Abu Tabela, sindaco de Roma !

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Uno dei limiti della narrativa steampunk italiana è la sua esterofilia, l’incapacità di valorizzare i tanti folli e strampalati personaggi che popolano il suo Ottocento. Così, più per gioco che per altro, nelle prossime settimane mi dedicherò a buttare giù una carrellata, sia per fornire qualche spunto ai miei compagni di viaggio, sia perché, prima o poi, faranno una comparsa nei miei romanzi.

Comincio da quello che è forse il più famoso, Abu Tabela, Paolo Crescenzo Martino Avitabile, la tigre di Peshawar, che non avrebbe sfigurato nelle pagine di Salgari, in compagnia di Tremalnaik e di Yanez. Un uomo sempre in bilico tra coraggio, onore, lucida follia, avidità sfrenata e senso del dovere.

Paolo nasce ad Agerola il 25 ottobre 1791, da una famiglia non nobile, ma benestante e possidente di proprietà agricola; crescendo, come Fabrizio del Dongo, visse in pieno la fine dell’epopea napoleonica. Entra nella milizia ausiliaria nel 1807, a sedici anni, e da lì passa nell’esercito regolare del Regno di Napoli, all’epoca sotto Murat. Avitabile dimostra subito grandi doti tecniche e fa carriera in artiglieria, venendo promosso al grado di aiutante, il più alto raggiungibile dai non ufficiali, e guadagnandosi una medaglia.

Non partecipa alla battaglia di Tolentino, è abbastanza intelligente da capire l’aria che tira, e aderisce all’esercito borbonico, tanto da partecipare all’assedio di Gaeta, città che di fronte agli Austriaci di Delaver aveva chiuso le porte e che avrebbe resistito per due mesi (giugno-agosto 1815). In questa occasione, comanda una delle batterie di cannoni che fanno fuoco ininterrottamente durante l’assedio, fino a distruggere le mura e la torre della città, e durante una delle azioni, pur ferito alla testa da una scheggia di metallo, rifiuta ostinatamente di lasciare il comando. Questo suo gesto viene notato dal comandante delle truppe austriache, che lo raccomanda per una promozione ed una medaglia.

Invece, a causa di un commilitone invidioso, che lo accusa di essere un bonapartista convinto, non solo non ottiene alcuna promozione o medaglia, ma viene anzi messo a mezza paga nella fanteria leggera. Vista la situazione, Paolo decide di cambiare aria: da buon uomo del sud, sogna di emigrare in America e per potersi pagare il biglietto, comincia a fare la spola tra Baleari, Algeri e golfo del Leone, dove naufraga a bordo di un veliero spagnolo.

Riesce a salvarsi, sbarcando però in un’area infettata dalla peste e viene messo in quarantena nello Chateau d’If, di fronte a Marsiglia. Rilasciato, ma in condizioni miserevoli e senza denaro, viene tratto in salvo da alcuni ex ufficiali bonapartisti, che gli consigliano invece di dirigersi in Oriente, per mettersi al servizio di Costantinopoli, dove da una parte il sultano Mahmud II era impegnato nel suo duello mortale con i giannizzeri, dall’altra Mehmet Ali tramava per trasformare l’Egitto in suo dominio personale.

Fra gli ufficiali che incontra, vi sono Jean-François Allard e Jean Baptiste Ventura, due veterani di Waterloo che avrebbe poi rincontrato anni dopo in India. Ventura, che come tradisce il nome aveva origini italiane (emiliane, ad essere precisi: il padre era un ebreo di Modena), era stato in fanteria, aveva combattuto a Wagram e preso parte alla campagna di Russia, mentre Allard aveva prestato servizio nei corazzieri di Ney con il grado di capitano, distinguendosi per il suo coraggio a Waterloo, dove aveva partecipato alla sfortunata carica della cavalleria francese.

Tra loro, Paolo non sfigurava a giudicare dai quadri che ci restano di lui, faceva la sua bella figura in uniforme: era alto un metro e ottanta e i favoriti che portava sul volto gli davano un’aria marziale. A Costantinopoli, però, non se lo fila nessuno: per cui, senza un soldo il tasca, decide di dare retta a Beraud, un ex capitano della Guardia Imperiale, che lo convince a trasferirsi in Persia, dove, a causa di una delle sue tradizionali guerre civile, c’era più possibilità di riempirsi lo stomaco.

Guerra civile combattuta tra i figli dello shah Fat’h-Ali della dinastia dei Qajaridi, succeduti ai Safavidi nel 1794: da un lato, c’è l’erede nominato, Abbas Mirza, che controlla Teheran ed è sostenuto da consiglieri e militari inglesi; dall’altro, Mohammed Ali Mirza, figlio maggiore e governatore del Kermanshah, che invece ha nel suo seguito uno stuolo di europei non inglesi, perlopiù francesi, a cui si aggiunge anche Avitabile: inizialmente a Paolo sono affidate mansioni minori, come l’addestramento delle truppe, ma ad un certo punto ottiene l’incarico, difficile ma importante, di ridurre all’obbedienza ai riottosi capi tribù curdi e far pagare loro le tasse.

Visto che i curdi, come oggi erano poco propensi a entrambe le cose, Paolo decise di adottare una linea dura, che ai nostri tempi lo avrebbe fatto definire un pericoloso criminale di guerra, instaurando un regime di terrore, che però risulta tanto efficace, da fargli ricevere il titolo di khan, il grado di colonnello e uno sproposito di medaglie, di cui Mohammad, che aveva interpretato con particolare entusiasmo il detto napoleonico

Ogni soldato francese porta nella sua giberna il bastone di maresciallo di Francia

ne era assai generoso.

Alla morte improvvisa di Mohammad per gotta, Paolo, per non finire impalato dai curdi , passa al di là della barricata e viene accolto a braccia aperte da Abbas Mirza, che in ragione della sua abilità lo riconferma nelle posizioni svolte fino a quel momento. Però, visto che la guerra civile è terminata, di oro se ne vede di meno e la noia aumenta sempre più: Dopo sei anni dal suo arrivo in Persia, Avitabile si trasferisce nuovamente, passando al servizio di un principe indipendente indiano, Ranjit Singh, il fondatore dell’impero dei Sikh.

Per pagare le spese di viaggio, durante il quale viene accompagnato da un altro reduce francese, un tenente di fanteria di nome Claude Auguste Court, egli si porta dietro un ricco bagaglio di oggetti preziosi, che vende lungo la strada. Giunge a Kabul nel 1826 e le sue referenze vengono fornite al Maharaja Ranjit da Allard e Ventura, i due ufficiali conosciuti a Marsiglia. Anche qui, all’inizio gli viene assegnata l’artiglieria e la sovrintendenza degli arsenali e delle fonderie, ma già l’anno successivo Ranjit gli affida la provincia di Wazirabad, nel Punjab, dove Paolo mostra un lato inaspettato del suo carattere, l’amore per il bello e per l’arte, facendo costruire, il bazar, la torre ottagonale della fortezza sikh e il suo nuovo palazzo.

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Nel 1834, Ranjit Singh lo nomina Govenatore di Peshawar,la Gandara di Alessandro Magno, città ritenuta un castigo di Dio dai credenti. L’Afganistan all’epoca è tale e quale ad adesso. Paese di infinite etnie. Ognuna gelosa della propria libertà e irriducibile nemica di un governo centrale, anche se autoctono. Terra di feroci guerrieri e bande dalle infinite bandiere, che attirava uomini disperati, come falene la luce.

Peshawar è circondata da magnifiche, verdi campagne e abitata dai più riottosi, imprevedibili, anarchici, pericolosi individui, pronti a tagliare la gola per mezza rupia. Polverosa e caotica all’interno, la città è come oggi, assolutamente ingovernabile. Paolo vi arriva come un improvviso inverno. E gli abitanti sono governati di colpo da un uomo che racchiude i lati oscuri di Tamerlano, di Barbablù e di Vlad l’impalatore.

Appena arrivato, Paolo fa piantare dei pali di legno fuori delle mura della città, con delle corde deposte in terra. Gli abitanti della città cominciano a deridere questa stranezza del governatore, dicendo per reggere una città come la loro servono spade e fucili, non corde e pali di legno. Ma poi Avitabile prende a far impiccare cinquanta persone al giorno e le cose iniziano cambiare, trasformandolo in Abu Tabela, l’Uomo Nero con cui le mamme afghane spaventano ancora i figli discoli.

Il suo motto è

“per ogni crimine, una testa”

e non passa giorno senza che vi siano delle esecuzioni capitali. I corpi delle vittime sono poi lasciati marcire in bella vista, per spaventare i predoni che infestano quelle terre. Paolo usa anche impalare e spellare vivi certi condannati a morte, quando la gravità del crimine, a suo insindacabile giudizio, rende necessario uscire dalla norma.

Ha fatto modificare il minareto della moschea di Mahabat Khan per trasformarlo in un trampolino di lancio per i condannati a morte, che crepano schiantandosi al suolo, per risparmiare sui costi del patibolo.

Uno di questi, una volta, riesce ad attaccarsi al cornicione e urla che Allah l’aveva miracolato, e i due boia non riescono a riacciuffarlo. Paolo, per risolvere quella impasse scrive la sua grazia su di una pergamena dicendo di consegnarla al disgraziato e una volta ripreso lo fa ributtare giù al grido di:

“Allah perdona, Avitabile no”

diventando così famoso per non avere mai concesso la grazia a nessuno. Nei momenti di quiete, Paolo caccia con i falconi, visita antiche rovine, scrive poesie, si gode la quiete del numeroso harem. Gli inglesi, che pur sopportandolo a malapena, hanno bisogno del suo aiuto per condurre il Grande Gioco contro i Russi, sostengono che gli afghani guardino Avitabile con la paura e la reverenza con cui gli sciacalli scrutano da lontano la tigre.

Joseph Wolff, un bizzarro missionario tedesco, scrive invece che Paolo, nonostante abbia ammassato una gran fortuna, sogna sempre di tornare a Napoli e mormorando:

“Per amor di Dio, fatemi uscire da ’sto posto”.

Alla fine, pieno di soldi e preso dalla nostalgia, torna in Europa nel 1843. Viene ben accolto a Parigi e Londra, dove tra le tante cose, compra un torello, due vacche gravide e una vitella di razza Jersey. Arrivato a Napoli, i Borboni lo assumono come una sorta di consulente nella loro interminabile lotta contro i corsari barbareschi e contro la tratta degli schiavi, si dedica all’agricoltura e selezione una nuova razza di mucche, l’Agerolese, molto rustica, con un latte di qualità eccezionale, impiegato sia per la produzione del “provolone del Monaco” la cui paternità e’ rivendicata anche da Arola di Vico Equense, paesino alle falde del Faito, dove vi sono ancora tanti Caseifici specializzati in questo tipo di lavorazione.

Poi, atteggiandosi a gran signore, fonda un teatro e fa costruire anche un bel palazzo vicino al paesello natio, facendo demolendo le rovine della chiesa benedettina di San Severino, sul cui portone principale fa incidere la massima di San Bernardo

O beata solitudo, o sola beatitudo

In più, per non fari mancare nulla, sposa la figlia di suo fratello, di quarant’anni più giovane di lui, dopo aver ricevuto la dispensa dalla Chiesa, che era gia fidanzata con un altro e fu cosi che, il 28 marzo 1850 alla vigilia di Pasqua, gli fa mangiare dell’agnello avvelenato. Dopo qualche ora di agonia nel suo palazzo appena intonacato, Paolo muore, mormorando:

“Mi hanno avvelenato, ma vi faccio vedere io chi è Avitabile…”

Insomma, dove non erano arrivati gli assassini afghani, sono arrivati i parenti, che si scanneranno per anni in una complessa e folle causa legata alla sua eredità.

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La lapide della tomba di Paolo è ancora visibile. Riporta le principali tappe della sua vita

NAPOLI, PRIMO TENENTE
PERSIA, COLONNELLO
LAHORE , GENERALE
PESHAWAR, GOVERNATORE.

Sulla parte inferiore spicca in bassorilievo l’impettito busto del generale tra un affusto di cannone ed alcuni fucili.

L’epitaffio conclude con l’elenco delle varie decorazioni del generale:Cavaliere della Legione d’Onore e di S. Ferdinando Merito, Commendatore dell’Ordine di Durani e di Ranjit Singh, Gran Cordone del Leone e Sole di Persia, Gran Cordone dei due Leoni e la Corona di Persia, Gran Cordone della Stella Brillante del Punjab.

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