COSTRUIRE SUI RESTI ESISTENZIALI DELLA GUERRA

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Ovunque gli edifici siano distrutti dalle bombe o dai proiettili d’artiglieria, da un incendio o a causa di un collasso strutturale, la loro forma deve essere rispettata, deve rimanere integra, così da poter incarnare una storia che non dovrebbe mai essere negata. Nel loro stato decrepito, gli edifici suggeriscono nuove forme di pensiero e di comprensione, nuove concezioni dello spazio che confermano il potenziale dell’essere umano di integrarsi, e rimanere esterno ad ogni sistema totalizzante predeterminato. I nuovi spazi dell’abitare, costruiti sui resti esistenziali della guerra, non celebrano la distruzione di un ordine prestabilito, né lo simboleggiano o commemorano.

Piuttosto accettano con orgoglio ciò che è stato sofferto e perso, ma anche ciò che di nuovo ne è nato. Costruiscono sulla forma sfrangiata del vecchio ordine una nuova categoria di ordine naturale, all’interno del quale si percepisce tutto il suo potenziale, dove è possibile riconoscere la propria fragilità e i propri fallimenti. Affrontano la necessità di reinventare questi spazi, come se non fossero mai stati realizzati, riuscendo ad aggiornarsi e rivitalizzarsi continuamente. Vi è impegno etico e morale in una esistenza simile, e quindi una base per la comunità

Lebbeus Woods

Il Caso contro il Restauro

Caso

È naturale voler rimpiazzare qualcosa di importante distrutto dalla guerra con una sua copia. Si dice che la fenice sia capace di risorgere dalle proprie ceneri. I monumenti culturali e civili di notevole importanza devono, senza dubbio, essere riportati alla loro integrità, come segni di coerenza con il passato che possa servire da modello per la civiltà, ma non come riaffermazione di un ordine sociale ormai andato e concluso con la guerra. Il tentativo di ripristinare il tessuto delle antiche città nella loro condizione iniziale, tuttavia, è una follia che non solo nega le condizioni attuali, ma impedisce l’emergere di un tessuto urbano e di uno stile di vita basato sulle esigenze attuali. Ovunque si è tentato di ripristinare il tessuto urbano devastato dalla guerra, rimpiazzando ciò che è stato distrutto, si ha avuto come risultato null’altro che una parodia degna dell’ammirazione dei soli turisti. L’idea istintiva di riconquistare qualcosa che ormai è irrimediabilmente andato perduto si rifà ad una sensibilità Fin-de-siècle, che si autodefinisce come prosecutrice di una epoca implicitamente più vivida e potente. Ma l’intricata complessità definita dagli edifici, strade e città, costruita nel tempo e lungo l’arco di innumerevoli vite, non potrà mai essere sostituita. D’altronde, questo tentativo di sostituire i tessuti urbani è utile agli interessi di decrepite gerarchie, che lottano per legittimare sé stesse. Infine, attraverso la nostalgia ed il sentimentalismo, attuano l’inganno demagogico, troppo confortante e attraente per tutte quelle persone che lottano per riprendersi dalla tragedia di profonde perdite personali e culturali.

Nel momento della ripresa è fondamentale che si articolino nuove scelte e si proceda verso nuove direzioni. Considerato che i governi e le corporation non ne hanno alcun interesse, non ci si può aspettare che siano loro a prendere l’iniziativa di costruire una nuova società a più livelli. L’impulso per il perseguimento di tale obiettivo deve venire dal basso, da persone che cominciano a costruire direttamente, senza l’approvazione di una qualsivoglia autorità. Queste persone devono necessariamente includere qualsiasi gruppo sociale, le cui energie, una volta rilasciate, possano fluire prontamente in un nuovo, complesso e vorticoso corso, composto da atomi distinti, e non dissolti in una marea indiscriminata

Lebbeus Woods

Lettera di cittadini di Sarajevo

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Ieri, abbiamo ricordato “Leb” con la poesia che accompagna “Guerra e Architettura”. Oggi, vogliamo farlo riportando la lettera che introduce lo stesso libro.

Questo pamphlet è dedicato ai cittadini di Sarajevo, che tutt’ora sono vittime di un assedio martellante e patologico. Un assedio che ha avuto inizio più di quattordici mesi fa. La mia speranza è che le idee contenute in questo testo, nonostante siano state elaborate a distanza e nonostante ci sia per i cittadini di Sarajevo una grande urgenza, possano in qualche modo contribuire, quando verrà il momento, alla ricostruzione della loro città e del loro stile di vita.

Oggi, le torri bruciano a Sarajevo. I monumenti di acciaio e vetro, eretti dal progressismo illuminato dell’era della società industriale, sono ormai nient’altro che carcasse sventrate, così come i valori e le ideologie che incarnavano. I grattacieli di Sarajevo sono stati i bersagli principali dei cannoni appostati sulle colline, così come lo sono stati i minareti e le moschee, la grande biblioteca, l’ufficio postale, gli edifici universitari e tutti gli altri simboli della ragione e della sua promessa di società civile. Una volta dato il via all’uso dei proiettili incendiari non vi è stato alcun modo per salvare quegli edifici. Non solo hanno avuto i mezzi, ma anche un delicato ordito di ragioni per farlo. Le torri incendiate di Sarajevo rappresentano il segno della fine dell’epoca della ragione, se non della ragione stessa, oltre la quale non vi è altro che un dominio di incomprensibile oscurità.

Ma la guerra non è confinata a questa città, né alla culturalmente complessa penisola balcanica, per la quale Sarajevo era simbolo di speranza e tolleranza, mentre ora indossa una maschera di disperazione. Conflitti armati infuriano in tutto il mondo: in Azerbaijan, Moldova e Georgia, in Afghanistan, Kashmir e Sri Lanka, in Israele e in Libano, in Angola ed in una mezza dozzina di altri stati africani, così come in Irlanda del Nord, in Perù ed in Colombia. Come un temporale improvviso, una insurrezione civile ha attraversato l’area centro-meridionale di Los Angeles, lasciando dietro di sé, oltre che una notevole quantità di proprietà devastate, anche l’illusione americana che i cambiamenti violenti e forzati interessassero esclusivamente altre nazioni. In Germania, l’incendio di edifici residenziali popolari ha portato a disordini che esprimono ancora una volta tutta la fragilità della società civile, anche nella più ordinata tra le società. Anche se nessuno sano di mente lo avrebbe mai auspicato, sta accadendo che, il mondo, in seguito al disgelo tra USA e blocco sovietico, continua sempre più a frammentarsi, incrinandosi come una grande lastra di ghiaccio, tracciando linee nuove ed inaspettate. È un quadro spaventoso e desolante, soprattutto alla fine di un secolo in cui orribili guerre ci hanno dato lezioni da non dimenticare sulla follia della violenza organizzata. È proprio questa immagine, che emerge dalla forza più crudele ed inquietante, ad essere quella che ha la possibilità di lenire il dolore della guerra. Solo attraverso il confronto con essa, con la violenza, ci potrà essere una qualche speranza di cambiare il suo tragico contenuto. Solo di fronte alla follia della distruzione premeditata si potrà ricominciare a riflettere, credendo di nuovo in sé stessi.

New York City

27 giugno 1993

Sarajevolution

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Sabato sera, sono andato a vedere Sarajevolution, un documentario sulla capitale bosniaca e sulla sua difficoltà ad andare oltre le ferite della guerra e dove la Cultura, come in Italia, è messa da parte dal potere, trasformata strumento necessario per ricostruire l’Uomo in lusso inutile, da lasciare sfiorire e dimenticare in un cantuccio polveroso.

Sono andato perchè Sarajevo è qualcosa di più e di diverso di una banale icona di tolleranza e convivenza: è invece una ferita che si ha nella carne e nel cuore, che non si cicatrizza mai.

E’ il ricordare il quanto siano fragili i valori su cui costruiamo la nostra vita, il riconoscerci nella diversità dell’altro. O che nonostante la barbarie possa circondarci, qualche angolo di Paradiso possa continuare a sopravvivere, come un’erbaccia cattiva e infestante. Come, anche nei momenti più bui, sia necessario tenere nel cuore l’Utopia…

E per celebrare Lebbeus Woods, l’autore di Guerra e Architettura, di cui tra poco ricorrerà l’anniversario della morte…..

Uomo che ha vissuto i giorni dell’assedio e che si è interrogato a fondo sui motivi di quell’assurda guerra e che ricordo con i versi con cui apre il suo libro dedicato a Sarajevo

Architettura e guerra non sono incompatibili.
Architettura è guerra. Guerra è architettura.
Sono in guerra con il mio tempo, con la storia, con tutte le autorità che risiedono nella fissità delle forme
Sono uno dei milioni di individui che non ci stanno, che non hanno casa, senza famiglia, senza fede, nessun luogo sicuro da poter considerare mio, non conosco l’inizio o la fine, nessun “sacro luogo primordiale”
Dichiaro guerra a tutte le icone ed a tutti i fini, dichiaro guerra a tutte le storie che mi incatenano alle mie stesse menzogne, alle mie pietose paure.
Conosco solo momenti, e vite che sono come momenti, e forme che sembrano avere una forza infinita, fino a quando “si fondono con l’aria”
Sono un architetto, un costruttore di mondi, un sensuale adoratore della carne, la melodia, una figura che si staglia contro il cielo oscuro.
Non conosco il tuo nome. Ne tu il mio.
Domani, inizieremo insieme la costruzione di una città