria, ma per un motivo o per un altro, non furono mai approfonditi dagli studiosi sovietici. Le cose cambiano dopo l’indipendenza, quando nacque, anche per motivi politici, la necessità di ricostruire l’identità nazionale della Georgia. Così, nel 1983, paleontologo georgiano Vekua, cominciò a riesaminare e ricatalogare i reperti conservati in magazzino: così saltò fuori che questi fossero i denti del rinoceronte estinto Dicerorhinus etruscus etruscus. Questa specie risale presumibilmente all’inizio del Pleistocene. Ciò convinse gli studiosi locali a intraprendere una campagna di scavi, che l’anno successivo portò alla scoperta di utensili primitivi, che aumentò notevolmente l’interesse prodotto dal sito archeologico. Nel 1991 una squadra di studiosi georgiani si unì agli archeologi tedeschi del Römisch-Germanisches Zentralmuseum, ed in seguito ai ricercatori statunitensi, francesi e spagnoli.

Così dal 1999 in poi, furono ritrovati resti di antichi ominidi, tra cui crani e frammenti di mandibole e nel 2001 uno scheletro quasi completo. Ora ci sono due diverse modalità di interpretazione dei reperti: quella georgiana, che ovviamente, considera per orgoglio nazionale i resti come quelli degli ominidi più antichi in assoluto ritrovati in Europa e che li identifica come un sottospecie a parte, l’homo georgicus. Poi, c’è il resto del mondo, che li considera come una specifica sottospecie dell’Homo Ergaster, che visse in Europa tra il 1.500.000 e un 1.000.000 di anni fa.

Ad esempio, il 20 ottobre 2006 i paleontologi delle Università di Roma, Firenze, Ferrara e Torino, coordinati dal prof. Pavia, dell’Università di Torino, hanno ufficializzato la notizia del ritrovamento nelle cave di Apricena dell’uomo più antico d’Europa. Si tratta dell’Homo ergaster e la sua presenza nella cava Apricenese è databile ad un milione e mezzo di anni fa (Paleolitico Inferiore), più antico di quello rinvenuto ad Isernia (un milione di anni fa) e di quello trovato in Spagna (un milione e duecentomila anni fa).

Peculiarità della sottospecie dell’Homo Ergaster georgiano sono le dimensioni medie più piccole rispetto alle altre sottospecie e il maggior dimorfismo sessuale, con i maschi considerevolmente più grandi delle femmine. Però questi reperti hanno un’importanza considerevole, perchè permettono di risolvere un dubbio che gli studiosi avevano da decenni.L’H. ergaster, assieme alle altre due varianti Homo erectus e Homo heidelbergensis, fu il primo ominide in grado di articolare il linguaggio. Inizialmente si riteneva che questa capacità fosse limitata ad un’articolazione molto primitiva dei suoni, a causa del restringimento delle vertebre cervicali che appariva dai fossili del Turkana boy. Uno studio più accurato di queste specifiche vertebre nel reperto KNM-WT 15000 rivelò però che l’individuo aveva sofferto dell’arresto nello sviluppo delle vertebre cervicali, che aveva pertanto ridotto la sua capacità respiratoria e di conseguenza anche la capacità di articolare i suoni.
Il recente ritrovamento di una vertebra di Homo ergaster e a Dmanisi in Georgia, confrontata con quella del Turkana boy, ha dimostrato che le dimensioni delle vertebre sono paragonabili a quelle dell’uomo moderno, senza quindi restrizioni alla possibilità di articolazione dei suon

Più tardi sono stati scoperti i siti acheuleani del paleolitico inferiore negli altopiani della Georgia, particolarmente nelle caverne di Kudaro (1600 m sopra il livello del mare), e a Tsona (2100 m). I siti acheuleani all’aperto e i luoghi dei ritrovamenti si trovano anche in altre regioni della Georgia, per esempio nell’Altopiano di Javakheti dove furono trovati amigdale acheuleane a 2400 m sopra il livello del mare. Il primo insediamento ininterrotto su territorio georgiano risale al periodo del Paleolitico medio, più di 200.000 anni fa. I siti di questo periodo sono stati trovati a Shida Kartli, Imeretia, Abcasia e in altre aree. Conservati dai monti del Caucaso, e beneficiando degli effetti migliorativi del Mar Nero, la regione sembra essere servita da refugium biogeografico per tutto il pleistocene. Queste caratteristiche geografiche evitavano al Caucaso meridionale le severe oscillazioni climatiche permettendo alla razza umana di prosperare in molte parti della regione per millenni.

Resti del paleolitico superiore sono stati investigati a Devis Khvreli, Sakazhia, Sagvarjile, Dzudzuana, Gvarjilas Klde e altre grotte, delle quali in una a Dzudzuana sono state scoperte le più antiche fibre di lino colorate risalenti a 36.000 anni BP.A quel tempo, l’area orientale del Caucaso meridionale sembra essere stata scarsamente popolata, contrariamente alle valli del fiume Rioni e Kvirila nella Georgia occidentale. Il paleolitico terminò circa 10.000-12.000 anni, cedendo il passo alla cultura mesolitica, quando l’ambiente geografico e i paesaggi del Caucaso vennero infine a formarsi così come li appaiono oggi.

La Guerra di Corinto (Parte II)

Tebe, accettato l’oro persiano, invece di affrontare direttamente in battaglia l’esercito spartano, contando nel malumore degli alleati della Lega Peloponnesiaca e sulle limitate risorse economiche e umane dei Lacedemoni, decise di applicare una strategia temporeggiatrice e di guerra indiretta… Una strategia di logoramento, non potendo Sparta mantenere a lungo più eserciti su fronti distanti da loro, l’avrebbe costretta a ritirarsi dall’Anatolia. Così i tebani avrebbero ottenuto il risultato, senza perdere unoplita

A riprova di questo, Senofonte racconta che Beoti scelsero di far scoppiare la guerra incoraggiando i Locresi, loro alleati, a riscuotere le tasse dal territorio della Locride conteso con i Focesi. Il problema è che fecero i conti senza l’oste, non tenendo conto del rischio di possibile escalation. I Focesi, invece di abbozzare o lamentarsi con Sparta invasero la Locride saccheggiandone il territorio; di conseguenza i Tebani attaccarono la Focide, che si appellò all’alleata, Sparta, la quale attendendo il pretesto per combattere contro la riottosa Tebe ordinò la mobilitazione generale

Non volendo affrontare una guerra a cui non erano preparati, un’ambasciata tebana fu inviata ad Atene per chiedere aiuto; gli Ateniesi, desiderosi di rivincita contro Sparta, votarono per assistere Tebe e venne stretta una alleanza perpetua tra Atene e la Lega beotica. L’intervento spartano promosse un’offensiva in Beozia. Vennero organizzati due eserciti, uno comandato da Pausania, composto da truppe spartane e peloponnesiache, e l’altro da Lisandro, composto dai Focesi e dagli altri alleati del nord-ovest della Grecia; le due armate si sarebbero ricongiunte nei pressi di Aliarto per effettuare un attacco coordinato

Aliarto era posta sulla sponda meridionale del Copaide, un lago prosciugato nel XIX secolo, di fronte alla città di Orcomeno, quest’ultima sulla sponda settentrionale del lago. Queste località sono state popolata in epoche molto antica, dall’età del rame e le sue più antiche mura risalivano all’epoca micenea. Il mito ne attribuiva la fondazione all’eroe eponimo Aliarto, il quale venne adottato da Atamante, suo zio e re di Orcomeno, dal quale ebbe in eredità il regno. Si ipotizza, in base al mito e ai segni della presenza micenea, un antico ordinamento monarchico.

Dal punto di vista archeologico, l’acropoli dell’Aliarto micenea sorgeva su un’area più ristretta, di circa 250×150 m, nel punto più alto della collina; il suo bastione è conservato abbastanza bene a sud e a ovest. Sul lato occidentale della collina è visibile un secondo tipo di muro, costituito da grandi blocchi quadrangolari disposti orizzontalmente, è databile al VII secolo a.C. Sul pendio meridionale e nell’angolo di sud-est vi sono i resti di due torri, risalenti alla fine del VI o all’inizio del V secolo a.C. Un quarto tipo di muro, del quale rimangono solamente le fondamenta, fu costruito in mattoni attorno al IV secolo a.C. e fu distrutto dai romani nel 171 a.C. Sulla sua superficie possono essere osservate tracce di un quinto muro, romano o bizantino costruito con piccole pietre.

Scavi sulla sommità dell’acropoli eseguiti nel periodo 1926-30 hanno portato alla luce un tempio di Atena circondato da un peribolos, un grande edificio, e un corridoio che collegava peribolos ed edificio; il tempio, costruito nel VI secolo a.C. fu distrutto verosimilmente nel 171 a.C. A sud-est dell’acropoli, una piccola necropoli fornisce evidenza che il luogo è stato occupato durante l’età romana.

Lisandro, arrivando prima di Pausania, riuscì a persuadere la città di Orcomeno a ribellarsi alla confederazione beota, e avanzò verso Aliarto con le sue truppe e una divisione di Orcomeno. A questo punto inviò un messaggero a Pausania, invitandolo a raggiungerlo presso Aliarto e assicurandogli che, all’alba, sarebbe che, all’alba, sarebbe stato presso le mura della città; il messaggio, però, fu intercettato dai Tebani, che chiesero ed ottennero rinforzi dagli alleati.

Pausania, tuttavia, impiegò più tempo del previsto per arrivare al punto stabilito; quindi Lisandro arrivò ad Aliarto con le sue truppe, mentre Pausania era ancora a diversi giorni di distanza. Secondo Plutarco, Lisandro, figlio di Aristocrito, faceva parte della stirpe degli Eraclidi, anche se non era direttamente imparentato con le case reali. Invece la tradizione di Filarco ed Eliano riporta che appartenesse alla condizione sociale inferiore di motace, ossia di quei casi abbastanza bizzarri, di nati da un padre spartiate e una madre ilota: a differenza degli Iloti veri e propri, godevano di alcuni privilegi, come la possibilità di ricevere la stessa educazione dei cittadini di pieno diritto e il poter essere ammessi occasionalmente ai sissizi, ma erano privi dei diritti politici. Potevano diventare cittadini con pieni diritti solo in casi eccezionali per i propri meriti in guerra o nella gestione dello stato

Però le fonti che accennano a tale origine, riflettono una propaganda ostile a Lisandro e discordano dal resto delle testimonianze che spesso specificano che a rivestire l’importante carica di navarco, ossia ammiraglio, o polemarco, fosse uno spartiata, per cui possiamo ritenerla una sorta di fake news. Tra l’altro, nella struttura dell’esercito spartano il polemarco era il comandante di una mora di 512 uomini (in seguito 36), una delle suddivisioni dell’esercito.n alcune occasioni, tuttavia, erano autorizzati a portare le armi. I sei polemarchi spartani avevano probabilmente poteri uguali ai re nelle spedizioni all’esterno della Laconia ed erano generalmente discendenti della casa reale, sempre a riprova della fake news. Erano membri del consiglio reale dell’esercito e della scorta reale. Erano supportati o rappresentati da ufficiali. I polemarchi erano anche responsabili dei viveri pubblici, da quando, secondo le leggi di Licurgo, i Lacedemoni mangiavano e combattevano insieme. Oltre alle loro responsabilità militari e altre relative, i polemarchi erano anche responsabili di alcuni incarichi civili e giuridici.

Però, indipendentemente dalle sue origini, Lisandro aveva un motivi ben preciso per ottenere la massima gloria in battaglia: dopo le vicende della rivolta di Ciro il Giovane, il generale spartano aveva cominciato a crearsi una base di potere nella Ionia, cosa che aveva portato ai sospetto del re spartano Agesilao, che ne approfittato per destituirlo. Plutarco narra che Lisandro tentò di chiarire la sua posizione con il re affermando: “Tu sai bene come sminuire i tuoi amici, Agesilao”. Secondo Plutarco, il re gli rispose: “Sì, se vogliono essere più grandi di me; chi invece accresce il mio potere, è giusto che ne partecipi”

Sia per desiderio di vendetta nei confronti di Agesilao, sia perchè si era reso conto dell’inadeguatezza del sistema spartano a governare un territorio più ampio dalla sua Chora, Lisandro si accinse ad attuare profondi cambiamenti all’ordinamento costituzionale spartano, affinché il potere non fosse patrimonio esclusivo delle case reali degli Euripontidi e degli Agiadi, ma fosse condiviso da tutti gli Spartani o, almeno, dai discendenti di Eracle, i quali avrebbero eletto ogni magistratura, inclusa quella regia. In un primo momento Lisandro decise di agire di persona, convincendo gli Spartani ad approvare il suo progetto costituzionale con un’orazione scritta per lui da Cleone di Alicarnasso, ma in seguito preferì attendere il momento propizio, per preparare il quale tentò di corrompere la Pizia, l’oracolo di Dodona e quello di Ammone affinché rilasciassero oracoli a lui favorevoli; un successo militare poteva, dal punto di vista propagandistico, rafforzare ulteriormente la sua proposta di riforma.

Per cui, per prima cosa, cerco di istigare la rivolta del partito filo lacedemone di Aliarto, in modo che aprisse le porte delle mura al contingente spartano.Fallito il tentativo di prendere la città provocando una ribellione, decise di lanciare un assalto alle mura. Per individuare il loro punto debole, Lisandro andò personalmente in perlustrazione.Però i difensori, a sua, era stata raggiunti dai rinforzi beoti. Così, quando il generale spartanoo giunse alle porte i Tebani fecero una sortita, cogliendolo di sorpresa, e lo uccisero con i suoi pochi compagni, mentre gli altri battevano in ritirata presso il campo base.

I Tebani, tuttavia, inseguirono i soldati allo sbando troppo a lungo e, quando arrivarono ad un territorio accidentato e ripido, i soldati in fuga si voltarono e costrinsero i Tebani a ritirarsi, infliggendo loro pesanti perdite. Questa ritirata scoraggiò momentaneamente i Tebani, ma il giorno seguente i resti dell’esercito di Lisandro si sciolsero ed ogni contingente ritornò al proprio paese d’origine. Alcuni giorni dopo la battaglia Pausania raggiunse Aliarto con il suo esercito. Volendo recuperare i corpi di Lisandro e degli altri uccisi in battaglia, chiese una tregua, che i Tebani accettarono di concedere solo a condizione che i nemici se ne andassero dalla Beozia. Pausania accettò questa condizione e, raccolti i corpi dei morti, tornò a Sparta.Al suo ritorno la fazione che parteggiava per Lisandro lo fece processare per essere arrivato in ritardo e per non essere stato in grado di attaccare al suo arrivo; Pausania, capendo che sarebbe stato condannato e giustiziato, se ne andò in esilio.L’esilio di Pausania, insieme alla morte di Lisandro, tolse dalla scena greca due dei tre principali generali e politici spartani, lasciando solo Agesilao, che dettò la politica spartana per gli anni a venire.

Alla fine del 395 a.C., Corinto e Argo entrarono in guerra come alleati di Atene e Tebe nonostante la prima fosse sempre stata storica alleata di Sparta. Un Consiglio fu istituito a Corinto per gestire gli interessi di questa coalizione; gli alleati poi inviarono ambasciatori a un certo numero di Stati più piccoli e ricevettero il sostegno di molti di loro.Allarmati da queste vicende, gli Spartani si prepararono a inviare un esercito contro di loro, e mandarono un messaggero ad Agesilao, ordinandogli di tornare in Grecia. Cosa che indispettì il comandante che invece si attendeva ulteriori incarichi in Asia Minore. Al momento di abbandonare l’Asia, Agesilao disse che veniva cacciato da diecimila arcieri del Re, poiché le monete persiane avevano su di sé l’immagine di un arciere e tanto era il denaro versato dal Re ai Greci, perché facessero guerra a Sparta.Così tornò indietro con le sue truppe, attraversò l’Ellesponto e marciò attraverso la Tracia occidentale.

Gli ultimi ritratti di Giorgione

Il successo di Giorgione dopo la commissione del Fondaco dei Tedeschi, è testimoniato da due dati: il primo il boom di ritratti che sappiamo dalle fonti essergli stati commissionati, il secondo il fatto che, con meritata vanità, sia sia rappresentato in un autoritratto, a riprova del suo ruolo sociale. Ora, di ritratti attributi a Giorgione risalenti al periodo tra il 1508 e il 1510 ce ne sono a iosa: molti di questi non sono stati oggetto di radiografia, che per la peculiare tecnica del pittore, sarebbe risolutiva nel risolvere i dubbi, per cui bisogna andare a naso e a sensazione personale, con il rischio oggettivo di prendere granchi.

Ad esempio, Gentiluomo con un libro, anche se non ci metterei la mano sul fuoco che sia stato dipinto da Giovanni Cariani, molti dubbi sul fatto che sia di Giorgione li ho. Invece, sono molto più possibilista sul ritratto Terris, dal nome del collezionista che lo possedette, un olio su tavola di 30 x 26 cm. custodito nella Fine Arts Gallery a San Diego (California). A riprova di questo, c’è l’antica scritta sul retro

“15 .. di man de m.” Zorzi da Castelf…”

la cui grafia sembrerebbe simile a quella di chi, sul disegno di Sidney tenne memoria della data di morte del pittore. Le perplessità stilistiche, anche motivate, non tengono del fatto che il quadro ci appaia molto diverso da come era in origine, a causa degli effetti dell’ossidazione dei colori: la veste era originariamente viola ed erano più forti i toni rossi. Il ritratto che oggi ci pare severo e costruito sui toni scuri, invece doveva colpire l’osservatore per la sua luminosità e per il contrasto cromatico.

Facendo riferimento alla tradizione locale, l’uomo è ritratto di tre quarti girato a sinistra, su sfondo neutro verde scuro e con un taglio molto visivo della figura. Il volto guarda intensamente lo spettatore ed è incorniciato da un caschetto di capelli crespi, neri e in parte grigi, resi in maniera magnifica da Giorgione…

L’Autoritratto come David, un olio su tavola (52 × 43 cm) è citata in un inventario di Casa Grimani del 1528 e qui lo vide sicuramente Vasari che vi si ispirò per trarne il ritratto dell’artista per le incisioni della seconda edizione delle Vite (1568), in cui viene descritto

“una fatta per David (e per quel che si dice è il suo autoritratto) con una zazzera, come si costumava in quei tempi, infino alle spalle, vivace e colorita che par di carne; ha un braccio e il petto armato col quale tiene la testa mozza di Golia”.

Nel momento in cui si predispose la tavola per le Vite vasariane, l’Autoritratto come David fu necessariamente privato dell’incongrua presenza del capo di Golia, ma non solo: si sostituirono le vesti militari (un corsaletto a proteggere il petto) con alcune di più consone a un pittore (una camiciola scollata e una giubba aperta). Così fu riabbigliato per il pubblico degli appassionati d’arte dai “sarti” Vasari e Coriolano. Da documentazioni certe si sa che l’opera, nel 1648, era ad Anversa ed apparteneva a Jacopo e Giovanni van Verle. Nel 1737 passò nella collezione del duca di Braunschweig, dove risulta catalogata – nel 1776 – come autoritratto di Raffaello Sanzio.

Tra l’altro, questo quadro ha avuto anche una vita alquanto complessa: un esame radiografico eseguito nella seconda metà del Novecento mise in evidenza, sotto l’attuale raffigurazione, chiare tracce di una Madonna col Bambino con caratteristiche prettamente giorgionesche. Probabilmente il committente mollò una fregatura al pittore, non pagandolo il dovuto e Giorgione decise di riciclare il supporto. In un periodo compreso tra il 1630, in cui è databile un’acquaforte che riproduce l’opera completa e il 1700, qualcuno mutilò l’opera, tagliando la testa mozza di Golia.

Il pittore affiora dall’oscurità col busto di profilo rivolto a destra e la testa girata verso lo spettatore, a cui rivolge uno sguardo diretto. I capelli sono scuri e lunghi, resi vaporosi dall’ondulatura, gli occhi grandi, il naso dritto, le labbra carnose, il mento appuntito, l’espressione leggermente corrucciata e imbronciata, adatta alla figura di David. Indossa un’armatura, che genera un bagliore riflesso sulla spalla, coerente con gli studi sul “lustro” fatti dell’artista. La scelta del pastore che divenne Re è proprio l’affermazione del suo orgoglio di uomo che si è fatto da sè, diventando uno dei protagonisti del Bel Mondo diVenezia.

Collegato a questo quadro, ovviamente, vi è l’olio su carta di Budapest, su cui si stanno scannando da decenni gli studiosi sul fatto che si tratti di uno studio prepararatorio, oppure di una copia fatta da un allievo, che normalizzò l’opera, dando a Giorgione i vestiti del ricco borghese che era diventato. Dato che sono in vena di pettegolezzi, termino citano l’Autoritratto Rezzonigo, che proprio autoritratto non è. Fu uno scherzo che fecero i due bontemponi il principe Abbondio Rezzonico, nipote di papa Clemente XII, e Canova….

Canova si fece fare da un artigiano romano una tavola e una cornice che imitava quelle veneziane del primo Cinquecento, dipinse in fretta e furia un quadro che a grandi linee ricordava quelli giorgioneschi e il principe tirò fuori il dipinto, lo presentò come un autoritratto del Giorgione fino ad allora inedito e lo sottopose agli astanti: il dipinto convinse tutti gli espertoni dell’epoca che lo trovarono sublime e autentico.

L’Adorazione dei Magi di Gentile da Fabriano

Lo stesso approccio che è nell’architettura e nella scultura presente nella Sacrestia di Santa Trinita si riflette anche nei capolavori pittorici che vi erano custoditi: il primo è l’Adorazioni dei Re Magi di Gentile da Fabriano. Il grande pittore gotico il 6 agosto 1420 è documentato a Firenze, dove si iscrisse all’Arte dei Medici e Speziali (21 novembre 1422) come

“Magister Gentilis Nicolai Joannis Massi de Fabriano pictor, habitator Florentiae in populo Sancte Trinitatis”

ospite, con i suoi collaboratori, Arcangelo di Cola da Camerino, Giovanni da Imola e Michele d’Ungheria, nella dimora di Palla Strozzi. Tra l’altro, ognuno di loro, in quel periodo, ottenne numerose e ben pagate commissione, a riprova, che nonostante i proclami dei libri di Storia dell’Arte, il gotico internazionale era ben gradito al fiorentino medio dell’epoca.

Ovviamente, Gentile e associati stavano lavorando all’Adorazione dei Re Magi, che, per le dimensioni monumentali, 300×282 cm, era una commissione senza dubbio impegnativa: i lavori infatti durarono tre anni e furono pagati ben 150 fiorini d’oro.Sull’altare della cappella, il dipinto rimase anche dopo il rifacimento dell’ambiente, trasformato in sagrestia della chiesa nel 1698. Nel 1806, in seguito alle soppressioni napoleoniche, la tavola fu rimossa dalla sua collocazione originaria e trasferita in un deposito, passando poi nel 1810 all’Accademia di Belle Arti.

Nel 1812, il polittico venne privato dallo scomparto destro della predella con la Presentazione di Gesù al Tempio, che fu trasferito a Parigi ed esposto al Museo del Louvre. Alla fine del XIX secolo ne venne realizzata una copia da Gaspare Diomede della Bruna (1839 – 1915), in sostituzione dell’originale. Infine, nel 1919, l’Adorazione dei Magi giunse alla Galleria degli Uffizi, dove è attualmente esposta.

Un’opera, quella di Gentile, che come tutto quanto nella Firenze dell’epoca, oltre a una lettura religiosa, anche una politica:a Firenze, già a partire dalla fine del Trecento, si celebrava, con cadenza all’incirca triennale, la festa dei Magi: il giorno dell’Epifania un festoso corteo correva per le vie cittadine, a memoria del viaggio compiuto dai tre re. Dal 1417 la celebrazione solenne venne posta sotto il controllo della Signoria, che decise di istituire a tale scopo la “Compagnia dei Magi”, detta anche “della Stella”. Ad essa, che aveva sede presso il Convento di San Marco, appartenevano personalità di spicco della vita cittadina, come Poliziano, Landino, Acciaiuoli e molti altri umanisti. Furono però Cosimo il Vecchio, Piero il Gottoso e Lorenzo il Magnifico a dare nuovo impulso alla cerimonia e a sfruttarla scenograficamente come occasione per sottolineare il potere politico ed economico della famiglia e le ambizioni principesche della dinastia medicea. Il celebrare, con un’opera così ricca, costosa e moderna, i re Magi era anche un contestare il ruolo che i Medici stavano acquisendo nella città.

Moderna, perchè la pittura di Gentile, anche se in maniera alternativa, era altrettanto di rottura rispetto alla tradizione locale di quella di Masaccio. Per prima cosa, pur richiamando la struttura del polittico, la superava poiché la scena principale occupa tutto il registro centrale, senza scomparti, come invece troviamo nella predella, creando uno spazio tanto unitario quanto immaginifico, dove l’unità non è basata sulla geometria, ma sull’analogia. Il corteo dei Magi si dispiega su tutta la parte centrale del dipinto, sfruttando la forma tripartita nella parte alta per dare origine a più nuclei d’azione, arricchiti da molti dettagli realistici e di costume, che creano un effetto vibrante dove l’occhio dello spettatore si sposta da un particolare all’altro.

L’Adorazione dei Magi è un’opera che puntava consapevolmente a stupire, affascinare e perfino lusingare la ricca borghesia fiorentina. Questo perchè è un’opera colta, persino erudita; Gentile dimostra di conoscere bene la storia evangelica, di conoscere gli usi, i costumi, le fisionomie dei popoli orientali, di conoscere, ancora, i cerimoniali di corte. In tal modo, egli intendeva dimostrare ai fiorentini che il Gotico internazionale non era soltanto una forma d’arte elegante e aristocratica ma, come ha scritto Giulio Carlo Argan, delineava «una poetica aperta, capace di spiegare nell’infinita varietà dei suoi aspetti lo spettacolo del mondo».

Facendo questo, Gentile, si ricollegava, paradossalmente ai circoli più colti dell’Umanesimo dell’epoca, che erano affascinati al modello letterario offerto dalle ekphrasis bizantine, le descrizioni/interpretazioni di opere d’arte circolanti a Firenze almeno dal 1415. Questo non era un guardare al Passato, al Medioevo, perchè i dotti bizantini, come Emanuele Crisalora, erano il tramite, insegnano il greco e portando con loro codici antichi, per la riscoperta dell’Antico.

Fascino che nasce anche dalla ricchezza:l ‘abbondanza degli ori e argenti è uno degli elementi che più colpisce nel polittico. I metalli erano applicati in foglie sottili nelle vesti e nei finimenti dei cavalli e in seguito incisi a mano libera o marcati con punzoni con vari motivi decorativi. Spesso, per rendere la materialità dei tessuti, l’artista incide l’argento e l’oro e poi applica velature di colore trasparenti. Inoltre, alcuni oggetti e particolari sono realizzati a rilievo, ossia in “pastiglia” (un impasto di gesso e colla steso con il pennello) o in cera dorata, come l’elsa della spada retta da un paggio o la corona di Gaspare, posata a terra. Oltre ad esaltare la ricchezza di Palla Strozzi è anche un richiamo all’ideologia cavalleresca che già si rifletteva nel sepolcro di Nofri, riecheggiando le parole del cancelliere della Repubblica fiorentina, Leonardo Bruni, che affermò:

Il possesso dei beni esteriori offre l’occasione per esercitare la virtù

La pala non rappresenta un’unica scena ma racconta tutto il cammino dei tre saggi orientali che seguirono la stella cometa per giungere al cospetto di Gesù bambino. La narrazione ha inizio nelle tre lunette, da sinistra, con i Tre Magi avvistano la stella cometa dall’alto del monte Vettore, raffigurato come una rupe a picco sul mare, dove si vedono un porto e alcune caravelle. Al centro, il corteo dei Magi si mette in viaggio per dirigersi verso Betlemme, che si scorge nella lunetta precedente, solo che è vista da un’altra prospettiva. La città è arroccata su un colle e circondata da una fertile campagna descritta in modo minuzioso: si notano terreni coltivati, boschi fioriti, una fattoria, le mucche accosciate, i ponticelli di fortuna, fatti con i tronchi, costruiti per agevolare al corteo l’attraversamento di una spaccatura del terreno. Si vedono, anche i leopardi dei nobili accoccolati sulla schiena dei cavalli e un’animale feroce che aggredisce un cervo. Al centro del corteo i tre Magi, ricoperti d’oro dalle varie sfumature, che assomigliano più ad eleganti aristocratici, che parlano tra loro, come ad una battuta di caccia o ad una processione religiosa. Infine, a destra, corteo dei Magi sta attraversando un ponte levatoio per entrare nella città di Betlemme, vista da un’ulteriore prospettiva.

Il corteo riappare quindi da destra ed occupa tutta la metà inferiore del dipinto. A sinistra si trova il punto di arrivo della grotta della Natività dove si è posata la cometa luminosa e dove si trovano il bue e l’asinello davanti alla mangiatoia. Davanti al riparo di una capanna diroccata si trovano san Giuseppe, la Madonna assisa col Bambino e due servitrici. Davanti al Bambino si stanno inginocchiando i tre Magi: il primo, quello anziano, ha già deposto la corona ai piedi della Sacra Famiglia ed è prostrato a ricevere la benedizione del Bambino; il suo dono è già tra le mani delle servitrici; il secondo, di età matura, si sta per accovacciare e con la mano destra sta sfilandosi la corona, mentre con la sinistra tiene il calice dorato del suo dono; il terzo è appena sceso da cavallo, un servitore gli sta infatti ancora smontando gli speroni, ma con lo sguardo guarda già il bambino e tiene in mano un’ampolla d’oro da donare. I tre Magi, sono rappresentati nelle tre età dell’uomo: giovinezza, maturità e vecchiaia. I loro vestiti sono di incredibile sfarzo, con broccati d’oro finemente arabescati, copricapi sfavillanti e cinture con borchie preziose, ottenute a rilievo tramite punzonature e applicazioni.

Dietro di loro, in posizione centrale, si trovano due personaggi due ritratti ben riconoscibili: l’uomo col falcone in mano, dal vestito più ricco dopo quello dei Magi (un damasco con disegni vegetali, ma privo di dorature) è il committente Palla Strozzi, mentre quello accanto a lui, che guarda verso lo spettatore, è probabilmente il suo figlio primogenito Lorenzo, anche se Giorgio Vasari indicava al suo posto un autoritratto di Gentile, improbabile in una posizione così preminente, inoltre l’indicazione agli artisti di evidenziare i propri ritratti dipingendosi con lo sguardo rivolto lo spettatore è leggermente più tarda, contenuta nelle opere di Leon Battista Alberti.

Numerosi sono gli animali che animano la scena, a partire dal gruppo di cavalli che, spaventati da un leopardo, creano un movimento di linee centrifughe. In basso si trova un levriero, ritratto con precisione naturalistica, che si stira tra le zampe di un cavallo, con un magnifico collare dorato ottenuto a rilievo. Più indietro si trovano un altro leopardo, un dromedario, due scimmiette, un falcone in volo e altri uccelli, che creano un vivace campionario esotico. Tra i personaggi del corteo spiccano numerosi servitori, tra i quali uno in primo piano che regge la spada di uno dei re ed ha una banda a tracolla che ricorda, in lettere dorate a rilievo, i caratteri cufici.

La predella è composta da tre scomparti rettangolari, che mostrano (da sinistra) la Natività, la Fuga in Egitto e la copia della Presentazione di Gesù al Tempio che fu dipinta da Gaspare Diomede della Bruna nel 1903

La Natività è ambientata di notte, nella stessa ambientazione della pala centrale: a sinistra si scorge infatti lo stesso edificio rosato, dove le due ancelle di Maria riposano sotto un arco: una dorme con la testa girata verso il fondo, l’altra è sveglia e sbircia la scena centrale, in cui il Bambino appena nato emette un bagliore di santità che rischiara tutto: Maria inginocchiata in adorazione, il bue e l’asinello a semicerchio e san Giuseppe che, come da schema tradizionale, è addormentato e un po’ in disparte, a sottolineare il suo ruolo di semplice protettore di Maria e Gesù, senza un ruolo attivo nella nascita. Di grande sensibilità luministica è l’illuminazione dal basso del tettuccio davanti alla porta dell’edificio e della caverna, o delle ombre che coprono solo metà del tetto sotto il quale le ancelle sono riparate. Un’analoga sensibilità rischiara solo alcuni dei rametti dell’alberello a cui è appoggiato Giuseppe. Sullo sfondo a destra un’altra apparizione luminosa, in questo caso angelica, domina l’episodio dell’annuncio ai pastori; il resto del brullo paesaggio montuoso è in ombra, sotto un cielo stellato che mostra una precoce sensibilità atmosferica, nel chiarore che inizia ad emergere vicino all’orizzonte. In alto a sinistra si scorge anche uno spicchio di luna.

La Fuga in Egitto è ambientata in un ricco paesaggio, con gli stessi protagonisti: Maria col Bambino, in sella a un asinello, Giuseppe che fa da guida e le due ancelle dietro. Se i personaggi centrali hanno come quinta una montagnola appositamente creata, ai lati il paesaggio si dilata a perdita d’occhio. Il cielo limpido sovrasta una giornata estiva, illuminando la frutta negli alberi, le cime montuose, i castelli e le città, tra cui quella fiabesca a destra, tutta composta da cupole, torri, campanili ed altri edifici dagli irreali colori pastello, che qualcuno ha definito “di marzapane”. La strada è ghiaiosa, con i ciottoli dipinti uno per uno e tutta la scena sembra risplendere in un pulviscolo dorato, che deriva dai raggi del disco solare, completamente d’oro, in alto a sinistra.

Lo scomparto con la Presentazione di Gesù al Tempio, attualmente conservato al Museo del Louvre a Parigi, presenta una scena che si può dividere in tre parti. Al centro si trova il tempio di Gerusalemme, raffigurato come un elaborato complesso a pianta centrale aperto sul davanti, tramite un loggiato a tre arcate, in modo da mostrare la scena che sta avvenendo all’interno, cioè la presentazione di Gesù alla presenza di Maria, Giuseppe, la Profetessa Anna, Simeone il Giusto e un astante vestito di rosso, forse il sommo sacerdote, oltre a una figura seminascosta dietro l’aureola della Vergine. Vivace è il Bambino, che sembra volersi divincolare dalla presa di Simeone, secondo uno studio dal vero che si riscontra anche in altre opere della maturità dell’artista.Molto articolata è la costruzione architettonica, con il disegno delle volte in prospettiva intuitiva che ricorda le profonde scene della pittura gotica della seconda metà del XIV secolo.

A destra e a sinistra si trova la rappresentazione di una città ideale, con palazzi, chiese e loggiati costruiti con attenzione minuziosa ai dettagli, come i balconcini, le scale, il ritmo delle volte, ecc. Si tratta di una pura quinta architettonica, sottodimensionata rispetto ai personaggi antistanti. A sinistra assistono alla scena nel tempio due nobildonne, una delle quali, quella sinistra, è abbigliata in maniera particolarmente sontuosa: essa indossa la giornea, tipico abito delle classi più agiate, e in testa porta la “ghirlanda”, un copricapo a forma di anello con fiori e rametti intrecciati a un prezioso panno dorato. Esse hanno una postura altera e composta, secondo la raffigurazione tipica della classe signorile.

A destra invece fanno da contraltare le figure di due mendicanti, abbigliati di miseri stracci e pateticamente curvi per la loro indigenza. L’accostamento tra figure grottesche e figure idealizzate è tipico dell’arte tardo gotica, con personaggi formalizzati, privi di connotazioni psicologiche specifiche. Questa antitesi può anche essere letta come una sorta di compiacimento aristocratico nel confronto tra il patinato mondo delle corti e il suo opposto umile e miserevole del popolino.

L’Adorazione è racchiusa entro una elaborata cornice in legno intarsiato e dorato, costituita da tre archi a tutto sesto sormontati da cuspidi e da due pilastrini ottagonali ai lati, la cui superficie è movimentata da inserti polilobati. All’interno di ogni cuspide è un tondo, sovrastato da un angelo e fiancheggiato dalle figure di due profeti. Al centro è raffigurato Gesù Cristo Redentore benedicente, con ai lati Mosè e Re Davide, mentre i due tondi laterali racchiudono i protagonisti dell’Annunciazione: a sinistra l’arcangelo Gabriele, con i profeti Ezechiele e Michea, e a destra la Vergine annunciata, ai cui piedi sono Baruc e Isaia.

Nei pilastri laterali, al posto dei tradizionali santi sovrammessi tra di loro, Gentile da Fabriano sceglie di rappresentare una incredibile varietà di fiori, che gli incavi scolpiti nel legno non riescono a contenere. Tra i bagliori dorati della cornice, contro uno sfondo verde scuro, si stagliano fiori profumati e umili varietà di campo, persino fiori di frutti e di legumi, descritti con incredibile attenzione e curiosità naturalistica, tanto da poter essere considerati come una delle prime interpretazioni di natura morta.

Al di sotto della scena principale, lungo la cornice, l’opera è firmata e datata: “OPUS GENTILIS DE FABRIANO M CCCC XXIII MENSIS MAIJ”.

San Lorenzo fuori le Mura

Lorenzo di origine spagnola era diacono di Papa Sisto II sotto l’impero di Valeriano salito al trono nel 254. Con un editto del 257, Valeriano condannava all’esilio ed alla confisca di tutti i beni coloro che non avessero venerato le divinità romane. Nel 258 venne martirizzato Sisto II con quattro diaconi, ed il 10 agosto subì il martirio anche Lorenzo che fu disteso sopra una graticola di ferro e fatto bruciare. Egli, provvedeva con le casse della comunità cristiana al sostentamento dei poveri e delle vedove ed alla richiesta di consegnare tutto alle casse dell’erario imperiale e di sacrificare agli dei, si affrettò a distribuire tutti gli averi ai suoi assistiti riconfermando la sua fede il Cristo.

La matrona romana Ciriaca, poi fatta santa, prelevò il corpo di Lorenzo dal luogo del martirio e lo seppellì nel terreno di sua proprietà, che divenne una piccola catacomba nell’ager Veranus (forse dal nome del proprietario, l’imperatore Lucio Vero), che si estendeva lungo la via Tiburtina.

Nel 330, secondo il Liber Pontificalis, l’imperatore Costantino (274-337), condusse una serie di interventi sulla tomba del martire, isolandola dagli altri monumenti funerari e permettendone l’accesso ai fedeli attraverso un percorso continuo con scala d’ingresso e d’uscita (“gradus ascensionis et descensionis”). Contemporaneamente fece erigere in onore di san Lorenzo “supra arenario cryptae”, ossia ai piedi della collina del Verano, ma staccata dal sepolcro ipogeo, una grande basilica cimiteriale (detta Basilica maior) costruita interamente in laterizi, a tre navate divise da archi su pilastri, in analogia come altre basiliche cimiteriali dell’epoca come San Sebastiano sulla via Appia, Sant’Agnese fuori le mura, Santi Marcellino e Pietro, presso Torpignattara.

La maggior parte della pavimentazione era occupata da lapidi sepolcrali: i fedeli, infatti, fiduciosi nell’intercessione del santo, per ottenere la salvezza prediligevano l’inumazione vicino alle sue spoglie, tanto che ben presto anche le pareti furono utilizzate per tombe a nicchia. Sotto il papato di Sisto III (432-440) l’altare della chiesa venne arricchito da lastre di porfido e cancelli e lo stesso papa, come precedentemente Zosimo volle essere sepolto presso la tomba di Lorenzo. Anche Papa Ilario scelse quel luogo a sua sepoltura. Il complesso venne reso ancora più ricco ed importante dalla costruzione di un battistero ed alcuni oratori.

La chiesa costantiniana rimase certamente in piedi, sia pur rimaneggiata, sino al IX secolo, anche se già verso la fine del VI secolo una frana dell’adiacente collina e delle infiltrazioni d’acqua ne avevano gravemente compromesso la stabilità. Furono queste probabilmente le motivazioni che spinsero papa Pelagio II (579-590) a costruire nel 580 un nuovo edificio (detto Basilica minor), a tre navate, in grado di assolvere tutte le esigenze connesse all’enorme afflusso dei pellegrini: sbancato il pendio in cui era situato l’antico sepolcreto, a lato della prima fondazione, fu costruito un oratorio a pianta quadrata “ad corpus”, ovvero direttamente sulla tomba del martire, dotato di scale interne che permettessero di accedere direttamente alla sua sepoltura. Il nuovo edificio si presentava a tre navate, divise da due file di dodici colonne; la luce entrava solo dal cleristorio, Le navate e le galleria non avevano fonti di illuminazione; le gallerie risentivano già degli influssi dell’arte bizantina che da almeno mezzo secolo veniva usata nei monumenti di Roma. L’area catacombale si poteva vedere attraverso finestroni aperti nell’abside stessa, forse luogo di sepoltura anche di S. Abbondio e Ireneo. Pare che fu proprio Papa Pelagio a fare seppellire il quel luogo anche le spoglie di S. Stefano riportate a Roma da Bisanzio.

L’ ingresso della piccola basilica costantiniana, era dal lato opposto all’ attuale e corrispondeva precisamente al punto occupato oggi dal sepolcro di papa Pio IX, cosicchè il fondo della basilica era presso a poco sulla linea delle due scale attraverso le quali si scende nell’area costantiniana. Nel portico fuori della chiesa era conservata la pietra che fu legata al collo di S. Abbondio quando i carnefici lo gettarono in un pozzo o in una cloaca. Durante il periodo delle invasioni barbariche, per evitare che il santo luogo venisse profanato, attorno alla chiesa venne eratta una cinta fortificata che si presentava come una cittadella, la “Laurenziopoli” che comprendeva anche gli oratori di S. Agapito, quello dei Ss. Stefano e Cassiano, di Papa Leone e di San Gennaro, nominato da S. Gregorio Magno nei “Dialoghi”; presso questi oratori era stato creato un grande edificio per il ricovero dei poveri, come era d’uso fare presso tutte le grandi basiliche.

Nei secoli successivi la basilica subì alcuni restauri al tempo di Adriano I (772-795) e poi nel 1100, allorché in due distinte campagne decorative vennero eretti gli amboni ed il ciborio a gabbia, costruito, quest’ultimo, da quattro fusti in porfido che sorreggono un secondo ordine di colonnine trabeate. L’opera, che reca la data 1148, è firmata dai figli di Paolo Romano, quattro fratelli marmorari che operarono anche nelle basiliche di S.Croce in Gerusalemme e di S.Clemente: la sommità del tabernacolo si deve invece ad un restauro ottocentesco che sostituì una copertura a cupola risalente a sua volta al primo Cinquecento

Sia la basilica di Pelagio che quella costantiniana furono continuamente abbellite dai Pontefici, finchè dalla meta del IX secolo la “basilica maior” cadde in abbandono mentre si continuò ad avere cura dell’altra basilica. Nel XIII secolo Papa Onorio III (1216-1227) iniziò i lavori di ampliamento alla chiesa di Pelagio, (terminati sotto Innocenzo IV nel 1254), che la orientarono in senso opposto alla prima; la navata centrale era abbellita da 22 colonne, molto diverse tra loro, ( marmo cipollino, granito grigio, rosso, bianco e nero), poiché per questa funzione venne usato materiale di spoglio; la luce era assicurata da dodici finestre ma le navatelle rimanevano nell’ombra. I maestri cosmateschi furono incaricati di rifare il pavimento, mentre il soffitto venne coperto con capriate di legno.

Nella Basilica riedificata di Onorio III il Papa stesso nel 1217, consacrò imperatore di Costantinopoli Pietro di Courtenay conte d’Auxerre e sua moglie Iole, evento ricordato da un pregevole dipinto che lo raffigura benedicente la coppia imperiale. Dopo quei lavori la vecchia basilica, assolse la funzione di presbiterio; per cui, entrando oggi, si attraversa prima la parte medioevale per giungere poi a quella pelagiana e per vederne l’arco trionfale,ci si deve recare dal la parte dell’altare maggiore.

Dopo l’intervento onoriano che comprese, con tutta probabilità, anche il bel chiostro dagli originali due ordini loggiati sovrapposti, la basilica continuò ad essere oggetto di interventi decorativi, che proseguirono fino alla fine del Duecento: fra questi ricordiamo la tomba del cardinale Fieschi, morto nel 1256, costituita da un grande sarcofago romano del II secolo d.C. con scene nuziali inserito in un baldacchino cosmatesco ed il ciclo di affreschi del portico di mastro Paolo e Filippo, risalente all’ultimo quarto del XIII secolo, che narrano le “Storie di S.Lorenzo, di S.Stefano e dell’imperatore Enrico II”. La basilica di San Lorenzo fuori le Mura fu sede del patriarca latino di Gerusalemme dal 1374 al 1847, anno in cui Papa Pio IX ripristinò la sede a Gerusalemme.

Durante il XIV ed il XV secolo si registrarono soltanto lavori di restauro della Basilica, rivolti, in particolare, al campanile romanico: si dovette attendere il cardinale Oliviero Carafa (1492 – 1503) per un intervento decorativo su ampia scala, andato poi completamente perduto con il restauro ottocentesco. Nel 1511, la basilica venne affidata ai monaci benedettini che nel XVII secolo realizzarono un nuovo monastero, sulla destra di quello antico, con un portico d’ingresso.

Dopo che Leone X ordinò di rimuovere tutti i marmi, i capitelli e le colonne circostanti la basilica, episodio da porre in relazione con la costruzione di palazzo Farnese, la basilica non fu oggetto di attenzioni sino al secolo successivo, quando il crollo del soffitto orientale convinse il cardinale Francesco Boncompagni ad un restauro ed alla contemporanea decorazione della cripta, realizzati entrambi tra il 1624 ed il 1629. All’inizio del secolo successivo venne aperta una grande piazza, progettata da Alessandro Gaulli: l’incarico gli venne affidato nel 1704 dal cardinale Pietro Ottoboni e l’artista realizzò una vasta spianata semicircolare, il cui termine era segnato da basse colonne, una delle quali, la più alta, fu posta al centro, sormontata dallo stemma di papa Clemente XI Albani.

Dopo la costruzione del retrostante Cimitero del Verano, nella prima metà dell’800, papa Pio IX, molto legato alla chiesa, decise di promuovere un suo radicale ripristino: il pontefice, celebrato anche dalla nuova colonna commemorativa (nella foto sotto il titolo, la seconda per altezza, dopo la Colonna dell’Immacolata, grazie ai suoi 24 m) che reca in cima la statua bronzea del martire Lorenzo (opera di Stefano Galletti), incaricò di questi lavori Virginio Vespignani, uno dei più accaniti sostenitori del “restauro archeologico”. Questi, tra il 1857 ed il 1864, riportò la basilica all’assetto impostole da Onorio III all’inizio del Duecento: per tale motivo essa ci appare attualmente libera da sovrapposizioni barocche e rinascimentali, rappresentando, forse per la sua integra semplicità, la più affascinante delle basiliche romane: va ricordato che soltanto in occasione di questi lavori le spoglie di S.Lorenzo, insieme a quelle di S.Stefano e S.Giustino, furono sistemate nell’attuale cripta a “confessione” sotto il presbiterio.

Pio IX, inoltre, inoltre, incaricò il pittore Cesare Serafini Fracassini (1838 – 1868) della decorazione a fresco della chiesa, poi completata da Cesare Mariani, Francesco Grandi, Francesco Coghetti e Paolo Mei in seguito alla prematura morte dell’artista. Durante la Seconda Guerra mondiale, l’edificio fu gravemente colpito con il primo bombardamento alleato subito dalla città di Roma il 19 luglio 1943; l’obiettivo del raid aereo era un deposito ferroviario vicino, ma le bombe caddero sulla facciata e sulla parte centrale della navata, e sul quartiere densamente popolato causando oltre 3000 vittime. Dopo la distruzione bellica la basilica fu ricostruita con il materiale originale: i restauri, terminati nel 1948, permisero l’eliminazione di strutture aggiunte nel XIX secolo, tuttavia i dipinti murali che decoravano la parte superiore della facciata erano irrimediabilmente perduti. Tra il 1950 e il 1957 furono effettuati alcuni scavi archeologici in corrispondenza del muro del Cimitero del Verano: le indagini permisero di riconoscere i resti della basilica costantiniana: un grande edificio a circo, a tre navate separate da colonne.

La facciata è decorata da un portico ampio e luminoso, opera di Vassello, portatore della tradizione degli illustri marmorari romani dei Cosmati.E’ ornato da sei colonne adattate ed inserita tra due pilastri a sostenere una trabeazione che prima della distruzione provocata dalla guerra era ornata da fregi, motivi vegetali, figurine e piccole scene a mosaico; da quegli ingenti danni si è salvato un parte del dipinto raffigurante la presentazione di Pietro di Courtenay a San Lorenzo, di cui si è già parlato ed un agnello racchiuso in un clipeo che rappresenta l’offerta di Cristo come agnello sacrificale. Il portico è completata da una bellissima cornice di foglie fiori e frutta . La copertura è a travature lignee.

Sotto il portico, due leoni, uno dei quali stringe tra le zampe un bimbo e l’altro sta sbranando la preda, fanno da cornice alla porta del Vassalletto. Si possono vedere anche tre sarcofagi di cui uno veramente raro, del tipo “ a tetto”; si presenta come un tempietto, con gli spioventi appoggiati a colonnine. Gli affreschi che decorano le pareti del portico risalgono alla seconda metà del XIII secolo e sono opera di Paolo e Filippo Maestro; rappresentano in parallelo, le storie dei due martiri, a sinistra quella di Lorenzo e, a destra, quella di Stefano. Le parti iconografiche leggendarie si basano sul I dipinti sulla parete sinistra sono stati rimaneggiati più volte e l’interpretazione è assai difficile. Anche le raffigurazioni sulla parete destra risultano molto rovinate e narrano la leggenda di Enrico II nelle guerre contro gli slavi. I dipinti sulla parte frontale sono in migliori condizioni e rappresentano la storia di S. Stefano e S. Lorenzo.

Sotto il portico sulla parete centrale è stata murata una grande lapide a ricordo della visita di Pio XII il 19 luglio 1943, quando la chiesa e tutto il quartiere San Lorenzo fu devastato dal tristemente famoso bombardamento. La facciata che sovrasta il porticato è stata rifatta completamente dopo i bombardamenti in semplici mattoni; vi preesistevano affreschi di Silverio Capparoni che rappresentavano insigni personaggi legati alla Basilica. La tomba del grande statista Alcide De Gasperi, opera di Giacomo Manzù, è situata nel nartece a sinistra.

All’ingresso della navata centrale vi sono due semplici acquasantiere con lo stemma di Alessandro Farnese che partecipò sostanziosamente ai lavori di abbellimento della Confessione e della cappella di Santa Ciriaca Sulla porta d’ingresso, un affresco trasposto su tela del Fracassini, illustra l’ordinazione di S. Stefano a Diacono. A destra del portale si può ammirare la tomba di Guglielmo Fieschi, nipote di Innocenzo IV. Il sarcofago è del II secolo d.c. Sulla porta d’ingresso, un affresco trasposto su tela del Fracassini, illustra l’ordinazione di S. Stefano a Diacono. A destra del portale si può ammirare la tomba di Guglielmo Fieschi, nipote di Innocenzo IV. Il sarcofago è del II secolo d.c.

A sinistra della porta d’ingresso sta il Fonte Battesimale sormontato da una statuetta bronzea del Battista, risalente al tempo di Pio IX, molto restaurato. Nel lavoro di restauro dopo il bombardamento è stata ricomposta e murata la tomba di Giuseppe Rondinino, morto nel 1649 in battaglia contro i Turchi. Nella navata sinistra, e la tomba di Michele Bonelli (morto nel 1604), pronipote di papa Pio V. L’interno della Basilica è scandito dalle 22 colonne di spoglio sormontate da capitelli ionici attribuiti al Vassalletto e dividono in tre navate il volume della chiesa di Onorio III. Una curiosità: l’ottava colonna destra, reca scolpite sul capitello una rana e una lucertola alle quali si attribuisce la validità della firma degli autori spartani del capitello stesso: Batrakos (rana) e Sauros, che essendo schiavi non potevano firmare esplicitamente le loro opere.

Il pavimento bellissima opera dei Cosmati, a causa del bombardamento perse un rarissimo riquadro a figure che rappresentava due cavalieri in combattimento; Sono stati però ricostruiti i quattro riquadri che completavano l’opera e che raffigurano grifi e draghi. Due bellissimi amboni di fattura cosmatesca sono situati nella navata. L’ambone di sinistra riservato alla lettura di testi biblici è sopraelevato da una base di marmo di greco e di Carrara e da un lato è chiusa da una lastra di porfido. Di fronte, l’ambone per la lettura del Vangelo è ricco di ornati e coloratissimo; si eleva su di una base di marmo greco e granito nero e bianco. Il reggileggio è particolarissimo: sormonta una lastra verde e rappresenta un’aquila che ghermisce la preda. Accanto si trova il candelabro del cero pasquale ornato da mosaici policromi, la base e ornata da due leoni ruggenti ed e voeva dell’ambone, dtato intorno alla seconda metà del duecento. Il pavimento in questa parte ha lastre rettangolari anzicchè tonde, probabilmente questa sezione della chiesa era occupata dalla “schola cantorum”.

Attraverso due piccole rampe di scale, si accede al presbiterio, ovvero la parte basilicale di Pelagio II. La cripta sottostante del IV secolo (altare e criptadella confessione), racchiude i resti dei Santi Lorenzo, Stefano e Giustino che fu il primo a formulare una teologia della storia cristocentrica, martirizzato sotto Marco Aurelio, tra il 163 e il 167. Idealmente queste tombe rappresentano la congiunzione delle due chiese antiche.

Alle spalle dell’arco di divisione, nel presbiterio, si può osservare il “Mosaico dell’arco trionfale”, verso il VI secolo, voluto da papa Pelagio II. L’unica parte superstite dell’antica decorazione musiva raffigura il tema della Maiestas: Cristo in atteggiamento benedicente,al centro su di un globo azzurro; alla sua destra san Paolo che accenna Santo Stefano con il libro aperto, e sant’Ippolito, il quale ha tra le mani coperte la corona del martirio. Alla sinistra del Cristo è rappresentato san Pietro che introduce san Lorenzo con il vangelo aperto sulle parole Magnificat: “disperse i superbi, dette ai poveri” ed il pontefice Pelagio che offre la basilica. In basso, ai lati, Gerusalemme e Betlemme, dalle mura gemmate. Di fronte alla spiritualità del Cristo e dei Santi, papa Pelagio viene rappresentato con caratteri di maggiore evidenza naturalistica e più piccolo, perché più “moderno” rispetto ai santi raffigurati.La bordura dell’arco è ornata da motivi nastriformi coloratissimi in tutto simili a qualli del mausoleo a Ravenna di Galla Placidia. La zona del presbiterio è ancor più definita da banchi laterali duecenteschi chiusi alle estremità da due leoni attribuiti al Vassalletto.

In fondo alla navata destra si apre l’ottocentesca cappella di San Tarcisio, del Vespignani, che conserva una bella Decollazione del Battista del caravaggesco Giovanni Serodine (1619). Una cappella dedicata a Santa Ciriaca, di gusto barocco con monumenti funerari ideati da Pietro da Cortona, è accessibile dal fondo della navata sinistra. Per due scalette si sale al presbiterio, dove tra quattro colonne bianche e nere è collocata la confessione della tomba di S. Lorenzo. Dalle estremità delle navate laterali si può scendere alla cappella funeraria di Pio IX, eretta alla fine del XIX secolo riutilizzando il nartece della basilica pelagiana.

Calisna Śepu

Negli ultimi anni è in corso una profonda revisione cronologica inerente la presenza etrusca nel territorio della Val d’Elsa , volta reinquadrare storicamente ogni ritrovamento fatto, dato che ii vecchi studi, come per il resto dell’Etruria, sono condizionati dalle “cacce al tesoro” delle necropoli, frutto sia dei tombaroli, sia degli archeologi dei secoli scorsi, che suddivisero, decontestalizzandoli e privandoli di di uno studio approfondito, i reperti tra numerose collezioni privare L’attuale inversione di tendenza nell’impostazione delle ricerche indirizzate a privilegiare finalmente sia i siti abitati che un miglior coordinamento fra le varie discipline archeologiche, sta portando i moderni specialisti a risultati sorprendenti ed inaspettati su tutta l’area. Uno di questi risultati è il chiaro delinearsi di un territorio “Casolano” ben definito ed organizzato.

La Val d’Elsa, come del resto tutta l’alta valle del fiume, ha solo occasionali testimonianze attinenti al Paleolitico, dovute più alla scarsità di sistematiche e mirate ricerche, che all’effettiva mancanza di questa facies culturale. Di diversa importanza sono i ritrovamenti protostorici, pur meno numerosi di quelli rinvenuti a Casole. Su tutti, le due tombe eneolitiche a grotticella in località Le Lellere, presso il capoluogo, ampiamente danneggiate da lavori stradali, ma con reperti sufficienti per lo studio e la datazione.

Mancano ufficialmente ritrovamenti della prima età del ferro ( il cosiddetto Villanoviano), essendo il ritrovamento di Nerbona riferibile alla metà/fine del VII sec. a. C. mentre, i recenti scavi hanno pemesso di individuare uno stanziamento di quel periodo, a Monteriggioni. È però con il periodo etrusco propriamente detto, dall’arcaismo a tutto l’ellenismo, che la Val D’Elsa diviene un importante crocevia da e per l’Etruria centro -settentrionale.

Una testimonianza di questo boom economico è la necropoli del Casone, i cui primi ritrovamenti risalgono al 1697; Umberto Benvoglienti segnalò il ritrovamento di una sepoltura oggi non più rintracciabile ma nota come “Tomba dell’Alfabeto di Colle”: mostrava dei segni alfabetici dipinti sulle pareti Altri ritrovamenti casuali, dei quali resta memoria, avvennero nella seconda metà dell’ ‘800 sinché nel 1892 impiantando un vigneto nei terrini di Terrosi, furono scoperte alcune tombe e un anno più tardi venne individuata la tomba n. 7, nota in letteratura come “Tomba dei Calisna Śepu”, un sepolcro inviolato che accoglieva un intero nucleo familiare aristocratico, il più consistente rinvenimento di questo periodo avvenuto in Etruria settentrionale (450 reperti).

Per rendere l’idea della sua ricchezza, ecco il rapporto pubblicato da L.A. Milani nel 1894 nelle Notizie degli Scavi:

In un altipiano detto Malacena facente parte della tenuta del Casone di proprietà del sig. Giulio Terrosi, non lungi dalla stazione ferroviaria della Castellina in Chianti, eseguendosi i soliti fossati per una piantagione di viti, si rinvenne casualmente una tomba famigliare a camera, scavata nel tufo, con un pilastro centrale e banchine in giro, dalla quale si estrasse una assai copiosa ed importante suppellettile riferibile al sec. IlI a. C. Vi sono :
Trentacinque urne cinerarie delle quali quattro di alabastro e le altre di travertino.

L’urna principale, alta col coperchio m. 1,07 e larga 0,84, è di alabastro lumeggiato in oro. È bisoma, cioè fatto per le ceneri di due coniugi. Essi sono aggruppati sul coperchio dell’urna come recumbenti nel proprio letto. Sono i capi famiglia della tomba; ed i loro nomi sono scritti in bei caratteri nel fronte dell’urna foggiata a letto funebre:
mi : capra : calis’nas’ : lardai
s’epus’ : ariiiìalisla : cursmalx

Quattordici specchi di bronzo figurati.
Trentaquattro pezzi di orificeria.
Trentasette monete, fra le quali due dupondi di Volterra.
Quattordici vasi di bronzo di varie forme.
Trenta e più vasi verniciati, detti etrusco-campani, costituenti di per sé una stupenda collezione, con pezzi unici.
Ventotto vasi dipinti della Campania, per lo più krateri a campan
a.
Vi sono inoltre vari candelabri, anni e molti altri oggetti in ferro ; molti vasi locali di terra gialla di varia forma ; stoviglie che io giudico, imitazioni etrusche del genere campano ecc.
La suppellettile raccolta è tale e cosiffatta da potersi costituire con essa un Museo particolare. Il sig. Terrosi la fece trasportare di questi di appunto in Firenze nella sua abitazione per costituirvi un Museo privato. Egli promise di dare al nostro Museo Etrusco
Centrale una rappresentanza di essa. Dal mio canto promisi di illustrare la importante scoperta con una memoria a parte. Frattanto si sta ripulendo e ristaurando gli oggetti principali per poterli studiare e descrivere esattamente.”

La Guerra di Corinto (Parte I)

Durante la guerra del Peloponneso, conclusa nel 404 a.C., Sparta aveva goduto del sostegno della maggior parte delle poleis greche e dell’Impero persiano, finito il conflitto un certo numero di isole del mar Egeo passarono sotto il suo controllo. Questa solida base di sostegno, tuttavia, si frammentò negli anni successivi. Infatti, nonostante la vittoria fosse stata ottenuta dalla Lega peloponnesiaca, solo Sparta ricevette il bottino conquistato agli sconfitti e i tributi dell’antico Impero ateniese.Tebe, alleata di Sparta durante la guerra, non venne premiata per il contributo dato alla causa spartana, così in risposta sospese gli aiuti conferiti fino ad allora, offrendo addirittura asilo ai democratici ateniesi in esilio, vittime delle persecuzioni perpetrate dai 30 tiranni.

Gli alleati furono ulteriormente delusi nel 402 a.C., anno in cui Elea, una città membro della Lega, che aveva fatto infuriare gli Spartani nel corso della guerra del Peloponneso, venne attaccata. Ora Elea di fatto la polis che organizzava le Olimpiadi, dato che gli arbitri dei giochi, gli Hellanodikai, erano suoi cittadini, così l’opinione pubblica greca di allora condannò l’azione; Corinto e Tebe ne approfittarono così per non inviare truppe in aiuto a Lacedemoni.

A complicare la situazione, vi era anche la questione dei rapporti tra Sparta e la Persia: i Lacedemoni aveva vinto il lungo duello con Atene, proprio grazie ai finanziamenti di quello che era considerato il nemico storico dei Greci. Oltre a danneggiare la loro immagine pubblica, portò a livello politico una serie di diatribe e controversie di difficile soluzione.

Nonostante i proclami, Sparta non poteva intervenire, a differenza di Atene a supporto delle città della Ionia, perchè erano sotto il controllo del suo principale alleato, Ciro il Giovane, sì, colui che con la sua ribellione darà il via alle vicende dell’Anabasi; però poteva intervenire nell’Ellesponto, che era sotto il controllo del satrapo Farnabazo, nemico di Ciro il Giovane. Così, Sparta, approfittando di queste divisioni tra i persiani, il controllo delle polis della regione con governi oligarchici istituiti da Lisandro, che però furono aboliti dai Lacedemoni, nel timore che il generale volesse utilizzarli come base per effettura una sorta di golpe.

A seguito della battaglia di Cunassa e della morte di Ciro il Giovane, a Sparta si sentirono liberati da tutti i patti: per cui, l’esercito lacedemone sbarcò in Asia già nel 400 a.C., unendo le proprie forze ai soldati rimasti dell’Anabasi. Tra il 400 ed il 397 le operazioni militari erano state condotte dai generali Tibrone e Dercilida, i quali avevano ottenuto scarsi risultati, per di più, cominciavano a scarseggiare i fondi, per cui Sparta chiese aiuto a Tebe, Corinto e Atene, che per i precedenti rancori, risposero picche. i Tebani osarono addirittura interrompere un sacrificio che il re di Sparta Agesilao aveva tentato di eseguire nel loro territorio prima della sua partenza.

Alla fine del 397 giunse a Sparta la notizia che in Fenicia i Persiani stavano preparando una potente flotta da guerra, la quale sarebbe stata verosimilmente utilizzata contro gli Spartani nel mare Egeo. Il suggerimento di Lisandro di inviare in Asia Minore un nuovo esercito al comando di Agesilao fu accolto e nella primavera del 396 il re salpò per l’Asia Minore

La spedizione fu presentata dagli Spartani come una guerra di liberazione dei Greci d’Asia dal giogo persiano, ma in realtà si trattava di un tentativo di rafforzare l’egemonia di Sparta sull’area del mare Egeo conquistandone la costa asiatica. Lisandro desiderava restaurare i regimi filospartani (decarchie) che egli stesso aveva creato in Asia Minore alla fine della guerra del Peloponneso e che erano stati aboliti da Sparta stessa per timore dell’eccessivo potere che Lisandro aveva ottenuto grazie ad essi.Quando Agesilao si rese conto dell’autorità di cui questi godeva in Asia Minore si rifiutò di restaurare le decarchie e ruppe l’amicizia con Lisandro. In Asia Agesilao strinse un’amicizia duratura con lo scrittore ateniese Senofonte, che allora militava nell’esercito spartano e che divenne un fedele estimatore del re.

Sotto la guida di Agesilao la guerra in Asia fu poco più fortunata rispetto agli anni precedenti, riuscendo comunque a limitare il potere nella regione dei due satrapi di Frigia e Caria. Farnabazo venne sconfitto a Dascylium, dove però il comandante spartano dovette desistere nel proseguire l’attacco definitivo, perché privo di cavalleria; mentre l’anno seguente, rafforzato il contingente a cavallo e attraverso uno stratagemma ingannò Tissaferne sconfiggendolo presso Sardi. L’esito della battaglia costò caro al satrapo di Caria, il quale poco dopo fu giustiziato per ordine del Gran Re.

Il suo sostituto, Titrauste, avviò negoziati con Agesilao sostenendo che, essendo morto Tissaferne, che si era guadagnato la fama immeritata di sostenitore principale della guerra, non c’era più alcuna ragione per giustificare la presenza di un esercito spartano in Asia, e proponendo la pace a condizione che i Greci asiatici fossero indipendenti,proponendo la pace a condizione che i Greci asiatici fossero indipendenti, pagando solo il loro antico tributo alla Persia. Agesilao, in assenza di istruzioni dalla patria, acconsentì, e Titrauste lo persuase a far cessare la guerra nella sua satrapia per riprenderla in quella di Farnabazo, e anche lui fornì i soldi per la spedizione. L’idea era di utilizzare i greci per eliminare un satrapo che da lungo era insofferente all’autorità centrale. Il problema è che i persiani fecero i conti senza l’oste: Agesilao non aveva nessuna voglia di tornarserne a casa ed era intenzionato a costruire un dominio coloniale per Sparta.

Così o Titrauste (secondo Senofonte) o lo stesso Artaserse (secondo Plutarco) spedirono un ambasciatore in Grecia, Timocrate di Rodi, con un tesoro di 50 talenti, da distribuire alle principali polis, per corromperle ed invitarle a dichiarere guerra a Sparta. Timocrate visitò Atene, Tebe, Corinto e Argo, riuscendo a persuadere consistenti fazioni in ciascuna di quelle città a perseguire una politica anti-spartana (Senofonte afferma che Atene non accettò questo denaro, ma lo storico neozelandese George Cawkwell, concordando colle Elleniche di Ossirinco, non è dello stesso avviso); le Elleniche, per chi non lo sapesse, sono una storia della Grecia antica, databile fra la fine del V e i primi del IV secolo a.C., di cui ignoriamo l’autore scoperta su frammenti di papiro rinvenuti a Ossirinco, in Egitto.

Timocrate riuscì nella sua missione Tebani, che già in precedenza avevano dimostrato la loro insofferenza verso Sparta, si impegnarono a intraprendere una guerra contro l’odiata nemica. Anche Corinto, dove Timolao tenne un discorso contro Sparta riportato da Senofonte, si unì alla lotta contro Sparta… Così cominciò la guerra di Corinto

L’area archeologica di Monte Saraceno

Ravanusa, posta su un lieve pendio e circondata da terre fertili, fu fondata con licentia populandi del 1616 da Giacomo Bonanno, duca di Montalbano. Eppure, la sua storia è molto più antica; appena a un Km Sud-Est si erge Monte Saraceno che sul lato occidentale della valle del fiume Salso, antico Himera, fondamentale via di percorrenza della costa meridionale della Sicilia verso l’entroterra. L’altura è costituita da due cime rocciose, l’una ad Ovest e l’altra ad Est divise tra loro da un’insellatura. A sud della cima occidentale si sviluppa un altipiano che dagli archeologi è stato denominato pianoro sommitaleo acropoli.

Le più antiche testimonianze di vita nel sito di Monte Saraceno risalgono alla preistoria: si tratta di tracce di frequentazione dell’Età del Rame (III millennio a.C.), del Bronzo Antico (inizio II millennio a.C.) e del Bronzo Medio (XIV-XIII secolo a.C.), documentate sul pianoro sommitale del monte.Tra l’VIII e il VII secolo a.C. il pianoro accoglie un villaggio, probabilmente di genti sicane, con capanne circolari. Tale insediamento, alla metà del VII secolo a.C., viene distrutto, ma rinasce subito dopo con case a pianta rettilinea che si estendono, oltre che sul pianoro sommitale, anche sul terrazzo superiore.La vita del villaggio indigeno si interrompe nel secondo venticinquennio del VI secolo a.C. (per un conflitto con i Greci?), ma il centro viene immediatamente ricostruito secondo criteri diversi, acquistando la fisionomia di una città. La sommità del monte sembra avere ora una destinazione prevalentemente religiosa e assume in una certa misura l’aspetto di “acropoli”; l’abitato, oltre che nel terrazzo superiore, si estende anche al terrazzo inferiore, secondo un impianto ortogonale.

Il centro si munisce di un sistema difensivo con mura di fortificazione in tecnica poligonale. Le necropoli occupano ampie aree della zona collinare che si estende ai piedi del monte e sono caratterizzate da tombe di tipologia greca, i cui corredi indicano un tenore di vita abbastanza agiato della popolazione. Questa fase dal secondo venticinquennio del VI al terzo venticinquennio del V secolo a.C. segna il momento di massima fioritura del centro.Il rinnovamento della città appena descritto non è stato interpretato in maniera univoca dagli studiosi. Una delle spiegazioni proposte vede nel fenomeno il segno dell’arrivo dei Greci nel sito, con il conseguente assoggettamento dell’elemento indigeno. Un’altra interpretazione, più recente, riferisce il cambiamento a quel processo di profonda “acculturazione” che nel VI secolo a.C. portò i centri indigeni dell’interno della Sicilia ad adottare modi di vivere “alla greca”, pur restando indipendenti politicamente dai Greci.Nel secondo venticinquennio del V secolo a.C. il quartiere del terrazzo inferiore viene abbandonato, ma la città continua a vivere restringendo i propri confini entro i limiti del terrazzo superiore.

Ciò potrebbe forse essere connesso con il periodo di disordini e conflitti che seguì alla caduta delle tirannidi a Gela e Agrigento.Successivamente, nel terzo venticinquennio del V secolo a.C., sul pianoro sommitale è documentato un evento traumatico che segna la vita del centro, pur non comportando una distruzione vera e propria dell’abitato del terrazzo superiore.Nell’ultimo venticinquennio del V secolo a.C. la città si risolleva, con una nuova fase edilizia sul pianoro sommitale ed il riutilizzo delle strutture precedenti nel terrazzo superiore. Si costruisce una nuova fortificazione in tecnica isodoma, con un doppio circuito murario, l’uno intorno al pianoro sommitale, l’altro poco più a valle del terrazzo superiore. La necropoli occupa un’area in pendio ad Ovest del monte. E’ presumibile che, alla fine del V e nella prima metà del IV secolo a.C., il centro, in quanto fortificato e strategicamente funzionale, abbia assunto un ruolo di carattere più militare nell’ambito della politica di Dionisio I di Siracusa.Intorno alla metà del IV secolo a.C. è documentata un’altra cesura traumatica: abbandonato l’abitato del terrazzo superiore, la città occupa ormai solo il pianoro sommitale, con costruzioni affrettate e modeste che sopravvivono fino ai primi decenni del III secolo a.C., forse svolgendo soltanto la funzione di postazione militare.Diverse sono state le proposte di identificazione del centro, fonti letterarie antiche identificano la città greca con “Kakyron”

I primi accenni all’importanza archeologica di Monte Saraceno si trovano in alcuni autori del settecento, che parlano di “grandi ruderi di una città distrutta” ben visibili all’epoca nel sito ed erroneamente attribuiti ai Saraceni, da cui derivò il toponimo. Molto tempo dopo, nel 1928, P. Marconi segnalò materiali preistorici sulla sommità del monte e resti di “una borgata sicula” nel periodo meridionale. Ma la prima indagine di scavo, benchè limitata, fu condotta nel 1935 da P. Mingazzini, presso il poggetto di Sud-Est, dove furono scoperti un saccello e un tratto di fortificazione, che lo studioso attribuì ad una città greca, forse Maktorion.Nel 1956 D. Adamesteanu, con un’esplorazione di superficie, riconobbe tre edifici sacri sul pianoro sommitale ed una stipe votiva al sacello già individuato dal Mingazzini, e propose l’identificazione del centro con la città di Kakiron.

Fu nel 1973 che prese finalmente avvio una ricerca sistematica ad ampio respiro nel sito, per iniziativa dei E. De Miro, Soprintendente ai Beni Culturali di Agrigento, con numerose campagne di scavo che si sono susseguite nell’area dell’antico insediamento. Nel 2007, infine, con un progetto finanziato dalla Comunità Europea (P.O.R. Sicilia 2000-2006), i resti antichi emersi nel corso degli scavi sono stati resi fruibili al pubblico.

I resti archelogici sono conservati nel locale museo “Salvatore Lauricella”. Nel museo cittadino si possono ammirare terrecotte policrome che ornavano i tetti degli edifici sacri, tra cui spicca il gorgoneion, le arule fittili a decorazione dipinta, vasellame da mensa, anfore, pesi da telaio, in particolare il singolarissimo otre fittile a forma di testuggine e il vaso plastico raffigurante un gruppo dionisiaco di satiro e asino. Il percorso di visita del Museo, articolato in due sale, si basa su criteri sia cronologici che topografici: vengono infatti presentate in successione le fasi di vita del centro, dalla preistoria fino al III sec. a.C., secondo un’articolazione che tiene conto, quanto più è possibile, delle diverse aree (luoghi di culto, quartieri abitativi, fortificazioni, necropoli.