Agatocle di Siracusa e Akragas

Il periodo di pace imposto da Timoleonte, però, era minato da tre fattori, che alla lunga, lo avrebbero messo definitivamente in crisi: il primo, la piaga mai risolta, dei mercenari italici, che spesso, oltre a dedicarsi al brigantaggio, tentavano di prendere il potere nelle polis, imitando quanto accaduto nelle colonie greche della Campania; cosa che ad esempio ebbe successo ad Aetnea e ad Adranos, costringendo i siracusani a una lunga lotta finalizzata a pacificare il territorio etneo

A questo, si associava la rinnovata rivalità tra Akragas, che grazie a Timoleonte stava ritornando agli antichi fasti, e Siracusa. In una sorta di versione siciliana della “trappola di Tucidide”, i Siracusani temevano l’ascesa economica e politica degli Agrigentini, che a loro volta ambivano a sostituirsi al ruolo egemone ricoperto dalla polis aretusea; cosa che portò anche a una breve guerra, in cui esordì uno dei personaggi più affascinanti e meno conosciuti al grande pubblico della storia greca, Agatocle.

Infine, vi erano le problematiche connesse alla politica estera: stavolta non c’entrava nulla Cartagine, a cui il compromesso stipulato con Timoleonte andava fin troppo bene, ma le vicende di Alessandro Magno Al ritorno dall’India, il Macedone aveva deciso di volgere le sue ambizioni all’Occidente.

Per prima cosa, il conquistatore si stava impegnando un complesso lavoro diplomatico, finalizzato a stabilizzare il fronte balcanico, dato che i traci erano sempre più inquieti e gli sciti, dopo aver sconfitto un corpo di spedizione macedone lungo fiume Boristene, avevano ricominciato con le loro scorrerie.

Poi rischiò un gran mal di testa nel cercare di venire a capo delle complesse vicende della penisola italica: visto le vicende dello zio Alessandro il Molosso, si era reso conto sia dei limiti della falange macedone in uno scenario operativo di questo tipo, sia del rischio di infilarsi in una sorta di Vietnam, nel caso avesse voluto intervenire a difesa di Taranto e delle altre polis della Magna Grecia.

Per cui, cercò di convincere i brutii, i lucani e i sanniti a riconoscere almeno formalmente a riconoscere la sua autorità e a non infastidire Taranto: poi, dato che questi erano restii ad accettare tali condizioni, con la scusa di convincere etruschi e romani a mettere fine agli atti di pirateria a danni degli ateniesi, dei rodii e dei corinzi, cerco di sondare la possibilità di un’alleanza o almeno di una benevola neutralità in caso di guerra in Italia.

Tra l’altro all’epoca, sia per i contrasti con i sanniti, sia perché il partito filocampano nel Senato era molto più ridotto come potere ed influenza, i margini di compromesso erano assai più elevati che con Pirro.

Poi, cominciò a organizzare una spedizione per conquistare le mitiche terre delle spezie e dei balsami (incenso e mirra), dell’Arabia Felix, il “porto franco” di Gerrha e i regni del nostro Yemen. Spedì due spiem Androstene e Archia, erano rientrati dopo aver raggiunto la penisola di Musandam, relazionarono riguardo l’isola di Icaro (Falaika) e la fertilità di quella di Tilo (Bahrain), fertili e adatte all’insediamento. Spedizione, che all’epoca aveva una doppia valenza strategica: il controllo della produzioni di una delle principali merci di lusso dell’epoca e delle vie marittime con l’India, in un’ottica di riprendere, a medio termine, l’espansione verso Oriente.

Per raggiungere questo obiettivo, dato per motivi logistici la spedizione poteva avvenire solo via mare, diede l’ordine di riparare il sistema di canalizzazione della Mesopotamia, che sotto Dario III era stato trascurato, sia di fondare la colonia di Alessandria Charax alla foce del Tigri, che avrebbe da arsenale e base di partenza della campagna militare.

Il legname per le navi stava arrivando, una parte dalla stessa regione babilonese, tramite l’abbattimento sistematico di tutti i boschi di cedro dell’area, mentre il grosso smistato a Tapsaco, come ordinato a Cratero, proveniva dalla Fenicia e dalla Cilicia, negli stessi cantieri dell’area sarebbero stati costruiti i componenti e una volta condotte sull’Eufrate sarebbero state montate, secondo la stessa tecnica usata in India, e mandate proprio ad Alessandria Charax dove si stava dragando un bacino portuale che potesse accoglierle, Dopo appena un mese erano pronte le prime 47 navi provenienti dall’Asia Minore.

Infine, la campagna contro Cartagine: Alessandro, a differenza di Pirro e in maniera analoga ai Romani, si era reso conto di come la guerra si sarebbe decisa sul mare, dove i macedoni, oggettivamente, partivano svantaggiati. Per cui, decise di fare le cose in grande, disponendo l’inizio della costruzione di un’ulteriore flotta mediterranea, immensa nei numeri e nelle dimensioni, 1000 navi più grandi delle triremi,che fosse superiore a quelle sommate di tutti i potenziali avversari. Aveva letto tramite lo storico Filisto di Siracusa dello spettacolare assedio di Mozia da parte di Dionisio il Vecchio e che in mare aveva messo 400 navi da guerra e che la flotta cartaginese fosse anche più grande.

La costruzione ed il reclutamento della manodopera, affidato a Miccalo di Clazomene, partito per la costa mediterranea dell’Asia con 500 talenti per procurare marinai, avrebbe esaurito le braccia disponibili sull’arco dell’intera costa fenicio-siriaca, che iniziò la produzione nei suoi arsenali di scafi, che inutilizzati saranno decisivi durante la Guerra Lamiaca.

Ovviamente, a Cartagine non si rimaneva con le mani in mano: nel tentativo di contrastare l’attivismo di Alessandro, la città lanciò un’offensiva diplomatica, per rafforzare l’alleanza con i Romani e gli Etruschi e per trovare un accordo con le polis siciliane, tutt’altro che entusiaste nel trasformarsi in un campo di battaglia tra punici e macedoni.

Con la morte di Alessandro, la situazione non migliorò, dato che né a Cartagine, né a Siracusa, si poteva escludere a priori che qualcuno degli ambiziosi e rissosi eredi del Macedone orientasse le sue ambizioni al Mediterraneo occidentale, cosa che avverrà con Pirro.

Tutte queste tensioni, interne ed esterne, provocarono il crollo del sistema politico voluto da Timoleonte, di cui approfittò proprio Agatocle, il cui colpo di stato a Siracusa, fu proprio favorito da Cartagine, che a scanso di equivoci, aveva deciso di trasformare la polis in una sorte di stato satellite, mettendo a disposizione dell’avventuriero 5000 soldati.

Agatocle, dopo avere inaugurato la sua presa di potere con un bagno di sangue, pochi tra i suoi rivali si salvarono fuggendo ad Agrigento, da una parte, cercò di ottenere l’appoggio dei siracusani più poveri, diminuendo le tasse e ridistribuendo le terre degli oppositori trucidati, dall’altra lanciò una sorta di corsa agli armamenti, potenziando la flotta e arruolando e armando mercenari italici. Cartagine, convinta che fosse una precauzione contro eventuali attacchi dei Diadochi, lasciò stare, finché, dopo qualche tempo, non si palesarono le vere intenzioni del tiranno: porre sotto il suo dominio tutte le città greche della Sicilia, comprese le alleate dei punici, ricostruendo così lo stato di Dioniso I.

Uno dei primo obiettivi di Agatocle fu Messina, che oltre al controllo dello Stretto, avrebbe potuto costituire un’eventuale base per espandersi nella Magna Grecia. Per prima cosa, occupò una fortezza nei pressi della città. I buddaci, pardon, messinesi per evitare la guerra preferiscono scendere a patti e offrirono al tiranno 30 talenti d’argento per la restituzione del castello. Agatocle con la sua usuale astuzia disse loro che accettava le condizioni ma, una volta preso il denaro non tolse l’assedio. Trovando le mure messinesi ridotte in cattivo stato ne approfittò per cercare di superarle abilmente, ma la sua cavalleria e alcune navi che aveva mandato nel mare di Messina, vennero bloccate dalla reazione fortemente indignata dei messinesi che, colpiti dal tradimento, si difesero in maniera coraggiosa respingendo con volontà l’attacco agatocleo e convincendo il tiranno a togliere l’assedio. Ritornando verso Siracusa conquistò Milazzo. Riprovò ad assediarla in primavera ma i messinesi lo ricombatterono con altrettanto ardore, stavolta aiutati anche dai tanti esuli siracusani che in quella polis si trovavano e che odiando Agatocle desideravano che Messina non cadesse sotto il suo controllo. La notizia di questi combattimenti però, giunse a Cartaginese: i punici, poco entusiasti di impelagarsi in una guerra contro un tizio che, in teoria, era un loro alleato, cercarono un approccio diplomatico, che sembrò avere successo.

Agatocle, che forse riteneva di non essere ancora pronto a una grande guerra contro i punici, accettò la loro mediazione e se ne tornò a Siracusa. Cartagine, però, messa sul chi vive, cercò di contrastare politicamente l’azione del tiranno siracusano, creando un polo di potere alternativo in Sicilia, che si opponesse alle sua ambizioni.

Strategia che trovò un utile strumento in Akragas, che oltre a temere le mire di Agatocle, era strapiena di profughi siracusani desiderosi di vendetta: i vertici agrigentini proposero un’alleanza militare alle altre polis, a cui aderirono Messina e Gela.

Gli alleati però si trovarono si da subito davanti a due grossi problemi: il primo e che le loro truppe erano insufficienti a combattere siracusane e Cartagine, che non voleva farsi trascinare nel conflitto, era disposta ad appoggiarli politicamente ed economicamente, ma non a mandare soldati. Il secondo è che l’eventuale comandante militare dell’alleanza, potesse imitare Agatocle, ossia sfruttare i soldati per prendere il potere e proclamarsi tiranno.

Per superare queste difficoltà, gli agrigentini fecero proprio quello che non volevano né a Cartagine, né a Siracusa: mandarono un’ambasciata ai Diadochi. Per fortuna dei punici e dei siracusani, Cassandro e Antigono I Monoftalmo, che avrebbero fatto entrambi carte false per invadere la Sicilia, erano impegnati in una disputa fratricida; Poliperconte, il signore della guerra che controllava Corinto, da cui proveniva Timoleonte, era appena morto e il suo posto era stato preso dalla nuora Cratesipoli, che aveva tutt’altri problemi che impelagarsi in una spedizione in terre lontane.

Alla fine, l’ambasceria trovò risposta positiva nell’unica grande polis che era rimasta fuori dalle lotte macedoni, Sparta; gli spartani si mostrarono poco entusiasti dal dover fare la guerra a Siracusa, loro tradizionale alleata, ma comunque accettarono lo stesso di aiutare la parte oligarchica siceliota che era venuta a chiederle soccorso. Per cui, come al solito, ne approfittarono per appioppare agli alleati siciliani e italiani qualcuno dei locali fenomeni da baraccone: stavolta fu il turno di Acrotato, figlio del re Cleomene II, a cui, nell’ottica di non irritare Agatocle, furono forniti pochissimi mezzi.

Acrotato, venendo in Italia si fermò a Taranto alla quale chiese, in nome della comune origine spartana, di prestare soccorso alla causa oligarchica siciliana ponendogli una flotta. Taranto, come Sparta, non pareva convinta nel voler intraprendere guerra contro la polis di Siracusa, e anche lei mandò, pare di malavoglia, venti galee.

Oltre la scarsità di mezzi, Acrotato, arrivato ad Akragas, si mostrò una gran sola: non solo non aveva nessuna di combattere Agatocle, non solo, per citare Diodoro Siculo

«egli cambiata la frugale maniera di vivere della sua patria, si era abbandonato ai piaceri, in sorta che sembrava più che uno spartano, un molle ed effeminato persiano.»

ma addirittura tentò il colpo di stato, uccidendo il siracusano Sosistrato, il capo della fazione oligarchica. Risultato, Acrotato fu cacciato a pedate e la lega dovette scendere a patti con Agatocle. Per fortuna della di Akragas, però, Cartagine si era finalmente resa conto di che pasta era fatto il tiranno siracusano. Così, proprio l’alleanza con i punici, con le sue alterne vicende, permise alla polis di mantenere la sua indipendenza.

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