
Una storia analoga a quella trittico di Detroit, possiamo ipotizzarla per il Concerto Campestre, un dipinto a olio su tela (118 × 138 cm) conservato al Louvre. Secondo il critico di storia dell’arte Justi – senza alcuna esibizione di documentazione a suffragio, salvo quella dell’appartenenza ai Gonzaga – il dipinto sarebbe appartenuto alla collezione di Isabella d’Este (1474 – 1539). La prima citazione apparve nel 1627, anno in cui venne venduto dalla famiglia dei Gonzaga a Carlo I d’Inghilterra (1600 – 1649), dalle cui collezioni passò, nel 1649, ad Eberhard Jabach, un facoltoso banchiere francese; quest’ultimo lo cedette alla collezione di Luigi XIV (1638 – 1715).
Per quanto riguarda l’attribuzione, che per tradizione era riferita al Giorgione, la vicenda incominciò a complicarsi sin dal 1839, quando il Waagen l’assegnò a Palma il Vecchio, innescando un processo di complicazioni che ancor oggi non si sono affatto concluse. Anche per il Cavalcaselle (1871) l’opera non sarebbe stata autografa del Giorgione ma di Sebastiano del Piombo. Il Morelli, nel 1880, ritornò alla tradizionale attribuzione mentre Lionello Venturi (1913) – in contrasto con il figlio Adolfo che nel 1928 lo riferiva al Giorgione – lo attribuiva a Sebastiano del Piombo. Seguirono altre ipotesi di attribuzione di molti eminenti critici d’arte, ognuna contrastante con altre, e ripensamenti e neppure le moderne analisi, che in Francia, come per i restauri, sono alquanto restii a fare, hanno permesso di chiarire l’attribuzione. A titolo di curiosità, dato che lascia il tempo che trova, i vari sistemi di IA che stanno cominciando a diffondersi per aiutare i curatori a distinguere i falsi, sono propensi ad attribuire l’opera a Giorgione.
Probabilmente, la questione è molto più sfumata: nulla vieta che l’opera fosse commissionata a Giorgione, ma che per la sua morte improvvisa del 1510, sia rimasta incompiuta, in uno stato più o meno avanzato. Il committente, per non ritrovarsi un quadro a metà, ne commissionò il completamento a Tiziano, che intervenne più o meno pesantemente, sopratutto sulle figure. Il quadro, però, era certo noto in quegli anni e ispirò diverse opere più o meno simili.
Il quadro raffigurata due giovani seduti su un prato che suonano, mentre vicino ad essi una donna in piedi versa dell’acqua in una vasca marmorea. Le due donne presenti sono entrambe nude, coperte appena da mantelli che scivolano via, mentre i due uomini, che parlano tra di loro, sono vestiti in costumi dell’epoca. Nell’ampio sfondo si vede un pastore e un paesaggio che, tra quinte vegetali, si distende a perdita d’occhio.
Il soggetto dovrebbe essere un’allegoria della poesia e della musica, con le due donne dalla bellezza ideale, che sono come due apparizioni irreali generate dalla fantasia e l’ispirazione dei due giovani. La nudità dopotutto è legata all’essenza divina e la donna col vaso di vetro sarebbe la musa della poesia tragica superiore, mentre quella col flauto la musa della poesia pastorale. Tra i due giovani, quello ben vestito che suona il liuto sarebbe il poeta del lirismo esaltato, mentre quello col capo scoperto sarebbe un paroliere ordinario, secondo la distinzione operata da Aristotele nella Poetica. Alcuni hanno identificato la rappresentazione anche come un’evocazione dei quattro elementi che compongono il mondo naturale (acqua, fuoco, terra, aria) e del loro relazionarsi armonioso.
Oppure, idea a cui a propengo di più, vista la vicinanza di Giorgione in quel periodo al circolo del Bembo, è una sorta di manifesto del neoplatonismo veneziano. Il dualismo platonico, la netta distinzione tra il mondo sensibile dell’opinione (dòxa) e quello razionale della scienza (epistème) porta Platone a un problema che lo costringere a modificare sostanzialmente la sua “teoria delle idee”: che tipo di rapporto c’è tra le idee e le cose? Infatti se le cose esistono e sono conoscibili solo grazie al fatto che si basano sulle idee e ad esse rimandano (ricordiamo che senza l’idea di cavallo non potremo ne conoscere i cavalli e, nemmeno, questi esisterebbero), resta da definire che rapporto vi sia tra le cose e l’idea che le determina in quanto sua condizione di conoscibilità ed esistenza. Per Bembo, questo legame è definito dall’Amore, che acquista così una dimensione cosmica
Quindi il concerto in primo piano rappresenterebbe il mondo razionale dell’epitestème, mentre il pastore in secondo piano, la realtà concreta della dòxa, che la musica, simbolo dell’Amore, unisce. Ovviamente, Tiziano, meno filosofo di Giorgione, accentuò la dimensione carnale ed erotica del quadro, cosa che probabilmente non piacque al committente, il quale rivendette rapidamente l’opera, che così cominciò a passare di mano in mano.
Buon week end Alessio!