
Tornando al santuario delle Divinità Ctonie, nel V secolo a.C. si assiste ad una definizione del complesso monumentale con la costruzione di due templi, che di fatto, hanno provocato diversi mal di testi agli studiosi che hanno provato ad analizzarne caratteristiche, dedica e origine. Il primo è diventato un simbolo di Agrigente ed è comunemente noto come Tempio dei Dioscuri, a causa di un passo del poeta greco Pindaro, che riferisce – a proposito di Akragas – di un culto e di una festività in onore dei Dioscuri.
Il Tempio fu scoperto nel 1836, sgombrato dalle pietre e dalla terra da che per molti secoli lo avevano ricoperto. Villareale e Cavallari furono gli archeologi che , per ordine del Duca di Serradifalco, rilevarono la pianta del tempio ed eressero su tre gradoni, tre colonne alle quali, nel 1856, ne aggiunsero una quarta. In questa ricostruzione, però, per complicare la vita ai posteri, furono utilizzati elementi architettonici di un altro edificio, ad oggi non identificato, che essendo decontestualizzati, hanno portato gli archeologi a due diverse datazioni, tra loro diversissimi. Alcuni, intravedendo un’ispirazione ionica, li hanno attribuiti all’epoca arcaica, altri, invece, a quella tardo romana.
In ogni caso, è abbastanza condiviso che il tempo fosse ricostruito intorno al 450 a.C. e restaurato in epoca tardo ellenistica. La sua alta piattaforma, montata su 3 gradoni estesi all’interno perimetro, misurava m. 31,12 in lunghezza e m 15,86 in larghezza, poco meno di un doppio quadrato che occupava una superficie di mq 541,14. Delle 34 colonne, che si presentavano 6 sui frontoni e 13 sui lati lunghi contando anche quelle degli angoli, soli 4 si stagliavano in mezzo a tutte quelle rovine; altre 4 colonne delimitavano la cella nei due lati corti. Sono formati da tre rocchi tufacei, con un fascio di 20 scanalature a spigolo vivo, raggiungono un’altezza di m 5,27 ed hanno un diametro di m 1,10. Il tempio mostra, inoltre, una decorazione figurativa fogliata ricca e varia. Lo spigolo esistente mostra un rosone, simbolo di Rodi. Ai 4 lati del tetto si notano esemplari di grondaia dalla forma a testa di leone con la lingua rossa. Il ruolo della figura del leone, di cui questo tempio come quello di Demetra e di Ercole si avvaleva, era sopratutto quello di spaventare le potenze del male e di allontanarle. Le maschere leonine avevano dipinte in turchese la criniera, giallo il muso e rossa la lingua che serviva da canale di scorrimento. Alle teste di leone si alternavano le antefisse a forma di palmette, simbolo del trionfo, alternativamente di colore rosso e turchese. Una smagliante policromia, svrapposta allo stucco, indispensabile per proteggere il materiale, completava la decorazione. Il fregio del tempio, tagliato orizzontalmente, ci dà una strana sensazione: è come se la parte superiore della trabeazione sia stata “posata” successivamente sulla parte inferiore.
Il rivestimento di stucco bianco che si nota sulle colonne e su parte della trabeazione è della stessa epoca del tempio. Gli architetti akragantini adoperarono tale materia per proteggere dagli agenti atmosferici la friabile pietra porosa di cui si servivano per costruire i tempi, per imitare il colore del marmo e per dare l’illusione che le colonne fossero monolitiche. La parte superiore dell’architrave era coperta con stucchi colorati che tutt’oggi si osservano. Sul vano del le metope, probabilmente, erano degli affreschi inerenti al culto della divinità a cui il tempio era dedicato
Ancora più complicata per gli archeologi la questione del vicino tempio L, i cui resti, sino al 1932 erano stati identificati come quelli di una basilica romana: solo in quell’anno, in quell’anno, in seguitò ad uno scavo, per i dettagli delle opere scoperte, per gli oggetti votivi ed i frammenti architettonici rinvenuti, gli archeologi modificarono il loro giudizio.
Le rovine del del tempio L consistono con resti all’intorno dell’alzato (colonne e trabeazione) e, sulla fronte orientale, del grande altare rettangolare. Si tratta di un tempio completamente distrutto, della metà del V secolo a.C. (altri ritengono l’edificio ellenistico), di 41,80×20,20 metri allo stilobate (i tagli nella roccia misurano 44,30×21,20 m), cui nel III secolo a.C. sarebbe stata sovrapposta una barocca trabeazione ellenistica.
A cui erano dedicati questi due templi ? Viste le caratteristiche del santuario, sarebbe ovvio pensare a Demetra e Kore. Però, negli scavi del tempio dei Dioscuti sono emersi alcuni elementi a favore di un’altra ipotesi, come un cantaros a forma di asino in atteggiamenti lussuriosi, con sulla soma il vaso vero e proprio, decorato con immagini di Sileni. Per cui si potrebbe ipotizzare come il Tempio dei Dioscuri fosse dedicato a Dioniso Zagreo, il dio bambino che muore e rinasce, il cui culto era particolarmente sentito a Creta, il che spiegherebbe bene alcune caratteristiche dei temenos, e il tempio L a sua madre Core.
Una recente interpretazione dei complessi sacri sin qui esaminati lascia intravedere la possibilità che la successione delle tre aree sacre di culto ctonio fosse funzionale alla articolazione delle feste che vi si celebravano in onore di Demetra e Kore; si tratterebbe in particolare delle tesmophorie; tali feste, in assonanza con quelle che avevano luogo in Atene, duravano tre giorni: il primo comprendeva l’arrivo della processione di donne che si suppone entrasse nell’area sacra da Porta V trovando, nel santuario subito ad Est di questa, il luogo deputato ad accogliere e far sostare i partecipanti alle cerimonie (il boschetto sacro ipotizzato avrebbe ricevuto le tende o skenai, mentre la leske avrebbe funzionato, sino alla fine del V secolo, quale luogo di assemblea delle donne; nel III secolo a.C., l’edificio ad L dovette assumere, infine, la funzione di luogo di soggiorno e consumazione dei pasti).
Il secondo giorno, quello del digiuno, le cerimonie si sarebbero svolte nell’area sacra ad Ovest della Porta, nell’area dei recinti e degli altari (recinto 1 e 2 in particolare): qui avevano luogo i magarizein, cerimonie che consistevano nel buttare i porcellini femmina vivi nei megara o chasmata (luoghi voraginosi identificati con i borthroi o altari rotondi) i cui resti putrefatti venivano poi recuperati nel terzo ed ultimo giorno della festa per concimare il terreno; il terzo giorno, denominato kalligeneia, cioè della generazione di cose belle, avuto termine il digiuno, si svolgeva il pasto comune e forse a queste ultime cerimonie era destinata l’area sacra all’estremità occidentale della collina.