Goethe a Palermo (Parte VI) A caccia di Cagliostro

E’ complicato parlare di Cagliostro: fu sicuramente uno dei più grandi e geniali imbroglioni della storia, straordinario mentitore, un ciarlatani dalla fantasia instancabile, un avventuriero dalla vita rocambolesca una simpatica canaglia a cui è impossibile volere male.

Ma è anche fu anche taumaturgo, filantropo, cultore di scienze esoteriche, massone e uomo dall’originale spiritualità, che molto lo avvicina al neoplatonismo misticheggiante di Swedenborg: un ossimoro, una contraddizione vivente, che poteva poteva nascere soltanto in quello strano secolo chiamato Settecento.

Se noi, che viviamo a tre secoli di distanza, ne siamo ancora affascinati, possiamo immaginare l’impressione che fece sui suoi contemporanei. Paradossalmente, l’inizio della sua caduta fu causato da una vicenda in cui Cagliostro non c’entrava nulla, il cosiddetto Scandalo della Collana

Nel 1774 il gioielliere di corte Boehmer aveva realizzato una elaboratissima collana di diamanti, del valore di 1.600.000 livre – pari a circa 500 kg d’oro – una somma che forse solo una regina avrebbe potuto spendere, ma Maria Antonietta rifiutò l’acquisto. A questo punto entrarono in gioco due avventurieri, il conte e la contessa De la Motte, che organizzarono una truffa ai danni del cardinale de Rohan, facendogli credere che in realtà Maria Antonietta desiderasse acquistare la collana. Il cardinale si sentiva in debito verso la regina a causa della gaffe da lui commessa nei confronti di Maria Teresa d’Austria, sua madre. Si convinse che tramite la collana avrebbe potuto riconquistare l’amicizia di Maria Antonietta. La coppia convinse il cardinale a farsi garante presso il gioielliere per conto della regina.

La collana, consegnata dall’inconsapevole cardinale a un complice dei due aristocratici imbroglioni, finì nelle mani del conte De la Motte, che cercò di venderla, smembrata, in Inghilterra, ma la truffa fu scoperta e i colpevoli arrestati: la contessa De la Motte, per attenuare le sue responsabilità, accusò Cagliostro di essere l’ideatore del raggiro. Cagliostro, arrestato con la moglie il 22 agosto 1785, fu incarcerato nella Bastiglia.

Fu difeso dai migliori avvocati di Parigi, uno dei quali lo aiutò a scrivere in francese un suo Memoriale, di fatto la storia della sua vita, dalla nascita al suo arresto. Il 31 maggio 1786 il Parlamento di Parigi riconobbe l’innocenza di Cagliostro, insieme con quella del cardinale, ma una lettre de cachet del re ordinò loro di lasciare Parigi entro otto giorni e la Francia entro venti. Ora, il nostro eroe si rifugiò a Londra, ma non ebbe pace.

Charles Theveneau, un avventuriero, giornalista e spia al servizio dei francesi, cominciò a sostenere, dalle pagine del «Courier de l’Europe», cone il presunto Conte di Cagliostro non fosse che un morto di fame palermitano, Giuseppe Balsamo, che tirava avanti a forza di espedienti e ricatti.

Cagliostro, nel novembre 1786, rispose con la Lettera del conte di Cagliostro al popolo inglese per servire in seguito alle sue memorie in cui ammetteva:

«Non sono conte, né marchese, né capitano. La mia vera qualifica è inferiore o superiore a quelle che mi sono state date? È ciò che forse un giorno il pubblico saprà! Intanto, non mi si può rimproverare d’avere fatto quel che fanno i viaggiatori che vogliono mantenere l’anonimato. Gli stessi motivi che mi hanno indotto ad attribuirmi vari titoli, mi hanno condotto a cambiare più volte il mio nome.Nessun registro di polizia, nessuna testimonianza, nessuna inchiesta della polizia della Bastiglia, nessun rapporto informativo, nessuna prova hanno potuto stabilire che io sia quel Balsamo! Nego di essere Balsamo!».

La notizia della polemica giunse anche in Germania, dove era in corso un dibattito senza fine tra i razionalisti e i mistici, che tanto influenzerà il Romanticismo. Goethe, non poteva tirarsi indietro e stando a Palermo, si trasformò da poeta a giornalista d’assalto, costruendosi una falsa identità a caccia delle radici del controverso Cagliostro tra i vicoli dell’Albergheria. Questo è il resoconto della sua inchiesta

Palermo, il 13 ed il 14 aprile 1787.

Era scritto, che mi dovesse capitare prima della mia partenza un caso strano, del quale non voglio differire a darvi particolareggiato conto.

Fin dai primi giorni della mia venuta in questa città udivo spesso far parola alla tavola rotonda della locanda di Cagliostro, della sua origine, delle sue avventure. I Palermitani erano d’accordo tutti nello asserire, che un tale Giuseppe Balsamo, diffamato per vari delitti era stato bandito dall’isola, ma non erano poi d’accordo nel ritenere che il Giuseppe Balsamo, ed il conte Cagliostro, fossero la stessa persona. Alcuni che avevano conosciuto di persona il Balsamo, sostenevano riconoscerlo nei ritratti del Cagliostro, i quali sono volgari in Germania, e che vennero portati qui pure.

Mentre si facevano quei discorsi uno dei convitati fece cenno dei tentativi fatti da un legale palermitano, allo scopo di portare la luce in quella questione, dicendo essere stato incaricato dal governo di Francia, di ricercare le origini di un individuo, il quale aveva avuta l’impudenza di produrre le favole le più assurde, in un processo di somma importanza, e molto pericoloso.

Dicevasi avesse quel legale formato l’albero genealogico del Giuseppe Balsamo,e trasmessolo in Francia, probabilmente per essere prodotto nella causa, accompagnandolo di documenti autentici, non che di una memoria spiegativa.

Manifestai il desiderio di fare la conoscenza di quel legale, di cui si parlava del resto molto vantaggiosamente, e quegli fra i convitati che lo aveva nominato per il primo, si dichiarò disposto ad annunciargli la mia visita, ed a portarmi da lui.

Vi ci recammo difatti alcuni giorni dopo, e trovammo il legale, occupato con alcuni suoi clienti. Dopo avere dato udienza a questi, e fattaci servire la collezione, cavò fuori un manoscritto, il quale conteneva l’albero genealogico del Balsamo, ovvero Cagliostro, non che la copia dei documenti, ed il sunto di questi quali li aveva spediti in Francia. Svolse l’albero genealogico, dandomi tutte le spiegazioni occorrenti, delle quali voglio addurre qui, quanto può occorrere,per dare un idea abbastanza chiara della questione.

Il bisavo materno di Giuseppe Balsamo, era un Matteo Martello. S’ignora il nome di sua bisava materna, Da quel matrimonio nacquero due femmine, l’una delle quali per nome Maria, sposò un Giuseppe Bracconeri, e fu l’avola.del Giuseppe Balsamo. La seconda femmina, di nome Vincenza, sposò un Giuseppe Cagliostro, originario di La Noava piccolo villaggio distante un otto miglia da Messina, e devo notare a questo proposito, che vivono oggidì tuttora a Messina due fonditori di campane, i quali portano quel cognome. La prozia fu madrina del Giuseppe Balsamo, il quale ricevette nel battesimo il nome del marito di lei, ed inoltre prese pure in seguito, dal suo prozio, il sopranome di Cagliostro.

I coniugi Bracconeri ebbero tre figliuoli; Felicita, Matteo, ed Antonia.

Felicita fu maritata ad un Pietro Balsamo, figliuolo di Antonino Balsamo, venditore di nastri in Palermo, il quale sembra fosse ebreo di origine.

Pietro Balsamo, padre dal famigerato Giuseppe, fece bancarotta, e morì in età di quarantacinque anni. La sua vedova, la quale vive tuttora, gli partorì oltre il nominato Giuseppe, una figliuola, Giovanna Giuseppe Maria, la quale fu maritata a Gian Battista Capitumino che morì, dopo avere data vita a tre figliuoli.

Il memoriale di cui il cortese autore mi diede lettura, e che, aderendo alla mia preghiera, mi affidò per alcuni giorni, era corredato di fedi battesimali, di contratti di matrimonio, e d’istrumenti raccolti con somma accuratezza. Conteneva ad un dipresso le circostanze (siccome mi risulta da un estratto che ne ho fatto a suo tempo), le quali furono poste in luce dagli atti del processo eseguito a Roma, vale a dire, che un Giuseppe Balsamo nato a Palermo in principio del giugno 1743 e tenuto al fonte battesimale da Vincenzo Martello in Cagliostro, aveva vestito nella sua gioventù l’abito di frate mendicante, in un ordine che si proponeva specialmente l’assistenza agli ammalati; che non aveva tardato a rivelare molta disposizione per lo studio, e per l’esercizio della medicina; che però era stato cacciato dal convento per la sua cattiva condotta; e che aveva finito per dedicarsi in Palermo alle pratiche della magia, ed alla ricerca di tesori.

Soggiungeva il memoriale che non aveva omesso il Balsamo di trarre partito della singolare sua perizia nell’imitare tutte le scritture. Egli falsificò, ovvero per meglio dire fabbricò addirittura, un antico documento, per valersene in una lite relativa alla proprietà di alcune terre. Fu sottoposto a processo; portato in prigione, riuscì a fuggire, e venne citato a comparire, mentre era contumace. Si portò per le Calabrie a Roma, dove sposò la figliuola di un fabbricante di cinghie, e da Roma poi si recò a Napoli, sotto il nome di marchese Pellegrini. Si arrischiò a fare ritorno a Palermo, vi fu riconosciuto, Venne arrestato, se non chè riuscì ad uscire dal carcere, in modo che merita essere riferito nei suoi particolari.

Il figliuolo di uno fra i principi primari della Sicilia, possessore di vasti latifondi, e che occupava carica l’agguardevole alla corte di Napoli, univa ad una grande forza fisica non chè ad una volontà sfrenata, tutta l’allegria, e la prepotenza che ritiene lecite un giovane ricco, potente, e senza educazione.

Donna Lorenza riuscì a trarre il giovane dalla parte sua, e su questo fece assegnamento il finto marchese Pellegrini per riavere la sua libertà. Il principe assunse ostensibilmente la protezione dei due coniugi arrivati di recente, e non è a dire in qual furore sia montato, allorquando Giuseppe Balsamo, sulla querela della parte a cui aveva recato danno colla sua falsificazione, venne di bel nuovo imprigionato! Il principe tentò vari mezzi per liberare il suo protetto, se non chè, tornandogli tutti questi infruttuosi, minacciò nell’anticamera del presidente di maltrattare in ogni possibile maniera gli avvocati della parte avversa, qualora non ottenesse egli la liberazione immediata del Giuseppe Balsamo, ed essendosi a ciò ricusato il patrocinatore dell’avversario, il principe senz’altro dire gli si scagliò addosso, lo cacciò a terra, lo calpestò, e non desistette dal maltrattarlo in ogni maniera, in fino a tanto che lo stesso presidente, chiamato fuori da tutto quel baccano, venne ad interporre la sua autorità.

Questi però, uomo debole, pauroso, non si arrischiò punire il colpevole; la parte avversa ed i suoi rappresentanti si dimostrarono pusillanimi dessi pure alla loro volta, ed il Balsamo riebbe la sua libertà, senza che punto risulti dagli atti del processo, né come l’abbia desso ottenuta, né chi l’abbia ordinata.

Poco dopo egli abbandonò Palermo, fece vari viaggi, intorno ai quali l’autore del memoriale non si potè procurare che notizie imperfette.

Il memoriale terminava per provare con molto acume, come Balsamo e Cagliostro fossero lo stesso individuo, tesi questa la quale era più difficile il sostenere in allora di quanto non sia attualmente, che si conoscono tutti i particolari di quella questione intricata.

Se io non avessi dovuto ritenere in allora che in Francia si sarebbe data pubblicità a quel documento, e che probabilmente al mio ritorno in Germania lo avrei trovato stampato, mi sarebbe stato permesso il levarne copia per potere fare conoscere in anticipazione a miei amici ed al pubblico, vari particolari abbastanza curiosi.

Intanto io vi ho data la sostanza di quel memoriale da cui risulta d’onde abbiano avuta origine tanti errori, ed in qual modo abbiano potuto propagarsi. Chi avrebbe mai potuto ritenere, che Roma avrebbe potuto contribuire per tal modo, ad illuminare il mondo, ed a smascherare un impostore, siccome ha fatto colla pubblicazione degli atti di quel processo? Imperocchè quello scritto, ad onta avrebbe potuto e dovuto riuscire molto più interessante, rimarrà pur sempre un documento prezioso per qualunque persona ragionevole, la quale non poteva a meno di considerare con rammarico, come quell’impostore fosse riuscito ad ingannare per tanti anni il mondo, non che ad acquistare una fama, la quale non poteva a meno di riuscire molesta a tutte le persone di mente sana, le quali non potevano nutrire a di lui riguardo altro sentimento, all’infuori di quello del disprezzo.

Chi non avrebbe taciuto volentieri, durante tutto quel tempo? Ed anche ora che la cosa venne portata in chiaro, che la questione fu definita, mi è d’uopo fare un certo sforzo, per compiere l’esposizione degli atti che ho avuta occasione di prendere ad esame.

Allorquando vidi dall’albero genealogico, che si trovavano tuttora in vita vari congiunti di quell’uomo strano, e specialmente la madre e la sorella di lui, manifestai all’autore del memoriale il desiderio che avrei avuto di vederli, e di poterne fare la conoscenza. Mi rispose che la cosa non sarebbe stata tanto facile, imperocchè tutte quelle persone, in stato per lo più di povertà, vivevano ritiratissime, non eran punto assuefatte a vedere forestieri, e con il carattere sospettoso per natura del popolo siciliano, si sarebbero prestate con difficoltà ad accogliere uno sconosciuto; che però egli mi avrebbe mandato un suo giovane di studio, il quale era in relazione colla famiglia, e che era quegli che gli aveva procurate le no tizie, ed i documenti che lo avevano posto in grado di formare l’albero genealogico.

Il giovane venne da me il giorno dopo, e frappose alcune difficoltà ad incaricarsi della cosa. «Ho cercato fin qui, mi disse, evitare di rivedere quelle persone, imperocchè, per ottenere da esse le fedi battesimali, i contratti di matrimonio, e gli altri documenti, allo scopo di estrarne copie autentiche, ho dovuto ricorrere ad un sotterfugio. Presi occasione di parlare di un lascito di famiglia, il quale era vacante, ed a cui poteva darsi avesse il giovane Capitumino qualche diritto, soggiungendo essere d’uopo anzitutto formare un albero genealogico, per riconoscere se, è fino a qual punto, le pretese del ragazzo potessero essere fondate. Conchiusi poi essere io disposto ad incaricarmi di trattare la cosa, qualora in compenso delle mie fatiche mi volessero assicurare un’equa parte della somma, che per avventura riuscissero ad ottenere. Quella buona gente non sospettò menomamente del tranello; ottenni le carte, ne furono ricavate le copie, si potè formare l’albero genealogico, e d’allora in poi mi guardai bene di lasciarmi più vedere. Sono poche settimane che m’imbattei per caso con il vecchio Capitumino, e me la cavai alla meglio, adducendo la lentezza colla quale sogliono procedere, affari di quella specie.»

Tali furono le obbiezioni del giovane, se non chè, insistendo io nel mio proposito, dopo avere ancora discusso alquanto, finimmo per rimanere d’accordo che io mi sarei fatto passare per un inglese, incaricato di portare alla famiglia notizie di Cagliostro, il quale uscito dalla Bastiglia, sarebbe di recente arrivato a Londra.

Erano all’incirca le tre del pomeriggio, e ci avviammo senza frapporre indugio alla casa, la quale stà sull’angolo di una stradicciuola, a poca distanza della via maestra, denominata il Cassero. Salimmo per una povera scala, ed entrammo nella cucina, dove trovammo una donna di statura mezzana, di corporatura forte e complessa, senza potersi però dire pingue, intenta a sciacquare alcuni vasellami. Era vestita pulitamente, e sollevò, quando entrammo, un lembo del grembiale, per nascondere alcune macchie. Accolse con soddisfazione il mio compagno e disse «Signor Giovanni, ci recate forse qualche buona notizia? Avete forse ottenuto qualcosa?»

Egli rispose. «Finora nulla mi è riuscito a bene nel nostro affare; ma vi ha qui un forastiero il quale vi porta i saluti di vostro fratello, e vi potrà dire dove questi si trovi attualmente.»

Per dir vero non avevamo fatta parola di saluti, ma intanto questi ci erano valsi a modo d’introduzione. — «Voi conoscete pertanto mio fratello disse la donna.» — «Lo conosce tutta quanta Europa, replicai io; intanto credo vi sarà caro udire ch’egli si trova al sicuro, ed in buona salute, dal momento che avete dovuto vivere finora, nell’incertezza sulle sue sorti.» — «Entrate diss’ella, io vi terrò dietro» ed entrai con il giovane nella stanza.

Era questa vasta, ed alta, e presso di noi avrebbe potuto ottenere nome di sala; se non che mi parve consistesse in quella sola, l’appartamento di tutta la famiglia. Una sola finestra procurava luce alle alte pareti, le quali ]avevano ricevuto nel tempo una tinta, e da cui pendevano incisioni immagini di santi, entro cornici dorate. Si scorgevano addossati ad una parete due letti ampissimi, senza tende, e ad un’altra una scanzia nera, la quale aveva forma di tavolo da scrivere. Si scorgeva che le sedie intrecciate di canne di forma antica erano state un tempo dorate, ed i mattoni del pavimento, erano rotti in parecchi punti. Ogni cosa però era pulita, in ordine, e ci accostammo alla famiglia, la quale trovavasi radunata all’altra estremità della stanza, presso l’unica finestra.

Il mio compagno intanto spiegava alla vecchia Balsamo, la quale stava seduta in un angolo, il motivo della nostra visita e siccome per essere la vecchia sorda, era forza ripetere più di una volta le parole, ebbi agio ad esaminare la stanza, e le altre persone che vi si trovavano. Uno era giovane di sedici anni all’incirca, di bella statura, ma con i tratti della fisionomia totalmente rovinati dal vaiolo, e presso quella un giovane sfigurato pure desso dalle traccie del vaiolo, per modo che la sua vista mi produsse penosa impressione. Di fronte alla finestra stava seduta, o per dir meglio sdraiata in un seggiolone una donna, disgraziata di forme, ed ammalata, la quale pareva immersa in una specie di sonno letargico.

Allorquando il mio compagno ebbe finito di parlare, c’invitarono a sedere. La vecchia m’indirizzò alcune questioni, ma mi fu forza farmele interpretare dal mio compagno per potervi dare risposta, non riuscendo in verun modo a comprendere il dialetto siciliano.

Intanto io contemplavo con piacere quella buona vecchierella. Era di mezzana statura, ma di belle forme, e sui tratti regolari della sua fisionomia, che l’età non aveva punto alterata, si osservava quell’impronta di pacatezza, distintivo frequente delle persone le quali hanno l’udito indebolito; il suono della sua voce era dolce, e grazioso.

Diedi risposta alle sue domande, se non che fu d’uopo pure al giovane mio compagno, interpretarle le mie risposte.

La lentezza del discorso mi diede agio a potere ponderare le mie parole. Le narrai che suo figliuolo aveva ottenuta la libertà in Francia, e si trovava attualmente in Inghilterra, dove gli era stata fatta buona accoglienza. La gioia che manifestò la poveretta per quelle buone notizie, era accompagnata da sentimenti di pietà sincera, e siccome prese allora a parlare a voce alquanto più alta, e lentamente, riuscivo a comprendere le sue parole.

Intanto era entrata nella stanza la figliuola di lei, la quale si rivolse al mio compagno, e questi le ripeté fedelmente quanto avevo narrato. Aveva quella indossato un grembiale pulito, ed aggiustati i suoi capelli, raccogliendoli entro una reticella, e quanto più la esaminavo, e la paragonavo alla madre, tanto più mi si faceva evidente la differenza di quelle due fisionomie. La figliuola rivelava in complesso un aspetto di viva e sana sensualità; poteva avere un quarant’anni all’incirca. Guardava tutto attorno a sè con attenzione, senza però che trasparisse ombra di sospetto dal suo sguardo. Quando si fù seduta, mi parve di più alta statura che quando era in piedi; aveva un attitudine decisa, stando seduta con il corpo ripiegato in avanti, e colle mani distese sulle ginocchia, e del resto il complesso della sua fisionomia, piuttosto ottusa anzichè perspicace, mi ricordò il ritratto in incisione di suo fratello, che tutti conoscono. Mi fece varie domande intorno al mio viaggio, al mio progetto di visitare l’interno dell’isola, soggiungendo che per certo sarei tornato a Palermo, per godervi le feste di S. Rosalia.

Intanto, mentre la vecchia mi aveva sporto di bel nuovo alcune domande, e che io ero occupato a darle risposta, la figliuola prese a parlare a mezza voce con il mio compagno, in modo da darmi occasione di domandarle di che cosa stessero favellando? Il giovane mi disse che la signora Capitumino gli narrava, come suo fratello gli fosse tuttora debitore di quattordici onze, per vari oggetti disimpegnati a di lui favore, al momento della sua partenza repentina da Palermo, e come da quell’epoca in poi, non avesse mandata più nessuna notizia di sè, nè danaro, nè fornito in qualsiasi modo soccorso alla famiglia, tuttochè si dicesse essere egli molto ricco, e mantenere un treno da principe. Domandava se mi sarei voluto incaricare di ricordare al mio ritorno in Inghilterra al fratello il suo debito, richiamando la sua attenzione sulle strettezze dei suoi, ed anzi, se sarei stato tanto buono, da volermi incaricare del ricapito di una lettera. Risposi affermativamente, ed ella domandò dove io stessi d’alloggio? Dove mi avrebbe dovuto mandare la lettera? Schivai di dare a conoscere la mia abitazione, e mi offrii pronto a tornare il giorno dopo, verso sera, per ritirare la lettera.

Mi narrò allora quanto fossero compassionevoli le sue condizioni, dicendomi essere vedova con tre figliuoli, di cui una ragazza, la quale si trovava in educazione in un monastero, l’altra ragazza presente, ed un maschio, uscito allora allora, per recarsi alla scuola. Oltre i tre figliuoli disse avere seco pure la madre, a cui parimenti doveva provvedere, ed avere per spirito di carità cristiana, accolta presso di sè una povera disgraziata malaticcia, la quale aggravava il carico della famiglia, e bastare a mala pena il suo assiduo lavoro a provvedere al mantenimento di tante persone. Soggiunse sapere, per vero dire, che Iddio non avrebbe lasciate senza rimeritarle le buone opere, ma intanto, non cessare per questo dall’essere molto grave il peso, a cui, da buona pezza, le toccava sottostare.

I giovani non tardarono a prendere parte dessi pure alla conversazione, la quale finì per diventare animata.

Mentre io stavo parlando cogli altri, udii la vecchia domandare alla figliuola, se io appartenessi alla loro religione? Potei osservare che quest’ultima schivò in modo prudente di dare risposta a quella domanda, dicendo alla madre, per quanto potei comprendere, che il forestiero dato prova di troppa bontà a loro riguardo, perché ella si arrischiasse a volgergli domanda di tal fatta.

Quando udirono che io mi doveva allontanare fra pochi giorni da Palermo, raddoppiarono le loro istanze perchè io mi trattenessi più a lungo, o quanto meno facessi presto ritorno nella loro città, vantandomi specialmente i giorni meravigliosi delle feste di S. Rosalia, dicendo non essere possibile il vedere cosa più bella al mondo.

Il mio compagno, il quale già di buona pezza aveva desiderio di andarsene, pose fine al discorso con i suoi gesti ed io promisi di tornare l’indomani verso sera, per ritirare la lettera. Il mio compagno si rallegrò che ogni cosa fosse riuscita per il meglio, e ci separammo, contenti a vicenda, l’uno dell’altro.

Potete immaginarvi quale impressione abbia prodotta sopra di me quella famiglia povera, pia, ed educatissima. La mia curiosità era stata soddisfatta, se non chè, il contegno buono, naturale di tutte quelle persone, aveva destato in me un interessamento, il quale si accrebbe colla riflessione.

Pensai tosto alle conseguenze del mio passo. Era naturale che la mia comparsa, la quale aveva eccitata viva sorpresa al primo momento, desse luogo a pensare, a sperare, a quella famiglia quando sarei partito. Sapevo dall’albero genealogico che si trovavano tuttora in vita parecchi altri membri della famiglia; era naturale si diffondesse fra quelli, fra loro conoscenti la notizia della mia visita, di quanto avevo narrato. Io avevo bensì ottenuto il mio intento, se non chè mi rimaneva a cercare a trovare modo di porre termine decentemente a quell’avventura. Il giorno dopo, appena pranzato, mi recai alla casa di quei poveretti, e solo. Si meravigliarono di vedermi comparire così di buon ora; dissero che la lettera non era scritta ancora, e che di più, verso sera, sarebbero venuti alcuni parenti, i quali desideravano, dessi pure di fare la mia conoscenza.

Risposi che dovevo partire il mattino dopo per tempo; che avevo ancora parecchie visite a fare; che dovevo pure ancora preparare i miei bagagli; e che avevo preferito venire più presto, anzichè fallire all’appuntamento.

In quel punto entrò il figliuolo che non avevo visto il giorno prima. Rassomigliava alla sorella per statura, e di fisionomia. Portava seco la lettera che mi si voleva consegnare, e che secondo l’uso di queste contrade, aveva fatta scrivere da uno di quegli scrivani pubblici, i quali tengono il loro banco all’aperto. Il giovane, il quale aveva aspetto tranquillo, malinconico, e modesto, domandò notizie di suo zio, delle sue ricchezze, del suo treno di vita fastoso, e soggiunse mestamente, perchè avesse dimenticata per tal modo la sua famiglia? Sarebbe la nostra più grande felicità, continuò, s’egli volesse pure una volta tornare qui, e ricordarsi di noi; ma voi poi, come avete fatto a sapere da lui che tenga parenti a Palermo? Si dice ch’egli nasconda dovunque la sua origine, e che si vadi spacciando di nascita distinta? Risposi a queste domande, alle quali mi trovavo esposto per la leggerezza imprevidente del mio compagno nella mia prima visita, in modo da far parere probabile, che il zio, tuttocchè avesse motivi per tenere nascosto al pubblico la sua origine, non volesse però fare un segreto di questa a’ suoi amici, ed a’ suoi conoscenti.

La sorella, la quale era entrata durante il nostro discorso, e che per la presenza del fratello, come parimenti per l’assenza del mio compagno di ieri, si sentiva più libera, prese pure piacevolmente parte alla conversazione. Mi pregarono vivamente entrambi di ricordarli al loro zio, quando io gli avessi scritto, come parimenti mi pregarono di fare ritorno a Palermo dopo il mio giro nel regno, e di non mancare di trovarmi qui per le feste di S. Rosalia.

La madre unì le sue istanze a quelle dei giovani. «Mio signore, disse, tuttochè non convenga a me che tengo una ragazza da marito il ricevere forestieri in casa, e tuttochè sia d’uopo guardarsi dal somministrare pretesto di ciarle alle male lingue, sarete pur sempre il ben venuto in casa nostra, tutte le volte che farete ritorno a Palermo.»

«Certamente, risposero i giovani, noi vorremo far vedere al signore le feste, e lo vorremo portare sui palchi di dove le potrà meglio godere. Proverà per certo soddisfazione, nel vedere il carro colossale della santa, non che l’illuminazione meravigliosa.»

Intanto la buona vecchia aveva letta e riletta la lettera, e quando si avvide che stavo per congedarmi si alzò in piedi, e mi porse il foglio, dopo averlo chiuso. «Dite a mio figliuolo; cominciò con somma vivacità, ed anzi con una specie di esaltazione; dite a mio figliuolo, quanto io sia stata felice delle sue notizie, che ho potuto sapere da voi; ditegli che io lo stringo al mio cuore, — e nel ciò dire stese le braccia, e poi le raccolse sul petto — ditegli che io prego ogni giorno per lui Iddio onnipotente, e la Vergine Santissima; ditegli che mando la mia bene dizione a lui ed alla sua moglie; e che prima di morire, desidero vederlo ancora una volta con questi occhi, i quali hanno pure versate le tante lacrime per lui.»

La gentilezza della lingua italiana dava risalto ai sensi nobilissimi, e pieni di naturalezza di quelle parole, alle quali la vivacità poi del gestire, tutta propria degli abitanti di queste contrade, aggiungeva un’attrattiva indicibile.

Non fu senza commozione che io presi congedo da quella buona famiglia. Mi vollero tutti stringere la mano; i giovani mi accompagnarono fino alla porta, e mentre scendevo le scale si portarono al balcone della cucina, il quale porgeva sulla strada; mi chiamarono per ripetermi i loro saluti, e per soggiungere ancora una volta, che non mancassi di tornare. Voltando l’angolo della strada, li vidi che stavano tuttora al balcone.

Non ho d’uopo di spiegare come per il vivo interessamento che quella povera famiglia mi aveva ispirato, fosse sorto in me il desiderio di alleviare in qualche maniera le sue strettezze. Avevo ridestate le speranze, oramai spente, di tutta quella buona gente, e la mera curiosità di un abitante del settentrione, le aveva esposte a novello disinganno.

La mia prima idea si fu di mandare loro le quattordici onze di di cui era rimasto loro debitore il fuggiasco, facendo loro credere, per non umiliarli con un regalo, che mi sarei poi procurato da quello il rimborso di quel poco danaro; se non chè, venuto a casa, e fatta la mia ricognizione di cassa, mi accorsi che in un paese dove la mancanza totale di comunicazioni accresce in modo indicibile le distanze, avrei corso pericolo di trovarmi io stesso in imbarazzo, cedendo al desiderio lodevole di volere, per bontà di cuore, portare riparo all’indegna condotta di un ribaldo.

Verso sera mi portai ancora una volta dal mio merciaiuolo, e gli domandai come sarebbe andata all’indomani la festa, nella quale una grandiosa processione doveva percorrere tutta la città, ed il viceré stesso, accompagnare a piedi il Santissimo? Il menomo colpo di vento correva rischio di avvolgere in un nembo di polvere, e Dio, ed uomini.

Il brav’uomo mi rispose che a Palermo si aveva molta fiducia nei miracoli; che già parecchie volte in tali casi era caduta pioggia abbondante, la quale aveva ripulite, almeno in parte le strade, ed agevolato il passo alla processione; e che anche questa volta si faceva assegno sulla pioggia, nè per dir vero senza motivo, imperocchè il cielo era coperto, e prometteva acqua per la notte.

Tanto rimase Goethe impressionato dalla vicenda e da Cagliostro, da renderlo protagonista di una commedia, il Gran Cofto, che con la scusa di ironizzare sulle utopie massonica, denuncia i motivi del tramonto dell’ancien régime.

Ma in fondo Giuseppe Balsamo, alias Cagliostro, chi era? Forse è meglio lasciare la parola a lui stesso

Sono un cavaliere errante, non sono di alcuna epoca né di alcun luogo. Il mio essere spirituale vive la sua eterna esistenza al di fuori del tempo e dello spazio e, se immergendomi nel mio pensiero risalgo il corso dell’età, distendendo il mio spirito verso un modo di esistere lontano da quello che voi percepite, divengo colui che desidero, partecipando coscientemente all’Essere assoluto. Il mio nome è quello della mia funzione: io sono libero. Il mio paese è quello in cui fisso momentaneamente i miei passi. Non ho che un padre.

Varie circostanze della mia vita mi hanno fatto supporre a questo proposito delle grandi e commoventi realtà, ma i misteri di questa origine e i rapporti che mi uniscono a questo padre incognito sono e restano i miei segreti. Quanto al luogo, all’ora dove il mio corpo materiale circa quarant’anni fa si è formato sopra questa terra, quanto alla famiglia che ho scelto per questo, voglio ignorarli, non voglio ricordarmi del passato per non aumentare le responsabilità già pesanti di coloro che mi hanno conosciuto.

Io non sono nato dalla carne né dalla volontà dell’uomo, io sono nato dallo spirito. Eccomi, sono un nobile viaggiatore, io parlo e la vostra anima freme riconoscendo antiche parole. Una voce che era in voi, che si era taciuta da lungo tempo, risponde all’appello della mia. Io agisco e la pace torna nei vostri cuori, la salute nei vostri corpi, la speranza ed il coraggio nelle vostre anime. Tutti gli uomini sono miei fratelli, tutti i paesi mi sono cari, li percorro perché dappertutto lo spirito possa discendere e trovare un cammino presso di voi.

Ai re, di cui rispetto la potenza, non chiedo che l’ospitalità sopra le loro terre e, quando mi viene accordata, passo facendo intorno a me il maggior bene possibile, ma non faccio che passare. Io sono Cagliostro, vi occorre qualcosa di più?

Se voi foste degli infanti di Dio, se la vostra anima non fosse così vana e così curiosa, avreste di già compreso, ma voi avete bisogno di particolari, di segni e di parole, ebbene ascoltate:

Ogni luce viene dall’Oriente. Io ho avuto tre anni come voi, poi sette, poi l’età di uomo, tre settenari fanno ventun’ anni e realizzano la pienezza dell’organismo umano. Nella mia prima infanzia ho sofferto in esilio come Israele tra le nazioni straniere, ma come Israele aveva con sé la presenza di Dio, così pure un Angelo possente vegliava sopra di me, dirigeva i miei atti, illuminava la mia anima, sviluppando le forze latenti in me. Egli era il mio Maestro e la mia guida. Quando volli penetrare l’origine del mio essere e salire verso Dio, in uno slancio dell’anima, la mia ragione taceva e mi lasciava in balia delle mie congetture.

Un amore impulsivo verso ogni creatura, un’ambizione inarrestabile, un sentimento profondo dei miei diritti, mi spingevano verso la vita e l’esperienza progressiva delle mie forze, del loro gioco e dei loro limiti. Un giorno il cielo esaudì i miei sforzi, si ricordò del suo servitore ed ebbi la grazia di essere ammesso, come Mosè, dinnanzi all’Eterno. Libero e padrone della vita non pensai più che d’impiegarla per l’opera di Dio. Vi sono degli esseri che non hanno più angeli custodi. Io fui uno di questi. Ecco la mia infanzia, la mia gioventù quale il vostro spirito inquieto e desideroso di parole reclama. Ma che sia durata più o meno anni, che si sia svolta nel paese dei vostri padri o di altre contrade, che v’importa? Non sono un uomo libero?

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